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CRAZEOLOGY

Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"

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IL MATTINO 07-12-2012

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Un premio per uscire dal gregge degli Agnelli

Gigi Moncalvo

Quasi quasi mi viene voglia di lanciare una provocazione, che credo possa dimostrare lo stato della stampa (e della libertà di stampa) in Italia molto più di qualsiasi convegno, classifica mondiale, predica di Celentano, post di Beppe Grillo, o dissertazione con la bocca a c**o di gallina dell’ex assessore genovese della giunta della famosa sindaco Marta Vincenzi, il noto Carlo Freccero, eroica vittima del sistema e del regime con stipendio e strapuntino Rai anche se si lamenta che non gli danno nulla da fare (e allora perché non si dimette e, se è così pregiata la sua opera, non si mette sul mercato e cerca un altro datore di lavoro?).

La provocazione è questa: mi impegno da queste pagine a offrire un premio di 50.000 euro (diconsi cinquantamila) al primo giornalista che avrà il coraggio di parlare - anche male, anche malissimo, se crede (ci mancherebbe altro) - del mio nuovo libro intitolato “Agnelli segreti - Peccati, passioni e verità nascoste dell’ultima ‘famiglia reale’ italiana”, edito da Vallecchi e da poche settimane in vendita, e in classifica.

Dopo aver lanciato il premio veniamo, come è consuetudine, alle restrizioni imposte dal “regolamento”. Il premio è riservato solo ai giornalisti dei due quotidiani di casa Agnelli, in primis “La Stampa” e “Corriere della Sera”, e si estende anche a settimanali della RCS Group, presieduta da Paolo Mieli: “Oggi” e “Il Mondo”, tanto per fare un esempio, e soprattutto “A”, diretto da Maria Latella, sempre attenta alle foto e alle notizie (positive) che riguardano, John, Lapo, Lupo, Lavinia, Leone, Oceano, Vita.

La scommessa è troppo facile, direte: è certo che, nonostante la mia disponibilità e generosità, non ci saranno concorrenti e quindi io non dovrò mai pagare questa somma. Come è possibile, infatti, che ci sia qualcuno nelle redazioni dei due giornaloni di Torino e Milano, qualche collega che “osi” fino a questo punto e sia così sconsiderato da violentare se stesso e vincere la propria vocazione all’autocensura, specie quando si tratta della “Real casa” proprietaria? Pensate che si riesca a trovare qualche giornalista talmente libero e sconsiderato che parli e scriva - lo ripeto: anche male, anche malissimo - di un libro molto documentato nelle sue 532 pagine che fa pelo e contropelo a John Elkann, eminente presidente dell’Editrice La Stampa e membro del patto di sindacato di RCS Group, cioè padrone del Corriere? Senza pensare che nel volume sono ampiamente citati, e non sempre in maniera commendevole per i loro comportamenti, altri personaggi di un certo peso nel panorama editoriale: l’avv. Franzo Grande Stevens (a lungo membro del cda del “Corriere” insieme al suo adorato Jaky Elkann), Luca di Montezemolo (ex presidente della FIEG, Federazione editori giornali, cui sono attribuibili molte sfolgoranti carriere e direzioni), Giovanna Recchi (potente signora torinese, figlia di Marida Recchi, dell’omonimo impero di costruzioni, sorella del presidente dell’ENI, ma soprattutto e da pochi anni consorte felice dell’ottantacinquenne Gianluigi Gabetti, il deus-ex-machina dell’Impero Fiat oltreché “precettore”, tutore, custode, controllore, mentore, e chissà quante altre cose, del pallido ed emaciato Jaky). Ah, dimenticavo: la signora Recchi, indicata col suo cognome da nubile e non da maritata, ovviamente, fa parte del Cda dell’Editrice La Stampa, è ampiamente citata nel libro - guarda caso era stata “messa”, in qualità di psichiatra vicino, molto vicino al povero Edoardo Agnelli (scomparso tragicamente dodici anni fa), primogenito dell’Avvocato - ma soprattutto il suo illustre e potente marito è il vero protagonista di gran parte del volume, sia davanti che dietro le quinte di molti affari, operazioni, visite a Vaduz, statuti di stiftung, anstalt e fondazioni piene di strane clausole. Molte delle quali davvero sorprendenti, dato che andavano contro gli interessi della moglie e dei due figli dell’Avvocato: e quindi viene da chiedersi se Gianni Agnelli le ha firmate “spontaneamente”, oppure – per caso - gli sono state invece fatte firmare, o è stato indotto e “convinto” a firmarle proprio dai suoi due “consiglieri”, cioè Gabetti & Grande Stevens? E sulla base di quale “potere di convincimento”?

Sotto questo profilo il libro dimostra, con decine e decine di incredibili documenti, che i due “consiglieri della Corona” erano al corrente degli affari dell’Avvocato, dato che hanno firmato insieme a lui mandati fiduciari e altri tipi di contratti di mandato, in almeno cinque occasioni. Qualcuno obietterà che si tratta della scoperta dell’acqua calda: i due – che Margherita Agnelli definisce “les usurpateurs”, gli usurpatori, in un libro inedito che è stato stampato in Svizzera in sole cinque copie riservatissime e di cui una è entrata in nostro possesso (ne parleremo in un prossimo articolo) – hanno sempre sostenuto, anche in un’aula di tribunale e nelle loro memorie difensive per il “processo del rendiconto”, che non sapevano nulla degli affari di Gianni Agnelli. Anzi, hanno usato parole di disprezzo nei confronti della figlia dell’Avvocato, che li ha chiamati in causa per ottenere da loro, in qualità di co-erede insieme a sua madre, il rendiconto del patrimonio del padre che lei ritiene sia nascosto all’estero. Non siamo mica “ragionieri” o contabili – e non vogliamo nemmeno essere confusi nemmeno con Brunetto, il cameriere che riempiva anche la vasca da bagno dell’Avvocato -, hanno risposto con alterigia di fronte alle legittime richieste della figlia a caccia dei miliardi (di euro) che non si trovano più!

Ebbene, nel mio libro ci sono le prove che i due, invece, “non potevano non sapere”, secondo una formula tanto utilizzata nel passato e nel presente ogni volta in cui c’è di mezzo qualche potente che agisce in modo palese od occulto. Il fatto è che ci sono due sentenze di tribunale, ovviamente a Torino, che hanno sposato questa tesi con una motivazione e un risvolto davvero singolare: che la figlia non è riuscita a dimostrare che Gabetti & Grande Stevens avevano ricevuto un contratto di mandato, scritto od orale, da Gianni Agnelli. Al che Margherita ha replicato: “Ma come potevo dimostrarlo se la Corte non ha nemmeno ammesso i quaranta testimoni, tra cui i due diretti interessati, che i miei avvocati volevano interrogare in aula? Come si fa a provare una cosa se ti impediscono di farlo?”.

Fatte queste premesse è chiaro che i cinquantamila euro messi a disposizione di un giornalista “coraggioso” (o “sconsiderato” o “kamikaze”) che osi parlare di questo libro su uno dei giornali della Casa, non verranno sicuramente mai assegnati. Ma, per allargare il campo, e per far capire che i tentacoli dell’Ufficio Stampa Fiat – quello stesso che diffonde comunicati, come quello sui 19 operai assunti per ordine del Giudice del Lavoro di Roma, e subito dopo li smentisce, rivelando che regna una certa confusione che ai tempi della mitica signorina Rubiolo (o di Marco Benedetto, di Guido Coppini o di Sandro Casazza) al vertice della direzione comunicazione di corso Marconi non si era mai verificata - arrivano dovunque, in tutte le redazioni, allarghiamo il campo dei possibili concorrenti ammessi ad ambire a queste cinquantamila cucuzze. Oltre ai giornalisti di RCS e “La Stampa” ci mettiamo anche quelli di “Mediaset” e della Mondadori: state certi che anche loro staranno zitti e non scriveranno nulla, non perché non siano desiderosi di intascarsi cinquantamila piccioli ma perché non vogliono e non osano farlo. Le società televisive ed editoriali del Cavaliere infatti ogni anno intascano un bel gruzzolo di milioni di euro dalla Fiat sotto forma di pubblicità, sia televisiva che cartacea. Lo si è già visto quando ho proposto un’anticipazione al direttore di “Panorama” (non ha nemmeno risposto) o quando, come nel caso di Clemente J. Mimun direttore del TG5, per un libro precedente (“I Lupi & gli Agnelli”) gli inviai un sms rievocando un grosso favore che gli avevo fatto e chiedendogli se, almeno nella rubrica dei libri del suo TG, poteva parlare del volume. Nessuna risposta. Stavolta, ovviamente, non gli ho chiesto più nulla…

E pensare che anche programmi “coraggiosi”, come “Striscia la Notizia” o “Le Jene”, potrebbero trovare materiale interessante in quelle pagine. Ma forse è una missione impossibile: infatti la signora Cristina Gabetti, figlia di Gianluigi e titolare di una rubrica su “Striscia” al sabato in cui insegna a risparmiare, a riciclare, a ricucire, a rattoppare, dovrebbe spiegare all’interno del programma di Antonio Ricci se è vero o no che ha o aveva una o due “fondazioni” in Liechtenstein, di nome “Kalla” e “Gnu”, nella quale figurava all’inizio col suo nome e cognome e poi, chissà perché, lo ha fatto cambiare mettendo solo il cognome del marito e cancellando ogni traccia del cognome paterno. Così come ha, o avrebbe, fatto suo fratello. Lo abbiamo chiesto al loro augusto per poter scrivere la sua versione nel libro. Ovviamente: nessuna risposta.

Mah! Le tracce di queste due fondazioni (chissà se sono state poi aperte, se sono ancora aperte e sono funzionanti, e che cosa racchiudono?) hanno cominciato ad emergere dopo una affettuosissima lettera che “il Gentiluomo di Sua Santità”, il Prof. Dr. Dr. (in Liechtenstein ogni laurea consente di ripetere il titolo di studio nel biglietto da visita) Herbert Batliner, titolare di un avviatissimo studio di “consulenza tributaria e fiscale per grandi ricchi a Vaduz, in Liechtenstein, e considerato dalla Procura di Bochum – la punta di diamante nella lotta all’evasione fiscale in Germania – ha scritto a Gabetti per ringraziarlo della squisita e indimenticabile ospitalità (a spese dell’IFI, ovviamente) che gli ha riservato a Torino qualche anno fa.

Come potete pretendere che “la Stampa” che, contrariamente allo Spiffero – unico in Italia -, non diede nemmeno la notizia delle seconde nozze di Gabetti con Gianna Recchi (evidentemente per loro non era una notizia che riguardasse i torinesi!) racconti o parli di un libro che racconta queste cose? Non mettono nemmeno quelle cinque righe che non si negano a nessuno nella pagina di cronaca degli appuntamenti in città (non lo hanno fatto nemmeno martedì scorso per la serata al Circolo dei Lettori e certo non lo faranno per l’appuntamento di giovedì 6 dicembre alle ore 17,30 alla Libreria COOP di piazza Castello: ma potrete verificare voi stessi…).

E allora, visto che questi cinquantamila euro non verranno assegnati, non resta che consolarsi con tutti coloro, e sono tanti e li ringrazio, che invece hanno scritto e stanno scrivendo sui loro giornali o sui loro siti online di questo e su questo libro che Jaky Elkann, Gabetti, Grande Stevens, la Fiat, “Libera & Bella” Montezemolo (di cui “La Stampa” e il “Corriere” l’altro giorno hanno perfino dimenticato di raccontare come è stato contestato a Napoli, tipo lancio delle monetine a Craxi all’uscita dell’Hotel Raphael, mentre lasciava una pizzeria dopo la presentazione del suo movimento politico, il “partito dei carini”) non vogliono assolutamente che voi leggiate per sapere, per capire, per conoscere, per indignarvi, per sorprendervi, e anche per – i meno educati - imprecare. Volete provare a disubbidire? Volete dimostrare di saper “osare”, essere coraggiosi, ribellarvi al loro potere? Comprate il libro, leggetelo, diffondetelo, consigliatelo. Fate voi da tam-tam, visto che molti giornalisti (come quello che dice di essere il più giovane direttore nella storia della “Stampa” dimenticando che c’è stato prima di lui un “certo” Curzio Malaparte, assurto al vertice a soli 29 anni!) non sanno, non vogliono, non osano, non possono nemmeno scriverne sui loro giornali.

http://www.lospiffero.com/cantina/un-premio-per-uscire-dal-gregge-degli-agnelli-7815.html

.asd .asd .asd

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I libri di Moncalvo sono interessanti, sicuramente fanno capire alcune logiche dinastiche e di spartizione del potere. C'è da dire che sono vicende che, con le dovute differenze, sono riscontrabili in tutte le grandi famiglie italiane, dai Pirelli ai Moratti ai Berlusconi ecc...ecc....Lui ama concentrarsi sugli Agnelli, ma non ci sono solo loro....purtroppo.

Che il mondo sia diviso in caste non lo scopriamo oggi.

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1. “LA STAMPA”, LA CORAZZATA DI CARTA DELLA FIAT, STA DIVENTANDO UNA BARCHETTA IN UN MARE IN TEMPESTA. IN UN'INFUOCATA ASSEMBLEA A L'ALTRO GIORNO È STATO ANNUNCIATO PER IL PROSSIMO ANNO LA NECESSITÀ DI LIBERARSI DI UN PO' DI ZAVORRA PER CONTINUARE A NAVIGARE ANCORA QUALCHE MESE. OVVERO LA NECESSITÀ DI BUTTARE A MARE 32 GIORNALISTI PER ALLEGGERIRE UN DEFICIT DI 25 MILIONI - 2. LA REDAZIONE NON L'HA PRESA PER NIENTE BENE. ANCORA NON SONO STATI FATTI I NOMI DI CHI FINIRÀ NELLE GELIDE ACQUE PERÒ SI PENSA A VICEDIRETTORI E FIRME ILLUSTRI - 3. SE TORINO PIANGE, MILANO S’AMMAZZA. AL “CORRIERE” PARLANO DI UNA “RISTRUTTURAZIONE” CHE COINVOLGEREBBE 100 GIORNALISTI E ADDIRITTURA 400 POLIGRAFICI -

http://www.dagospia....ta-in-48349.htm

.penso

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1. “LA STAMPA”, LA CORAZZATA DI CARTA DELLA FIAT, STA DIVENTANDO UNA BARCHETTA IN UN MARE IN TEMPESTA. IN UN'INFUOCATA ASSEMBLEA A L'ALTRO GIORNO È STATO ANNUNCIATO PER IL PROSSIMO ANNO LA NECESSITÀ DI LIBERARSI DI UN PO' DI ZAVORRA PER CONTINUARE A NAVIGARE ANCORA QUALCHE MESE. OVVERO LA NECESSITÀ DI BUTTARE A MARE 32 GIORNALISTI PER ALLEGGERIRE UN DEFICIT DI 25 MILIONI - 2. LA REDAZIONE NON L'HA PRESA PER NIENTE BENE. ANCORA NON SONO STATI FATTI I NOMI DI CHI FINIRÀ NELLE GELIDE ACQUE PERÒ SI PENSA A VICEDIRETTORI E FIRME ILLUSTRI - 3. SE TORINO PIANGE, MILANO S’AMMAZZA. AL “CORRIERE” PARLANO DI UNA “RISTRUTTURAZIONE” CHE COINVOLGEREBBE 100 GIORNALISTI E ADDIRITTURA 400 POLIGRAFICI -

http://www.dagospia....ta-in-48349.htm

.penso

problemi ci sono in tutti i settori

diciamo che siamo tutti nella M***A

però dago è degno dei maya

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Monti va a Melfi, applausi dagli operai. Fiat, investimento da 1 miliardo.

«L'Italia sarà base per la produzione di veicoli per tutto il mondo»

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-20/monti-melfi-marchionne-senso-125549.shtml?uuid=AbrsVsDH

.uhps .uhps .uhps

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gente come marchionne o monti hanno messo l'italia a nudo

si può condividere o meno il loro operato ci mancherebbe

ma per controbatterlo ci vogliono idee e fatti

e non demagogia sessantottina o populismo mediatico

purtroppo in italia abbondano gli appartenenti alla seconda opzione

e latitano idee e fatti

quindi è un parlare tra sordi

e l'italia va alla deriva

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ItaliaOggi 21-12-2012

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L’IMPRENDITORE

SI RACCONTA TRA

PASSATO E FUTURO

LAPO ELKANN “HO DOMATO I DEMONI E ORA HO UNA VITA NUOVA”

LAPO, OGGI “NON FUGGO PIÙ E HO IMPARATO A FIDARMI DI POCHE PERSONE”

VOGLIO SPENDERMI PER CAUSE NOBILI, SPOSARMI E AVERE FIGLI, DA SOLO NON MI CI VEDO

di PAOLO BERIZZI (la Repubblica 22-12-2012)

Ti viene incontro in canotta bianca sull’uscio del loft in stile Warhol-va-in-vacanza. Allarga il sorriso e, vestito come nessuno oserebbe in una gelida mattina al Ticinese — il quartiere di Milano dove abita — brucia il primo «grandeee!», esclamazione tipica del vocabolapo. Pantaloni cachi con risvolto e canottiera. Mica male per uno che scrive un libro sull’eleganza. Ma Lapo Elkann è anche questo. Lo incontriamo per anticipare Le regole del mio stile (add editore), la prima fatica letteraria, presentazioni allargate ad autogrill e supermercati. Il patto è: parlare di vita. Senza rete. È questa, forse, la vera cifra di Lapo. L’iniziale sul taschino. Cercare dietro le pochette da dandy del terzo millennio («ma il dandy è effimero e arrogante, io no»), dietro gli occhiali in carbonio floccati (c’è da studiare), i jeans venerati che nemmeno la Sacra Sindone, la Ferrari foderata in denim e il blazer del Nonno abbinato ai pantaloni del kimono; dietro i 17 tatuaggi e le donne che non si ispirano alla casalinga di Voghera (ora c’è l’ereditiera kazaka Goga Ashkenazi).

Dietro tutto questo c’è un centometrista convertito alla maratona. «Altro passo, altro modo di vivere, altre amicizie. Quelle vecchie le ho mollate. I contorni grigio-neri del passato — vita privata, gente con cui lavoravo — li ho messi in un cassetto. Senza rancori né sete di vendetta, ma ricordandomi di chi mi ha voltato le spalle. E imparando a fidarmi di pochi».

Nella sua seconda vita Elkann è un uomo più consapevole: nel raccontarsi, anzitutto. «Ho domato i demoni, li tengo lontani. Ci sono riuscito conoscendo meglio la mia natura, accettandone i contrasti. Determinato ma anche fragile, in guerra e in pace, socievole e solitario. Sono così, il che mi rende ipersensibile. Dopodiché ho avuto molta fortuna. Se sono ancora qui lo devo a Dio, che mi ha protetto e salvato. E anche alla mia passione per la vita e a chi mi ha aiutato. In primis, la mia famiglia».

Tutto, nel bene e nel male, è ruotato e ruota intorno alla velocità. «La mia migliore amica e il mio peggior nemico. La amo, è il mio motore anche a se a volte non mi godo il viaggio. E mi ha fatto cadere. Sono inciampato perché fuori ero forte, ma dentro non ero soddisfatto. Non mi amavo, ero triste. E fuggivo. Sempre». Adesso la fuga è diventata un’opzione sana. «Porto sempre con me il passaporto. Però sto nel presente e sto bene, non fuggo più da niente. Ho iniziato a fermarmi di più, a prendere tempo». Eccola la nuova sfida del naughty («birichino», se l’è tatuato sulla schiena a Parigi assieme al suo migliore amico Duc che non c’è più e a cui è dedicato il libro) di casa Agnelli: tirare fuori se stesso, il vero Lapo, dal personaggio un po’ frivolo e evanescente che pure in qualche modo gli ha gettato l’ancora. Gli chiediamo dove tiene le Ferrari, la più sobria ha la carrozzeria mimetica. «In un garage qui vicino. Ma le sto vendendo. Non è tempo per mettersi in mostra. Ci sono tante persone che fanno fatica e non hanno lavoro. Certe cose possono essere viste come un’ostentazione fastidiosa. La gente mica sa che fai beneficenza e dai una mano a chi ha meno di te».

Si è appena allenato. Da qualche giorno ha fatto pace col barbiere. «Essere eleganti vuol dire essere se stessi. E personalizzare. Anche con le proprie eccentricità ». Si era vagamente intuito. La cucina di Lapoland, con finestre aperte sui due gradi di temperatura esterna («ho sempre caldo»), non è un inno al minimalismo. Quadri colorati con Batman e Spider-Man; un bancone tappezzato di foto dove riposano due fogli di appunti, tre penne «verde speranza», un pacchetto di Marlboro con accendino usa e getta nero marchiato Laps, una bottiglia d’acqua, una confezione di pappa reale, il blackberry. Tutto in ordine. «Sono rigoroso sugli spazi e gli oggetti che li occupano. È una questione mentale: ti aiuta a tenere il punto». Se fosse un rompicapo, e un po’ lo è, Lapo sarebbe un incrocio tra il cubo di Rubik e lo Shangai. Il cubo: per l’accrocchio di colori che inseguono un capolinea. Lo Shangai per lo stare in bilico in un «disequilibrio assoluto». I bastoncini giapponesi da togliere dal gruppo. «Se vuoi fare qualcosa di serio devi distinguerti dagli altri. Non mi piace, però, la stravaganza fine a se stessa, la provocazione stupida. Dietro l’immagine ci deve essere sostanza». Detto da uno che indossa abiti doppiopetto gialli e veste i frigoriferi coi jeans, o gli credi o ti domandi su quale pianeta vive. «Sono per la sostanza, da progressista dico: “avanti Monti”. È lui l’outsider, ha spessore, onestà, etica». Vabbé.

Il suo di spessore, invece, è essere cinque, sei cose assieme. «Ho bisogno di fare, viaggio per ispirarmi». Creativo, imprenditore (col marchio Italia Independent), iconagiovanile,ambasciatoreglobetrotterdell’italian style. Seduttore, ora anche scrittore. «Ho fatto questo libro perché lo stile è bellezza. Non è una questione di lusso. Basta anche una bella cover da 10 euro per il telefonino. O mangiare bene. In una trattoria economica come al ristorantone stellato». Mentre azzanna una cotoletta tiepida al limone facciamo notare a Elkann ciò che staranno pensando molti italiani. Che ci vuole un bel coraggio, in questo momento, a sfornare un libro sulle regole dello stile. La crisi. La polveriera sociale. E il rischio “chissenefrega”, sempre lì in agguato. «Sono pronto a beccarmi critiche e sarcasmo. Sono autoironico, non voglio insegnare niente. Ma penso che il bello, se ben usato, fa bene a una nazione in difficoltà». Il giovane Agnelli che dopo due mesi come operaio alla Piaggio va a fare l’assistente di Kissinger. Conosce Putin, «una mente velocissima», incontra il Dalai Lama, ha consuetudine con Shimon Peres. Ma tra le figure più importanti ci sono suor Giuliana di Torino, un tecnico Ferrari, e Nora, la segretaria ai tempi della Fiat. «Ho conosciuto il meglio e il peggio del mondo. Il meglio sono le lettere d’affetto di gente sconosciuta nel periodo più brutto. Il peggio è chi mi ha tradito, girandosi dall’altra parte».

Il problema, da oggi, non è più azzeccare i congiuntivi, «mi hanno affiancato un buon correttore di bozze!». Né la collezione di multe («due o tre all’anno», una stima per difetto). Nemmeno convincere i non ammiratori, quelli che quando lo vedono pensano «ma va’ a lavurà», e il bello è che lavora sodo. «È dai tempi del militare a Belluno che sono amato e odiato in ugual misura. Mi stimano di più all’estero — dove i media mi giudicano per il mio lavoro, dove ricevo premi e mi invitano a conferenze coi Nobel — che in Italia. Qui si fermano alle apparenze, c’è invidia per il successo. Disturba come mi presento, a volte c’entra la mia famiglia d’origine, e la Juve...». Quasi sempre abbozza. «Sono patriottico, il mio sogno è rilanciare l’immagine all’estero del mio Paese, e anche di Israele». Una specie di futurista a sua insaputa, che giura di essere, prima di tutto, «buono». «Ho tanto da imparare e molto da migliorare. Voglio restituire agli altri il tanto che ho avuto dalla vita».

C’è o ci fa questo ricco creativo che gira il cafe-society con in testa l’idea di cambiare il suo Paese come fosse una pista Polistil su cui sfrecciano macchinine colorate? Uno che si diverte a profanare la sartoria classica attingendo dalla tavolozza e intanto non lascia mai disoccupati i fotografi. Si diceva un tempo, qualcuno lo pensa ancora, che le persone eleganti desiderano passare inosservate. Lapo fa e teorizza il contrario. È la sua rivoluzione copernicana. «Il nascondersi è tipico di una visione democristiana e calvinista che non mi appartiene. L’eleganza è non nascondersi ». Ha sdoganato il maculato militare in città. Dopo le tinte psichedeliche, il carbon-look, dopo avere fatto diventare trendy i gessati da gangster e rilanciato il fazzoletto a sbuffo infilato nel taschino della giacca. «Si può essere leggeri e profondi al tempo stesso». E veloci, «sempre». «Diceva Enzo Ferrari che la sua auto preferita era... la prossima». E il prossimo futuro di Lapo? Avviso ai naviganti. «Voglio spendermi di più per le cause nobili. E mi auguro di sposarmi e di avere figli. Da solo, non mi ci vedo».

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INCASSATI 62 MLN DI DOLLARI DALLA CESSIONE DI AZIONI DI GRAPHIC PACKAGING HOLDING

Gli Agnelli fanno cassa negli Usa

L’operazione è stata realizzata da Old Town, il braccio lussemburghese della Sapaz, nell’ambito di

un collocamento da parte di tutti i soci di riferimento del gruppo. Plusvalenza stimata in 30,5 mln $

di ANDREA DI BIASE (MF-MILANO FINANZA 28-12-2012)

Graphic Packaging Holding, il gruppo americano attivo negli imballaggi per alimenti quotato al New York Stock Exchange, torna a dare qualche soddisfazione alla famiglia Agnelli, che tramite Old Town, il braccio lussemburghese dell’accomandita presieduta da John Elkann, è uno dei principali azionisti della società Usa, nata nel 2008 dalla fusione tra la vecchia Graphic Packaging e Altivity. Dopo tre anni passati senza staccare dividendi in contanti, in virtù di un accordo con le banche che tuttora limita questa forma di remunerazione dei soci, la società americana e i suoi azionisti di riferimento hanno realizzato un collocamento azionario che ha permesso agli Agnelli di incassare poco più di 62 milioni di dollari (47 milioni di euro). Lo scorso 20 dicembre, come risulta dai documenti depositati alla Security and Exchange Commission (Sec), i principali azionisti di Graphic Packaging Holding, approfittando del rally messo a segno dal titolo negli ultimi mesi e della scadenza del lock-up, che dalla fusione del 2008 impediva di vendere azioni sul mercato, hanno collocato sul Nyse il 6,1% della società incassando complessivamente 129,7 milioni di dollari, di cui circa 17 milioni di competenza di Old Town. Contestualmente la società Usa ha proceduto a riacquistare un altro 14,7% del suo capitale in portafoglio ai suoi grandi azionisti: i fondi Tpg con il 33,57%, la famiglia Coors con il 13,61%, i fondi Clayton, Dublier & Rice con l’8,69% e gli Agnelli, sempre con l’8,69%. Il riacquisto, autorizzato dalle banche creditrici del gruppo Usa, è avvenuto allo stesso prezzo al quale sono stati collocati i titoli sul mercato (6,1 dollari per azione) ed è costato a Graphic Packaging Holding circa 300 milioni di dollari. Di questi 300 milioni, circa 45 milioni sono finiti in portafoglio a Old Town, che ha dunque incassato complessivamente circa 62 milioni di dollari, riducendo la propria partecipazione nell’azienda Usa dall’8, 69 al 6, 98%.

I documenti depositati alla Sec non informano sull’eventuale plusvalenza realizzata dalla società lussemburghese degli Agnelli dalla cessione della quota nella Graphic Packaging Holding. Tuttavia, nel bilancio 2011 di Old Town, che è controllata al 99,64% dalla Giovanni Agnelli & C. Sapaz e le cui azioni privilegiate sono invece in mano a soggetti privati, emerge che l’intera partecipazione nella società americana era iscritta a un valore di carico di 108,8 milioni di dollari (82,43 milioni di euro) e che pertanto il pacchetto dell’1,71% ceduto per 62 milioni di dollari era iscritto a bilancio per 31,5 milioni di dollari. La plusvalenza lorda sarebbe dunque pari a 30,5 milioni di dollari (23.2 milioni di euro). Il collocamento di fine dicembre potrebbe tuttavia essere solo il primo passo verso l’uscita definitiva dalla società Usa di Old Town (la vecchia Exor sa, ribattezzata così dopo la nascita dell’Exor spa dalla fusione tra Ifi e Ifil). Da tempo gli Agnelli non considerano più tale partecipazione come strategica e lo scioglimento degli accordi di lock-up da loro mano libera nella gestione della quota.

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Uruguay, vacanze con

furto per Lapo Elkann

Trafugati gioielli per oltre 3,5 milioni di euro alla fidanzata kazaka Goga

La coppia era a cena ma non si è accorta dei ladri che hanno smurato la cassaforte

di PAOLO GRISERI (la Repubblica 31-12-2012)

Un furto da tre milioni e mezzo di euro per la fidanzata di Lapo Elkann, l’imprenditrice kazaka Goga Ashkenazi. Il colpo è avvenuto venerdì sera nella villa di Punta del Este in Uruguay.

La coppia ha affittato per le feste di fine anno nella esclusiva località marina. Al momento del furto Lapo e la sua compagna erano in casa ma non si sono accorti della presenza dei ladri. I rapinatori hanno portato via contanti e gioielli della ragazza kazaka per oltre 3,5 milioni di dollari. Alcune stime indicano nella cifra record di 4 milioni di euro il controvalore dei gioielli trafugati. A questi si aggiungono venticinquemila euro si trovavano in una borsetta lasciata in custodia su una sedia mentre i gioielli erano in una cassaforte incassata nel muro. I ladri, secondo quanto riferiscono gli inquirenti uruguayani, avrebbero forzato la porta di ingresso e avrebbero attraversato due stanze prima di mettere le mani sul bottino. Incredibilmente tutto si è svolto mentre era in corso una cena con nove invitati nella stessa villa.

I diciassette gioielli rubati non sarebbero stati assicurati e ora la polizia uruguayana sta verificando se sono stati denunciati al momento dell'ingresso di Lapo e della sua compagna nel Paese. La valutazione del prezzo della refurtiva è stata riferita alla polizia dalla stessa imprenditrice kazaka che ha denunciato il furto. I ladri avrebbero agito tra mezzanotte e le due del mattino senza che nessuno si accorgesse di nulla. Nelle settimane scorse, riferisce la stampa locale, un furto analogo si sarebbe verificato in una villa della zona. La polizia sembra propensa a ritenere che si tratti di criminalità locale e non di un furto su commissione orchestrato da professionisti di livello internazionale. Poco dopo la denuncia la polizia ha incominciato a interrogare il personale di servizio alla villa e avrebbe anche indagato alcuni domestici.

Il rapporto tra Lapo e la compagna dura dall'inizio dell'autunno quando l'imprenditrice kazaka, nota per la sua relazione con Andrea Casiraghi e per essersi fatta fotografare in topless sullo yacht di Falvio Briatore, comparve in pubblico con il fratello del presidente della Fiat. Recentemente Goga Ashkenazi ha acquistato la famosa maison di alta moda Vionnet rilevandola da Matteo Marzotto e Gianni Castiglioni. Lapo Elkann ha invece sviluppato la sua attività nel campo della moda e del design aprendo recentemente a Torino un nuovo negozio di Italian Independent. Lo stesso Elkann prosegue la sua collaborazione con Ferrari dove si occupa del Tailor made, il reparto del Cavallino che si occupa della personalizzazione delle vetture per i clienti più esigenti. Recentemente è stato anche assoldato dall’Alitalia come testimonial del brand del vettore aereo.

La disavventura in Uruguay non cambierà comunque i programmi per il fine anno che la coppia trascorrerà nella villa di Punta del Este. La concomitanza tra l'ora del furto e la cena ha insospettito gli inquirenti e dovrebbe essere questo il motivo per cui la polizia ha subito parlato di 'criminalità locale' iniziando le indagini dalla cerchia dei domestici. Nelle prossime ore potrebbero già essere tirate le prime somme dell'inchiesta e forse individuati alcuni dei sospettati. In ogni caso nessuno dei presenti in casa al momento del furto ha subito conseguenze. Tra i commensali della cena, secondo alcune fonti, ci sarebbero stati anche i padroni di casa che hanno affittato l'appartamento a Lapo e all'imprenditrice kazaka.

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El robo que hará de Lapo

Elkann una superestrella

AUNQUE SU IDILIO NO SE HA DADO POR CONFIRMADO HASTA HACE UNOS DÍAS, EL HEREDERO

DE FIAT Y LA AUTOPROCLAMADA “CHICA MÁS RICA DEL MUNDO”, LA KAZAJA LADY GOGA, YA

SON LA PAREJA DE MODA. A ELLA LE HA COSTADO PERDER JOYAS POR VALOR DE 3,6 MILLONES

DE EUROS, Y A ÉL, LA CREDIBILIDAD POR LA QUE LUCHABA TRAS SU SOBREDOSIS DE 2005

AL NIETO DE GIOVANNI AGNELLI LE RETRATARON EN COMA TRAS CONSUMIR DROGA EN CASA DE UN TRAVESTI

por LOLA GALÁN (EL PAÍS 05-01-2013)

Es uno de esos sucesos que parecen urdidos por la activa mente de un guionista de Hollywood. Pareja multimillonaria alquila mansión de lujo en Barra de Maldonado, Punta del Este (Uruguay). Mientras cenan con sus selectos invitados, la madrugada del domingo 30 de diciembre (hora española), los ladrones penetran por una ventana del edificio y sustraen a la pareja joyas por valor de 3,6 millones de euros y un bolso con 25.000 euros en metálico. También los periodistas consiguen un pequeño botín: las víctimas del atraco son dos famosos a los que solo los más osados relacionaban entre sí: Lapo Elkann y Gaukhar Goga Ashkenazi, también conocida como Lady Goga.

Él, de 35 años, con un puesto en Ferrari y experto en lucir complementos de colores, es el segundo mayor accionista del Grupo Fiat y nieto predilecto del llorado Avvocato Agnelli. Una criatura en permanente desasosiego, que parece vivir aplastada por el peso de los apellidos, sin acabar de cuajar una carrera. Ella, de 32 años, es una especie de socialite multimillonaria, una versión kazaja de Paris Hilton, de exótica belleza asiática. Hija de un ingeniero de la antigua Unión Soviética, nadie sabe exactamente cómo ha llegado a convertirse en consejera delegada del Grupo MunaiGaz-Engineering, una gran compañía de petróleo y gas, y a dirigir MMG Global Consulting Group, una firma especializada en servicios petroleros. Además de haber invertido millones en Vionnet, la centenaria firma francesa, cuya modista se inspiraba en Isadora Duncan.

Las vacaciones de Año Nuevo de la pareja tendrían que haber pasado desapercibidas, pero el robo las ha convertido en noticia de portada. E, inevitablemente, seguirán dando que hablar porque de este particular rififí sorprende casi todo: ¿quién se lleva a la playa, por muy millonaria que sea, joyas valoradas en 3,6 millones de euros? ¿Y quién procede a guardarlas en una caja fuerte, en presencia —según declaraciones de Goga— de varios camareros desconocidos? Sobre todo cuando, como la propietaria de las alhajas confesó hace meses a la prensa británica, hace tiempo que le resulta difícil renovar la póliza de seguros. Demasiado famosa quizá y, por tanto, demasiado expuesta a los peligros de un robo como el que acaba de sufrir.

Y sin embargo, la fama de Goga Ashkenazi, forjada en Reino Unido, es bastante reciente. De su biografía se conocen los detalles fundamentales. Que nació en Kazajistán, que su padre era ingeniero en tiempos de la perestroika de Gorbachov. Que tras la caída de la Unión Soviética regresó a la antigua república kazaja —que se independizó en 1990— y amasó una fortuna. Que su hija Goga se crió en Reino Unido, se licenció en Economía en Oxford y se casó con un rico hotelero de origen polaco, apellidado Ashkenazi, cuyo apellido conserva, y mantuvo después un romance con uno de los hombres fuertes de Kazajistán, Timur Kulibayev, oligarca petrolero y yerno del presidente de la república, Nursultan Nazarbayev. Goga tuvo un hijo con Kulibayev, del que se ocupan, según confesión de la joven madre, tres niñeras. Desde que en 2007 apareció junto al príncipe Andrés de Inglaterra (duque de York y ex de Sarah Ferguson), Lady Goga ha pasado a ser una celebridad del Hello!

En cuanto a Elkann, dueño de los 25.000 euros en metálico que volaron de la casa —y que no habían sido declarados en la aduana, por lo que la broma puede costarle una multa millonaria—, lo tiene todo desde la cuna. Hijo del escritor judío italo-francés Alain Elkann y de la única hija de Gianni Agnelli, Margherita (nacida católica y convertida después al cristianismo ortodoxo), nació en Nueva York, como sus dos hermanos, John y Ginebra, estudió en Brasil, Londres y París, y desarrolló desde pequeño un espíritu artístico y rebelde.

Mientras su hermano mayor, John, ascendía en el escalafón del grupo Fiat, del que hoy es presidente, Lapo tuvo una evolución más accidentada. Con todo, hasta finales de 2005 era el responsable del marketing internacional del grupo. Pero su carrera quedó interrumpida cuando una sobredosis de cocaína, heroína y opio estuvo a punto de costarle la vida. El 16 de octubre de 2005 salió del coma, pero perdió el puesto que ocupaba en Fiat y, lo que es más difícil de recuperar, la credibilidad como miembro solvente del clan. El escándalo se vio agigantado porque Lapo consumió la droga en el domicilio de un travestido muy conocido de Turín y un fotógrafo desaprensivo le tomó varias instantáneas en el lamentable estado en el que le encontraría después el equipo médico de la ambulancia que lo recogió.

Lapo Elkann pasó los siguientes años en EE UU desintoxicándose. Cuando finalmente regresó a Italia, parecía un hombre nuevo. Creó una firma de diseño, Italia Independent, y volcó toda su creatividad en dar nuevo brillo al made in Italy. En estos momentos es consultor de Ferrari y uno de los objetivos más codiciados por la prensa italiana, que le persigue en fiestas o presentaciones de moda. Hasta el pasado mes de diciembre, cuando ha reaparecido ante el mundo del brazo de Lady Goga. Una mujer abonada a los excesos, que se autoproclama la más rica del mundo y advierte: “No puedo casarme con nadie más pobre que yo”, mientras firma contratos y publica libros sobre cómo cazar lobos desde un helicóptero. Su compañía, para Lapo Elkann, puede representar un pequeño ascenso en el mundo del estrellato, pero le aleja del camino de la rehabilitación familiar.

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Una kazaka per il rampollo Elkann

Lapo e Goga, la coppia perfetta

Basta che non si dicano la verità

Sono fatti l’uno per l’altra, ma è meglio che evitino di guardarsi i passaporti

Che svelerebbero l’età di lei e il lavoro di lui: notizie impossibili da sopportare

di SELVAGGIA LUCARELLI (Libero 09-01-2013)

Ve lo dico subito. All’alba del nuovo anno ho maturato una convinzione sulla quale non ammetto contraddittorio: Lapo Elkann e Goga Ashkenazi sono la coppia del secolo. Mentre Belen e De Martino trascorrono i mesi dell’attesa con aria beota guardando la pancia che cresce e la farfallina che diventa un condor andino.

Mentre Kate e William sorridono mesti da tutte le tazze e le parannanze del Regno Unito, la Satta dice «Sì lo voglio» a Boateng non davanti all’altare ma alla vetrina Damiani e Silvio e la Lega hanno i soliti ritorni di fiamma che neppure Elizabeth Taylor e Richard Burton, Lapo e Goga se la spassano alla grande. E vivono come se non ci fosse un domani. Un domani senza carta di credito, sia chiaro. Li guardi e capisci che sono le due metà della mela e che infatti, insieme, fanno il capitale della Apple. E anche che con ogni probabilità sarà Goga a sputare Lapo come un torsolo, alla lunga, ma questo al momento non conta, perché è talmente inebriante guardarli insieme che il finale è l’ultimo dei pensieri.

L’unica perplessità è sul perché Lapo, mollata Zuzù per Goga, scelga solo fidanzate che si chiamano come una caramella gommosa o un chihuahua di Paris Hilton, ma queste sono frivolezze. Anche perché a spulciare la seppur nebulosa biografia di Goga, è evidente che la tizia è una spanna sopra tutte le ex di Lapo. Intanto, se Bianca Brandolini D’Adda era un po’ cazzara (se lei è un’attrice, io sono Corrado Formigli), Goga è un’esotica kazaka. Occhi a mandorla, capello corvino e fisico statuario, come del Kazakistan prima del quindicesimo secolo non si sa praticamente nulla, di Goga prima di una certa età si sa ancora meno. Che poi, a saperla l’età. Lei dichiara di essere del 1980, ma a guardarla in foto, di fianco a Lapo, credere che sia nata dopo la Fiat 127 è un atto di fede piuttosto estremo. E ad ogni modo, in qualsiasi epoca si collochi la sua nascita, certo è che Goga è una di quelle donne che non finisce mai di stupire. Undici anni fa se ne stava appollaiata al sole sullo yacht di Briatore dimostrando di essere una vera e propria antesignana nella mirabolante arte del millantare: con un clamoroso anticipo rispetto a quella mocciosa dilettante di Ruby Rubacuori nipote-di-Mubarak, Goga si spacciò per la figlia del presidente kazako. O comunque, Briatore la raccontò così. Poi le preferì la pronipote del sindaco di Soverato Elisabetta Gregoraci e Goga sparì nel nulla. Durante il sobrio periodo di anonimato, la bella kazaka sposò un milionario californiano, per poi avere un figlio da un modesto connazionale. Un pastore delle antiche tribù kazake? No, un milionario nel settore petrolifero sposato con la figlia del presidente kazako (questa volta quello vero), che riconobbe il figlio. E che per punizione si vide sequestrati dal suocero 3 miliardi di beni.

Insomma, se vi sembra che Berlusconi abbia pagato caro le sue scappatelle, in Kazakistan c’è un tizio che per qualche notte con Goga è passato dall’aereo privato a farsi ricaricare il cellulare dalla nonna. E siccome, l’avrete capito, Goga è una di quelle donne che può non sapere il tuo nomema sa il tuo albero genealogico fino alla nona generazione, archiviato il genero del presidente, si fidanza col nipote della regina Elisabetta, il principe Andrea. Ora, il motivo per cui poi la relazione si sia interrotta non è noto, ma se tanto mi dà tanto, la regina Elisabetta all’idea di trovarsi Goga a Buckingham Palace, deve aver spiegato al principe Andrea che nel caso avrebbe preso parte alla prossima caccia alla volpe nelle campagne inglesi. Con lui nel ruolo della volpe e lei con un fucile Beretta sottobraccio.

E finalmente arriviamo a Lapo, con cui fin dal primo momento è amore travolgente. Chi insinua che a colpirla siano state le origini di lui sbaglia di grosso. Amici di lei giurano che Goga pensava fosse un suo connazionale poiché dopo averlo sentito parlare in un’intervista, s’era convinta che per rispondere ai giornalisti si esprimesse in kazako. Comunque siano andate le cose, dal momento in cui si sono incontrati, i due sono inseparabili. Vanno alla prima della Scala e lui arriva direttamente col Suv nel palchetto per impressionarla. Hanno lo stesso, rigoroso gusto per il minimalismo estetico, per cui uno li vede uscire di casa e non si sa mai se sono vestiti per andare a svuotare il bagagliaio o a sposarsi a Las Vegas. Lasciano il jet privato davanti al ristorante coi grattini sul tergicristalli. Limonano a ogni angolo di strada, tanto che più di un paparazzo, stremato, ha lasciato ai due le chiavi di casa. A Capodanno vanno in vacanza al mare, in Uruguay e viene fuori che a Goga hanno rubato 3 milioni e mezzo di gioielli. Cioè, noi andiamo in vacanza al mare con due mollettoni di plastica e le havaianas fucsia, e lei parte con i gioielli di Cleopatra nel beautycase. Della serie: Goga, una di noi.

E di sicuro ci attendono ancora centinaia di colpi di scena appassionanti perché, c’è da scommetterci, i due sono destinati a durare. Nella buona e nella buonissima sorte. A meno che non commettano l’errore di aprire i loro rispettivi passaporti. Lei non saprebbe come spiegargli la voce «età» e lui non saprebbe come spiegarle la voce: «professione». A meno che per un caso fortuito, «rampollo», in kazako, non significhi «uno che lavora duro».

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IL VENERDI DI REPUBBLICA | 11 GENNAIO 2013

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DIECI ANNI SENZA AGNELLI Il ricordo

Quel patriarca gentiluomo

che teneva in pugno il Paese

Dopo la scomparsa del grande imprenditore il 24 gennaio 2003 è rimasto

solo un album di ricordi. L’eredità del capostipite e le scelte della famiglia

PASSATO Con lui se n’è andata una pagina di storia di Torino e dell’Italia

FUTURO Sarebbe orgoglioso del lavoro di John e divertito dall’estro di Lapo

di TONY DAMASCELLI (il Giornale 13-01-2013)

Dieci anni sono nulla. Sono un bambino che incomincia a sognare di diventare adulto, sono un tempo assai breve di una vita lunga, sono l’arco intenso di un amore. Sono il vuoto che non è stato riempito da quando Giovanni Agnelli morì nella sua dimora di Torino (era il 24 gennaio del 2003) e con lui se ne andò una fetta grande di storia, non soltanto di quella città, ma dell’Italia intera e di mille persone che di quell’epoca e di quel personaggio furono contorno. La presenza dell’assente, questo è oggi ancora Giovanni Agnelli, continua il viaggio inutile alla ricerca di qualcosa che si è ormai perso e non smarrito, che Fiat ha soltanto nelle fotografie di repertorio e in un ossequioso, formale rispetto piemontese per il patriarca; la pagina è stata girata, altri uomini, altre figure, altri personaggi, altre parole. Finì la propria vita, un anno dopo, anche il fratello Umberto e, con la scomparsa dei loro figli, Giovanni Alberto ed Edoardo, fu come la conclusione di un’era, quasi di una dinastia, un libro chiuso di colpo, stracciate le ultime pagine, incompleto il racconto, avvolto anche dai misteri, tra dubbi e angosce. Giovanni Agnelli nulla sa di questa Fiat, di Marchionne, dei suoi maglioni improbabili e della sua barba imprevedibile, nulla sa di un’Italia che, in modo gattopardesco, finge di cambiare tutto perché tutto rimanga come prima. Nulla sa perché non poteva certo nemmeno immaginarlo, la sua Fabbrica Italiana Automobili Torino, come era solito pronunziare quasi sillabando, le sole quattro parole italiane, nei discorsi in lingua inglese, la Fiat, dunque, socia di americani, Torino e Detroit, unite per lo stesso interesse imprenditoriale.

Nemmeno avrebbe immaginato e ipotizzato un’eventuale fuga dal Paese, come da tempo le voci si inseguono per poi smentirsi. In fondo era anche questa la caratteristica di un uomo di mondo, Gianni Agnelli per l’appunto, comunque legato a Villar Perosa, a Torino, le radici, La Stampa e la Juventus, dopo la belle epoque del play boy, Costa Azzurra, New York, il ranch argentino con Priscilla Rattazzi che fotografava quel narciso con i capelli bianchi al vento e la camicia jeans aperta sul petto, il bagno all’alba nella caprese grotta azzurra, i Kennedy e Kissinger, Gheddafi e Lanza di Trabia, un album che ogni volta ritorna per ricordare, appunto, questo vuoto decennio, spesso riempito con la stessa frase: «Ah se ci fosse l’Avvocato». Non ha fatto in tempo a vedere e vivere le splendide Olimpiadi invernali che hanno trasformato Torino, rendendola di nuovo lucida, elegante, bellissima come avrebbe desiderato; non ha avuto il tempo di assistere e soffrire alla caduta vergognosa, mortificante della Juventus e dei suoi dirigenti, liquidati in un giorno e abbandonati senza difesa alcuna; non avrebbe previsto che un altro Agnelli, il nipote Andrea avrebbe ridato dignità al club e di nuovo vinto sul campo; non avrebbe potuto prevedere le pratiche legali tra parenti e una famiglia spezzata per un’eredità sbattuta in piazza; si sarebbe divertito dinanzi alla simpatica rinascita e riapparizione della Cinquecento, da un’idea bizzarra di un bizzarro nipote come Lapo che di lui è forse il solo ad aver conservato fascino maledetto e alcuni tratti somatici; di sicuro sarebbe fiero della crescita di John al quale era stato, dallo stesso nonno, affidato il futuro dell’azienda, provocando la rabbiosa, umana e silenziosa reazione di Edoardo, il figlio quasi dimenticato, evitato, poi tragicamente scomparso. Quest’ultimo fotogramma accadeva prima di quel gennaio del Duemila e tre, ma forse fu il giorno più lungo in cui la luce prese ad affievolirsi negli occhi di un uomo già sofferente, appoggiato a un bastone, bianchissimo nei capelli e nel colore della pelle, consapevole che il sole stesse per tramontare.

La morte di Umberto e quella di Susanna tagliarono l’ultimo nodo della corda che teneva assieme, per il popolo, la famiglia intera. Dieci anni sono un tempo davvero breve ma ormai lontanissimo. Trascorsi senza quell’uomo ancora presente.

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Industria & finanza Le strategie dopo l’espansione in America

Così è cambiata Torino, ora la sfida degli impianti

Con Chrysler il salto di qualità. Ma resta il nodo della sovraproduzione

di PIERLUIGI BONORA (il Giornale 13-01-2013)

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La Fiat di oggi è molto lontana da quella di dieci anni fa. Dalla scomparsa di Gianni Agnelli (2003), passando per la presidenza lampo del fratello Umberto, mancato un anno dopo, il gruppo ha ritrovato nell’auto il core business, mentre Sergio Marchionne ha cambiato pelle all’azienda e John Elkann, formatosi sotto la scuola di Gianluigi Gabetti e Luca di Montezemolo, non solo è diventato il punto di riferimento della dinastia (come voleva il nonno) ma ha completato la semplificazione della catena di controllo del Lingotto e la governance familiare: nell’Accomandita ognuno dei tre gruppi familiari (eredi dell’Avvocato, altri Agnelli, ramo Nasi) è ora rappresentato da due esponenti.

Dalla scomparsa di Agnelli a oggi, dunque, la Fiat è diventata più piccola in Italia ma più grande nel mondo. La conquista di Chrysler oltre a realizzare il sogno americano degli Agnelli, ha garantito al Lingotto l’accesso al gotha mondiale dell’automobile. Vediamo i passaggi chiave di questi dieci anni.

L’intesa degli Agnelli su come affrontare il «dopo Avvocato» è arrivata nella riunione dell’Accomandita lo stesso giorno della scomparsa. I soci, oltre a nominare Umberto al vertice, misero le basi per l’aumento di capitale che dall’Accomandita (250 milioni di euro), attraverso una serie di operazioni a cascata portò 1, 6 miliardi nelle casse Fiat, indispensabili per il risanamento. Il secondo paletto fu posto alla morte di Umberto, nel 2004: la famiglia disse no all’ipotesi di unificare le cariche di presidente e capo azienda, come chiesto dall’allora ad Giuseppe Morchio, preferendo Montezemolo alla presidenza a rappresentare la proprietà e Marchionne come ad. Nel febbraio 2005 Gm paga 1, 55 miliardi per non dover comprare Fiat: è la fine dell’alleanza con Detroit. L’anno è poi contrassegnato dal convertendo Fiat e dal discusso swap col quale gli Agnelli evitarono di diluirsi nel capitale (c’erano alcune società di private equity pronte a fare di Fiat uno spezzatino). Due anni dopo il Lingotto celebra, con la nuova 500, la fine della crisi. Nelle holding Ifi e Ifil, prima, e nell’Accomandita, poi, si completa tra il 2006 e il 2009 il trasferimento dei poteri al giovane Elkann. Quest’ultimo pone subito la sua impronta, dando il via alla fusione Ifi-Ifil, operazione per anni vagheggiata dallo stesso Agnelli: nasce Exor, unica holding di investimento del gruppo. Intanto, per effetto della crisi dei mercati, Chrysler finisce sull’orlo del baratro insieme a Gm e nell’aprile 2009, Fiat ne acquista il 20%; per il Lingotto si aprono così prospettive inimmaginabili solo 5 anni prima. Nel 2010 lo spin-off da cui nascono Fiat Spa e Fiat Industrial.

Pomigliano prima, seguito da Melfi e prossimamente da Grugliasco e Mirafiori, segnano ora la strategia di Fiat per rispondere al problema dell’eccedenza produttiva in Europa: puntare su brand forti e riconosciuti (Alfa Romeo, Maserati, Panda e 500) per satura­re gli impianti, anche attraverso l’export verso Paesi extra-europei.

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INTERVISTA MARIA SOLE AGNELLI

«Gianni, una vita per la Fiat

e l’azienda resterà in Italia»

La sorella dell’Avvocato: «Basta con le malignità,

contro la famiglia, ma il mondo oggi è diverso»

di PIERLUIGI BONORA (il Giornale 13-01-2013)

Non è stato facile convincere Maria Sole Agnelli, classe 1925, a ricordare il 24 gennaio di dieci anni fa, il giorno della scomparsa del fratello Gianni. Troppo forte l’emozione e profonda la commozione. Così tanti i ricordi. «Vede - spiega con un filo di voce la seconda azionista della galassia Agnelli e prima donna a rivestire il ruolo di socio accomandatario nella Sapaz, la cassaforte della famiglia - davanti ai miei occhi ho sempre l’immagine della fila interminabile di persone che rendeva omaggio al feretro di Gianni. La partecipazione di tutta la città di Torino è stata incredibile e commovente. Noi familiari ci siamo alternati tutta la notte nella camera ardente allestita nella Pinacoteca del Lingotto. Tutta quella gente che ci strin­geva la mano...».

Dopo la scomparsa dell’Avvocato, la famiglia è riuscita a far prevalere l’unità d’intenti e a non sfaldarsi. Ci sono stati l’aumento di capitale, l’avvento di Sergio Marchionne, lo spin-off del gruppo, Chrysler...

«Guardi che non siamo mai stati divisi - risponde ora con fermezza - e lo dimostra il fatto che in questi dieci anni la famiglia ha fatto di tutto per garantire un futuro a Fiat. Sono state portate avanti scelte fondamentali e con un certo successo, anche se oggi la Fiat è molto criticata».

Qualcuno dice: «Se ci fosse ancora l’Avvocato certe cose non succederebbero...»

«Le critiche, più che la Fiat, riguardano il nostro amministratore delegato Marchionne, dotato di una forte personalità e soprattutto una persona eccezionale. Ma dietro di lui c’è la famiglia Agnelli di cui sento spesso parlare male».

Perché questo astio verso voi Agnelli?

«Il mondo è cambiato e gli interessi della Fiat sono ora anche in altri luoghi».

Tempo fa lei confermò al Giornale il ruolo centrale dell’Italia per la sua famiglia. È cambiato qualcosa?

«Il desiderio di tutti noi è quello­di restare concentrati sull’Italia. Facciamo tutto il possibile, come dimostrano le ultime affermazioni del dottor Marchionne. Guardi, mi hanno fatto visitare lo stabilimento di Pomigliano d’Arco. Una fabbrica eccezionale».

Da Gianni lo scettro è passa­to a John, suo nipote.

«Per tutti è una fortuna avere John Elkann al comando. Non lo chiamo più Jaki perché ormai è diventato troppo grande. Segue il gruppo in tutto il mondo con grande impegno».

Suo fratello, dunque, aveva visto giusto quando decise di puntare su John.

«Sì, dopo tutti i drammi che ha avuto in famiglia. Ha visto giusto. John è un ragazzo a posto e molto serio».

E poi c’è Lapo, sempre al centro dell’attenzione.

«Ha personalità molto spiccata e brillante. Se assomiglia all’Avvocato? Direi che a suo nonno assomiglia fisicamente».

Intanto l’altro suo nipote, Andrea Agnelli, ha ridato lustro alla Juventus.

«Sono entusiasta di Andrea e della Juve».

Nel 2003 la morte dell’Avvocato e l’anno dopo quella di Umberto, al quale va il merito di aver avviato la svolta del Lingotto.

«Umberto è stato il mio fratello preferito. Perché era più piccolo. Ho trascorso tanto tempo insieme a lui».

Che cosa ricorda degli anni trascorsi con Gianni?

«Ha fatto così tante cose... E ha detto anche tante cose, sia importanti sia divertenti. È molto difficile estrapolarne una sui due piedi. Non dimenticherò mai l’impegno di Gianni per la Fiat dopo la scomparsa del nonno. I funerali furono tristissimi. Non si potè passare davanti a Mirafiori. Non c’era neppure una rappresentanza degli operai. Ebbene, fu allora che Gianni disse: “Questa è la Fiat e noi dobbiamo rimetterla in piedi”. E ci è riuscito, non crede?».

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la Repubblica 13-01-2013

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IL GIORNO-IL TIRRENO-LA ĠAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 14-01-2013

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il Fatto Quotidiano

16-01-2013

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La sfida finale sull’asse Torino-Detroit

di RICCARDO RUGGERI (MF-MILANO FINANZA 16-01-2013)

Sergio Marchionne è stato chiaro nell’intervista di qualche tempo fa al Wsj e ancora ieri da Detroit: a) la fusione Fiat-Chrysler è inevitabile e avverrà nel 2014 (tecnicamente è fattibile anche nel 2013); b) Fiat Auto ha i quattrini per acquistare il 41,5% di Chrysler, oggi del fondo pensione Veba; c) Fiat attende il giudizio del Tribunale del Delaware sull’interpretazione di una clausola-formula di calcolo del contratto Chrysler: il 3,3% di Chrysler vale 140 milioni di dollari come dice Marchionne o 342 come sostiene Veba? Finalmente si parla di business, di partecipazioni, di valutazioni delle due aziende, in modo che gli investitori possano capire la situazione, la qualità del management nella gestione delle attività, il loro destino finale.

Un passo indietro. Fiat nacque con uno slogan affascinante: Terra, Mare, Cielo. Nel corso degli anni, perse il Mare, perse il Cielo e la Terra si identificò con le Ruote, di dimensioni e caratteristiche diverse: automobili, veicoli industriali-militari-bus, trattori-macchine movimento terra. Tutti, analisti compresi, costantemente confusero Fiat con Fiat Auto. Con il licenziamento di Vittorio Ghidella nel 1988 iniziò il declino (irreversibile) di Fiat Auto, mentre il management di Iveco e New Holland (poi Cnh) poté operare con grande autonomia, ristrutturandole, riposizionandole strategicamente e trasformandole in aziende di successo di livello internazionale. Invece Fiat Auto, sempre gestita in doppia guida proprietà-management, mai fu correttamente riposizionata strategicamente, continuò a essere una fornace di cassa e per salvarla furono venduti i gioielli di famiglia (primo fra tutti Toro Assicurazioni), senza costrutto alcuno. Solo qualche anno fa Iveco e Cnh, grazie a Marchionne, sono state staccate dal corpaccione malato di Fiat Auto e hanno avuto i riconoscimenti che meritavano, un grande trentennale equivoco è stato sanato. Quando gli analisti scrivono «all’arrivo di Marchionne nel 2004 Fiat era fallita» dicono il falso: Iveco e Cnh erano redditizie e ben gestite fin dagli anni 90, Fiat Auto (con meno del 50% del fatturato di gruppo generava il 90% delle perdite) era tecnicamente fallita e tale era nel 2004, e tale è oggi (al netto di Chrysler). In Italia, su Fiat Auto si sono perse energie e tempo per discutere, anziché dell’agenda riposizionamento strategico, di problemi normativo-sindacali circa Fabbrica Italia. Un esempio per tutti. Uno dei tanti accordi cosiddetti dirimenti è stato quello sulla postura dell’operaio di linea e le pause. Dopo 18 mesi, Marchionne cambia ha cambiato strategia di prodotto-mercato: non più auto dei segmenti medio-bassi ma auto di gamma alta. Fabbrica Italia è seppellita. Con lei sono seppellite pure le logiche della postura e delle pause che trovavano una loro logica con operazioni elementari al di sotto del minuto (auto piccole-medie), ma sono irrilevanti se si producono vetture di gamma alta, ove le operazioni elementari sono oltre i tre minuti. Dopo le ultime dichiarazioni di Marchionne, ora la strategia Fiat Auto è chiara: fusione e ipo, al limite prima l’una poi l’altra (strategia obbligata, da anni lo scrivo). Finalmente si può ragionare seriamente. D’ora in avanti, la figura di Marchionne diventerà ancora più strategica, con problemi che farebbero tremare i polsi a qualsiasi supermanager.

Ma esistono più Marchionne, a seconda dei vari stakeholder. Sergio pronunciato all’americana dagli operai Chrysler che lo stimano, lo amano e al quale devono tutto ma che forse non hanno colto che se oggi hanno i prodotti, lo devono ai tedeschi della Daimler che, oltre a buttare nella fornace Chrysler 60 miliardi di dollari, l’hanno dotata di un management tecnico di primordine: i modelli ora in uscita hanno l’imprinting tecnico-tecnologico tedesco. Mr. Marchionne pronunciato all’americana dai gestori del fondo pensionistico Veba, non disponibili a fare sconti sul prezzo delle azioni Chrysler in loro possesso, vogliono il cash per investire i loro capitali pensionistici su altri business (corretto ma curioso, no?). Sergio pronunciato con inflessioni piemontesi dagli Agnelli-Elkann che vorrebbero mantenere il ruolo di azionisti di riferimento della nuova Chrysler Fiat senza tirare fuori quattrini, quindi con un acconcio rapporto di concambio. Dottor Marchionne pronunciato con rispetto dal governo italiano, terrorizzato che in questa grande partita finanziaria si verifichi l’opzione peggiore (sottovoce si chiedono: il nuovo piano Fiat del lusso finirà mica come Fabbrica Italia?) e di doversi fare carico della cassa integrazione in deroga. Quel Marchionne pronunciato con tono astioso dalla sinistra italiana, certa che finirà male per i dipendenti per la fuoriuscita di Fiat Auto. Sergio Marchionne pronunciato senza accenti dagli investitori storici che vogliono massimizzare l’investimento, indifferenti al resto, e da quelli che sottoscriveranno l’ipo, individui abituati a giudicare in base ai risultati e solo in seconda battuta in base ai piani. Caro Sergio come penso si rivolga a se stesso, consapevole di giocarsi in 12-18 mesi l’immagine di una vita: dopo l’ipo, il giudizio su di lui sarà definitivo. In teoria, come ceo, dovrebbe fare gli interessi di tutti gli attori coinvolti, e lo sta facendo, ma col giochino che si ritrova fra le mani mi pare oggettivamente impossibile: una scelta credo si imporrà, per alcuni degli attori il futuro sarà malinconico.

Il caso Chrysler Fiat Auto ha in ogni modo imboccato l’ultimo miglio, dove non c’è spazio per le chiacchiere o peggio per le ideologie: contano solo i numeri, i quattrini per liquidare Veba, la necessità che non vi sia assorbimento di cassa, avere idee, determinazione, credibilità personale. Vediamo come. Secondo contratto, Fiat può comprare il 3,3% di Chrysler dalla fine del 2012 e può ripetere identica operazione ogni 6 mesi fino a raggiungere il 16,5%. In questo modo, la quota Fiat raggiungerebbe il 75%. Sul valore del 3,3% c’è un contenzioso in atto al tribunale del Delaware: Fiat sostiene che il valore del 3,3% è pari a 140 milioni di dollari, mentre Veba replica che il valore è 340 milioni, in quanto le cifre fissate nel 2009 sono oggi completamente diverse, a favore di Chrysler. Inoltre Marchionne sostiene che c’è stato un clerical mistake nella stesura dell’accordo (cioè si è sbagliato), dove è scritto Fiat North America, lui intendeva Fiat spa. La differenza di valore, a seconda delle interpretazioni, vale 200 milioni di dollari, ma la decisione del Tribunale - o un accordo fra le parti - può valere per tutto il 16,5% che Fiat vuole comprare; nell’ipotesi più sfavorevole (Fiat perde la causa in essere) il 16,5% costerebbe 1 miliardo di dollari. Ciò significa che: a) Fiat deve trovare un accordo in tempi brevi se vuole fare il consolidamento Fiat-Chrysler e poi l’ipo; b) Veba vuole massimizzare il valore della sua quota, ma l’alternativa di chiedere una ipo immediata (che gli sarebbe concessa) pare quantomeno azzardata: Veba è in minoranza e il mercato la considererebbe una ipo anomala.

Vediamo come si configurano interessi-prospettive dei diversi attori coinvolti. Per i lavoratori Chrysler non dovrebbero esserci problemi, anzi è possibile che alcuni modelli Fiat Auto vengano costruiti o assemblati in Usa per il completamento gamma; inoltre altri modelli potrebbero essere solo commercializzati, con grande soddisfazione della rete commerciale. Su questo versante Marchionne non solo non avrà problemi, ma aiuti.

Veba ha già dichiarato il suo disimpegno, vuole solo cash per investire altrove, approfittando del momento favorevole. Questo può indurre il fondo a cercare un compromesso sul valore. Il valore del 3,3% e del 16,5% costituisce comunque un riferimento importante per l’ipo, specie se fosse Veba a chiederlo. Ma i mercati non amano le ipo forzate dalle minoranze. Nessuna minaccia su questo versante per Marchionne, se non il pericolo di pagare a caro prezzo la quota Veba: ha cassa a sufficienza?

Per Sergio Marchionne la fusione-ipo è la partita della vita, non solo una questione di bonus, ma di successo-insuccesso personale. Credo che Marchionne, in quest’ultimo miglio, darà il meglio di se stesso: questa è una fase ove non conta essere un grande manager, ma avere le skill tipiche del ceo di una banca d’affari. Senza offesa verso Goldman come investitore nella fase fusione-ipo preferisco Marchionne a Blankfein. Se tutto andrà come si ipotizza, Chrysler-Fiat avrà sì degli azionisti, ma un padrone, lui. Chapeau. Il consolidamento Fiat-Chrysler, e successiva ipo, salva Fiat Auto da un degrado irreversibile, sposta le operazioni della newco a livello mondo, dà prospettive di espansione, sinergie e management internazionale. L’ipo, anche con una Fiat Auto stremata, potrebbe essere un buon successo, non solo per il cash in arrivo ma anche sul piano strategico-operativo. Con una massa critica decisamente superiore, con nuovi azionisti, potrà fare nuovi accordi o acquisizioni in altri mercati. Tutto bene, ma ci vuole cassa.

Gli attuali azionisti Fiat non dovrebbero soffrirne, vista l’attuale drammatica situazione di Fiat Auto; molto dipenderà dal concambio che verrà stabilito in fase di consolidamento, dal prezzo delle nuove azioni e comunque dal giudizio del mercato in fase di collocamento. Altrettanto vale per gli azionisti di riferimento, che sono più influenzati dalle modalità e dalla tempistiche con cui avviene la fusione ma che ormai sono consci che l’epoca della rilevanza in Italia era già passata con Gianni Agnelli regnante, figuriamoci con un domani come questo.

Tecnicamente non vedo criticità: il mercato e gli analisti al momento dell’ipo giudicheranno i track record delle società consolidate per prodotto e mercato, (interessante capire come sarà valorizzato in prospettiva il Brasile, dopo la decisione di VW di investirvi oltre 3 miliardi) e l’affidabilità dei piani pluriennali presentato nel prospetto. Marchionne sa perfettamente che i piani verranno analizzati con due diligence feroci, altro che i nostri ridicoli tavoli governativi-sindacali: solo allora si capirà quale sarà il destino degli stabilimenti italiani. Gli azionisti americani (Veba) non ci saranno più, ma rimarranno determinanti le banche e gli altri finanziatori americani che giocheranno un ruolo rilevante e che di certo porranno barriere operative ai flussi di cassa interni alla newco. Se gli accordi presi nel 2009 non verranno messi in discussione, il governo Obama non farà assolutamente nulla.

Come in ogni operazione di fusione-ipo, restano i problemi cosiddetti di risulta, che purtroppo riguardano l’Italia. Lo scenario è noto, con l’ultima mossa di Melfi (cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione, da subito a fine 2014), l’appuntamento del caso Fiat-Italia (chiamiamolo così) con la fusione-ipo Chrysler Fiat Auto si è completato: tutti gli stabilimenti sono ora a scartamento ridotto. Negli anni passati ne ho parlato fin troppo, e con scarso successo, ora preferisco tacere, lo faranno i tavoli o qualche talk show: un professore, un sindacalista embedded, uno non embedded, un economista, un politico, sarebbe il parterre giusto. Io non saprei cosa rispondere alla domanda: «Quali le logiche industriali e di business nel fare in Italia, in vecchi stabilimenti, con vecchi operai prosciugati da anni di cassa integrazione, auto americane destinate al mercato americano?» Comunque in questo grande disegno strategico qualche stabilimento italiano da chiudere mi pare un problema secondario.

Fiat tells workers in Poland

‘You’re fired, but it’s not your fault’

It was not smart, it was not right, but it had to be done

by DAVID ROBERTSON (THE TIMES 16-01-2013)

Political stalemate in Europe is costing the jobs of car workers across the continent, senior industry executives have admitted.

Sergio Marchionne, the chief executive of Fiat and Chrysler, made an unusual apology yesterday as he told workers in Poland that they had been fired to protect jobs in Italy.

Meanwhile, the chief executive of another car giant told The Times that he had little choice but to cut jobs in European countries where labour laws were more relaxed, because of restrictions put in place by governments in France, Germany, Spain and Italy. However, without a reduction in production in these countries the industry cannot hope to stem its losses in the face of continued weakness in the European economy, he said.

The car industry needs to reduce capacity in Europe to reflect lower demand, but doing so is extremely difficult in some countries. As a result, jobs are being lost in countries such as Poland, Belgium and Britain, where laws are less restrictive.

Ford and General Motors have announced the closure of factories in Belgium and Ford is closing its transit van factory in Southampton.

Renault yesterday showed that even in France jobs were under threat. It said that it would cut 7,500 jobs there by 2016, equal to 14 per cent of its local staff.

The problems of the European car industry have loomed over the Detroit Auto Show this week and have taken some of the shine off optimism surrounding the rejuvenated American market. Mr Marchionne said that he expected carmakers to have lost between €4 billion and €5 billion in Europe last year — and there appears to be little confidence that a recovery is imminent. One senior executive said that it could be another decade before Europe’s economy revives.

Last month, Fiat said that it would cut 1,500 jobs at its Tychy plant in Poland, despite it being the company’s best-performing facility. Mr Marchionne said: “It was not smart, it was not right, but it had to be done. People who have worked diligently for years bore the brunt of a decision made to protect people employed in Italy.”

A senior executive at another carmaker said that the process of trying to restructure the European auto industry was “painful”, and without factory closures in Germany, France, Spain and Italy, companies would continue to lose money.

Mr Marchionne has suggested that the European Commission needs to provide a plan to reduce capacity in an equitable way to prevent the “beggar thy neighbour” approach adopted at present.

There is a belief that Europe needs to do what the American car industry did four years ago when collectively it took action to cut capacity by about a third. “There was a stench of death when you walked these halls three years ago,” Mr Marchionne said, referring to the Detroit show. “Today we see enthusiasm from the big three carmakers [Ford, GM and Chrysler]. They had been given up for dead but have been born again from the ashes.”

Modificato da Ghost Dog

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NON SOLO AUTO

L’altra grana del Lingotto: Rcs e Stampa

GLI AMMORTIZZATORI LI PAGA LO STATO, I QUOTIDIANI TORINO

di MARCO FRANCHI (il Fatto Quotidiano 17-01-2013)

Il numero uno della Fiat, Sergio Marchionne, ha sempre detto che la sua esperienza al timone del gruppo automobilistico si sarebbe conclusa a fine 2014. Fino ad allora, la sua missione sarà consumare le nozze con Chrysler rilevando le azioni rimaste in mano al Veba, il fondo sanitario del sindacato americano Uaw che da mesi è impegnato in un braccio di ferro con il manager sulla valutazione della quota della casa di Detroit che Fiat sta comprando. Per Marchionne, la Chrysler vale oggi 6 miliardi di dollari, per il sindacato Usa almeno 10. Di certo l’affare costerà caro alle casse del Lingotto che deve già fare i conti con un indebitamento netto di 5,4 miliardi di euro.

Tanto che a novembre gli analisti svizzeri di Ubs avevano ipotizzato la necessità per Fiat di varare un aumento di capitale fra gli 1,6 e i 2,9 miliardi. Ipotesi subito smentita da Torino (“abbiamo cassa sufficiente”, aveva detto lo stesso amministratore delegato) che prima di pensare al suo, di aumento, potrebbe dover essere costretta a frugare nelle tasche dell’azionista Exor (la cassaforte degli Agnelli) per dare una mano a due giornali: quello di famiglia, ovvero la Stampa, che lo scorso 20 novembre ha varato una ricapitalizzazione di 15 milioni. Ma anche il Corriere della Sera, di cui la Fiat possiede il 10,2 per cento. Il cda di Rcs del 19 dicembre, nel votare il nuovo piano industriale ha comunicato lo slittamento dell'intervento patrimoniale all'approvazione dei conti 2012, ossia tra metà febbraio e inizio marzo 2013. E ieri il consigliere Piergaetano Marchetti, ha confermato che "tra non molto si deciderà, anche la tempistica". Dei circa 400 milioni che la Rizzoli potrebbe chiedere al mercato, una quarantina dovrebbero arrivare da Torino. Inizialmente, la famiglia Agnelli sperava di cavarsela con la cessione a Rcs della concessionaria di pubblicità della Stampa, Publikompass. Ma gli altri grandi soci avrebbero storto il naso reclamando anche i liquidi.

Mentre in America si prepara a pagare il conto della fusione, in Italia Marchionne chiede due anni di ammortizzatori sociali per gli operai di Melfi. Che a questo punto si domandano quale sia il vero core business del Lingotto: le quattro ruote o i giornali? Del resto Gianni Agnelli considerava quella nel gruppo editoriale Rcs una partecipazione intoccabile del suo portafoglio, e anche il nipote John Elkann sembra pensarla allo stesso modo. Tanto alla Fiat ci pensa Marchionne, in America. E lo Stato, in Italia.

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Panorama | 23 gennaio 2013

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l'Espresso | 24 gennaio 2013

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«Mi piace il vento perché non si può comperare»: un libro restituisce il presidente della Fiat «in parole sue» tra riflessioni e aforismi

AGNELLI INTERPRETE DEL NOVECENTO RIMOSSO

2003 2013 A DIECI ANNI

GIOVANNI AGNELLI

Quella certa idea di Italia sabauda

che seppe interpretare il Novecento

fino alla Seconda Repubblica

Esibiva un senso dell’umorismo ai limiti della perfidia

Pareva oscillare tra l’America di Scott Fitzgerald

e l’Inghilterra elisabettiana. E amava la trasgressione

Eredità Osannato in vita, oltre il necessario. Poi troppo criticato e maltrattato. Adesso dimenticato

Indole Era un uomo con una spiccata tendenza ecumenica che lo allontanava dai conflitti

Impenetrabile La sua era una gentilezza regale ma incostante. Temeva la noia ma sapeva godere dell’arte e della bellezza con competenza

di FERRUCCIO DE BORTOLI (CorSera 19-01-2013)

Il passato prossimo è un tempo ormai scomparso. Caduto in disuso. In una società così aggrappata al presente, la storia si impossessa più rapidamente della cronaca appena vissuta. La divora.

Ed è come se personaggi e avvenimenti venissero risucchiati inesorabilmente nelle viscere dei secoli.

Sono trascorsi già dieci anni dalla morte di Giovanni Agnelli. In realtà molti di più. Un’epoca. Potremmo dire parlando dell’Avvocato: «Sembrava ieri...». Ma sarebbe una bugia pietosa, un’inutile cortesia post Personaggi che mortem.

hanno riempito fino all’inverosimile l’allora nostro presente, dei quali mai avremmo pensato di poter fare a meno, sono scomparsi dall’orizzonte quotidiano dei loro posteri con una velocità insospettabile. Non ci sentiamo orfani nemmeno per un attimo e di nessuno.

Immersi in un presente liquido, sovrabbondante di miti e mode, coltiviamo una memoria elettrica assai labile, che rimuove in fretta nomi e fatti con la stessa velocità con la quale si passa da uno strumento multimediale all’altro.

La nostra incapacità di concentrarci è pari alla crescente tendenza all'oblio della quale siamo vittime. Non sono passati soltanto dieci anni, quindi. L'immagine di elegante e distaccato potere dell'Avvocato, il capitalista più ammirato di un Paese che non ama l'impresa e invidia i ricchi detestandoli, appartiene a pieno titolo alla storia del Novecento, il secolo che lo vide irresistibile interprete. La sua eredità è custodita e valorizzata con affetto e riconoscenza dai nipoti, in particolare John Elkann. Un'opera costante e silenziosa. Eppure insufficiente, perché al monarca riconosciuto in un Paese che ha cacciato il Re e disprezza l'autorità, è stato riservato il trattamento tipico delle corti rinascimentali.

Osannato e incensato in vita, al di là del necessario; criticato e maltrattato, con abbondanza ingiustificata di eccessi, dopo la sua scomparsa. Agnelli è stato un protagonista straordinario del suo tempo, una personalità eccentrica, anche nei suoi modi d'essere, un'icona affascinante e irresistibile nell'esibizione annoiata dei suoi difetti, non pochi, ma è difficile spiegare perché sia stato abbandonato in tutta fretta sul marciapiede della storia. Anche dai molti che ne hanno beneficiato dell'amicizia. E non solo di quella. L'Italia è terra di slanci generosi e di inspiegabili amnesie. Il libro di Stefania Tamburello tenta di colmare questa lacuna.

La letteratura sul suo conto, al limite dell'agiografia, è stata sterminata in vita, assai rara dopo la morte. La muta dei cronisti attenti a decifrare ogni sua parola, ogni suo gesto, anche il più piccolo e insignificante, non ha passato la mano agli storici. O questi ultimi l'hanno semplicemente ignorata. Non c'è stata finora una grande biografia degna di questo nome, salvo qualche scritto di storici di corte, né un tentativo scientifico di inscrivere la sua complessa, ma assai più ricca di quanto non si pensi, figura di imprenditore e ambasciatore del made in Italy, nel quadro degli avvenimenti economici e politici del lungo Dopoguerra italiano. Sono apparse ricostruzioni assai parziali e inutilmente velenose sulle vicende familiari, causate anche dal processo sull'eredità intentato sciaguratamente dalla figlia Margherita. È rimasta una vasta aneddotica, quella sì, alimentata dai testimoni ma quasi esclusivamente a loro personale consumo. «Ricordo quel giorno in cui l'Avvocato mi ha chiamato all'alba», e via di seguito.

Quando è mancato, in quel freddo gennaio torinese di dieci anni fa, la crisi della Fiat era già evidente. Ma non aveva ancora assunto i toni drammatici dei mesi successivi con quel succedersi affannoso di amministratori delegati sotto la presidenza del fratello Umberto che sarebbe morto il 27 maggio dell'anno successivo. La Fiat si è ripresa negli ultimi anni, anche se non del tutto, grazie all'opera di Marchionne, alla transizione di Montezemolo e alla tenacia dell'erede scelto, il nipote Elkann che oggi guarda al nonno nello stesso modo con il quale l'Avvocato si ispirava all'esempio del suo di nonno, il senatore Agnelli.

Ma la Fiat di oggi è molto diversa da quella lasciata dall'Avvocato che ne prese le redini, da Valletta, nel 1966 quando aveva già 45 anni. Marchionne non ha mai conosciuto Agnelli. Non è azzardato affermare che i due si sarebbero piaciuti. E molto. La storia del figlio dell'emigrante abruzzese in Canada arrivato al vertice mondiale dell'industria dell'auto e ritenuto dal presidente degli Stati Uniti un salvatore della patria avrebbe affascinato l'Avvocato, la cui curiosità assai femminile era incontenibile. Chissà quante domande! Poi immaginiamo che avrebbe detto, con il suo impareggiabile sense of humor al limite della perfidia, che una conversazione con Jacqueline Kennedy a Ravello era assai più intrigante di una visita con Obama a uno stabilimento del Michigan. Ma è certo che con l'Avvocato al vertice, Marchionne avrebbe tenuto giacca e cravatta e non si sarebbe mai spinto a fare molte delle sue ormai celebri provocazioni. La Fiat non avrebbe mai lasciato la Confindustria. Ma l'affare Chrysler forse, e sarebbe stato un peccato, non si sarebbe mai fatto. Sergio Romano in un suo scritto riportò una battuta ai tempi dell'accordo con General Motors. La politica dell'Avvocato era quella dei Duchi di Savoia: troppo piccoli per fare a meno di un potente alleato, ma troppo ambiziosi per accettare alleanze permanenti.

Agnelli era un uomo della Prima Repubblica, con una spiccata tendenza ecumenica e una vanità che lo teneva lontano dai conflitti più aspri e dalle contrapposizioni più dure — quella parte era svolta con risolutezza da Cesare Romiti —; voleva piacere, sedurre ed era terribilmente indispettito dal fatto che un parvenu come Berlusconi avesse qualità di comunicatore e di affabulatore superiori alle sue. Detestava il conflitto, cercava il consenso, esprimeva fastidio per la normalità. La prevedibilità lo irritava. L'imprevisto e il sottile senso del proibito ne accendevano all'improvviso l'entusiasmo, tanto immediato e giovanile quanto breve ed effimero. Ma non perdeva mai il senso di responsabilità per il suo ruolo di imprenditore e di rappresentante della migliore italianità in giro per il mondo. Questo è il punto, qui sta tutta l'essenza del profilo storico del personaggio, che va oltre l'immagine stereotipata da lui stesso incoraggiata, con superba civetteria, in vita, e resiste al tempo. Agnelli era orgoglioso della sua italianità. Al Paese avrà fatto certamente pagare qualche costo di troppo, ma era il suo Paese. La stessa cosa si può dire per molti suoi epigoni o di quelli che oggi lo liquidano come un semplice profittatore del denaro pubblico? No. E ci sarebbe mai stato il boom economico italiano senza la Fiat che diede lavoro a centinaia di migliaia di lavoratori? No.

Mario Monti, ricordando i tanti anni trascorsi insieme, nella Trilateral, al Bilderberg, in numerose occasioni pubbliche e private, sosteneva che il volto dell'Italia nel mondo era solo quello del presidente della Fiat, ascoltato persino dai presidenti degli Stati Uniti (ovviamente mai avrebbe pensato di andarci lui, da premier, dieci anni dopo, alla Casa Bianca), ma confessava che «avendo dato grande credito al Paese forse aveva finito per pesare troppo sulla vita italiana. Può darsi che una personalità così carismatica abbia giovato più a non far perdere la fiducia della comunità internazionale che non a favorire l'ammodernamento dell'economia e della società».

Vero, e in questa frase di Monti c'è anche, sottile, la spiegazione del perché sia stato dimenticato in fretta, come se la sua monarchia impropria avesse pesato per troppi anni su un Paese adorante, ma infido. Tuttavia, il vezzo di sentirsi straniero in patria non apparteneva al costume di Agnelli. Viaggiava di continuo, aveva case un po' dappertutto, ma poi alla fine tornava a Torino. In collina. La tendenza a considerarsi apolidi nella globalità che affascina molti italiani di successo internazionale non rientrava nel suo codice sabaudo, rimasto ancora, al fondo, un po' militare. Si sentiva come investito di un ruolo pubblico assai prima del riconoscimento — che più lo inorgoglì perché lo equiparava al nonno — di senatore a vita, avuto da Cossiga nel 1991.

Il presidente emerito della Repubblica, Ciampi, ricordò nei giorni del funerale che pochi, come lui, furono capaci di interpretare il carattere e l'identità nazionale. Non erano parole di circostanza. Dopo l'8 Settembre, la scelta di Agnelli e di Ciampi fu quella di difendere lo Stato nonostante la disfatta. Non si strapparono le stellette. Difesero la libertà senza lasciare l'uniforme. «Agnelli era fedele a una certa idea dell'Italia, credeva in un ideale risorgimentale».

L'Avvocato non lasciò Torino negli anni del terrorismo; non vendette l'azienda quando avrebbe potuto farlo con sicura convenienza; la parte del rentier gli faceva semplicemente orrore; sentiva il peso del suo ruolo pubblico forse anche di più di quello privato. Non parlava mai male del suo Paese, tanto più all'estero. Era il più cosmopolita degli imprenditori, con amici veri sparsi un po' ovunque, da Henry Kissinger a Jean Luc Lagardère, ma detestava una certa esterofilia d'accatto che tanto era in voga fra i suoi seguaci e allora scodinzolanti colleghi industriali, sudditi del ruolo e della primazia della Fiat. Era un cittadino del mondo che non dimenticava di avere un passaporto italiano, immerso totalmente nell'Italia della Prima Repubblica, la sua. La Seconda, che ha avuto come protagonista il Cavaliere (il quale confessò di tenere la sua foto sul comodino della camera da letto) non gli apparteneva affatto. Non la capiva, la giudicava volgare e noiosa. Guardava con sospetto e sufficienza la carica dei «berluschini», l'emergere disordinato ma vitale dei piccoli e medi imprenditori che non riconoscevano più in lui né il capostipite dell'industria italiana né il modello del successo da imitare.

Il suo declino cominciò proprio da questa clamorosa incomprensione. Un errore imperdonabile per una intelligenza reattiva come la sua e la dimostrazione che il fiuto per l'aria del tempo non è per sempre. Passa come la giovinezza che Agnelli ha rincorso con acribia pari solo alla costanza con la quale ha inseguito le bellezze femminili in giro per il mondo. O meglio, come molte di queste hanno inseguito lui. La sua vita è stata anche una fuga dal destino avverso che si era accanito sulla sua famiglia. Il padre Edoardo morto nel '35 per un banale incidente con un idrovolante nel porto di Genova. Il figlio che portava lo stesso nome, suicida nel 2000 gettandosi da un viadotto sulla Torino-Savona, costruito apposta per il transito verso il mare delle bisarche con le auto prodotte a Mirafiori. La scomparsa prematura dell'erede prescelto, Giovannino, figlio di Umberto, a 37 anni nel 1997.

Una catena tragica che non increspò la sua immagine pubblica. Il pudore gli impediva di mostrare i suoi sentimenti, ed era buona educazione piemontese e familiare non farlo. Il dolore non apparve mai sul suo volto e un velo di cinismo si trasformò negli anni in una corazza elegante, ma impenetrabile. La grazia di cui era dotato, straordinaria, lo faceva oscillare dall'America di Scott Fitzgerald, all'Inghilterra elisabettiana, sebbene gli inglesi non gli piacessero. A Londra ci andò poco: non lo consideravano. Era di una gentilezza regale, inarrivabile, ma assolutamente incostante. La noia era sempre in agguato, lo sguardo correva via veloce verso gli angoli delle stanze e l'interlocutore rimaneva appeso alle risposte abbozzate per le troppe domande. Il tempo era sempre troppo lungo, ma non scalfiva mai il codice della cortesia. Il senso della disciplina era forte come la voglia della sorpresa e della trasgressione. La cosa che gli piaceva di più era il vento, perché non si può acquistare, ma sulle sue tante barche ci rimaneva poco. Una crociera era improponibile. Sapeva godere dell'arte e della bellezza con competenza, ma conservando il vezzo di chiedere sempre un parere facendo finta di non averne mai maturato uno. Nella sua eterna fuga dal destino e dalla normalità, Agnelli non ebbe mai paura della morte. Quando la malattia non gli lasciò più nessuna speranza, si congedò quasi in punta di piedi. Chi è troppo in scena non sa come uscirne. Una volta volle leggere il «coccodrillo» (si chiamano così gli articoli che i giornali preparano in caso di morte improvvisa di personaggi celebri). Lo scorse soltanto, con leggero disprezzo, per poi concludere che avrebbe vissuto a lungo solo per smentire l'autore di un ritratto troppo lusinghiero. Il Novecento è stato il suo secolo. E lui l'ha rincorso con un leggero e perdonabile ritardo. Consegnando se stesso alla storia con l'understatement sabaudo di cui fu sublime e inimitabile interprete.

Intervista Passioni e virtù di un protagonista della storia del Paese

Romiti: le nostre confessioni senza mai darci del tu

«Generoso con pudore, incapace di mentire»

di ALDO CAZZULLO (CorSera 19-01-2013)

Dottor Romiti, per quale motivo lei restò in piedi nel Duomo di Torino per tutto il funerale di Giovanni Agnelli?

«Perché lui in chiesa faceva così. Ricordo una domenica in cui andai a trovarlo a Villar Perosa. Mi portò a messa. La moglie con i figli erano davanti. Lui era in fondo, e rimase in piedi per l'intera funzione: "Romiti, rimanga in piedi con me". Gliene chiesi il motivo. Rispose che aveva avuto un'educazione cattolica, e quello era il modo per dimostrare, se non la fede, la fedeltà. Restare in piedi al suo funerale era il mio modo di rendergli omaggio».

Che cosa resta dell'Avvocato, dieci anni dopo?

«Innanzitutto, una lezione di stile. Che non era solo una questione di estetica, o di mode. Certo, aveva un colpo d'occhio eccezionale per l'arte. E dettava piccole esteriorità subito imitate dagli adulatori, tipo la cravatta sul pullover. Ma lo stile per l'Avvocato era sostanza. Era comportamento, e anche valori morali che in lui erano profondamente radicati dall'educazione ricevuta e dall'esempio del nonno. Era del tutto incapace di dire bugie. Questo creava anche problemi».

Quali problemi?

«Alle trattative sindacali partecipava di rado. Quando veniva, però, si faceva sfuggire fin dove la Fiat poteva arrivare. È una cosa che ovviamente non si fa mai. Ma per lui era impensabile non dire sempre la verità; gli avevano insegnato così. Lo stile era il parametro con cui giudicava le persone. Per questo non considerava molto Berlusconi».

Non gli era neppure simpatico?

«No. Lo divertiva, ma gli dava fastidio epidermicamente, non riusciva a stargli vicino. In questi casi il suo giudizio diventava severo. Mentre era incline a perdonare in altri casi, in cui riconosceva una qualche forma di stile. Per questo, oltre che per l'affetto, perdonò Montezemolo».

Non crede che la vicenda dei capitali all'estero abbia gettato un'ombra su questo stile?

«L'attacco postumo alla memoria di Giovanni Agnelli è stato vergognoso. La vicenda è esplosa per l'iniziativa della figlia, che non andava d'accordo con la madre. Ma quando si parla di capitali all'estero bisogna innanzitutto distinguere tra i soldi della Fiat e quelli personali dell'Avvocato. Il gruppo è sempre stato internazionale. E lui si è ritrovato beni all'estero per questioni ereditarie. Non era uno che portava i soldi fuori, a differenza di molti altri. Se è per questo, non aveva mai una lira in tasca. Quando andavamo a prendere un caffè al bar, pagavo io».

Vi siete sempre dati del lei?

«È vero. Un giorno, dopo qualche anno, mi disse: "Si è accorto che ci diamo ancora del lei?". Risposi che andava bene così. Perché era un "lei" che sottintendeva una confidenza molto più intima di quella di un "tu". Lo dico oggi, con un certo pudore: l'Avvocato con me si confidava molto. E io nel mio piccolo facevo altrettanto. Parlavamo di tutto: le famiglie, le amicizie, le donne».

L'Avvocato che parla di donne, e non con le donne?

«Ne parlava per dire che mai avrebbe lasciato sua moglie. Diceva proprio così: "Io non potrei vivere senza Marella". Per lui la famiglia era un tassello fondamentale; sfasciarla implicava un fallimento. Per questo era contrario al divorzio di suo fratello Umberto. Sotto il profilo sentimentale, aveva un understatement sabaudo. La celebre frase che gli è stata attribuita, secondo cui "si innamorano solo le cameriere", è della sorella Suni, ma lui la faceva propria».

Non mi dirà che Agnelli pensava davvero che si innamorano solo le cameriere?

«Certo che no! Ma i sentimenti andavano taciuti. Come gli apprezzamenti. Come il dolore».

L'Avvocato non le manifestava apprezzamento?

«Mai in modo esplicito. Prenda la battaglia del 1980: l'occupazione della Fiat, la marcia del 40 mila. Io lo tenevo informato ogni giorno, sino alla vittoria sui sindacati. Lui non mi disse mai nulla. Ma qualche giorno dopo mi telefonò dal Quirinale e mi passò l'ex presidente Saragat, che fu calorosissimo: "Finalmente ho rivisto per strada i volti degli operai e dei quadri Fiat che conosco!". Era il modo che l'Avvocato aveva trovato per dirmi: bravo Romiti, grazie».

Lei ha raccontato a Paolo Madron che quando telefonò ad Agnelli da Pechino per le condoglianze dopo la morte del figlio, lui rispose: «Romiti, mi dica piuttosto: cos'è andato a fare in Cina?».

«Un altro segno di mentalità sabauda, direi quasi militare. In realtà stava patendo la sofferenza peggiore di tutta la vita. Forse il male che l'ha ucciso covava già dentro di lui; certo fu il dolore per la fine di Edoardo a scatenarlo».

Com'era la loro relazione?

«Edoardo era sensibile e generoso, ma inadatto ad assumere la responsabilità del primo gruppo industriale italiano. Suni diceva che in lui rivedeva Giorgio, il fratello morto prematuramente. Entrambi, padre e figlio, hanno sempre sofferto per quel rapporto che non erano mai riusciti a stringere. Ognuno era deluso dall'altro».

Il tramite tra lei e Agnelli fu Enrico Cuccia. Com'erano i loro incontri?

«L'Avvocato voleva bene a Cuccia, ma ne aveva un po' soggezione. Cuccia era più anziano di lui, e poi aveva una cultura e una statura intellettuale impressionanti. Si vedevano spesso. Parlavano di affari per cinque minuti. Poi cominciavano a conversare di arte, mostre, musei».

Ci fu un momento in cui Mediobanca aveva preso il sopravvento in Fiat; poi Agnelli lo recuperò. A costo di lasciare la presidenza a 75 anni. Presidente divenne lei, che però dovette a sua volta lasciare subito dopo. Questo non ha creato frizioni tra voi?

«Non è stata una soluzione improvvisata. Era un accordo preso anni prima. Del resto, la famiglia Agnelli non ha mai avuto la maggioranza assoluta delle azioni Fiat. L'Avvocato era il perno di un sistema che coinvolgeva Mediobanca, Generali, Alcatel e Deutsche Bank. Ed era il capo che teneva insieme una famiglia numerosa. La regola è che al timone dovesse essere una persona sola».

Ma quando l'Avvocato annunciò che dopo di lui sarebbe venuto il fratello Umberto e dopo di lei Ghidella, Cuccia non apprezzò. E lei neppure.

«Guardi che io ho sempre riconosciuto le grandi qualità di Vittorio Ghidella. È il padre della Uno, l'auto che ha invertito il corso della Fiat, dalla crisi alla ripresa. Non avrei mai potuto determinare da solo le vicende che portarono al suo addio. Ci fu un'inchiesta interna, condotta da Chiusano e Grande Stevens in due o tre giorni, che confermò le irregolarità. Agnelli stesso me ne diede conferma. Non ho mai letto il rapporto, ma dovrebbe ancora essere nelle carte Fiat».

Al posto di Umberto venne designato il suo primogenito, Giovanni Alberto. Dopo la sua scomparsa, toccò a John Elkann. Com'era il rapporto tra nonno e nipote?

«L'Avvocato aveva in mente il rapporto che lui aveva avuto con suo nonno. Mi fece conoscere John, che cominciò a lavorare con me. Gli insegnai a leggere i bilanci. Poi andò in Polonia. Ha avuto una formazione seria. L'Avvocato voleva metterlo in consiglio al posto di Giovanni Alberto, ma esitava. Gli dissi che la cosa andava fatta subito. E così accadde».

Non avete mai avuto scontri? Non le ha mai mosso rimproveri?

«Scontri veri e propri, mai. Rimase perplesso quando gli dissi che avevo comprato Palazzo Grassi dalla Snia: "E ora cosa ce ne facciamo?". Poi si rese conto che era stata una bella mossa. Un'altra volta mi mostrò una lettera anonima contro di me che aveva ricevuto, dicendomi: "Gliela do perché la riguarda, ma non le attribuisca importanza. Sapesse quante ne ha date a me Valletta…".

Di cosa parlava la lettera?

«Di donne».

A Giampaolo Pansa lei raccontò di aver ricevuto da Rol, il celebre sensitivo torinese, una lettera con la grafia di Valletta. È vero che Agnelli non voleva che lei frequentasse Rol?

«È vero. Mi diceva sempre: "Romiti, non ci vada!". Ne era terrorizzato da quando a Venezia aveva sentito Rol raccomandare a un amico comune di non prendere l'aereo per Roma. Quell'aereo cadde, l'amico morì. Io però a casa di Rol trovavo Mastroianni e Fellini che pendevano dalle sue labbra. E la grafia di quella lettera era proprio di Valletta».

Quali erano i difetti di Agnelli?

«Erano inscritti nella sua biografia. Era nato ricco, e quindi vezzeggiato. Il suo lavoro non fu mai la gestione. Aveva il vezzo di dire che avrebbe fatto fallire l'edicola all'angolo; in realtà era intelligentissimo. Capiva cose e persone al volo. Noi lavoravamo tre giorni su un dossier, e lui in pochi minuti aveva colto il problema e individuato la soluzione».

Che idea aveva dell'Italia?

«La amava, ma la considerava un Paese di seconda schiera. Lui era affascinato dall'America, la patria di sua nonna. Parlava inglese con gli inglesi e americano con gli americani. Fu tentato davvero dall'idea di diventare ambasciatore a Washington, perché gli sarebbe piaciuto fare il diplomatico. O il giornalista, come i suoi amici Montanelli e Biagi».

Quando l'ha visto per l'ultima volta?

«Quindici giorni prima che morisse. Ma non ci fu un vero e proprio commiato: "Romiti, torni presto a trovarmi". Non amava le rievocazioni, non provava nostalgie. Ha sempre preferito il futuro».

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