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CRAZEOLOGY

Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"

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Aumento di capitale Juventus:

un nuovo socio in arrivo?

di SALVATORE COZZOLINO (JUVENTINOVERO.COM 01-02-2012)

Nella serata di lunedì è stato diramato dalla Juventus il comunicato stampa

definitivo con riferimento all'aumento di capitale.

Dalla lettura del comunicato si evincono alcune interessanti informazioni

circa la composizione della nuova compagine sociale di Juventus F.C. Alla fine

delle operazioni di aumento Exor detiene infatti il 63,8% del capitale, pari a

642.611.698 azioni su un totale di 1.007.766.660 in circolazione. Il dato fine

a se stesso può sembrare privo di significato, in realtà nasconde una

circostanza molto particolare. Exor infatti, come ricorderete, prima

dell'avvio dell'aumento di capitale aveva dato la propria disponibilità a

sottoscrivere, oltre ai suoi diritti di opzione, tutti quelli inoptati

relativi al 7,5% del capitale in mano ai libici di LA.FI.CO, pari a 15.121.352

diritti per complessive 60.485.408 azioni di nuova emissione. Successivamente,

nell'ambito del comunicato stampa del 18 gennaio 2012, che sanciva la

conclusione della prima fase dell'aumento di capitale, Exor aveva rincarato la

dose, dichiarandosi disponibile a sottoscrivere non solo l'inoptato LA.FI.CO

bensì l'intero stock di diritti inoptati dopo la prima fase, pari a 25.429.225

diritti d'opzione per complessive 101.716.900 azioni di nuova emissione, pari

a un controvalore di 15,1 mln di Eur. Come previsto dalla normativa vigente i

diritti inoptati sono stati offerti in Borsa dal 23 al 27 gennaio e sono stati

tutti venduti e sottoscritti, garantendo l'intero incasso dell'aumento di

capitale.

Secondo i nostri calcoli, nel caso in cui Exor avesse dato seguito ai suoi

propositi, si sarebbe trovata con 706.387.730 azioni, pari a circa il 70,1%

del capitale sociale. In realtà, dal comunicato di lunedì sera si evince che

Exor ha in mano, post aumento, solo 642.611.298 azioni, pari a circa il 63,8%

del capitale sociale. La notizia è quindi che, durante l'offerta in Borsa dei

diritti inoptati qualcuno (diverso da Exor) ha comprato 15.944.108 diritti e

ha sottoscritto 63.776.432 azioni di nuova emissione, pari al 6,3% del

capitale della società Juventus. Chi ha comprato questi diritti e sottoscritto

le azioni? E perché? E' evidente che a fare questa operazione potrebbe essere

stata una pluralità di piccoli azionisti, che peraltro avrebbero potuto farlo

anche durante gli ultimi giorni della trattazione regolare in Borsa dei

diritti stessi. Ma è altrettanto verosimile (anzi probabile) che, viste le

circostanze e il momento del passaggio di mano, questi diritti siano stati

intermediati e rastrellati da qualche investitore istituzionale. Uno o più

fondi d'investimento, ad esempio, oppure un privato, magari un nuovo socio che

nel medio periodo possa affiancarsi ad Exor e sostituire LA.FI.CO come secondo

azionista.

Il mistero però verrà presto risolto. Se per effetto dell'operazione di

rastrellamento dei diritti e della relativa sottoscrizione delle nuove azioni

ci dovesse essere qualche azionista (persona fisica o giuridica) che ha

superato la soglia del 2% del capitale circolante, questi dovrà darne

comunicazione tempestiva alla Consob e alla società Juventus, ai sensi

dell'art. 120 del Testo Unico della Finanza. Nei prossimi giorni quindi

dovremmo capire chi, e a che titolo, ha comprato quel 6,3% del capitale. E'

evidente però che tale comunicazione alla Consob potrebbe anche non esserci,

qualora le azioni sottoscritte siano state divise su più intermediari in modo

da non superare la soglia tecnica del 2% ed eludere in questo modo gli

obblighi informativi. Resta comunque alta la possibilità che qualcuno,

allettato dai prezzi bassi e da una società con un rilevante patrimonio

immobiliare (stadio, nuova sede, Vinovo) e un marchio in forte ripresa, possa

aver deciso di entrare nella compagine sociale per un investimento di lungo

periodo. Nei prossimi mesi ne capiremo certamente di più.

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Attualità CALCIO E AFFARI / UN LIBRO INCHIESTA

CASA AGNELLI

in contropiede

Andrea gestisce la Juve sotto l'ala protettrice del cugino Jaki,

maggiore azionista. Perché lo scudetto è vitale per la famiglia

di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 9 febbraio 2012)

È in libreria "Fuorigioco" di Gianfrancesco Turano, che racconta il potere in

Italia attraverso dieci ritratti di presidenti di club di serie A. Ecco un

estratto del capitolo su Andrea Agnelli, dalla primavera 2010 numero uno della

Juventus. La squadra bianconera è campione d'inverno 2011-2012 dopo una serie

di stagioni deludenti e forti perdite finanziarie.

La Juventus è una storia di famiglia. Nessuna squadra in serie A e nessun

club di primo piano al mondo hanno un legame così antico con la proprietà. Gli

Agnelli sono i padroni della società bianconera dal 1923. Circa novant'anni e

parecchi scudetti dopo, alla guida della Juve c'è ancora un Agnelli, Andrea,

unico maschio della sua generazione a portare il cognome del capostipite. Il

trentaseienne presidente dello Juventus Football Club è un rappresentante del

ramo cadetto della famiglia.

Questa situazione ha una conseguenza sostanziale sulla gestione del club: per

finanziare la Juventus - com'è accaduto con l'aumento di capitale da 120

milioni di euro deciso a giugno del 2011, dopo quattro anni di disastri

sportivi e finanziari - Andrea Agnelli deve avere l'autorizzazione del cugino

John, detto "Jaki", più giovane di quattro mesi. E magari anche quella di Lapo,

tifoso appassionato. La Juventus dunque non è solo una storia di famiglia, ma

è la storia di un rapporto dialettico, spesso di contrapposizione, fra due

gruppi. Da una parte l'Avvocato e adesso i suoi nipoti. Dall'altra il Dottore,

Umberto, e adesso i suoi figli.

Guidare la Juve con successo è considerata la premessa per guidare il gruppo

Fiat con successo. Anche perché la Fiat è stata per decenni l'azionista

diretto della squadra, prima di passare il controllo alle finanziarie Ifi-Ifil,

sparite nel 2009 per essere incorporate da Exor, attuale proprietaria dei

bianconeri con il 60 per cento e della Fiat con il 30 per cento.

Nei vari riassetti del potere familiare guidare la Juve è rimasto il rito di

passaggio per eccellenza, che solo per l'ultima generazione è stato affiancato

da un periodo alla catena di montaggio sotto anonimato in mezzo agli operai

italiani o polacchi. È un classico: il principe gentile si traveste da plebeo

per conoscere e alleviare le sofferenze del suo popolo. La Juve no, non

c'entra con la gentilezza. Alla Juve bisogna vincere e basta, vincere

comunque. O il popolo si inquieta.

Gli equilibri di potere attuali sono la conseguenza del trauma del 2006

quando, al termine del processo sportivo di Calciopoli, la Juventus è finita

per la prima volta in serie B per illecito sportivo a causa delle operazioni

dietro le quinte di Giraudo, amministratore delegato e azionista del club con

il 3, 6 per cento, e di Luciano Moggi, direttore generale.

Dopo il ritorno in serie A, alla fine del 2009 i risultati sportivi sono

stati giudicati insoddisfacenti. Il gruppo dell'Avvocato ha dovuto fare un

passo indietro. Cobolli Gigli è stato ringraziato ed esonerato. Blanc lo ha

seguito qualche tempo dopo con l'accusa di "incapacità" da parte di Andrea

Agnelli.

Prima che il figlio di Umberto venisse eletto alla guida del club, per un

periodo si è parlato di John Elkann alla presidenza. Ma Jaki è diventato

presidente della Fiat in sostituzione di Luca Cordero di Montezemolo.

L'importanza dell'incarico nella fase di integrazione con il gruppo Chrysler,

le tensioni sindacali in fabbrica con i referendum sul contratto a Pomigliano

d'Arco e a Mirafiori, infine la lunga lite sull'eredità del nonno che ha

contrapposto la madre Margherita a due colonne portanti del gruppo come

Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, hanno dissuaso il giovane Elkann da

un impegno diretto nel club di calcio.

Nel maggio del 2010 si è insediato Andrea, amatissimo dai tifosi perché

Agnelli di fatto e di nome, ma soprattutto per il suo legame esibito con

l'epoca in cui i bianconeri vincevano in campo e i dirigenti distribuivano

agli arbitri schede sim svizzere e slovene per evitare che i colloqui più

imbarazzanti fossero intercettati.

La nomina di Andrea, per una volta, non ha comportato una separazione così

netta fra i due rami del potere familiare nella Juve. I due cugini, Andrea e

Jaki, hanno moltiplicato le visite pastorali congiunte al centro sportivo di

Vinovo dove la squadra si allena. Il loro intento è di mostrare la coesione

della famiglia nei momenti di difficoltà sportiva ed economica, come dopo il

bilancio 2010-2011, chiuso con una perdita record di 95,4 milioni di euro, la

più grave nella storia del club. Una perdita in stile Moratti, con 141 milioni

di euro investiti nel calciomercato in due anni.

La governance della società di calcio riflette la cogestione Elkann-Agnelli.

Quindi, d'accordo la cogestione del club e l'intesa cordiale fra i rami della

famiglia, ma nell'accomandita, in fabbrica e in campo comandano gli Elkann. Al

contrario di quanto predicava Enrico Cuccia, in casa Agnelli le azioni si

contano e solo dopo, semmai, si pesano.

Nella spartizione delle responsabilità fra i cugini, Jaki segue le vicende

delle fabbriche a Torino, Belo Horizonte, Detroit o Tychy, e magari spiega

all'amministratore delegato Sergio Marchionne perché la Exor debba destinare

81 milioni di euro a Del Piero e compagni mentre nell'industria

automobilistica gli investimenti si riducono e la battaglia globale per la

sopravvivenza si gioca sulla pelle dei lavoratori.

Macchine e pallone hanno in comune la caratteristica di essere capital

intensive, cioè richiedono l'investimento di moltissimo denaro per essere

efficienti e, magari, redditizie. È significativo che la famiglia Agnelli sia

stata più volte tentata di cedere il settore auto mentre non ha mai parlato di

vendere il club, sebbene negli anni il consumo di risorse economiche del

calcio sia diventato abnorme.

Basti pensare che circa un quarto dell'ultimo finanziamento Exor alla

Juventus (poco più di 18 milioni di euro sugli 81 dell'aumento di capitale)

proviene dalla cessione, a metà del 2011, del palazzo di corso Matteotti 26 a

Torino dove hanno vissuto Gianni con i fratelli e le sorelle e che, in seguito,

è stata la sede del gruppo Fiat per decenni. Corso Matteotti, venduto con una

considerevole plusvalenza, vale sette milioni in meno rispetto ai 25 milioni

spesi per Diego, presunto campione brasiliano acquistato durante la gestione

di Cobolli Gigli e rivenduto a 19 milioni.

Il senso di appartenenza ha portato il presidente della Juventus a una

contesa legale per recuperare lo scudetto cancellato nel 2005-2006. La

riconquista della gloria passata è diventata importante quanto i campionati a

venire ed è centrale nella gestione di Andrea.

La lotta per la restituzione dei titoli cancellati dalla giustizia sportiva è

una battaglia nello stile della vecchia Juve, fatto di vittorie e arroganza.

Il concetto di base della rivendicazione è che Calciopoli ha coinvolto tutti.

Del sistema avrebbe beneficiato anche l'Inter, che si è vista premiata con uno

scudetto assegnato a tavolino, il primo vinto da Massimo Moratti. Andrea

Agnelli ha affermato che le accuse rivolte al suo club erano infondate e che i

fatti non sussistevano. "Semmai dovessero emergere comportamenti penalmente

rilevanti sarebbero da ascrivere a Moggi personalmente". ha dichiarato il

presidente. In altre parole, se Moggi non era un manovratore di arbitri, la

Juve ha diritto agli scudetti. Se lo era, la Juve ha diritto ugualmente agli

scudetti perché la colpa delle manovre non è della Juventus ma di Moggi, una

sorta di scheggia impazzita che agiva all'insaputa del suo diretto superiore

(Giraudo, condannato per gli stessi reati di Moggi) e, a maggior ragione,

degli azionisti. Agnelli ha poi aggiunto, riecheggiando un collega in

rossonero, che la colpa di Calciopoli è dei giornali, perché "rivelare

intercettazioni coperte da segreto è un reato". Insomma, se i giornali non

avessero denunciato che la procura federale stava dormendo sulle suddette

intercettazioni, la procura avrebbe continuato a dormire, come hanno diritto

di fare tutti gli enti stanchi, e l'Inter non si sarebbe impadronita di

campionati altrui.

Rebus Libia

Nel marzo del 2011, durante la sua visita con Jaki Elkann al

salone dell'automobile di Ginevra, Sergio Marchionne ha smentito

che la famiglia Gheddafi o fondi di investimento libici, in

particolare la Libyan Investment Authority (Lia) creata nel 2006,

siano ancora azionisti del gruppo Fiat. Ma i veicoli degli

investimenti somigliano alle vie del Signore e, come Marchionne

può insegnare, sono infiniti. È possibile che il clan

nordafricano abbia soltanto frazionato la sua quota al di sotto

del minimo del 2 per cento con obbligo di segnalazione. Sulla

fedeltà della Lafico alla Juve, invece, non ci sono dubbi. La

partecipazione è rimasta ben visibile anche dopo la fine della

guerra civile. L'ingresso nel club di calcio è arrivato a

ridosso del secondo acquisto di azioni Fiat, nel febbraio del

2002, e a spingere fu l'ingegner Sa'adi Gheddafi, uno dei figli

di Muhammar e ospite a Tripoli della Supercoppa italiana

Juventus-Parma proprio nel 2002, con foto ricordo dopo il match

abbracciato a Giraudo e ai bianconeri vincitori. Sa'adi aveva il

sogno di giocare in serie A per coronare una carriera folgorante

nel campionato libico, dove i difensori svenivano di fronte ai

suoi dribbling e i portieri si inchinavano al sinistro letale di

colui che, fra i vari incarichi, era capitano della Nazionale e

presidente della locale Federcalcio. Il suo sogno Italia è

diventato realtà e Sa'adi ha fatto la sua trafila nei club di

serie A amici del sistema Triade. Come azionista nella Triestina

e come centrocampista offensivo nel Perugia di Luciano Gaucci e

nell'Udinese di Gianpaolo Pozzo. A Perugia come a Udine,

albergatori, ristoratori e commercianti ricordano ancora con

affetto le spese faraoniche del clan di Sa'adi. Meno piacevoli

le memorie dei connazionali di Sa'adi: l'ingegnere-calciatore

sotto mandato di cattura Interpol dopo la caduta del regime di

Tripoli, è accusato dell'omicidio di un allenatore che l'aveva

criticato e di avere retto con il terrore e le minacce il calcio

libico. All'aumento di capitale della Juventus deciso a fine

2011 la Lafico non ha potuto aderire a causa del blocco dei

fondi del clan Gheddafi da parte dell'Unione europea.

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Comunicato sindacale (CorSera 04-02-2012)

Caro lettore,

domani o nei prossimi giorni potresti non trovare in edicola la

tua copia del Corriere della Sera e della Ġazzetta dello Sport.

È la conseguenza dello stato di agitazione dichiarato, una

settimana fa, da poligrafici e giornalisti a difesa

dell’integrità delle nostre testate. La nostra convinzione,

suffragata in questi giorni anche da altri giornali, è che la

voragine finanziaria aperta dal clamoroso passo falso

dell’acquisto nel 2007 di Recoletos (Gruppo editoriale spagnolo)

abbia portato velocemente a uno stato di crisi economica di

tutta Rcs. Questo stato di sofferenza finanziaria viene

affrontato dal management, sostenuto dagli azionisti,

comunicandoci il proposito di vendere (o svendere?) il

patrimonio immobiliare di via Solferino e la società francese,

che edita libri, Flammarion. Il tutto dopo aver comunicato la

chiusura del quotidiano di free press City, mettendo in mobilità

i suoi dipendenti.

Riteniamo che queste operazioni non risolvano, se non nel breve

periodo, le difficoltà di questo gruppo. Chiediamo perciò agli

azionisti, quelli che nell’immaginario collettivo vengono

definiti parte del salotto buono della finanza, di mettere mano

al loro portafogli ripianando tutti i guasti di una gestione

dissennata.

RSU Corriere della Sera e Ġazzetta dello Sport

__________________________________________________

(Ferruccio de Bortoli) Alcune precisazioni al nebuloso

comunicato sindacale. Il giornale verrà fatto regolarmente in

tutte le sue edizioni. I poligrafici possono rallentarne la

produzione (come è già accaduto), ma la direzione non consentirà,

per rispetto di chi legge e di chi lavora, danni gravi alla

distribuzione.

La direzione comprende molte delle preoccupazioni sindacali, ma

chiarisce, ancora una volta che, come già comunicato

dall'Editore, il Corriere della Sera, le sue redazioni e i

servizi di cui necessita restano nella sede storica di via

Solferino.

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Fuori gioco di GIANFRANCESCO TURANO

Andrea Agnelli

La Juve come scuola di formazione della Fiat

Un affare di famiglia

La Juventus è una storia di famiglia. Nessuna squadra in serie A e nessun club

di primo piano al mondo hanno un legame così antico con la proprietà. Gli

Agnelli sono i padroni della società bianconera dal 1923, quando il senatore

Giovanni, il fondatore della Fiat, decise di trasformare le «zebre» nella

squadra più vincente d’Italia con il sistema che già allora era considerato il

più efficace e rapido: comprare i migliori a qualunque prezzo. E il prezzo era

spesso ridotto perché teneva conto di ciò che la Fiat significava in termini

di potere e dell’influenza dei proprietari della squadra.

Circa novant’anni e parecchi scudetti dopo, alla guida della Juve c’è ancora

un Agnelli, Andrea, unico maschio della sua generazione a portare il cognome

del capostipite. Il trentaseienne presidente della Juventus Football Club è un

rappresentante del ramo cadetto della famiglia: non è lui l’azionista di

riferimento della Juventus perché non è l’azionista più importante della

società che controlla la Exor che, a sua volta, controlla la Juventus e la

Fiat. Nella Giovanni Agnelli & C. Sapa (società in accomandita per azioni), la

madre di tutte le casseforti dinastiche nazionali, Andrea, la sorella Anna e

la madre Allegra Caracciolo di Castagneto, seconda moglie di Umberto Agnelli,

rappresentano il ramo familiare numero tre in quanto a peso azionario.

L’azionista di riferimento della sapa Agnelli, quindi la guida del gruppo, è

la società semplice Dicembre, che possiede oltre un terzo delle quote (35 per

cento). Dicembre è in mano ai fratelli Elkann: John, che ha la maggioranza

assoluta, seguito da Lapo e Ginevra, figli di Margherita, la secondogenita di

Gianni Agnelli, l’Avvocato, fratello maggiore di Umberto.

I secondi azionisti dell’accomandita sono i discendenti di Maria Sole Agnelli,

sorella dell’Avvocato, con il 12,4 per cento. Andrea e Anna hanno quasi l’11

per cento, un punto in più del ramo numero quattro, gli eredi di Giovanni

Nasi. Seguono i Camerana (7,5 per cento), i Ferrero Ventimiglia (6,9 per cento)

e gli eredi di Susanna Agnelli (5,4 per cento).

Questa situazione ha una conseguenza sostanziale sulla gestione del club: per

finanziare la Juventus - com’è accaduto con l’aumento di capitale da 120

milioni di euro deciso a giugno del 2011, dopo quattro anni di disastri

sportivi e finanziari -, Andrea Agnelli deve avere l’autorizzazione del cugino

John, detto «Jaki», più giovane di quattro mesi. E magari anche quella di Lapo,

tifoso appassionato.

La Juventus dunque non è solo una storia di famiglia, ma è la storia di un

rapporto dialettico, spesso di contrapposizione, fra due gruppi. Da una parte

l’Avvocato e adesso i suoi nipoti. Dall’altra il Dottore, Umberto, e adesso i

suoi figli.

Non che gli altri rami della dinastia si disinteressino della squadra. Urbano

Rattazzi, marito di Susanna Agnelli e pro-console del gruppo Fiat in Argentina

negli anni Cinquanta, si è giustamente vantato di aver scoperto e comprato

Omar Sivori, fuoriclasse entrato nella storia del club per i dribbling, le

espulsioni e i calzettoni arrotolati alla caviglia nell’epoca in cui i calci

nelle gambe non erano smorzati dai parastinchi.

Ma la Vecchia Signora è stata quasi sempre un affare fra Gianni e Umberto.

Gli altri potevano scegliere con chi schierarsi. E non è mai stato un

passatempo. Guidare la Juve con successo era considerata la premessa per

guidare il gruppo Fiat con successo. Anche perché la Fiat è stata per decenni

l’azionista diretto della squadra, prima di passare il controllo alle

finanziarie Ifi-Ifil, sparite nel 2009 per essere incorporate da Exor, attuale

proprietaria dei bianconeri con il 60 per cento e della Fiat con il 30 per

cento.

Nei vari riassetti del potere familiare guidare la Juve è rimasto il rito di

passaggio per eccellenza, che solo per l’ultima generazione è stato affiancato

da un periodo alla catena di montaggio sotto anonimato in mezzo agli operai

italiani o polacchi. È un classico: il principe gentile si traveste da plebeo

per conoscere e alleviare le sofferenze del suo popolo. La Juve no, non

c’entra con la gentilezza. Alla Juve bisogna vincere e basta, vincere

comunque. O il popolo si inquieta.

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Le due cordate juventine

L’Avvocato è diventato vicepresidente della Fiat nel 1944, a ventitré anni, e

presidente del club a venticinque nel 1946, subito dopo la morte del nonno, il

senatore Giovanni Agnelli. Umberto era ancora più giovane. Aveva ventun anni

nel 1955 quando ha debuttato al timone della squadra. Suo figlio Andrea ha

incominciato nel 2010, a trentaquattro anni, cioè tardi rispetto alle

abitudini di famiglia, che però contemplano lunghi periodi in cui la società

di corso Galileo Ferraris viene affidata a un manager di fiducia. Anche in

questi casi c’è il timbro di uno dei due rami.

Giampiero Boniperti, il capitano della Juve nel dopoguerra, biondo, bello,

azzimato e perciò chiamato «Marisa» dal maldicente attaccante interista Benito

«Veleno» Lorenzi, ha retto la squadra da dirigente per oltre vent’anni con un

pugno di ferro che smentiva il suo soprannome. Era il manager di Gianni. Dopo

di lui è arrivato Antonio Giraudo, un talento dello sviluppo immobiliare che

si è fatto strada fino ai vertici di casa Agnelli lanciando la stazione

sciistica del Sestriere e che era talmente tifoso del Toro da bruciare la

bandiera juventina esposta nella stanza della sorella. Era il manager di

Umberto ed è ancora in rapporti di affetto e di affari con Andrea e Anna.

Gli equilibri di potere attuali sono la conseguenza del trauma del 2006

quando, al termine del processo sportivo di Calciopoli, la Juventus è finita

per la prima volta in serie B per illecito sportivo a causa delle operazioni

dietro le quinte di Giraudo, amministratore delegato e azionista del club con

il 3, 6 per cento, e di Luciano Moggi, direttore generale.

Secondo la magistratura sportiva e ordinaria, i due manager tenevano in pugno

il sistema arbitrale attraverso i designatori dei giudici di gara, Paolo

Bergamo e Pierluigi Pairetto, anche loro condannati. Oltre a favorire la

Juventus, Giraudo e Moggi avevano diviso il calcio italiano in amici da

premiare e nemici da castigare con il massimo della pena, la retrocessione in

B. Entrambi sono stati condannati in primo grado a Napoli per frode sportiva e

partecipazione ad associazione a delinquere. Giraudo ha scelto il processo con

rito abbreviato che riparte in appello il 21 marzo 2012.

Nel 2006 anche la Juventus ha patteggiato la condanna per non finire ancora

più in basso, in C1. Il ramo che si riconosceva nell’Avvocato ne ha

approfittato per defenestrare gli umbertiani e affidare la squadra a Giovanni

Cobolli Gigli, ex amministratore dell’Ifi, e al francese Jean-Claude Blanc, un

outsider che non si è mai integrato nel sistema di potere del calcio italiano.

Dopo il ritorno in serie A, alla fine del 2009 i risultati sportivi sono

stati giudicati insoddisfacenti. Il gruppo dell’Avvocato ha dovuto fare un

passo indietro. Cobolli Gigli è stato ringraziato ed esonerato. Blanc lo ha

seguito qualche tempo dopo con l’accusa di «incapacità» da parte di Andrea

Agnelli.

Prima che il figlio di Umberto venisse eletto alla guida del club, per un

periodo si è parlato di John «Jaki» Elkann alla presidenza. Ma Jaki è

diventato presidente della Fiat in sostituzione di Luca Cordero di

Montezemolo. L’importanza del-l’incarico nella fase di integrazione con il

gruppo Chrysler, le tensioni sindacali in fabbrica con i referendum sul

contratto a Pomigliano d’Arco e a Mirafiori, infine la lunga lite sull’eredità

del nonno che ha contrapposto la madre Margherita a due colonne portanti del

gruppo come Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, hanno dissuaso il

giovane Elkann da un impegno diretto nel club di calcio.

Nel maggio del 2010 si è insediato Andrea, amatissimo dai tifosi perché

Agnelli di fatto e di nome, ma soprattutto per il suo legame esibito con

l’epoca in cui i bianconeri vincevano in campo e i dirigenti distribuivano

agli arbitri schede sim svizzere e slovene per evitare che i colloqui più

imbarazzanti fossero intercettati.

La nomina di Andrea, per una volta, non ha comportato una separazione così

netta fra i due rami del potere familiare nella Juve. I due cugini, Andrea e

Jaki, hanno moltiplicato le visite pastorali congiunte al centro sportivo di

Vinovo dove la squadra si allena. Il loro intento è di mostrare la coesione

della famiglia nei momenti di difficoltà sportiva ed economica, come dopo il

bilancio 2010-2011, chiuso con una perdita record di 95,4 milioni di euro, la

più grave nella storia del club. Una perdita in stile Moratti, con 141 milioni

di euro investiti nel calciomercato in due anni.

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Chi comanda davvero

La governance della società di calcio riflette la cogestione Elkann-Agnelli.

Nel comitato esecutivo, oltre ad Andrea, ci sono quattro consiglieri, i due

amministratori delegati della Juventus, Beppe Marotta e Aldo Mazzia, poi

Michele Briamonte e Carlo Barel di Sant’Albano. Mazzia e Briamonte sono gli

ultimi arrivati, nell’ottobre del 2010. Sant’Albano ha la maggiore anzianità

di servizio, essendo in consiglio dal 2006. Marotta è il responsabile

dell’area tecnica ed è stato strappato alla Sampdoria di Riccardo Garrone.

Mazzia è l’ex direttore finanziario dell’Exor, dove lavora dall’età di

ventitré anni e che ha lasciato a febbraio del 2011 proprio per occuparsi a

tempo pieno della Juve.

Anche Carlo di Sant’Albano, quarantasette anni e un Mba alla Harvard Business

School, ha passato molti anni nelle finanziarie di famiglia dopo un’esperienza

al Crédit Suisse. È stato all’Ifil, nel consiglio della Fiat, e a partire dal

2006 è diventato presidente e amministratore delegato di Exor, la nuova

holding del gruppo con un patrimonio netto stimato in nove miliardi di euro.

Nello stesso anno Jaki Elkann lo ha voluto alla Juventus retrocessa dopo

Calciopoli. Con il rinnovamento delle cariche in Exor che ha visto Jaki

assumere la carica di amministratore delegato, Sant’Albano è stato eletto

presidente della controllata americana Cushman & Wakefield, una società di

servizi immobiliari.

Michele Briamonte è un avvocato di trentaquattro anni di cui si sentirà

parlare. Viene, com’è ovvio, dallo studio Grande Stevens di Torino, in via del

Carmine 2, dove ha sede legale l’accomandita Agnelli. È un golfista

appassionato quasi quanto Andrea Agnelli ed è socio del club di Punta Ala. La

sua unica esperienza societaria di rilievo prima della Juventus è stata nella

It Holding, il gruppo tessile dell’imprenditore molisano Tonino Perna finito

in stato di insolvenza nel 2009 dopo una lunga crisi. Briamonte è il regista

legale dei ricorsi che Andrea Agnelli ha presentato per riavere lo scudetto

revocato dalla giustizia sportiva dopo Calciopoli.

Insomma, almeno tre su cinque membri del comitato esecutivo della Juventus

(Mazzia, Sant’Albano, Briamonte) sono lì con l’approvazione di Jaki. Un quarto,

Marotta, è un manager sportivo che, si dice, passa parecchio del suo tempo in

un braccio di ferro con l’ex campione bianconero Pavel Nedved, voluto in

consiglio da Andrea e finito in un angolo.

Altri consiglieri da citare sono Camillo Venesio della Banca del Piemonte e

Khaled Fareg Zentuti, rappresentante del secondo azionista del club, la

finanziaria libica Lafico, che è anche azionista della Fiat. Zentuti è rimasto

in carica dopo la morte di Gheddafi.

Nonostante qualche indiscrezione, per ora è saltato il ritorno in società di

Roberto Bettega, che con Giraudo e Moggi è il terzo membro della cosiddetta

Triade alla guida della squadra per dodici anni, dal 1994 al 2006. Anche se

l’ex attaccante dei bianconeri e della nazionale è l’unico del terzetto a

essere rimasto fuori dai processi, questioni di opportunità hanno sconsigliato

il revival. Jaki, in particolare, non ne ha voluto sapere. Quindi, d’accordo

la cogestione del club e l’intesa cordiale fra i rami della famiglia, ma

nell’accomandita, in fabbrica e in campo comandano gli Elkann. Al contrario di

quanto predicava Enrico Cuccia, in casa Agnelli le azioni si contano e solo

dopo, semmai, si pesano.

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Macchine e pallone

Nella spartizione delle responsabilità fra i cugini, Jaki segue le vicende

delle fabbriche a Torino, Belo Horizonte, Detroit o Tychy, e magari spiega

all’amministratore delegato Sergio Marchionne perché la Exor debba destinare

81 milioni di euro a Del Piero e compagni mentre nell’industria

automobilistica gli investimenti si riducono e la battaglia globale per la

sopravvivenza si gioca sulla pelle dei lavoratori. Macchine e pallone hanno in

comune la caratteristica di essere capital intensive, cioè richiedono

l’investimento di moltissimo denaro per essere efficienti e, magari,

redditizie. È significativo che la famiglia Agnelli sia stata più volte

tentata di cedere il settore auto mentre non ha mai parlato di vendere il club,

sebbene negli anni il consumo di risorse economiche del calcio sia diventato

abnorme.

Basti pensare che circa un quarto dell’ultimo finanziamento Exor alla

Juventus (poco più di 18 milioni di euro sugli 81 dell’aumento di capitale)

proviene dalla cessione, a metà del 2011, del palazzo di corso Matteotti 26 a

Torino dove hanno vissuto Gianni con i fratelli e le sorelle e che, in seguito,

è stata la sede del gruppo Fiat per decenni. Corso Matteotti, venduto con una

considerevole plusvalenza, vale sette milioni in meno rispetto ai 25 milioni

spesi per Diego, presunto campione brasiliano acquistato durante la gestione

di Cobolli Gigli e rivenduto a 19 milioni.

Attraverso il club Andrea conduce una battaglia che non mira soltanto a un

futuro sportivo migliore dopo il settimo posto del campionato 2010-2011: il

senso di appartenenza ha portato il presidente della Juventus a una contesa

legale per recuperare lo scudetto cancellato nel 2005-2006. La riconquista

della gloria passata è diventata importante quanto i campionati a venire ed è

centrale nella gestione di Andrea.

Il primo esposto presentato alla Federcalcio è del maggio 2010, con una

richiesta di revoca dello scudetto 2006 all’Inter. Quattordici mesi dopo il

consiglio della Federcalcio si dichiara incompetente a decidere. Agnelli

decide di andare oltre con un ricorso al Tribunale nazionale arbitrale dello

sport (Tnas, l’ultima istanza della giustizia sportiva), con un secondo

ricorso al Tar presentato nel novembre del 2011, cinque giorni dopo la

condanna di Moggi, e con un terzo ricorso alla Corte dei conti. Il Tnas dice

di no, niente titolo del 2006. Ora rimangono la richiesta di risarcimento

danni alla Federcalcio, al Tar e alla magistratura contabile per circa 444

milioni di euro, una somma calcolata fra minusvalenze di calciomercato,

svalutazione del marchio, svalutazione del titolo in Borsa e mancati ricavi.

Nel tentativo di appianare la controversia è stata allestita fra le parti una

sorta di conferenza di pace che punta al disarmo giudiziario per via

diplomatica.

La lotta per la restituzione dei titoli cancellati dalla giustizia sportiva è

una battaglia nello stile della vecchia Juve, fatto di vittorie e arroganza.

Il concetto di base della rivendicazione è che Calciopoli ha coinvolto tutti.

Del sistema avrebbe beneficiato anche l’Inter, che si è vista premiata con uno

scudetto assegnato a tavolino, il primo vinto da Massimo Moratti. Andrea

Agnelli ha affermato che le accuse rivolte al suo club erano infondate e che i

fatti non sussistevano. «Semmai dovessero emergere comportamenti penalmente

rilevanti sarebbero da ascrivere a Moggi personalmente» ha dichiarato il

presidente. In altre parole, se Moggi non era un manovratore di arbitri, la

Juve ha diritto agli scudetti. Se lo era, la Juve ha diritto ugualmente agli

scudetti perché la colpa delle manovre non è della Juventus ma di Moggi, una

sorta di scheggia impazzita che agiva all’insaputa del suo diretto superiore

(Giraudo, condannato per gli stessi reati di Moggi) e, a maggior ragione,

degli azionisti.

Agnelli ha poi aggiunto, riecheggiando un collega in rossonero, che la colpa

di Calciopoli è dei giornali, perché «rivelare intercettazioni coperte da

segreto è un reato». Insomma, se i giornali non avessero denunciato che la

procura federale stava dormendo sulle suddette intercettazioni, la procura

avrebbe continuato a dormire, come hanno diritto di fare tutti gli enti

stanchi, e l’Inter non si sarebbe impadronita di campionati altrui. Quando

Agnelli attacca Massimo Moratti sostenendo che lo scudetto del 2006 «non è un

titolo degli onesti ma dei prescritti», il presidente interista replica

beffardo invitandolo ad andare in vacanza. E Jaki risponde che il presidente

dell’Inter è persona anziana e che i padroni della Fiat non vanno in vacanza

perché hanno tanto da lavorare.

Nella schermaglia per riavere onore e titoli, soltanto Lapo Elkann sembra

essere finito da parte. Troppo irruento in generale, e troppo avverso al

tandem Giraudo & Moggi. In pole-mica contro di loro, e contro l’idea di una

Juventus vincente ma odiosa, ha lanciato la campagna «Sympathy for the Juve».

Lapo fatica di più a riconciliarsi con il passato. È ancora convinto di avere

pagato un prezzo molto personale alla battaglia dinastica intorno alla squadra

più scudettata del calcio italiano con 27 titoli. O 29, secondo Andrea Agnelli.

È la storia oscura del 10 ottobre 2005, quando Lapo viene ricoverato

all’ospedale delle Molinette dopo una notte di sesso e droga tra le ville

della collina torinese e l’appartamento del transessuale Lino B. detto

«Patrizia». Il ragazzo ha sempre sospettato la mano malefica della Triade

nella sua disavventura, se non altro per l’immediata diffusione della notizia

e per la presenza di un fotografo al momento del suo arrivo al pronto soccorso.

La rivincita di Lapo contro la Triade è stata Calciopoli, anche se il

fratello minore di Jaki sembra essere finito in panchina rispetto a un

mainstream familiare e aziendale che non sempre digerisce il suo stile di

vita. È già successo ad altri fra gli oltre cento discendenti del Senatore.

Senza Lapo la Juventus è di sicuro meno simpatica. Da vedere se sarà più

vincente.

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Vincere in campo, vincere in tribunale

Su quale piano si sia trovato un accordo fra i cugini Elkann-Agnelli e

Marchionne per rifinanziare la Juventus non è facile dire. Come sempre quando

ci sono in ballo 120 milioni di euro (81 dall’accomandita più 39 dal mercato),

si sarà trattato di una scelta maturata a livelli diversi. L’ipotesi

elementare è che i proprietari abbiano deciso e il manager si sia adeguato.

Marchionne, italiano atipico che ha anche il passaporto canadese e la

residenza svizzera, se ne frega del calcio in modo palese. Ma avrà dovuto

accettare la costosa bizzarria di Andrea e Jaki.

È un’interpretazione possibile ma poco credibile: Marchionne ha un’aura di

prestigio internazionale che fa di lui una persona da non contrariare. È più

probabile che anche lui comprenda il significato della Juventus nella Fiat del

secolo XXI.

Nell’estate del 2011 una parte della preparazione e delle amichevoli estive

dei bianconeri si è svolta negli Stati Uniti. A fine luglio, mentre la squadra

si allenava e giocava, Andrea Agnelli ha rilasciato per telefono dal Brasile

un’intervista a «The New York Times» nella quale ha ribadito la sua ossessione

sulla riconquista dei due scudetti di Calciopoli. Escluso che alla massa dei

cittadini americani possa interessare la questione del Tnas o del Tar o del

Consiglio di Stato italiano, l’articolo mostrava l’intento di tradurre per il

lettore locale il mondo bizzarro del soccer: si paragonavano i 27 titoli di

baseball dei New York Yankees ai 27 (o 29) scudetti dei Gobbi. Ma sullo sfondo

c’era l’operazione di integrazione con Chrysler e il debutto della Fiat come

impresa stars and stripes negli Stati Uniti in lotta per uscire dalla crisi.

Il soccer, quasi irrilevante come lega professionistica negli Usa ma molto

praticato, è uno dei grimaldelli per aprire un mercato. Non è detto che una

Juve vincente aiuti le vendite di Fiat-Chrysler, ma la tradizione si è

imposta. Fin dall’inizio della sua storia sotto il controllo degli Agnelli, la

Juventus è una macchina da propaganda essenziale allo sviluppo del gruppo

automobilistico. L’acquisto della Ferrari, completato negli anni Ottanta,

ripete questo schema: un marchio vincente, costoso e di lusso serve a trainare

la produzione di largo consumo. Il problema è capire se lo schema proposto

oggi è coerente. Per analizzare meglio il presente è necessaria una breve

digressione nel passato.

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Il modello Avvocato

La Juventus, come la Fiat, è fatta di modelli. In campo o alla catena di

montaggio c’è una continuità che attraversa i decenni. Gli storici del club

torinese ricordano che, appena arrivato alla guida del club, il senatore

Agnelli comprò due fuoriclasse, l’ungherese Hirzer e l’italiano Rosetta. Li

strapagò e concesse loro un ingaggio annuale di centinaia di migliaia di lire

quando il sogno dell’Italia fascista era di «avere mille lire al mese», come

nella canzone di Gilberto Mazzi.

Fin dal Ventennio il calciatore è considerato un artista e non un lavoratore.

O, se lo è, ha un grande vantaggio contrattuale sul padrone. Se il padrone è

molto importante, il vantaggio si attenua. E nessuna squadra, neanche il Milan

contemporaneo, ha avuto proprietari così potenti e duraturi quanto la Juventus.

La Juve, fondata nel 1897 da un gruppo di studenti torinesi, passa agli

Agnelli nel luglio del 1923, nove mesi dopo la Marcia su Roma. È il

coronamento di un periodo molto intenso. Quattro mesi prima, a marzo dello

stesso anno, Giovanni Agnelli è stato nominato senatore del Regno. Nel maggio

del 1923 sono stati inaugurati i capannoni del Lingotto alla presenza del duce

e di re Vittorio Emanuele, la cui discendenza sarà unanimemente juventina.

Il Senatore vince il suo primo scudetto – il secondo per il club – nel 1926.

Da allora rompe il dominio del Genoa (nove scudetti, l’ultimo nel 1924) e

degli agrari della Pro Vercelli (sette scudetti, l’ultimo nel 1922) e dà

inizio a un predominio sportivo che sarà sintetizzato dal bisnipote Andrea nel

colloquio con «The New York Times» del luglio 2011: «Nelle quattro finali

mondiali vinte dall’Italia nel 1934, 1938, 1982 e 2006, 27 dei 44 titolari

erano giocatori della Juventus». Una statistica ineguagliabile.

Alla fine della seconda guerra mondiale, la Fiat deve affrontare la

transizione verso la democrazia da una posizione delicata, essendo stata una

delle aziende che più hanno sostenuto lo sforzo bellico del regime

mussoliniano. Ma la frase storica del Senatore («noi industriali siamo

ministeriali per definizione»), sopravvissuta dall’età giolittiana a quella

del duce, si rivela un lasciapassare valido anche per l’avvento della

Democrazia cristiana.

Il Senatore muore alla soglia degli ottant’anni prima di finire sotto

processo per collaborazionismo. Avendo perso il suo unico figlio maschio

Edoardo in un incidente aereo nel 1935, il patriarca decide la successione con

una mossa che influisce ancora oggi sugli equilibri del gruppo di Torino:

designa come erede Giovanni, il nipote che porta il suo nome, e gli lascia il

doppio delle quote Fiat rispetto ai suoi due fratelli (Giorgio e Umberto) e

alle sue quattro sorelle (Clara, Susanna, Maria Sole e Cristiana).

La fabbrica viene affidata a Vittorio Valletta, che è direttore generale dal

1928 e che rimarrà ai comandi per altri vent’anni. Nel 1946 l’Avvocato («un

nome d’arte» dirà anni dopo del suo appellativo insensato, visto che non ha

mai esercitato la professione forense) è nominato alla presidenza della

Juventus. Dopo due anni di occupazione tedesca al Nord e americana al Sud,

l’Italia rivuole il suo campionato e la Juve è là per vincerlo. L’Avvocato

dovrà aspettare la stagione 1949-1950 per il primo tricolore.

La prima gestione del club da parte di Gianni Agnelli corre in parallelo con

la riconversione della Fiat dall’economia di guerra e con il boom

dell’automobile. La Balilla e la Topo-lino lasciano il posto alla 1100 e alla

500. Torino si riempie di immigrati in arrivo dalle campagne del Sud. In

questo contesto si crea il mito dell’Avvocato, fondamentale nello sviluppo

dell’azienda e nella società italiana del miracolo economico.

In un paese superstizioso e alla ricerca perenne di Madonne pellegrine, poco

importa se religiose o laiche, Gianni Agnelli diventa un esempio trasversale

alle classi sociali. I suoi detrattori – come il grande notista de «l’Unità»

Mario Melloni detto «Fortebraccio», che lo chiama «l’Avvocato Basetta» – sono

rari e spesso (a parte Fortebraccio) trascurano il quadro di insieme per

concentrarsi su dettagli caratteriali o di stile.

È vero che l’Avvocato si è creato un personaggio. È vero che ha impersonato

il seduttore per eccellenza fin da quando batteva la Costa Azzurra e si

disputava le donne più belle con Porfirio Rubirosa o Errol Flynn o quando,

secondo rivelazioni recenti, insidiava la first lady Jackie Kennedy fra le

ville e i moli del New England. È vero che molti errori gli sono stati

perdonati in nome del carisma e del fascino personale. Ma la sua trovata

vincente è stata diventare testimonial del primo gruppo industriale privato

italiano quando la parola testimonial non era ancora in uso. Attraverso la sua

figura ha creato un senso di appartenenza che si può sintetizzare così: tifate

Juventus, comprate Fiat e l’Italia crescerà. Un messaggio che è arrivato a

tutti: ai suoi operai comunisti e iscritti alla Fiom, al ceto medio

impiegatizio, alla maggioranza silenziosa che non avrebbe mai ammesso di

votare Dc e ai nobili catturati dai borghesi Agnelli all’interno del loro

albero genealogico con un’oculata politica matrimoniale.

Non pochi imprenditori di oggi andrebbero studiati sul metro dell’Avvocato.

Nel microcosmo di potere della serie A un debitore dichiarato al modello è

Diego Della Valle, mentre Berlusconi si è costruito attraverso la distruzione

del modello Gianni Agnelli: ha incominciato in campo con il Milan mettendo

fine all’era Boniperti, un uomo dell’Avvocato. Da presidente del Consiglio ha

umiliato il vecchio industriale in difficoltà facendogli fare anticamera e

presentandosi agli appuntamenti a bordo di automobili della concorrenza. Nel

2001 – un anno prima della morte di Agnelli, quando sembrava che la Fiat non

ce l’avrebbe fatta – ha ottenuto da lui una sorta di benedizione preelettorale.

Per comprendere che cosa sia stato Giovanni Agnelli si può riportare il

giudizio di Carlo De Benedetti, compagno di scuola di Umberto messo alla guida

della Fiat per cento giorni nel 1976 prima di un’uscita traumatica: «Per me

Agnelli era un mito, per il suo charme, per la sua leggerezza calviniana, per

la sua ricchezza. Era egoista, cinico, superficiale. Era profondamente

conservatore. Per me rimase un mito, un mito profondamente gratificante anche

quando ne scoprii i limiti».

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Il modello umbertiano

Umberto ha tredici anni meno di Gianni. È un intervallo di tempo che sta a

metà tra la fratellanza e il rapporto filiale. Fra i due sarà sempre così:

Gianni è troppo grande per essere un fratello e troppo giovane per essere il

padre che Umberto ha perso a un anno di età. Si vogliono bene, come si

vogliono bene Jaki e Andrea, ma devono costantemente adattare l’affetto alle

differenze caratteriali e, soprattutto, al rapporto di potere fra azionista

maggiore e azionista minore.

Umberto, soprannominato «il Dottore» per non lasciarlo in inferiorità di

titoli con il fratello, non amava apparire ma aveva grande passione per

l’azienda, per la Juve e per il calcio in genere. È stato uno dei presidenti

della Federcalcio. In più, rispetto al fratello maggiore ha avuto

un’inclinazione passeggera verso la politica: la Dc lo ha eletto nelle sue

liste nel 1976, in piena avanzata comunista-berlingueriana. La cosa è durata

poco perché a Montecitorio il grande e potente industriale non beccava palla

neppure con l’ultimo peon scudocrociato.

Umberto aveva un altro vantaggio sull’Avvocato: suo figlio Giovanni Alberto

detto «Giovannino», nato dal primo matrimonio tra Umberto e Antonella Bechi

Piaggio, della dinastia industriale che ha inventato la Vespa, era un erede

credibile alla guida del gruppo e si era guadagnato in pochi anni fama di

capacità, serietà e affidabilità tali da fargli scavalcare Edoardo. Il figlio

di Gianni, formalmente primo nella linea di successione, era un uomo

sofferente che telefonava ai giornalisti la mattina all’alba, come faceva

l’Avvocato con Michel Platini, per dire che suo padre era un poco di buono e

che bisognava smettere di produrre automobili per salvare il pianeta. È morto

suicida nel 2000, a quarantasei anni, lanciandosi da un viadotto

dell’autostrada Torino-Savona.

Tre anni prima, nel 1997, Giovanni Alberto è stato ucciso dalla leucemia a

trentatré anni. All’epoca il fratello Andrea, figlio del secondo matrimonio di

Umberto con Allegra Caracciolo, si era appena laureato ed era all’inizio di

una formazione professionale iniziata in Ferrari e proseguita all’esterno del

gruppo nella multinazionale del tabacco Philip Morris e poi in Ifil.

Con la scomparsa di Giovannino Agnelli la linea ereditaria del potere Fiat ha

saltato una generazione ed è tornata al ramo maggiore, quello che fa capo

all’Avvocato.

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I grandi allenatori

Per completare il quadro e capire le ramificazioni del potere all’interno del

gruppo bisogna spendere qualche parola sugli amministratori più importanti

nella storia della Fiat. Anche qui c’è una linea di continuità fra le scelte

della famiglia. Dopo la morte di Vittorio Valletta, l’Avvocato ha insistito

con il modello di uomo duro, d’ordine. Alla breve parentesi De Benedetti è

seguito il governo quasi trentennale di Cesare Romiti, entrato in Fiat come

direttore finanziario e passato alla storia per avere sconfitto il sindacato

organizzando nell’autunno del 1980 la marcia dei quarantamila, che attraverso

la mobilitazione dei quadri aziendali pose fine alle agitazioni degli operai

in sciopero da più di un mese contro i licenziamenti in massa annunciati dalla

Fiat.

L’Avvocato ha amato in Romiti l’aspetto di organizzazione poliziesca

dell’azienda, con gli ex carabinieri assunti per tenere d’occhio sia le derive

terroristiche degli operai sia i traffici privati dei dirigenti. La sua

maggiore virtù era la capacità di controllare i dipendenti a ogni livello

gerarchico. È stato meno efficace nella gestione del prodotto e ha incentivato

una diversificazione in stile coreano che a un certo punto ha portato il

gruppo ad avere interessi praticamente in ogni settore dell’industria e della

finanza.

Romiti, che nella Prima Repubblica ha avuto una condanna in giudicato a

undici mesi per false comunicazioni sociali e illecito finanziamento ai

partiti, è uscito dalla Fiat nel giugno del 1999. La sua liquidazione

colossale (196 miliardi di lire) gli ha consentito di diventare un

imprenditore in proprio con la holding di partecipazioni Gemina, in verità

senza risultati eccezionali. È poi diventato presidente della Fondazione

Italia-Cina, mostrando verso la Repubblica Popolare l’attrazione che negli

anni Sessanta alcuni avevano per la Grecia dei colonnelli.

Romano e tifoso romanista, Romiti si è professato juventino per tutto il

periodo trascorso alla Fiat, dove la dissidenza sportiva è mal tollerata. Al

termine del suo mandato presso il gruppo torinese, Romiti ha avuto modo di

manifestare un certo dissenso a posteriori sia verso l’Avvocato, al quale ha

sempre dato del lei, sia verso la famiglia Agnelli in generale. Nella sua

ricostruzione degli anni di piombo in fabbrica, per esempio, ha dichiarato in

occasioni pubbliche di essere stato lasciato solo a battersi contro la

minaccia terroristica, mentre l’Avvocato faceva il simpatico seduttore. Una

persona che è stata molto vicina a entrambi spiega così le critiche ex post

mosse da Romiti: «Quando andavano insieme a qualche incontro e scendevano

dalla macchina, dal lato dell’Avvocato arrivavano decine di persone, bambini,

vecchi, di ogni età, a salutarlo, a chiedere l’autografo. Dal lato di Romiti

non c’era nessuno».

Uno dei maggiori scontri aziendali ha visto Romiti contrapporsi, con

l’approvazione di Enrico Cuccia, a Umberto Agnelli e a Vittorio Ghidella, un

manager designato da Umberto e – cosa non frequente in Fiat – capace di

realizzare buone macchine. Ghidella venne cacciato nel giugno del 1988, dopo

che l’Avvocato lo aveva indicato come prossimo successore di Romiti, perché

accusato di imbrogliare con i fornitori a scopo di profitto personale.

Al momento attuale, il nuovo Romiti si chiama Sergio Marchionne. Mentre

Romiti se ne è sempre fregato dell’immagine, sia per inclinazione di carattere

sia perché c’era già l’Avvocato a prendersi la scena, Marchionne ha costruito

un modello diviso fra sostanza e forma. La forma mostra un uomo amante dei

pullover in un contesto dove ci si veste di grigio o di blu e la cravatta è de

rigueur. In un paese che adora discettare sull’immagine, la mossa di

Marchionne ha aperto un filone di studi fenomenologici sul supermanager che si

veste come uno di noi. Ciò dipenderebbe dalla cultura e dalle esperienze

internazionali di un self-made man figlio di lavoratori abruzzesi emigrati in

Svizzera. In questo senso Marchionne ha imparato la lezione dell’Avvocato e si

è creato un personaggio. Ma ha avuto l’intelligenza di cambiare del tutto

rispetto a un modello inimitabile. Se proprio si vuole cercare un riferimento,

il modello di Marchionne è l’allenatore portoghese José Mourinho, un

globe-trotter iconoclasta portato ad attribuire le sconfitte a chiunque tranne

che a se stesso. Le lamentele molto italiane del super-manager sull’Italia

sono diventate una costante, a dispetto del sostegno che la Fiat ha ricevuto

dallo Stato.

È una figura che non punta sulla simpatia ma sui risultati. Il limite di

questa posizione è che Marchionne, come Mourinho, deve vincere sempre. Per

l’amministratore delegato del gruppo Fiat vincere non significa soltanto

condurre una brillante operazione finanziaria come quella che ha portato

Torino a unirsi con la Chrysler: significa vendere più macchine degli altri e

recuperare le quote di mercato erose ovunque, soprattutto in Italia. Sul

mercato nazionale lo svantaggio con il modello Avvocato è chiaro. Se, come

dice Marchionne, l’Italia è un paese come un altro e, in fondo, non è neppure

certo che Torino mantenga il quartier generale rispetto a Detroit, il senso di

appartenenza viene meno. Se l’operaio e l’impiegato comprano meno Fiat, i dati

continueranno a essere negativi.

Eppure Marchionne non mostra le debolezze dell’Avvocato che, per vanità o per

affetto verso i suoi dipendenti, firmò l’accordo sulla scala mobile con la

Cgil di Luciano Lama. La sostanza parla di un uomo molto abile a destrutturare

le relazioni sindacali nei principali stabilimenti del gruppo, a promettere

investimenti colossali ma piuttosto vaghi e a concretizzare il lavoro

predisposto da chi lo ha preceduto, come quando, all’inizio del suo mandato,

ha incassato 1,5 miliardi di euro da General Motors in cambio della rinuncia

della casa americana a comprare la Fiat. Il meccanismo era stato concepito da

Paolo Fresco, presidente della Fiat dal 1998 al 2002.

Marchionne ha potuto contare sul prestito da tre miliardi di euro, il

cosiddetto «convertendo Fiat», concesso dalle banche nel 2002 - poco prima

della morte dell’Avvocato e della breve presidenza di Umberto -, quando il

gruppo torinese sembrava in coma irreversibile. Poi ha vissuto dall’esterno, e

senza danni giudiziari, la complessa operazione sull’equity swap del

convertendo che nel 2005 ha consentito all’accomandita Agnelli di conservare

il 30 per cento del gruppo, evitando che una quota consistente finisse nelle

mani delle banche creditrici. Ciò è avvenuto attraverso un’operazione che è

stata in seguito sanzionata dalla Consob. Vediamola in breve.

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Sgambetti alle banche e liti sull’eredità

Nell’aprile del 2005 i mercati sono nervosi perché sanno che la Fiat non può

rimborsare il convertendo. Le azioni del gruppo torinese crollano a 4, 52 euro,

ma subito dopo cominciano a crescere perché qualcuno sta rastrellando grandi

quantità di azioni Fiat sul mercato. Chi è? Interpellata in proposito dalla

Consob, la Fiat risponde che non lo sa. Ma è falso. Infatti la Exor ha

incaricato la banca d’affari Merrill Lynch di fare incetta di azioni Fiat da

rivendere in conto futuro alla stessa Exor. Nel settembre del 2005, alla

scadenza del prestito convertendo, Fiat vara l’aumento di capitale e riscatta

le azioni oggetto del contratto con la banca americana, ritornando in possesso

del 30 per cento e mettendo fuori gioco le banche creditrici.

Questo marchingegno finanziario è stato impostato dal vertice dell’Ifil, cioè

da Gabetti, Grande Stevens e Virginio Marrone. Il terzetto ha pagato qualche

passaggio troppo disinvolto con una maximulta della Consob per false

comunicazioni al mercato e con un processo per aggiotaggio a Torino. La

sentenza ha assolto tutti gli imputati, nonostante le richieste dell’accusa

sostenute dal procuratore capo Giancarlo Caselli, appassionato tifoso

bianconero.

Va notato che nel settembre del 2005 Andrea Agnelli ha preso posizione sul

convertendo con un’intervista a «Il Foglio». Secondo lui, non era necessario

che la famiglia sborsasse i soldi necessari a tornare al 30 per cento, in

posizione di preminenza rispetto alle banche. Secondo Andrea, la Fiat poteva

sopravvivere come public company. Forse Andrea voleva riprendere la strategia

del padre che, negli anni Ottanta, per una volta d’accordo con Cuccia, era

favorevole a cedere l’auto ai tedeschi della Daimler, contro il parere di

Gianni che finì per prevalere. O forse pensava che, con un’accomandita meno

influente, il ramo dell’Avvocato avrebbe contato di meno e lui avrebbe avuto

più spazio. Il quotidiano di famiglia, «La Stampa», si era affrettato a

replicare che l’allora trentenne figlio di Umberto aveva solo il 10 per cento

circa dell’accomandita e che si trovava all’Ifil come semplice stagista.

Oggi Andrea ha un posto nel consiglio della Fiat, ma è abbastanza ai margini.

A Torino certe mancanze di cautela con i giornali si ricordano a lungo.

Marchionne, invece, sembra godere di ampia autonomia rispetto al giovane

Elkann e allo staff dei cardinali (Gabetti e Grande Stevens). Jaki è stato

indebolito dalla questione ereditaria con la madre Margherita, che ha accusato

proprio Gabetti e Grande Stevens di averle nascosto una fetta gigantesca

dell’asse ereditario del padre Gianni, circa 2000 miliardi di lire depositati

all’estero.

Durante gli anni della lite e fino alla definizione del procedimento penale

con la sconfitta di Margherita, Jaki si è trovato nella posizione sgradevole

di mediatore fra il contenzioso legale avviato dalla madre, che lui non

condivide, e la difesa di Gabetti e Grande Stevens, ossia, in ultima analisi,

del nonno, accusato di essere uno dei tanti imprenditori italiani impegnati

nella costituzione di un tesoretto di fondi neri all’estero.

In parallelo al processo penale, nel 2010 è stato definito il contenzioso con

il fisco che, per la questione dell’eredità nascosta, ha ricevuto 100 milioni

di euro (il 10 per cento dell’ipotetico tesoretto) divisi a metà fra

l’accomandita Agnelli e le due litiganti Margherita e la madre Marella

Caracciolo, la vedova dell’Avvocato.

In questa situazione instabile alcuni pensano che potrebbe essere Marchionne

il prossimo padrone del gruppo, con una riedizione più avveduta del tentativo

fatto da Giuseppe Morchio nel vuoto di potere creatosi durante la malattia di

Umberto. Morchio, manager Pirelli per ventun anni e amministratore delegato

della Fiat per quindici mesi, è stato allontanato nel maggio del 2004, subito

dopo la morte del Dottore, e sostituito appunto con Marchionne.

L’attuale capo dell’azienda Fiat ha un rapporto molto buono con il sistema

bancario nazionale e internazionale, tanto che fino al 2009 è stato

vicepresidente di Ubs, il maggiore istituto elvetico insieme al Crédit Suisse.

In questa fase dell’economia italiana, tutti hanno paura di tutto. Che

Marchionne se ne vada e che resti. Che ceda Fiat industrial, la parte più

redditizia del gruppo con i camion e le macchine movimento terra, e che non la

venda quando potrebbe ricavare una cifra molto alta. Il pronostico è aperto

tanto quanto lo è per il rilancio della Juve.

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Stadi e centri commerciali

Il lavoro di Andrea Agnelli per la famiglia è la Juventus. Il figlio del

Dottore ha anche un vasto patrimonio e diverse società in proprio, come si

vedrà. Ma sono attività che in massima parte passano inosservate, a eccezione

del golf dei Roveri, nel parco della Mandria a Fiano Torinese. Lì Andrea vive

e da lì sta tentando di trasformare mazze e buche in una pratica un po’ meno

d’élite, sulla scia dei giovani campioni italiani emergenti, Matteo Manassero

e i fratelli Molinari.

Il primo successo di Andrea è stata l’inaugurazione del nuovo stadio nel

settembre del 2011. È il secondo impianto di proprietà per una squadra di

serie A dopo il Giglio di Reggio Emilia, costruito con i soldi dei tifosi e di

Calisto Tanzi, allora proprietario della Giglio, e inaugurato proprio da un

Reggiana-Juventus nel campionato 1994-1995. Da solo, lo Juve Stadium dovrebbe

portare 30-35 milioni di euro all’anno di ricavi aggiuntivi. Il nuovo impianto

è sorto sull’area del Delle Alpi che, a sua volta, era uno degli stadi più

nuovi della serie A, costruito in occasione dei Mondiali di Italia ’90 con una

spesa di 200 miliardi di lire. L’opera era stata realizzata dall’impresa

Cogefar di Vincenzo Romagnoli, poi processato per tangenti, che aveva dovuto

cedere la sua azienda nel 1989, durante i lavori al Delle Alpi. A comprare fu

Impresit, cioè Fiat, che nella fase romitiana diversificava in ogni possibile

settore, con conseguenze infelici sui conti del gruppo.

Lo Juve Stadium è un pallino ereditato dall’ex amministratore delegato della

Juve Antonio Giraudo, assertore convinto dello stadio di proprietà. Per

assegnare i lavori il club ha indetto una gara. Hanno partecipato la Cmb,

un’impresa del mondo delle cooperative rosse, e un’associazione fra la Gilardi

e la Rosso che ha prevalso con un’offerta di poco superiore ai 70 milioni di

euro e un ribasso consistente rispetto agli 85 milioni di euro previsti dalla

base di gara. Come spesso accade in Italia, chi perde dà la colpa all’arbitro.

Cmb ha mal digerito lo sconto del raggruppamento Gilardi-Rosso, che in effetti

giocava in casa.

La Gilardi, in particolare, è un’impresa torinese in rapporti molto stretti

con la galassia Fiat. Per conto del gruppo automobilistico ha ristrutturato

varie aree industriali come Mirafiori, Cassino e l’ex area dell’Alfa Romeo di

Arese. Durante la gestione della Triade ha partecipato al progetto Mondojuve,

un centro commerciale da mezzo milione di metri quadrati che dovrebbe sorgere

fra Nichelino e Vinovo, nelle vicinanze dei campi di allenamento della

squadra. Concepito da Giraudo, Mondojuve doveva essere realizzato entro il

2004, ma i costi alti e i ricavi incerti hanno rinviato l’apertura dei

cantieri al luglio del 2011. La fine dei lavori è prevista per il 2013.

Tuttavia l’immobiliare in Italia può rendere bene anche senza ruspe e

betoniere, grazie al trading delle opzioni che ha fatto la fortuna dei

«furbetti del quartierino». Basta avere il diritto di costruire qualcosa da

qualche parte e metterlo in vendita. La plusvalenza, almeno nella prima metà

degli anni Duemila, era assicurata. Così le opzioni sulla Campi di Vinovo,

società controllata dalla Juventus e dai titolari dei diritti sull’area, sono

state cedute alla Gilardi costruzioni generali nel marzo del 2006, appena due

mesi prima dell’inizio di Calciopoli. Dopo l’uscita di Giraudo i pagamenti

sono stati rinegoziati e le scadenze allungate per evitare contenziosi con

l’impresa.

L’appalto per lo stadio, una sorta di commessa «a pacchetto» con

l’investimento su Mondojuve (220 milioni di euro), ha sistemato le cose e

riportato l’armonia. Ma non per molto. Meno di due mesi dopo l’inaugurazione

lo stadio è finito sotto inchiesta per irregolarità nelle forniture

dell’acciaio.

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O la Borsa o la Libia

La prossima firma importante di Andrea sarà quella sul contratto dei naming

rights, il diritto a intitolare l’impianto a uno sponsor, come avviene in

Germania e in Inghilterra in cambio di decine di milioni di euro. C’è la tenue

speranza che il nuovo stadio possa rivitalizzare il patrimonio e il conto

economico della Juventus Football Club, e produrre nel contempo un effetto

positivo sull’andamento del titolo in Borsa. Anche in questo caso,

l’iniziativa di quotare la Juve risale alla gestione della Triade e, in

particolare, ad Antonio Giraudo.

La quotazione in Borsa è stata realizzata nel dicembre del 2001, quando la

Juventus è stata collocata a 3, 7 euro per azione. A quel prezzo la sua

capitalizzazione complessiva di Borsa era pari a 447 milioni di euro. Era il

secondo valore di listino al mondo per una società di calcio dopo il

Manchester United. La porzione effettivamente ceduta sul mercato ha comportato

un incasso di 162 milioni di euro, di cui 100 sono andati alla controllante di

allora, cioè l’Ifi, controllato da quell’Ifil dove Andrea Agnelli sarebbe

finito a prestare servizio come «stagista». Il resto è finito nelle casse del

club.

A differenza della Lazio di Cragnotti, i corsi azionari dei Gobbi non hanno

mai conosciuto il rialzo, anche perché il collocamento è arrivato alla vigilia

di un crollo generale dei mer-cati dovuto allo scoppio della bolla hi-tech.

Nel 2006, prima della retrocessione per illecito sportivo, la quotazione si

era già ridotta di due terzi e la Juventus valeva circa 1,2 euro. Nel 2007 c’è

stato un aumento di capitale da 105 milioni di euro che ha accresciuto il

numero di azioni sul mercato e diluito il valore iniziale. A dieci anni dalla

quotazione, dopo l’estate di terrore finanziario del 2011, il titolo è sceso

intorno a 0,50 euro per azione, con una capitalizzazione di circa 110 milioni

di euro. Sempre molto meglio della Roma (circa 70 milioni di capitalizzazione

ai minimi) e della Lazio (circa 22 milioni) messe assieme. Ma non è una grande

consolazione per chi ha comprato ai massimi.

Prima del secondo aumento di capitale dopo Calciopoli, quello da 120 milioni

di euro deciso nel 2011, il flottante di Borsa della Juventus, ossia la quota

di azioni libere e negoziabili sul mercato, era pari a poco meno di un terzo

del capitale. Come si è detto, il secondo azionista dopo la Exor era ed è

rimasta la Lafico della famiglia Gheddafi.

Il Colonnello ha sempre avuto una passione per la Fiat. È entrato nel

capitale nel 1976, uno degli anni di svolta del gruppo, con i cento giorni di

Carlo De Benedetti e l’elezione di Umberto Agnelli in Parlamento. La decisione

di aprire ai fondi libici aveva scatenato polemiche internazionali ed era

stata accettata soltanto perché il garante era l’Avvocato, in ottimi rapporti

con l’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger, uno di quelli che

consideravano Muhammar Gheddafi un terrorista su scala globale.

Il primo investimento della Lafico in Fiat è durato dieci anni. Nel 1986,

dopo l’attentato alla discoteca La Belle di Berlino attribuito a Gheddafi e il

bombardamento americano di ritorsione su Tripoli e Bengasi, l’Onu aveva messo

sotto embargo l’economia libica. La Lafico aveva approfittato dell’uscita

forzata dal capitale di Torino per incassare una plusvalenza di 2, 6 miliardi

di dollari. Il Colonnello ha ripetuto l’operazione nel 2000, in un altro

momento critico del gruppo torinese, comprandosi il 2 per cento dell’azienda

automobilistica. In omaggio alle sue relazioni privilegiate con l’Italia di

Berlusconi sono poi arrivati gli investimenti in Unicredit (la prima banca

italiana insieme a Intesa), in Finmeccanica (gruppo di Stato all’avanguardia

nei sistemi di difesa) e nell’Eni.

Nel marzo del 2011, durante la sua visita con Jaki Elkann al salone

dell’automobile di Ginevra, Marchionne ha smentito che la famiglia Gheddafi o

fondi di investimento libici, in particolare la Lybian Investment Authority

(Lia) creata nel 2006, siano ancora azionisti del gruppo Fiat. Ma i veicoli

degli investimenti somigliano alle vie del Signore e, come Marchionne può

insegnare, sono infiniti. È possibile che il clan nordafricano abbia soltanto

frazionato la sua partecipazione nel capitale dell’azienda al di sotto della

quota minima di segnalazione del 2 per cento.

Sulla fedeltà della Lafico alla Juve, invece, non ci sono dubbi. La quota è

rimasta ben visibile anche dopo la fine della guerra civile. L’ingresso nel

club di calcio è arrivato a ridosso del secondo acquisto di azioni Fiat, nel

febbraio del 2002, undici mesi prima della morte dell’Avvocato e due anni

prima che l’Onu togliesse le sanzioni economiche al regime di Tripoli. A

spingere per l’investimento nel campionato di calcio italiano è stato

l’ingegner Sa’adi Gheddafi, uno dei figli di Muhammar e ospite a Tripoli della

Supercoppa italiana Juventus-Parma proprio nel 2002, con foto ricordo dopo il

match abbracciato a Giraudo e ai bianconeri vincitori.

Sa’adi aveva il sogno di giocare in serie A per coronare una carriera

folgorante nel campionato libico, dove i difensori svenivano di fronte ai suoi

dribbling e i portieri si inchinavano al sinistro letale di colui che, fra i

vari incarichi, era capitano della nazionale e presidente della locale

Federcalcio. Quello che sembra il soggetto cinematografico de L’allenatore nel

pallone 3, in Italia è diventato realtà. L’ingegner Sa’adi ha fatto la sua

trafila nei club di serie A amici del sistema Triade. Si è visto come

azionista nella Triestina e come centrocampista offensivo nel Perugia di

Luciano Gaucci e nell’Udinese di Gianpaolo Pozzo. Una mezz’ora di gioco in tre

anni non si nega a nessun miliardario volenteroso. A Perugia come a Udine,

albergatori, ristoratori e commercianti ricordano ancora con affetto le spese

faraoniche del clan di Sa’adi. Meno piacevoli le memorie dei connazionali di

Sa’adi: l’ingegnere-calciatore, sotto mandato di cattura Interpol dopo la

caduta del regime di Tripoli, è accusato dell’omicidio di un allenatore che

l’aveva criticato e di avere retto con il terrore e le minacce il calcio

libico. All’aumento di capitale della Juventus deciso a fine 2011 la Lafico

non ha potuto aderire a causa del blocco dei fondi del clan Gheddafi da parte

dell’Unione europea.

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Giraudo, il terzo azionista della Juve

L’altro azionista di rilievo che ha avuto problemi di fondi sequestrati è

stato proprio Giraudo. Quando era amministratore delegato della Juve, Giraudo

ha goduto di un piano di stock options che l’hanno portato a diventare il

terzo azionista della Juventus dopo la famiglia Agnelli e la Lafico, con una

quota massima del 3,6 per cento che è arrivata a valere oltre 10 milioni di

euro.

Nel dicembre del 2009 Giraudo è stato condannato a tre anni di reclusione in

primo grado per associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva con

gli ex arbitri Lanese, Pieri e Dondarini. Il verdetto, emesso con il rito

abbreviato quasi due anni prima della condanna di Moggi, ha aperto la strada

al risarcimento danni per le parti civili, cioè quei club (Brescia, Bologna,

Atalanta) che sono retrocessi a causa delle pressioni della dirigenza

juventina sugli arbitri. Il Brescia, difeso dall’ex magistrato antiterrorismo

Bruno Catalanotti, ha ottenuto un sequestro da 12 milioni sui beni di Giraudo.

Il problema è trovarli. Intanto il pacchetto di Giraudo è sceso sotto la

soglia di rilevanza Consob del 2 per cento. Come per l’investimento libico in

Fiat, non è chiaro se l’ex manager abbia ceduto tutto o se, come pensano gli

avvocati delle società danneggiate, con-servi ancora titoli della Juventus per

almeno tre milioni di euro di valore. Finora i legali hanno bussato con scarsi

risultati alla porta delle banche che avevano in deposito la parte sostanziale

del tesoretto italiano di Giraudo.

Dopo l’uscita di scena per Calciopoli nel 2006, l’ex amministratore

bianconero si è trasferito a Londra con beni e famiglia. Lì ha avviato

un’attività immobiliare e ha, fra altri affari, trovato casa a Fabio Capello,

amico e allenatore juventino dei tempi d’oro passato a guidare la nazionale

inglese in tandem con Franco Baldini, accusatore in tribunale della coppia

Giraudo-Moggi prima di tornare a lavorare alla Roma con Thomas Di Benedetto.

La piccola immobiliare di Giraudo, Erba e steppa, una società semplice tipica

delle gestioni finanziarie-immobiliari degli Agnelli, non basta a risarcire il

danno, anche perché è stata ceduta da Giraudo alla moglie Maria Elena Rayneri

l’8 giugno 2006, in piena Calciopoli.

Subito dopo la condanna a tre anni di Giraudo si era parlato di una possibile

azione di responsabilità della Juventus nei confronti degli ex amministratori.

Ma era il 2009 e la squadra si trovava ancora sotto la gestione del ramo

Elkann-Avvocato. Di quella gestione non resta quasi più nessuno e soprattutto

la guida è passata ad Andrea. Non sarà certo lui a fare la guerra a Giraudo.

Vediamo perché.

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Il clan dei fedelissimi

A Torino ci sono sempre stati due modi di lavorare. Quello giusto, con la Fiat,

e quello sbagliato, senza la Fiat. Dai vertici di corso Matteotti dipendevano

centinaia di imprenditori dell’indotto che prosperavano o portavano i libri in

tribunale secondo il ciclo capriccioso dell’auto e secondo le protezioni di

cui godevano tra le cordate interne al primo motore del-l’economia italiana.

Cordate anch’esse soggette agli equilibri mutevoli del potere.

Persino adesso che l’azienda guidata da Marchionne è diventata meno

italocentrica, certi modi di strutturare le relazioni sembrano duri a morire.

Andrea Agnelli non sarà l’erede al trono ma è pur sempre un giovane principe,

con un suo esercito, i suoi alleati in famiglia e i suoi ufficiali reclutati

all’esterno, siano manager o imprenditori a loro volta. Il suo senso di

appartenenza al gruppo dei fedelissimi del padre è totale e lo si vede nelle

attività di Andrea che non sono né Fiat né Juventus. Il presidente del club

bianconero è proprietario di un patrimonio immobiliare molto cospicuo e in

parte condiviso con la sorella Anna attraverso alcune società semplici (A e A,

Flm 75, Natale 85, Repete, un’azienda agricola nel borgo toscano di Cetona)

che, a differenza delle società di capitale, non hanno l’obbligo di pubblicare

i documenti contabili. La gestione di alcune di queste società è stata

affidata a Giraudo finché l’ex amministratore delegato juventino non ha

preferito lasciare le cariche in seguito al processo di Calciopoli e alla sua

condanna in primo grado.

Il vertice della Triade è un esempio tipico di come in Fiat si salga a ritmi

da scalata in bicicletta e si scenda alla velocità di una Formula Uno. Nel

gennaio del 2006 Giraudo era in predicato di lasciare le tribune degli stadi

per rientrare alla casa madre, forte di una Champions League e sei scudetti,

più un settimo in arrivo. Dopo le intercettazioni, c’è stato un allontanamento

che non ha però scalfito il rapporto con Andrea Agnelli, costruito quando il

giovane principe era un bambino e alla guida del ramo cadetto c’era ancora il

Dottore.

In passato, Giraudo ha seguito operazioni delicate. Per esempio, ha

amministrato l’immobiliare Flm 75, contenitore creato ai tempi di Umberto, e

ha seguito la liquidazione da Flm di Avery Howe, la vedova di Giovannino, e

della figlia Virginia Asia Agnelli, un’adolescente che può godere di circa

mezzo miliardo di euro incassati dal nonno Umberto con la cessione della sua

quota nella Piaggio, l’azienda della prima moglie.

Un’altra società fondamentale per il ramo degli umbertiani è la Royal Park

Estate che ha in portafoglio l’impianto di golf dei Roveri, nel parco della

Mandria a Fiano Torinese. Di questa spa, presieduta da Allegra Caracciolo,

inizialmente Giraudo controllava il 60 per cento delle azioni, mentre il 40

per cento era di proprietà di Andrea Nasi, figura chiave delle relazioni

familiari-affaristiche di Andrea. È figlio di Giovanni e nipote di Carlo Nasi

e Aniceta Agnelli, la primogenita del Senatore. In altre parole, il

capostipite Giovanni Agnelli è il bisnonno sia di Andrea Nasi sia di Andrea

Agnelli.

Coetaneo e vecchio amico di Giraudo, Nasi appartiene a uno dei rami

principali della famiglia Agnelli ed è rappresentato dal figlio Alessandro

(classe 1974) come socio accomandatario dell’Agnelli Sapa e come consigliere

di amministrazione di Exor. Andrea Nasi è la persona fisica con il pacchetto

più grande dell’accomandita (4,92 per cento).

Royal Park Estate ha effettuato investimenti per quasi 20 milioni di euro

affidandoli alla Semana, società schermata dalle due fiduciarie di Grande

Stevens (Simon e Nomen) e citata nel processo su Calciopoli come veicolo per

finanziare gli ultras bianconeri in violazione della legge legge Pisanu sulla

sicurezza degli stadi, entrata in vigore nell’ottobre del 2005. Poi è stata

trasferita sotto il controllo della newco I Roveri, fondata nel settembre del

2010. Tra i soci dei Roveri ci sono Andrea Agnelli con la sorella Anna, la

madre Allegra e la moglie Emma Winter, oltre ad Andrea Nasi, Maria Elena

Rayneri (moglie di Giraudo) e un altro personaggio chiave del gruppo, Roberto

Ginatta, con la moglie Gloria Cravotto, erede della famiglia di editori

milanesi Treves.

Ginatta è il tipico imprenditore cresciuto sotto l’ombrello della Fiat, con

due aziende del settore automotive come la Rgz e la Stola. Dalla capogruppo ha

comprato nel 2002 la Magneti Marelli After Market per poi rivendergliela

cinque anni dopo.

È stato in affari nel trasporto aereo (cargo) con l’ex direttore marketing

della Juve giraudiana, Romy Gai, e si è interessato all’acquisto dell’Einaudi

dalla Mondadori, che però non aveva alcuna intenzione di vendere.

Nel 2008 Ginatta aveva accompagnato l’avventura imprenditoriale in proprio di

Andrea Agnelli creando la Investimenti industriali. La società, che all’inizio

vedeva una piccola partecipazione di Giraudo, è ancora in piedi e appartiene

per metà a Ginatta e per metà alla Lamse, una delle holding più attive di

Andrea e della sorella Anna. Lamse ha rilevato una quota di Add, una casa

editrice lanciata nel 2010 dove figurano anche Michele Dalai e Davide «Boosta»

Dileo dei Subsonica. La prima uscita di Add è stata un libro-dialogo (Di sana

e robusta Costituzione) fra l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi

Scalfaro e Giancarlo Caselli, il procuratore che voleva condannare i vertici

Exor.

Andrea è amministratore indipendente, quindi non azionista, dell’Editoriale

Vita specializzata nel terzo settore. Pur essendo dedita al non profit, Vita è

quotata alla Borsa di Milano nel settore Aim (Alternative investment market)

dedicato alle piccole imprese.

Lamse ha anche rilevato il 17 per cento di Lucos energie alternative, che ha

il suo indirizzo torinese in corso Galileo Ferraris, a pochi numeri civici

dalla sede della Juventus. Per adesso, Lucos vanta un intervento di

riqualificazione dell’impianto di pubblica illuminazione nel comune di

Villagrande Strisaili nella provincia sarda dell’Ogliastra. Lo slogan, non del

tutto compatibile con quello della Ferrari, è «l’energia più pulita è quella

che non consumi». Lamse ha investito anche all’estero nella svizzera Katarsis

Capital Advisors (società di gestione del fondo di prodotti assicurativi

Eskatus), nel fondo lussemburghese di private equity Optimus e nella

lussemburghese Bluegem.

Oltre ad Andrea, l’advisory board di Bluegem è composto da Rocco Sabelli,

amministratore delegato di Alitalia, Mario Greco, consigliere di Saras,

l’Espresso, Indesit, Università Bocconi, ed Enrico Vitali, già membro dello

studio commerciale e tributario Tremonti, Romagnoli, Vitali, Piccardi fondato

da Giulio Tremonti nel 1990.

Nei collegi sindacali delle società di Andrea ricorre il nome di Massimo

Ballario, ex amministratore della International Sports Promotion, società

attiva ai tempi della Triade e con proprietà schermata dalle solite fiduciarie

Nomen e Simon.

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Joined: 14-Jun-2008
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Sudditanze e doping

In Fiat e alla Juventus resta al vertice chi sa vendere macchine e vincere

partite. I misticismi finanziari di Marchionne e il revanscismo di Andrea

sugli scudetti mal tolti avranno vita breve senza risultati. Entrambi sanno

che contano solo quelli e non la simpatia, con buona pace di Lapo. Anche

Moratti era più simpatico quando perdeva e la Triade lo guardava dall’alto in

basso.

Del resto, la Juventus stenta a essere simpatica anche perdendo. Al club

torinese, il più seguito in Italia come numero di tifosi, si possono

rimproverare decenni di sudditanza psicologica imposta sulla classe arbitrale

così come la Fiat imponeva la sua sudditanza ai politici.

Sulla scarsa simpatia che tocca alla Juventus pesa anche il processo per

doping avviato nel 1998 da Raffaele Guariniello, pubblico ministero torinese e

tifoso juventino come Caselli. L’inchiesta è stata aperta dopo le

dichiarazioni dell’allenatore Zdenek Zeman sul ricorso eccessivo alla farmacia

da parte dei bianconeri. Durante le deposizioni al dibattimento, i campioni

juventini si sono mostrati depressi o smemorati o troppo timidi per rispondere

al giudice. In sostanza, nel processo di primo grado è emerso che i giocatori

assumevano integratori ma che questi non erano nella lista delle sostanze

proibite e che non venivano prescritti per migliorare le prestazioni sportive,

ma soltanto per esigenze terapeutiche. L’uso di eritropoietina, la sostanza

vietata dal Comitato olimpico internazionale e dunque bandita in tutti gli

sport, non è stato provato. La sentenza ha assolto Giraudo e condannato il

medico della Juventus Riccardo Agricola. In secondo grado, anche Agricola è

stato assolto dall’imputazione di doping e frode sportiva (dicembre 2005). Il

ricorso della Procura generale di Torino contro il verdetto è stato accolto

dalla Cassazione nel marzo del 2007, che ha ribaltato le sentenze precedenti.

La Suprema corte ha confermato la somministrazione di farmaci vietati

(corticosteroidi) ai giocatori, ma non ha chiesto la ripetizione del processo

di secondo grado per intervenuti termini di prescrizione.

In termini calcistici, si direbbe una vittoria della Juventus per un rigore

dubbio ottenuto a tempo scaduto. Ma le grandi squadre, si dice in Italia,

vincono così.

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Joined: 24-Oct-2006
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In certi passaggi è molto pesante. Io comincerei a pensare a qualche querela.

O magari a qualche telefonata, visto che alla fin fine il gruppo espresso-repubblica è vicino alla famiglia.

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Joined: 14-Jun-2008
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In certi passaggi è molto pesante. Io comincerei a pensare a qualche querela.

O magari a qualche telefonata, visto che alla fin fine il gruppo espresso-repubblica è vicino alla famiglia.

Ha vagliato a fondo tutti i personaggi (dieci) ritrattati, comunque.

E non m'è dispiaciuto come ha cercato di collegare rapporti politici, finanziari e sportivi.

Forse nel libro mancano solo schede e diagrammi riepilogativi.

Per chi non immagina quali e quante sinergie si dipanano dietro le quinte è

abbastanza illuminante.

Poi, certo, le valutazioni dell'autore vengono estremizzate fino a rischiare querele.

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Joined: 08-Jul-2006
21503 messaggi

turano

articolo banale e scontato

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Joined: 20-Apr-2009
40693 messaggi

In certi passaggi è molto pesante. Io comincerei a pensare a qualche querela.

O magari a qualche telefonata, visto che alla fin fine il gruppo espresso-repubblica è vicino alla famiglia.

Hai ragione, ci e' andato giu' pesante specie in questi due passaggi. Si ae' arrogato una sintesi di calciopoli che neanche la condanna a Moggi di primo grado nel processo di Napoli e' riuscita a dimostrare, questo sporco. Ho evidenziato in neretto, sotto, i due passaggi.

di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 9 febbraio 2012)

"Nel maggio del 2010 si è insediato Andrea, amatissimo dai tifosi perché

Agnelli di fatto e di nome, ma soprattutto per il suo legame esibito con

l'epoca in cui i bianconeri vincevano in campo e i dirigenti distribuivano

agli arbitri schede sim svizzere e slovene per evitare che i colloqui più

imbarazzanti fossero intercettati."

"Agnelli ha poi aggiunto, riecheggiando un collega in

rossonero, che la colpa di Calciopoli è dei giornali, perché "rivelare

intercettazioni coperte da segreto è un reato". Insomma, se i giornali non

avessero denunciato che la procura federale stava dormendo sulle suddette

intercettazioni, la procura avrebbe continuato a dormire, come hanno diritto

di fare tutti gli enti stanchi, e l'Inter non si sarebbe impadronita di

campionati altrui."

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Joined: 14-Jun-2008
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Fiat and the Agnelli family

Near-death experience

The rise and fall and rise of Italy’s premier car manufacturer

from the print edition of The Economist | Jan 28th 2012

Mondo Agnelli: Fiat, Chrysler, and the Power of a Dynasty.

By Jennifer Clark. Wiley; 360 pages; $29.95 and £19.99

20120128_BKP003_0.jpg

Vroom, vroom

LESS than a decade ago, Fiat, the largest private manufacturing company in

Italy, seemed bound for the scrapheap. The carmaker had celebrated its first

100 years in 1999 and had weathered other financial storms in the recent past.

However, when it had to negotiate a huge convertible loan with its bankers in

2002 the prospect that it would progress much further into its second century

looked slim. Yet Fiat survived and, in sorting itself out, was also able to

save another stricken carmaker.

Fiat’s own turnaround and its acquisition of a troubled Detroit motor

manufacturer, Chrysler, nearly three years ago offer an encouraging story of

businesses with their backs to the wall. For many Italians, though, the Fiat

saga is as much about the Agnelli family that controls it (with a 30.4%

stake). The ingredients of the story include wealth, glitz, glamour, suicide,

substance abuse and a multi-million-euro inheritance row. Gianni Agnelli

(pictured above), a grandson of the founder and Fiat’s chairman from 1966

until 1996, revelled in a playboy’s life in the 1950s and 1960s and remained a

style icon for Italians until his death in January 2003.

Jennifer Clark, a Milan-based business journalist, has written the first

account in English about Fiat and the Agnellis since Alan Friedman, then Milan

correspondent for the Financial Times, published “Agnelli, Fiat and the

Network of Italian Power” nearly a quarter of a century ago. Mr Friedman

examined Fiat’s place in Italy’s web of financial, industrial and political

relationships, covering the company’s arms business and its prominent Libyan

shareholders. Fiat is still in the public eye today, but Ms Clark avoids

sensitive political issues. And she takes care not to offend the family

although her book does venture into delicate matters, in particular the

suicide of Agnelli’s only son, Edoardo, and the ongoing row over Agnelli’s

will. His only daughter, Margherita, has instructed lawyers to fight both her

mother, Marella Agnelli, and her eldest son, John Elkann, Fiat’s chairman

since 2010. (Mr Elkann is a director of The Economist’s parent company).

Ms Clark’s assessment of Agnelli as “charming, intelligent, curious” and yet

unable “to make the tough managerial decisions that the company needed” has

the ring of truth. Poor decision-making at the top was one of the reasons why

Fiat floundered in the early years of this century, although deaths in the

family played a part. (Giovanni Alberto, elder son of Gianni Agnelli’s younger

brother and heir, Umberto, died of cancer in 1997 at the age of 33, and

Umberto himself died in 2004, just 16 months after becoming chairman. ) That

Fiat had five CEOs in two years speaks of grim times. With the arrival of the

fifth, Sergio Marchionne, in June 2004, the management churn ended, Fiat got

to grips with its problems, took control of Chrysler and made progress in

putting it on track. Mr Marchionne now joins Vittorio Valletta who ran Fiat

for 20 years after the second world war and Cesare Romiti who did so in the

1980s and 1990s as managers to whom the family owes much.

The frantic period of crisis and cure between 2000 and the present, when

trusted octogenarian advisers, Gianluigi Gabetti and Franzo Grande Stevens,

also helped the family keep control of the firm, is Ms Clark’s focus. While

the emphasis is on the Agnellis and their firm, she was kept busy on both

sides of the Atlantic, speaking not only with Fiat folk in Italy but also with

several of the key characters at Chrysler. Ms Clark says her book was rushed

into print to keep pace with developments in Detroit. Hurried editing shows in

erratic chronology, direct speech whose sources are unclear and easily

avoidable errors. Even so, Ms Clark writes a cracking business yarn and warns

that for Fiat-Chrysler “much still remains to be done”.

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Joined: 08-Jul-2006
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Hai ragione, ci e' andato giu' pesante specie in questi due passaggi. Si ae' arrogato una sintesi di calciopoli che neanche la condanna a Moggi di primo grado nel processo di Napoli e' riuscita a dimostrare, questo sporco. Ho evidenziato in neretto, sotto, i due passaggi.

di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 9 febbraio 2012)

"Nel maggio del 2010 si è insediato Andrea, amatissimo dai tifosi perché

Agnelli di fatto e di nome, ma soprattutto per il suo legame esibito con

l'epoca in cui i bianconeri vincevano in campo e i dirigenti distribuivano

agli arbitri schede sim svizzere e slovene per evitare che i colloqui più

imbarazzanti fossero intercettati."

"Agnelli ha poi aggiunto, riecheggiando un collega in

rossonero, che la colpa di Calciopoli è dei giornali, perché "rivelare

intercettazioni coperte da segreto è un reato". Insomma, se i giornali non

avessero denunciato che la procura federale stava dormendo sulle suddette

intercettazioni, la procura avrebbe continuato a dormire, come hanno diritto

di fare tutti gli enti stanchi, e l'Inter non si sarebbe impadronita di

campionati altrui."

per te per noi

ma per altri 1000 10000 100000 persone questo è ciò che passa il convento

ha scritto solo banalità senza nessun analisi

oggi piove....a ferragosto bollino rosso....natale in famiglia....europa in crisi........schettino incapace.....

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CALCIO & AFFARI Ieri più 26,7% per il club bianconero

Juve prima anche in Borsa

Tifo e stadio carte vincenti

Gli investitori anticipano l’effetto Champions sui ricavi

Premiata pure la Roma (+8%): in arrivo nuovi finanziatori

di CAMILLA CONTI (Il Giornale 07-02-2012)

A Piazza Affari torna la «Febbre a 90’». Il termometro è schizzato per i

titoli delle società calcistiche Juventus e Roma che, durante laseduta di ieri,

sono stati entrambi sospesi per eccesso di rialzo: la Vecchia Signora ha

chiuso a quota 0,23 euro segnando un balzo del 26,76% e volumi da capogiro,

mentre il club giallorosso ha guadagnato quasi l’8% a 0,53 euro. Che cosa ha

scatenato gli acquisti sulle due società quotate? Partiamo da Torino dove

nonostante il deludente 0 a 0 con il Siena, la squadra del presidente Andrea

Agnelli e guidata Antonio Conte resta in testa alla classifica, e vede sempre

più avvicinarsi l’effetto Champions League sui ricavi.

Dietro al rally, riferiscono dalle sale operative, ci sarebbe l’assestamento

sul prezzo dell’aumento di capitale da 120 milioni appena concluso peraltro

con successo. I trader escludono, inoltre, che all’orizzonte ci sia un

possibile delisting: nello stesso prospetto relativo all’aumento è scritto

chiaramente che la società non verrà tolta dalla Borsa. Il club bianconero, di

fatto, ha un azionariato popolare: la Juventus ha chiesto 39 milioni ai suoi

40mila tifosi risparmiatori e alla fine ne ha incassati 33. Il tifo è il

dodicesimo uomo in campo, anche su quello di Piazza Affari: in tempi di fair

play finanziario i 41mila posti sempre pieni del nuovo stadio di proprietà,

contribuiscono a stabilizzare il patrimonio della società, rilanciando gli

utili e riequilibrando il peso delle entrate oggi troppo sbilanciate dalla

parte dei ricavi dalla vendita dei diritti televisivi.

Meno bollente, ma comunque calda, la seduta dell’As Roma che ieri ha fatto

registrare volumi decisamente superiori alla media giornaliera mensile. Dopo i

festeggiamenti in campo e fuori seguiti alla vittoria schiacciante (4 a 0)

contro l’Inter, è stato annunciato il rinnovo contrattuale di Daniele De Rossi,

altra colonna portante della squadra romana assieme a Francesco Totti. Il

nuovo contratto quinquennale prevede il riconoscimento di circa 10 milioni per

ciascuna stagione sportiva, oltre a premi individuali correlati sia al

raggiungimento di prefissati obiettivi sportivi della squadra, sia alle

presenze del calciatore nelle diverse competizioni. L’As Roma acquisirà,

inoltre, i diritti di sfruttamento commerciale dell’immagine del calciatore, a

cui saranno riconosciuti il 50% dei relativi ricavi. Nonostante sia

estremamente pesante in cinque anni (vale tre ricapitalizzazioni), il

contratto (su cui oltre al direttore generale Franco Baldini halavorato in

prima persona l’amministratore delegato Claudio Fenucci) viene letto come un

impegno finanziario forte verso lo sviluppo del club. Ma più che la notizia di

De Rossi, a scaldare il titolo sarebbero state le voci di un possibile

delisting che però, al momento, sarebbe troppo costoso per la nuova proprietà

americana. Senza dimenticare che il titolo è ancora sottovalutato al prezzo

attuale e che nei prossimi mesi sono attesi nuovi soci finanziatori

(soprattutto americani e cinesi) anche grazie all’accordo per lo stadio che

valorizzerà la società. Il club, inoltre, si è riavvicinato alla zona

Champions. Chi, invece, ieri non ha festeggiato in Borsa è la Ss Lazio: il

titolo della squadra biancoceleste ha perso il 2,4% dopo il 3-2 incassato dal

Genoa.

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Il titolo guadagna il 26%. Exor smentisce le voci di opa

Giallo sul rally della Juventus

di ANDREA MONTANARI (MILANO FINANZA 07-02-2012)

Non possono essere state soltanto le tre giornate di squalifica comminate ieri

dal giudice sportivo a Zlatan Ibrahimovic, il fuoriclasse del Milan che

salterà la sfida-scudetto con la Juventus, ad avere messo le ali al titolo del

club bianconero ieri a Piazza Affari.

Né tantomeno può essere stato l'esito dell'ultima giornata di campionato, che

ha visto la Juventus pareggiare in casa con il Siena. Sta di fatto che il

mercato si interroga sull'improvvisa impennata messa a segno ieri dal titolo

della squadra torinese che, dopo una sospensione a inizio seduta per eccesso

di rialzo (+12,92%), ha terminato le contrattazioni guadagnando addirittura il

26,76% e chiudendo a 0,23 euro per una capitalizzazione (comprensiva

dell'aumento appena concluso) di 235 milioni. L'attenzione sulla società

presieduta da Andrea Agnelli è dimostrato anche dai volumi degli scambi: ieri

sono passate di mano 32,38 milioni di azioni (il 3,21% del capitale), contro

una media mensile di 7,6 milioni. A questo proposito, va segnalato che già

venerdì scorso erano stati trattati 45 milioni di titoli (4, 5% del totale).

Fatte queste considerazioni, sul mercato c'è chi immagina che nei prossimi

mesi la Juventus possa essere oggetto di operazioni straordinarie. La

controllante (63,77%) Exor continua a smentire le indiscrezioni relative a una

possibile opa pro-delisting (l'opzione è stata esclusa anche nel prospetto

relativo all'aumento di capitale da 120 milioni concluso lo scorso 30 gennaio),

eppure gli speculatori sono pronti a scommettere su un titolo che, va detto,

quota sempre meno di quanto valeva il 15 dicembre (0,248 euro), giorno nel

quale è stato fissato il prezzo della ricapitalizzazione (0,1488 euro), e poco

più della metà di quanto trattava a fine 2010 (0,40 euro).

Vi è poi chi evidenzia come il mercato potrebbe essere semplicemente tornato a

prestare attenzione a una società come la Juventus che oggi in borsa

capitalizza solo 235 milioni (valeva 594 milioni a metà dicembre e 964 milioni

a fine 2010); un valore di borsa che non sembra commissurato al giro d'affari,

al bacino d'utenza e alle potenzialità sportive della squadra guidata

dall'allenatore Antonio Conte.

Resta il fatto che, secondo i broker, un'offerta finalizzata al delisting

consentirebbe alla Exor e quindi alla famiglia Agnelli di poter completare il

percorso di ristrutturazione della Juventus, che al termine dell'esercizio

2010-2011 perdeva 95,4 milioni, aveva una posizione finanziaria netta negativa

per 121,2 milioni e, in seguito alla moral suasion di Consob, ha varato un

aumento di capitale da 120 milioni.

Modificato da Ghost Dog

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