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CRAZEOLOGY

Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"

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dato per scontato che di noi poveri mortali e dell'italia a ddv non importa nulla

chi o cosa lo spinge a certe posizioni ??

ed il suo amico luchino????

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Joined: 24-Oct-2006
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Questa è davvero bella nè.

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LO SMONTEZEMOLATO SCARICA I FURBETTI DEL QUARTIERINO MONTEZEMOLINO: - 1- ORMAI È UFFICIALE: MONTEZEMOLINO NON SI CANDIDERÀ NÉ ESPORRÀ IL SIMBOLO DI ITALIA FUTURA ALLA CARNEFICINA DELLE PROSSIME ELEZIONI E ABBANDONA AL LORO DESTINO I BOCCALONI CHE GLI HANNO CREDUTO: I VARI ROSSI, CALENDA, ROMANO E VECCHIONI - 2- I FOTTUTI DI ITALIA FUTURA, PERÒ, HANNO OTTENUTO QUALCOSA, CHE LUCA LUCA TACCIA E NON AFFRONTI L'ARGOMENTO FINO A NOVEMBRE QUANDO SI FARÀ L’ANNUNCIATA CONVENTION INSIEME AD OSCAR GIANNINO, AUCI, ZINGALES ECC.ECC. (MA I VOTI CHI GLIELI DA? DOVE LI PIGLIANO?), LUI VADA ALMENO A FARE UN BEL DISCORSO NOBILE) - 3- IL FUGGI FUGGI DEGLI SMONTEZEMOLATI VERSO ALTRI PARTITI E’ INIZIATO MA SARÀ BENE CHE SI METTANO L'ANIMA IN PACE E SI FACCIANO ASSUMERE, DALLA FERRARI O DA NTV -

DAGOREPORT

Massimo Cacciari? Profetico su Montezemolo. Lo scorso Il settembre ha rilasciato una intervista al Messaggero dal titolo netto: "Ormai Luca arriva tardi può puntare solo a qualche deputato". E così sarà, forse! Sempre se il grande bluff sopravvivrà fino alle presentazioni delle candidature: molte chiacchiere senza voti!

Il cerchio magico montezemoliano, in questi mesi, più si avvicinavano le elezioni più è entrato in fibrillazione, ha perso la trebisonda e lo hanno esposto ad una tale quantità di errori che solo dei novellini potevano commettere. Si tratta dei poco noti furbetti del quartierino montezemolino di cui abbiamo già parlato: Rossi, Calenda, Romano e Vecchioni.

Ed ecco il colpo di scena. Montezuma ha definitivamente deciso che non correrà, non si candiderà, non esporrà il logo di Italia Futura alle prossime elezioni politiche. Il politburo del partito montezemolino per la pagnotta è furioso ma lui è irremovibile. E del resto non si era mai impegnato con nessuno che si sarebbe candidato.

I furbetti, però, hanno ottenuto qualcosa, che Luca Luca taccia e non affronti l'argomento fino all'ultimo minuto utile e che a novembre quando si farà la annunciata convention insieme ad Oscar Giannino, Ernesto Auci, Zingales ecc.ecc. (ma i voti chi glieli da? dove li pigliano?) lui vada almeno a fare un discorso nobile.

Sul tacere ok, sul discorso nobile vedremo. Intanto per i 4 è sempre più urgente trovare una strada qualunque per assicurarsi un posto in lista, con qualunque partito. Ma senza Montezemolo e senza voti questi furbetti del quartierino montezemolino, che gli hanno fatto più danni loro di quanto non sia riuscito a farsene da solo in 65 anni di onorata carriera, sarà bene che si mettano l'anima in pace e si facciano assumere, dalla Ferrari o da NTV per non rimanere a spasso.

I tanti volponi della politica sanno già del bluff, tanto fumo senza arrosto!! Ed il fuggi fuggi è già iniziato.

[26-09-2012]

Se le cose stanno così è davvero un fenomeno.

Sono anni che fa il maestrino e poi si dilegua... .oddio

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POTERI FORTI

CORRIERE DELLA SERA

LA FIAT È SEMPRE MENO INTERESSATA ALL'ITALIA, PERÒ IL QUOTIDIANO È INTOCCABILE

Toglietemi tutto

ma non quel giornale

Della Valle attacca gli Agnelli guardando a Via Solferino. E John Elkann

serra la presa, perché sa che il peso politico della testata non ha prezzo.

di STEFANO CINGOLANI (PANORAMA | 3 ottobre 2012)

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Sussurri & Grida

Garimberti nel consiglio Juve,

l'ipotesi Bongiorno

CorSera 28-09-2012

Dal collegio dei difensori dell'allenatore Antonio Conte — il 2 ottobre tappa probabilmente decisiva al Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport — al «board» dello Juventus Football Club. Per l'avvocato Giulia Bongiorno sarebbe un nuovo passo di una carriera densa di onori (e oneri, ovviamente). Per il club bianconero un ingresso eccellente nel consiglio di amministrazione, che si dovrà rinnovare in occasione della prossima assemblea di fine ottobre. Nel caso della Bongiorno gli intrighi del calcio e della giustizia sportiva non sono certo un mistero. Tra i suoi clienti ha avuto calciatori come Stefano Bettarini («il più bello») e Francesco Totti (per lo sputo agli Europei del 2004). Tra i presidenti l'ex patron della Lazio, Sergio Cragnotti. In corso Galileo Ferraris, secondo le indiscrezioni che circolano, l'avvocato Bongiorno troverebbe i riconfermati Andrea Agnelli, Giuseppe Marotta, Aldo Mazzia, Pavel Nedved, Camillo Venesio. Ma anche qualche altro «nuovo». Come l'ex presidente della Rai, Paolo Garimberti, dallo scorso aprile nominato presidente dello Juventus Museum, il mausoleo di 115 anni di storia bianconera (ventimila visitatori solo nel primo mese e mezzo). Ma se la fede juventina di Garimberti è cristallina, non si può dire lo stesso della Bongiorno. Nel 2004, cercando di distrarre Totti prima dell'udienza, gli confessò di essere tifosa del Palermo. Peccato veniale? Certo, se avesse detto Fiorentina o Inter sarebbe stato molto peggio.

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Attualità FIAT DINASTY

Non sono un'Agnellina

La pinacoteca. I film. L'arte. Parla la nipote dell'Avvocato: "A Della Valle rispondo con il mio lavoro"

di ALESSANDRA MAMMÌ (l'Espresso | 4 ottobre 2012)

Appuntamento alle nove di mattina. Centro città. Ginevra Elkann è lì da un po'. Seduta al tavolino di un caffè, ha letto almeno un paio di quotidiani e con l'aria di chi è sveglio da tempo, si giustifica dicendo: «Mi alzo presto. Ho un figlio piccolo da portare a scuola». Un altro invece sta per nascere in ottobre, mentre la Pinacoteca Marella e Giovanni Agnelli, di cui lei è presidente, compie proprio in ottobre dieci anni e bisogna organizzare le celebrazioni. Poi c'è da seguire "Pietà" di Kim Ki Duk di cui lei è distributore come co- fondatore della Good Films e poiché il film ha pure vinto Venezia («Chi se lo aspettava!», dice) è lanciato nelle sale e sui mercati del mondo. Per non parlare dell'incarico nel comitato esecutivo della Fondation Cartier e quello consultivo della casa d'asta Christie's . Dunque bisogna svegliarsi presto. Per l'arte e il cinema, le mostre e i festival, i doveri verso figli e quelli verso i nonni. Perché una famiglia monumentale (Agnelli, Elkann più i cognomi del marito Gaetani dell'Aquila d'Aragona) aleggia dietro le spalle di Ginevra, ragazza discreta e schiva, nata a Londra (settembre 1979), vissuta in Brasile e in Francia, laureata a Parigi ma nell'università americana e promossa con un master alla London Film School perché aveva un sogno. Mai realizzato: diventare regista.

Tanti studi, un po' di gavetta ma un solo film, un cortometraggio. Se lo desiderava tanto perché non ha provato a fare il regista signora Elkann? Le opportunità non le saranno mancate.

«Mancava la più importante. Non avevo qualcosa di abbastanza forte da dire».

È necessario?

«Avere qualcosa da dire? Beh, credo sia meglio. Ho sempre avuto tanto di quel rispetto per il cinema da maturare una sana paura di fallire».

Ma a soli 18 anni era sul set. E non uno qualsiasi. Quello dell'"Assedio", accanto a Bernardo Bertolucci.

«Accanto è una parola grossa. Ho avuto la fortuna di vederlo girare. Esperienza fondamentale a 18 anni. Bertolucci usa la macchina da presa come un poeta la penna. Sa costruire le immagini come nessuno, e osservarlo all'opera è stato un privilegio. Ma i miei compiti lì erano parecchio limitati: facevo fotocopie, ordinavo i caffè e venivo spedita a comprare la pizza per tutti. Corri di qua, corri di là...».

Non era trattata come una ragazza Agnelli.

«Assolutamente no. L'assistente di Bertolucci, Serena Canevari, grande signora, mi ha insegnato cos'è il lavoro sul set. Lavoro vero: alzarsi alle cinque di mattina, essere puntuali, obbedire agli ordini».

Per questo ha preferito fare il produttore?

«È altrettanto duro. Ma altrettanto creativo».

Come ha scelto "Pietà"?

«Visto a Cannes, al marché. E con i miei soci, Luigi Musini e Francesco Melzi d'Eril della Good Films, l'abbiamo preso subito. Nessun dubbio».

Neanche quello di distribuire un film anticapitalista firmato da un regista che ha accolto il Leone d'Oro in ciabatte e con il pugno chiuso?

«Quel regista è uomo di straordinaria sensibilità, uscito da un momento difficile della sua vita con un film dalla eccezionale forza emotiva. Mi ha colpito nel profondo, ha saputo raccontare come una pulsione di vendetta e di odio possa sfumare nella pietà. Non ho visto un film contro il capitalismo ma un film più complesso sui sentimenti degli uomini schiacciati da un sistema di potere e di denaro. E poi io di certo non sono anticapitalista, anche se continuo a sperare in un capitalismo etico».

Da "Pietà" a una commedia del giovane Gabbriellini con Gianni Morandi ("I padroni di casa", in sala dal 4 ottobre) passando per "The Lady" di Besson film storico sulle gesta della leader birmana Aung San Suu Kyi. La sua Good Films è alquanto eclettica nelle scelte. Per lei cos'è un "good film"?

«Una buona miscela di visione, racconto ed emozione. Non dipende dal budget, dal genere o dalla nazionalità».

Il nostro cinema sa fare good films?

«Ci sono molti buoni film, soprattutto di ragazzi giovani girati con pochi mezzi. Veniamo da anni di crisi culturale che sembravano aver interrotto una tradizione, ma non è così, i talenti ci sono. La volontà di farli crescere meno. Quello che mi stupisce davvero e che non siamo ancora riusciti a raccontare la storia appena passata».

Intende l'era Berlusconi?

«Sì. Anche se come sempre la storia non si può ridurre a un solo uomo. Ma non capisco questa attuale ossessione di metter in scena gli anni Settanta e rimuovere completamente i Novanta o gli inizi del nuovo millennio. Quanti film sugli anni Settanta potremo ancora vedere?».

Lei negli anni Settanta non era nata. E negli Ottanta e Novanta era altrove. È difficile tornare in patria da italiano cresciuto all'estero?

«Non è semplice. Anche se sono consapevole del privilegio. Ma inevitabilmente si acquisisce una mentalità diversa».

Lei non si sente italiana?

«Sono assolutamente italiana. Di più. Torinese. È la città delle origini. Il luogo del ritorno. Si viaggia, si viaggia e poi si torna lì. Se mi chiedono: "Di dove sei?" D'istinto rispondo: "Sono di Torino"».

E allora parliamo della Pinacoteca Agnelli sotto la sua gestione. Lei lì ha fatto mostre inconsuete, dalla posta di Gilbert and George alle opere di arte africana contemporanea della collezione Pigozzi. Qual è la linea?

«Segue quella dei miei nonni, hanno donato a Torino una collezione del tutto soggettiva. Molto privata. I quadri che sceglievano erano un riflesso della loro personalità e dei loro gusti. Ho pensato di mostrare collezioni che raccontano anche i collezionisti, i loro gusti, le loro ossessioni, la loro storia. Le loro eccentricità persino».

Lei non sembra eccentrica, almeno non quanto suo fratello Lapo.

«È impossibile competere con l'eccentricità di Lapo! Ma a ben guardare i miei lineamenti, io gli somiglio. Più di quanto non si creda».

Sembra più simile a suo fratello John.

«Sono perfettamente nel mezzo fra i due. In equilibrio tra Lapo e John. Che mi sostengono molto nelle mie scelte. Perché non è facile produrre cultura in Italia per un privato. A differenza di altri Paesi dall'Inghilterra alla Germania, per non parlare della Francia. Ci si sente più puniti che incentivati. È il nostro limite più grave, non riuscire a capire che la cultura, sia passata che presente o futura, è il nostro più grande patrimonio. C'è molto da lavorare, molti talenti da sostenere, molte cose da mostrare, molto da insegnare. È faticoso ma sento che ne vale la pena. Non riesco a non essere ottimista».

Si è sentita offesa quando nel furore della polemica Della Valle ha invitato la vostra famiglia «a tornare a fare quello che ha sempre saputo far meglio: sciare, veleggiare e giocare a golf»?

« Ho una sola risposta. Il mio lavoro».

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La casa segreta di Damien

Cominciò nel 2002 con la collezione di Giovanni e Marella Agnelli, la storia della Pinacoteca. Con questa raccolta molto privata, che nelle sale dello scrigno disegnato da Renzo Piano, arrampicato sul Lingotto, passa da Canaletto a Matisse, da Canova a Severini, da Tiepolo a Balla. Ma solo nel 2007 Ginevra Elkann aggiunge a tanto tesoro un'attività di mostre temporanee legate non tanto alle collezioni ma al collezionismo. Quel malanno che rende ossessivi, meticolosi, bulimici i raccoglitori e amatori d'arte. Uomini e donne che non perseguono un business, ma una necessità: quella di veder riuniti i loro oggetti del desiderio. Ed ecco "Why Africa?" dove Jean Pigozzi coglie lo sguardo contemporaneo di un continente. I 300 oggetti eccellenti di von Vegesack che disegnano la storia del design. Il signor Brett che insegue un'arte fuori dal seminato fatta di dilettanti e talenti misconosciuti, dipinti, oggetti e libri per costruire "The museum of everything". O l'ultima raffinatissima messa in scena delle "papier roulés" delle suore di clausura, recuperate dai cassetti dei monasteri e oggetti di devozione della imprevedibile fotografa Nan Goldin. Ma la prossima collezione poi sarà "mostra dell'anno" (dal 10 novembre), perché con il titolo "Freedom not Genius" ha sottratto dal privato di Damien Hirst gli oggetti più amati e più importanti, dai suoi feticci (teschi di ogni genere e natura), ai suoi amici (a cominciare dagli ex Young British Artists) ai suoi maestri (Bacon in primis ) ecco cosa nasconde e rivela la casa dell'artista che, piaccia o non piaccia, ha comunque segnato il passaggio del secolo.

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Iveco e Cnh, in fuga dall'Italia

Marchionne trasloca in Olanda

L'operazione avrà benefici societari, e soprattutto fiscali, che vanno nell'esclusivo interesse degli azionisti di maggioranza. Le quote verrano diluite, ma raddoppieranno i diritti di voto. E il primo "scippo" al Paese della famiglia Agnelli

di WALTER GALBIATI (Republica.it - ECONOMIA & Finanza 28-09-2012)

MILANO - Ogni giorno potrebbe essere buono. La fusione tra Case New Hollande (Cnh) e Fiat Industrial in una nuova società di diritto olandese potrebbe piombare sugli azionisti delle due società del gruppo Fiat da un momento all'altro. E sarebbe questo il primo vero e grande scippo all'Italia da parte degli Agnelli e del loro scudiero, Sergio Marchionne. Perché qui non si parla solo di produzione e stabilimenti che vengono trasferiti all'estero, ma di un'intera società che migra in un altro Paese, europeo, ma con benefici societari, ma soprattutto fiscali, che vanno nell'esclusivo interesse degli azionisti di maggioranza.

L'annuncio dell'operazione è avvenuto prima dell'estate, a maggio, e ora è in attesa che gli amministratori indipendenti di Cnh si pronuncino sull'operazione. Un loro via libera aprirebbe le porte alla fusione, in quanto l'approvazione delle assemblee dei soci è pressoché scontata visto che gli Agnelli detengono la maggioranza di entrambe le società e gli azionisti di minoranza non hanno diritto a una votazione separata.

Una mossa che priverebbe l'Italia di un colosso industriale come Fiat Industrial (circa 25 miliardi di ricavi) per trasportarlo sotto la giurisdizione olandese. E in genere, portare l'azienda dall'Italia all'Olanda ha almeno un paio di significati: avere azioni con privilegi e risparmiare in tasse. Il primo lo ha confermato la società stessa nel suo annuncio: "Gli azionisti che parteciperanno alle assemblee di Fiat Industrial e di Case New Hollande convocate per deliberare sull'operazione e rimarranno azionisti delle due società fino al completamento della fusione avranno la facoltà, indipendentemente dal voto da loro espresso, di ricevere due voti per ogni azione loro attribuita. Tale diritto sarà valido fino al momento in cui tali azioni saranno cedute. Successivamente alla chiusura dell'operazione, il diritto di ottenere il doppio voto per azione spetterebbe anche ai detentori di azioni a voto singolo che rimarranno azionisti della società per almeno tre anni".

I primi a beneficiarne, non vale neanche la pena di sottolinearlo, saranno gli Agnelli. Con la fusione, la loro quota in Fiat Industrial si diluirebbe dal 30% al 27% (al di sotto della soglia d'Opa), ma il doppio diritto di voto blinderebbe di fatto il controllo della società. Gli altri azionisti avrebbero certo preferito un premio in denaro che in diritti di voto, ma questo è stato sistematicamente escluso: "L'operazione - si sono affrettati a dire gli Agnelli - non comporta il riconoscimento di un premio né per gli azionisti di Fiat Industrial né per quelli di Cnh". Quanto ai benefici fiscali, bisogna attendere i dettagli della fusione, sui quali Marchionne ha mantenuto il più stretto riserbo. Uno dei sistemi più utilizzati per creare holding in Olanda è conosciuto come "dutch sandwich" (il "panino olandese"), che consiste nel collocare una società holding madre nelle Antille Olandesi e la società holding figlia in Olanda, che a sua volta possiede l'operativa collocata in uno stato estero (per esempio, Usa e Italia). Il fine è di avere un beneficio fiscale (fino all'esenzione) sui dividendi prodotti dalle controllate o di avere minori aliquote di imposta.

Il dubbio rimane, ma potrebbe essere svelato entro la fine dell'anno, termine entro il quale la società ha detto di voler portare a termine l'operazione. E visto che deve concedere 60 giorni di tempo agli azionisti di minoranza per decidere se aderire all'operazione o meno, i tempi cominciano a essere stretti. Il diritto di recesso è concesso a tutti i soci, ma gli Agnelli porteranno avanti l'operazione solo se l'esborso per soddisfare chi non è d'accordo con loro non supererà i 250 milioni di euro.

Che poi nell'operazione ci possano essere dei benefici anche per gli investitori, lo dimostra il posizionamento dei grandi fondi internazionali, saliti oltre il 13% nel capitale di Fiat Industrial (Harris Associated, Fmr, Blackrock e il fondo sovrano di Singapore). Grazie all'unione tra Cnh e Fiat Industrial, il nuovo gruppo pagherà meno interessi sul debito (gli analisti dicono 150 milioni in meno) ed, essendo più internazionale, avrà anche più accesso ai mercati finanziari. Ma il vantaggio per gli altri portatori di interesse in Fiat (dai fornitori ai lavoratori, dall’ Italia ai clienti) è tutto da dimostrare.

Intanto la Cnh, controllata con oltre l’80% del capitale da Fiat, ha nominato il consiglio di indipendenti che dovranno pronunciarsi sulla convenienza dell'operazione. Tra di loro non c’è nemmeno un italiano: sono il professor Thomas Colligan, ex revisore della Pricewaterhouse Cooper, il professor Rolf Jeker, che nella sua vita ha collezionato numerosi incarichi in Svizzera, Jacques Theurillat, avvocato esperto di tasse, il professor Edward Hiler e il banchiere (tra l'altro ex Lehman Brothers) Kenneth Lipper. Sono definiti indipendenti, anche se i primi tre percepiscono, da diversi anni, circa 115mila dollari l'anno da Cnh e gli altri circa 87mila dollari. Per sciogliere la loro riserva e chiarire i loro dubbi, potranno avvalersi della consulenza, remunerata sempre da Fiat, di Jp Morgan e di Lazard con l'aiuto dei legali degli studi Cravath, Swaine & Moore LLP, De Brauw Blackstone Westbroek N. V e di Bonelli, Erede & Pappalardo. Questi ultimi sì, italiani.

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Mentre la Fiat viaggia verso gli Usa

gli Elkann dicono addio al fisco americano

Per i due rampolli di casa Agnelli si è conclusa la pratica decennale di rinuncia al passaporto statunitense. Le decisione risale all'inizio del decennio scorso, quando John e Lapo si apprestavano ad andare a ricoprire incarichi di responsabilità nell'azienda di famiglia

di SARA BENNEWITZ (Republica.it - ECONOMIA & Finanza 02-10-2012)

MILANO - Le imprese diventano americane, ma gli imprenditori preferiscono rinunciare al passaporto a stelle e strisce. Perché essere quotato a Wall Street è conveniente, essere un cittadino statunitense impone invece una serie di dichiarazioni dei redditi e un regime di tassazione fiscale aggiuntivo, che rende costoso e complesso essere un cittadino Usa.

John Elkann e suo fratello Lapo sono nati americani perché la madre Margherita Agnelli, ha trovato conveniente andarli a partorire a New York, e negli Usa vige lo Ius soli (chi nasce sul suolo americano è americano). Tuttavia a cavallo tra il 2001 e il 2002, ovvero poco prima della scomparsa del nonno Gianni (gennaio 2003) ma molto dopo che il patriarca designasse John come suo erede (1997), i due rampolli della dinasty torinese hanno entrambi rinunciato alla cittadinanza Usa.

La legge statunitense prevede infatti per i cittadini americani una esaustiva dichiarazione di tutti i redditi posseduti, in patria e all’estero, sotto tutte le forme, dalle case ai titoli, ai conti bancari. I cittadini statunitensi, devono pagare le tasse in America, salvo compensazione con le altre imposte pagate all’estero, ma soprattutto per non incorrere nel fisco Usa, devono dare una mappatura completa di tutti i loro averi e dei movimenti di ogni conto, attivi e passivi, durante l’anno fiscale.

E così prima di ereditare una fortuna, Lapo e John hanno rinunciato a doverla dichiarare al fisco Usa, che è tra i più severi al mondo nella lotta all’evasione. Al tempo della rinuncia, l’attuale presidente della Fiat aveva 25 anni e stava lavorando presso una grande multinazionale americana la General Electric, mentre il fratello Lapo era assistente personale dell’ex segretario Usa Henry Kissinger.

Insomma, due americani che, pur avendo vissuto tra Inghilterra Francia e Italia, avevano comunque uno stretto rapporto con gli Stati Uniti, hanno deciso di rinunciare alla cittadinanza poco prima di assumere incarichi di rilevo nelle aziende di famiglia.

Per una strana ironia della sorte a distanza di dieci anni, ovvero quando si è completato il processo di questa operazione di rinuncia, una fetta importante delle società di famiglia ereditate dal nonno, ovvero Iveco, Magneti Marelli, i componenti di Teksid e i trattori di Cnh prenderanno il passaporto americano. La legge Usa allora in vigore prevedeva infatti che dopo la rinuncia alla cittadinanza, il richiedente fosse obbligato per dieci anni a fare comunque una dichiarazione dei redditi e può essere passibile di una tassa per la chiusura della pratica con il consolato americano. Sul passaporto blu brilla una scritta in latino "E pluribus unum", ma per i fratelli Elkann il brocardo non vale quando tocca a loro rendere conto a tutti i contribuenti Usa.

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I big della Juve

si alleneranno

alla Continassa

Il club pronto a varare la riqualificazione dell’area

IL PROGETTO La nuova cittadella dei bianconeri accanto allo Stadium

di ANDREA ROSSI (LA STAMPA 03-10-2012)

La rinascita di un quartiere può passare anche attraverso gesti simbolici. Come portare la squadra più titolata (e amata) d’Italia ad allenarsi in periferia, nel cuore di un borgo popolare e costruirvi un centro sportivo sul modello delle cittadelle realizzate dai grandi club europei. Alla Continassa potrebbe succedere questo, se è vero che la Juventus è intenzionata a realizzare un centro sportivo accanto al nuovo stadio di proprietà e a trasferirvi gli allenamenti della prima squadra.

Non succederà subito. E nemmeno tanto a breve. Si parla di almeno cinque anni, il tempo che sarà necessario per la completa riqualificazione della Continassa. L’idea aleggia da tempo, da quando Comune e club firmarono il primo protocollo d’intesa, e la Juventus annunciò la volontà di realizzare un centro d’allenamento per le giovanili o per i big. Ora, la scelta sembra caduta sulla seconda opzione, come è stato annunciato ieri in giunta mentre si esaminava la delibera che ratifica tutte le intese e dà il via libera all’intervento. Sarà necessario un ritocco al progetto, ma nulla di sostanziale.

Il cuore della trasformazione è qui: case, cinema multisala, un albergo, un centro diagnostico per la medicina dello sport, un circolo sportivo e le strutture necessarie agli allenamenti (29 mila metri quadrati con impianti calcistici, palestra e spogliatoi). E ovviamente la nuova sede del club bianconero alla cascina Continassa.

In base all’accordo siglato in estate tra l’amministrazione e la società, l’area sarà ceduta alla Juventus per 10,5 milioni di euro. Centottantamila metri quadrati in tutto, tra via Traves e strada Druento, compresa l’Arena rock, costata alla città cinque milioni di euro, destinata a diventare la nuova casa dei mega concerti a Torino e già da rottamare. Non ci ha suonato mai nessuno, e sono passati cinque anni. Al suo posto dovrebbe sorgere il centro medico e il circolo sportivo bianconero. Nel 2011, l’Arena era stata affidata a una società, la Expo Rent, che voleva trasformarla in un pista per go kart. Il tracciato - 850 metri - è quasi terminato, il kartodromo avrebbe dovuto aprire a novembre, ma ora dovrà trovare una nuova collocazione. Fonti di Palazzo Civico (non confermate) parlano di un’intesa raggiunta dall’amministrazione con la Expo Rent per evitare contenziosi.

Da oggi forse non è eccessivo dire che per il quartiere delle Vallette si apre una nuova epoca. Diventerà protagonista di un’operazione che mira a realizzare una cittadella unica al mondo per eccellenza sportiva, scientifica e di loisir. La Juve realizzerà anche una scuola di calcio e un parco pubblico, e poi palazzine. Tutto in questi 380 mila metri quadri, andando a completare una rinascita cominciata poco più d’un anno fa con l’inaugurazione dello Juventus Stadium, diventato in pochissimo tempo un modello d’impianto sportivo in Italia e non solo, impianto sempre esaurito.

Dopo il primo accordo ai tempi del Chiamparino-bis, a luglio Juventus e Comune hanno trovato una nuova intesa aumentando il numero degli insediamenti e il sistema di attività commerciali, ricreative e sportive, oltre che residenziali e ricettive, create attorno alla nuova casa del club.

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http://economia.panorama.it/Corriere-della-Sera-della-valle-giornale

Mentre la Fiat viaggia verso gli Usa

gli Elkann dicono addio al fisco americano

Per i due rampolli di casa Agnelli si è conclusa la

pratica decennale di rinuncia al passaporto statunitense. Le decisione

risale all'inizio del decennio scorso, quando John e Lapo si

apprestavano ad andare a ricoprire incarichi di responsabilità

nell'azienda di famiglia

di SARA BENNEWITZ

Quel pranzo malandrino non è piaciuto a tutti i soci. Venerdì 21 settembre, John Elkann, al termine di una riunione interlocutoria del patto che vincola il 58 per cento del capitale, si è fermato nella sede del Corriere della sera per un déjeneur di due ore con il presidente Alberto Provasoli e l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, i due uomini scelti nell’aprile scorso vincendo le resistenze di Giovanni Bazoli, lord protettore del giornale, e l’opposizione aperta di Diego Della Valle, uscito sbattendo la porta. «È forse diventato l’editore unico?» bofonchiano nei corridoi di via Solferino.

Con 10 azioni su 100, la Fiat si prende il diritto alla prima e all’ultima parola rispetto agli altri 12 principali azionisti della Rcs. Gianni Agnelli aveva

acquisito un potere d’investitura amplissimo, soprattutto sul direttore

del quotidiano. Gli eredi seguono le sue orme. Possono anche lasciare

la Fiat auto, anzi secondo alcuni Sergio Marchionne sta

preparando lo scivolo, ma non molleranno la presa sulla «nostra Rcs»,

come la chiama Elkann. È un’attrazione fatale che attraversa le

generazioni, un gioco di specchi che rimanda al mercato delle influenze.

E a sei mesi dalle elezioni, la temperatura sale al calor bianco.

In molti bussano alla porta. Il re delle cliniche milanesi, Giuseppe Rotelli, ha già un piede sull’uscio e arrotonda la propria quota al 16 per cento. Nel club è entrata persino l’Unipol, avendo acquisito la quota di Salvatore Ligresti:

da via Stalingrado a via Solferino. Mentre il patron della Tod’s,

libero dagli accordi di sindacato, ha cominciato a comprare quel poco

che resta sul mercato (circa il 10 per cento dei titoli) e non perde

occasione per attaccare i vertici della Fiat: «Presi con le mani nella

marmellata, vogliono andarsene dall’Italia». Replica duro Marchionne:

«La smetta di rompere, i suoi investimenti in borse per me non valgono

un parafango». Dietro la lite da comari ci sono due modelli di

capitalismo. Forse. Certo c’è il controllo del Corriere.

La Rcs è davvero così importante? Il gruppo è colpito dalla recessione e dal calo di pubblicità, dalla rivoluzione tecnologica (tablet, social media) che scompagina l’editoria di carta, da investimenti sbagliati come la francese Flammarion o sfortunati come la spagnola Unidad Editorial che stampa il quotidiano El Mundo.

Ha bisogno di un aumento di capitale. La vendita della consociata

parigina ha fruttato 240 milioni, ma è chiaro che non bastano. E i due

soci principali, Fiat e Mediobanca, non tirano fuori un quattrino.

Dunque, non è per fare soldi che conta il Corriere. Il giornale della borghesia ha un fascino antico, ma soprattutto conferisce a chi lo controlla un forte ascendente politico. E non da adesso. È esattamente per questa ragione, del resto, che la Fiat entra per la prima volta in via Solferino. Giulia Maria Crespi, erede della dinastia tessile azionista storica, rimasta in bolletta, nel 1973 chiede aiuto ad Angelo Moratti e a Gianni Agnelli, il quale racconta a Panorama nel 1975: «Sono intervenuto per evitare che andasse nelle mani di Attilio Monti (il petroliere ed editore che possedeva fra l’altro «Il Resto del Carlino» a Bologna, «La Nazione» a Firenze, «Il Tempo» a Roma,

ndr) e alla Fiat non conveniva che il più importante quotidiano

italiano si collocasse troppo a destra». Ma non gli fa comodo nemmeno

che scivoli troppo a sinistra, là dove lo porta «la Zarina», che spinge Indro Montanelli ad andarsene. «Noi siamo sempre governativi» ripetono a Torino.

L’Avvocato vuole fare il presidente della Confindustria e il 5 aprile 1974 viene convocato da Amintore Fanfani: l’uomo più potente della Democrazia cristiana gli impone di sciogliere i legami con L’Espresso, controllato da Carlo Caracciolo, cognato di Gianni Agnelli, e con il Corriere. A quel punto

Crespi chiama Andrea Rizzoli, il quale si indebita fin sopra il collo e cade nelle grinfie di affaristi e banchieri legati alla P2, da Umberto Ortolani a Roberto Calvi, con «il burattinaio» Licio Gelli (così si definì egli stesso intervistato da Maurizio Costanzo proprio sul Corriere) a tirare i fili.

È ancora la politica a fare tornare Agnelli dopo lo scandalo della loggia coperta Protezione 2. Nell’ottobre 1984 la Gemina, una finanziaria controllata dalla Fiat e guidata daCesare Romiti, acquisisce la casa editrice a un prezzo molto basso. Intervengono in molti: da Sandro Pertini, socialista, presidente della Repubblica, a Beniamino Andreatta, la testa più lucida della Dc. «Fece tutto Bazoli, anche il prezzo, e noi ci fidammo» sostiene Romiti. Angelo Rizzoli,

figlio di Andrea, non l’ha mai mandato giù: dopo 26 anni, tra i quali

407 mesi di galera e sei assoluzioni, ha chiesto di essere risarcito con

650 milioni di euro, ma i giudici gli hanno dato torto.

Agnelli

non molla nemmeno nel 1992, quando è in crisi nera, mentre crollano la

lira e l’intero sistema politico. Anzi, proprio Tangentopoli, che

coinvolgerà i vertici del gruppo, spinge a serrare le fila. Così, per la

prima volta il direttore della Stampa, il giornale della Fiat, va a dirigere senza soluzione di continuità il quotidiano di via Solferino. Il prescelto è Paolo Mieli e la decisione è tormentata: l’Avvocato chiede addirittura il via libera a Bettino Craxi, ricorda Massimo Pini nella sua biografia del leader socialista.

Dieci anni dopo, nel momento più drammatico della storia centenaria della Fiat, il Corriere resta intoccabile. Il 24 gennaio 2003 muore Gianni Agnelli, di lì a un anno scompare anche il fratello Umberto. La famiglia è in preda a una crisi esistenziale. La guerra di successione assume toni da tragedia greca (Margherita impugna l’eredità contro il figlio John e la madre Marella).

Le sorti del gruppo sono in mano alle banche che chiedono di

trasformare in azioni i 3 miliardi di euro prestati due anni prima. Nel

frattempo, Marchionne comincia a rovesciare l’azienda sotto la

presidenza di Luca di Montezemolo, diventato anche presidente della Confindustria.

In

Rcs si crea un vuoto al vertice: il 22 giugno 2004 si dimette Cesare

Romiti, che aveva ottenuto il gruppo editoriale come buonuscita dalla

Fiat nel 1998, anche se Gianni Agnelli era riluttante, tanto da

resistere per ben tre mesi. «Il giornale mi divertiva» confessa Romiti

che, in quanto presidente onorario, oggi non si esprime sulle sorti

presenti e future.

Un mese prima, esattamente il 4 maggio, s’è affacciato uno sconosciuto immobiliarista romano, Stefano Ricucci,

con un piccolo pacchetto azionario. Nel gennaio successivo, il parvenu

sfiora già il 5 per cento, il 29 giugno 2005 è al 20. Montezemolo chiede

alle autorità di fare chiarezza e proclama che la Rcs è strategica. Gli

fa eco Marchionne. L’establishment s’arrocca, perché attraverso il Corriere passa il delicato equilibrio dei «poteri forti».

L’attacco procede in parallelo con l’assalto dei «furbetti del quartierino» alle banche Antonveneta e Bnl.

Proclamano l’ambizione di scuotere la foresta pietrificata, ma

finiscono in tribunale. Per avere un’idea di quanto sia stato aspro il

conflitto, basti ricordare che venne costretto alle dimissioni e poi

rinviato a giudizio il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, contro il quale si schierarono tutti i giornali legati al Lingotto.

Il banchiere Enrico Cuccia aveva consigliato ad Agnelli di tenersi lontano, eppure nella coppia Fiat-Corriere si è sempre inserita la Mediobanca. L’amministratore delegatoAlberto Nagel e il presidente Renato Pagliaro

oggi sostengono Elkann. Ma nemmeno la banca d’affari è più quella di un

tempo. Il suo bilancio soffre per il crollo azionario di tutte le

società partecipate, comprese le Assicurazioni Generali, e si parla di vendere il vendibile. La Consob, presieduta da Giuseppe Vegas,

ha acceso due fari, uno sulla Mediobanca in relazione al salvataggio

del gruppo Ligresti da parte dell’Unipol, l’altro sulla scalata alla

Rcs. I soci del patto sono convinti di essere al riparo; a piazza

Affari, invece, molti si attendono la resa dei conti.

Mentre il futuro dell’auto italiana torna a diventare affare di stato, il Corriere resta oltre modo prezioso. Tanto più che grande è la confusione sotto il cielo della politica. Al governo c’è Mario Monti,

storico editorialista del quotidiano (e consigliere della Fiat dal 1988

al 1993), in mezzo a una tempesta senza pari. E via Solferino si

trasforma in una roccaforte assediata. Come la Fortezza Bastiani che

faceva la guardia al deserto dei Tartari, uscita dalla penna di uno dei

corrieristi più famosi: Dino Buzzati.

Modificato da paveldoro

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http://economia.panorama.it/Corriere-della-Sera-della-valle-giornale

Corriere della Sera, toglietemi tutto ma non quel giornale

La Fiat è sempre

meno interessata all’Italia, però il quotidiano è intoccabile. Della

Valle attacca gli Agnelli guardando a via Solferino. E John Elkann serra

la presa, perché sa che il peso politico della testata non ha prezzo.

di Stefano Cingolani

Quel pranzo malandrino non è piaciuto a tutti i soci. Venerdì 21 settembre, John Elkann, al termine di una riunione interlocutoria del patto che vincola il 58 per cento del capitale, si è fermato nella sede del Corriere della sera per un déjeneur di due ore con il presidente Alberto Provasoli e l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, i due uomini scelti nell’aprile scorso vincendo le resistenze di Giovanni Bazoli, lord protettore del giornale, e l’opposizione aperta di Diego Della Valle, uscito sbattendo la porta. «È forse diventato l’editore unico?» bofonchiano nei corridoi di via Solferino.

Con 10 azioni su 100, la Fiat si prende il diritto alla prima e all’ultima parola rispetto agli altri 12 principali azionisti della Rcs. Gianni Agnelli aveva

acquisito un potere d’investitura amplissimo, soprattutto sul direttore

del quotidiano. Gli eredi seguono le sue orme. Possono anche lasciare

la Fiat auto, anzi secondo alcuni Sergio Marchionne sta

preparando lo scivolo, ma non molleranno la presa sulla «nostra Rcs»,

come la chiama Elkann. È un’attrazione fatale che attraversa le

generazioni, un gioco di specchi che rimanda al mercato delle influenze.

E a sei mesi dalle elezioni, la temperatura sale al calor bianco.

In molti bussano alla porta. Il re delle cliniche milanesi, Giuseppe Rotelli, ha già un piede sull’uscio e arrotonda la propria quota al 16 per cento. Nel club è entrata persino l’Unipol, avendo acquisito la quota di Salvatore Ligresti:

da via Stalingrado a via Solferino. Mentre il patron della Tod’s,

libero dagli accordi di sindacato, ha cominciato a comprare quel poco

che resta sul mercato (circa il 10 per cento dei titoli) e non perde

occasione per attaccare i vertici della Fiat: «Presi con le mani nella

marmellata, vogliono andarsene dall’Italia». Replica duro Marchionne:

«La smetta di rompere, i suoi investimenti in borse per me non valgono

un parafango». Dietro la lite da comari ci sono due modelli di

capitalismo. Forse. Certo c’è il controllo del Corriere.

La Rcs è davvero così importante? Il gruppo è colpito dalla recessione e dal calo di pubblicità, dalla rivoluzione tecnologica (tablet, social media) che scompagina l’editoria di carta, da investimenti sbagliati come la francese Flammarion o sfortunati come la spagnola Unidad Editorial che stampa il quotidiano El Mundo.

Ha bisogno di un aumento di capitale. La vendita della consociata

parigina ha fruttato 240 milioni, ma è chiaro che non bastano. E i due

soci principali, Fiat e Mediobanca, non tirano fuori un quattrino.

Dunque, non è per fare soldi che conta il Corriere. Il giornale della borghesia ha un fascino antico, ma soprattutto conferisce a chi lo controlla un forte ascendente politico. E non da adesso. È esattamente per questa ragione, del resto, che la Fiat entra per la prima volta in via Solferino. Giulia Maria Crespi, erede della dinastia tessile azionista storica, rimasta in bolletta, nel 1973 chiede aiuto ad Angelo Moratti e a Gianni Agnelli, il quale racconta a Panorama nel 1975: «Sono intervenuto per evitare che andasse nelle mani di Attilio Monti (il petroliere ed editore che possedeva fra l’altro «Il Resto del Carlino» a Bologna, «La Nazione» a Firenze, «Il Tempo» a Roma,

ndr) e alla Fiat non conveniva che il più importante quotidiano

italiano si collocasse troppo a destra». Ma non gli fa comodo nemmeno

che scivoli troppo a sinistra, là dove lo porta «la Zarina», che spinge Indro Montanelli ad andarsene. «Noi siamo sempre governativi» ripetono a Torino.

L’Avvocato vuole fare il presidente della Confindustria e il 5 aprile 1974 viene convocato da Amintore Fanfani: l’uomo più potente della Democrazia cristiana gli impone di sciogliere i legami con L’Espresso, controllato da Carlo Caracciolo, cognato di Gianni Agnelli, e con il Corriere. A quel punto

Crespi chiama Andrea Rizzoli, il quale si indebita fin sopra il collo e cade nelle grinfie di affaristi e banchieri legati alla P2, da Umberto Ortolani a Roberto Calvi, con «il burattinaio» Licio Gelli (così si definì egli stesso intervistato da Maurizio Costanzo proprio sul Corriere) a tirare i fili.

È ancora la politica a fare tornare Agnelli dopo lo scandalo della loggia coperta Protezione 2. Nell’ottobre 1984 la Gemina, una finanziaria controllata dalla Fiat e guidata daCesare Romiti, acquisisce la casa editrice a un prezzo molto basso. Intervengono in molti: da Sandro Pertini, socialista, presidente della Repubblica, a Beniamino Andreatta, la testa più lucida della Dc. «Fece tutto Bazoli, anche il prezzo, e noi ci fidammo» sostiene Romiti. Angelo Rizzoli,

figlio di Andrea, non l’ha mai mandato giù: dopo 26 anni, tra i quali

407 mesi di galera e sei assoluzioni, ha chiesto di essere risarcito con

650 milioni di euro, ma i giudici gli hanno dato torto.

Agnelli

non molla nemmeno nel 1992, quando è in crisi nera, mentre crollano la

lira e l’intero sistema politico. Anzi, proprio Tangentopoli, che

coinvolgerà i vertici del gruppo, spinge a serrare le fila. Così, per la

prima volta il direttore della Stampa, il giornale della Fiat, va a dirigere senza soluzione di continuità il quotidiano di via Solferino. Il prescelto è Paolo Mieli e la decisione è tormentata: l’Avvocato chiede addirittura il via libera a Bettino Craxi, ricorda Massimo Pini nella sua biografia del leader socialista.

Dieci anni dopo, nel momento più drammatico della storia centenaria della Fiat, il Corriere resta intoccabile. Il 24 gennaio 2003 muore Gianni Agnelli, di lì a un anno scompare anche il fratello Umberto. La famiglia è in preda a una crisi esistenziale. La guerra di successione assume toni da tragedia greca (Margherita impugna l’eredità contro il figlio John e la madre Marella).

Le sorti del gruppo sono in mano alle banche che chiedono di

trasformare in azioni i 3 miliardi di euro prestati due anni prima. Nel

frattempo, Marchionne comincia a rovesciare l’azienda sotto la

presidenza di Luca di Montezemolo, diventato anche presidente della Confindustria.

In

Rcs si crea un vuoto al vertice: il 22 giugno 2004 si dimette Cesare

Romiti, che aveva ottenuto il gruppo editoriale come buonuscita dalla

Fiat nel 1998, anche se Gianni Agnelli era riluttante, tanto da

resistere per ben tre mesi. «Il giornale mi divertiva» confessa Romiti

che, in quanto presidente onorario, oggi non si esprime sulle sorti

presenti e future.

Un mese prima, esattamente il 4 maggio, s’è affacciato uno sconosciuto immobiliarista romano, Stefano Ricucci,

con un piccolo pacchetto azionario. Nel gennaio successivo, il parvenu

sfiora già il 5 per cento, il 29 giugno 2005 è al 20. Montezemolo chiede

alle autorità di fare chiarezza e proclama che la Rcs è strategica. Gli

fa eco Marchionne. L’establishment s’arrocca, perché attraverso il Corriere passa il delicato equilibrio dei «poteri forti».

L’attacco procede in parallelo con l’assalto dei «furbetti del quartierino» alle banche Antonveneta e Bnl.

Proclamano l’ambizione di scuotere la foresta pietrificata, ma

finiscono in tribunale. Per avere un’idea di quanto sia stato aspro il

conflitto, basti ricordare che venne costretto alle dimissioni e poi

rinviato a giudizio il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, contro il quale si schierarono tutti i giornali legati al Lingotto.

Il banchiere Enrico Cuccia aveva consigliato ad Agnelli di tenersi lontano, eppure nella coppia Fiat-Corriere si è sempre inserita la Mediobanca. L’amministratore delegatoAlberto Nagel e il presidente Renato Pagliaro

oggi sostengono Elkann. Ma nemmeno la banca d’affari è più quella di un

tempo. Il suo bilancio soffre per il crollo azionario di tutte le

società partecipate, comprese le Assicurazioni Generali, e si parla di vendere il vendibile. La Consob, presieduta da Giuseppe Vegas,

ha acceso due fari, uno sulla Mediobanca in relazione al salvataggio

del gruppo Ligresti da parte dell’Unipol, l’altro sulla scalata alla

Rcs. I soci del patto sono convinti di essere al riparo; a piazza

Affari, invece, molti si attendono la resa dei conti.

Mentre il futuro dell’auto italiana torna a diventare affare di stato, il Corriere resta oltre modo prezioso. Tanto più che grande è la confusione sotto il cielo della politica. Al governo c’è Mario Monti,

storico editorialista del quotidiano (e consigliere della Fiat dal 1988

al 1993), in mezzo a una tempesta senza pari. E via Solferino si

trasforma in una roccaforte assediata. Come la Fortezza Bastiani che

faceva la guardia al deserto dei Tartari, uscita dalla penna di uno dei

corrieristi più famosi: Dino Buzzati.

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il Giornale 09-10-2012

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FINANZA

Agnelli, cassaforte blindata

Due capostipiti, 10 dinastie, regole ferree per la società di famiglia.

di Albus Silente

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Andrea Agnelli, John Elkann e Alessandro Nasi.

Il caso degli investimenti Fiat in Italia ha riacceso i riflettori su Torino e sull’impegno degli Agnelli nella casa automobilistica torinese. Non sono mancate pesanti critiche a Sergio Marchionne e c’è chi ha messo in discussione il ruolo stesso della famiglia.

Ma, al di là delle discussioni, queste polemiche sono anche un’occasione per fare il punto su casa Agnelli e, in particolare, su chi abbia in mano le leve del comando.

Il nuovo monarca si chiama ovviamente John Elkann. Al suo fianco due viceré: Andrea Agnelli e Alessandro Nasi. Attorno a loro gravita tutta la casata, circa una novantina di parenti.

LA STABILITÀ RITROVATA. Chiusa l’era di Giovanni Agnelli (e messi a riposo Franzo Grande Stevens e Gianluigi Gabetti), la famiglia più importante d’Italia è riuscita a ritrovare una stabilità che rispetta gli intricati equilibri della dinastia piemontese e che consentirà alla sua holding finanziaria Exor di affrontare le prossime sfide.

Ma raggiungere il punto di equilibrio non è stato facile, anche perché si è dovuto mettere mano alle alchimie normative che regolavano la cassaforte di famiglia voluta a suo tempo dall’Avvocato: la Giovanni Agnelli Sapa (società in accomandita per azioni). Con una buona dose di fantasia e con la volontà di blindare definitivamente il controllo.

LE 10 DINASTIE. La Giovanni Agnelli recentemente si è infatti arricchita di una figura molto importante: il capostipite. E all’interno della Sapa sono state riconosciute 10 dinastie che risalgono a due capostipiti.

Sei dinastie derivano dai fratelli del ramo Agnelli discendenti di Edoardo (Clara Agnelli, Cristiana Agnelli, Giovanni Agnelli, Susanna Agnelli, Maria Sole Agnelli, Umberto Agnelli). Quattro dai loro cugini Nasi, discendenti dalla sorella di Edoardo, Aniceta Agnelli, che ha sposato Carlo Nasi (Clara Nasi, Emanuele Nasi, Giovanni Nasi, Laura Nasi).

Che cosa vuol dire tutto ciò? Molto banalmente che se un azionista della Sapa vorrà cedere il proprio pacchetto dovrà prima proporlo al proprio discendente o ascendente diretto. Se questi ultimi non vorranno acquistarlo, i titoli dovranno essere offerti agli altri possessori di azioni discendenti dallo stesso capostipite.

UNA BLINDATURA PERFETTA. Solo nel caso in cui nessuno degli appartenenti a quel ramo volesse acquistare i titoli, questi potrebbero essere offerti agli altri soci della Sapa.

Ma non finisce qui. Se nessuno dei soci intendesse comprare il pacchetto in vendita, allora questo dovrà essere offerto direttamente alla Sapa. E, se anche quest’ultima dovesse dire di no, un eventuale acquirente terzo dovrebbe comunque ricevere il gradimento del consiglio degli accomandatari.

Insomma, una perfetta blindatura.

AUTO, LA SCELTA CHE HA PAGATO. Tutto risolto allora? No, qualche malessere resiste. Alcuni esponenti della famiglia dalla memoria lunga ricordano ancora con contrarietà certe dichiarazioni dell’allora trentenne Andrea Agnelli che, nel settembre del 2005, prese posizione sul prestito convertendo Fiat, sostenendo che secondo lui non era necessario che la famiglia sborsasse i soldi necessari per tornare al 30%. Anzi, secondo il figlio di Umberto Agnelli, oggi presidente della Juventus, la Fiat avrebbe potuto sopravvivere meglio come public company.

Una presa di posizione che era stata subito ridimensionata, lasciando però qualche strascico. Anche perché in questi sette anni la decisione di restare nell’auto si è dimostrata vincente.

UNO STRANIERO DOPO MARCHIONNE? E, a proposito di auto, a Torino è di gran moda il toto Marchionne. È infatti probabile che per l’amministratore delegato della Fiat sia già iniziato il conto alla rovescia.

Certamente l’uscita non è dietro l’angolo, ma il numero uno operativo dell’auto ha già fatto sapere che tra qualche anno lascerà la sua poltrona.

Chi lo sostituirà? I soliti bene informati sostengono che Elkann, nel frattempo tornato di cittadinanza americana (stando almeno alle indiscrezioni non confermate che circolano con insistenza a Londra), punterà su un manager estero, magari facendosi aiutare nella scelta dal consigliere Exor (ed erede di casa Samsung) Lee Jae-yong.

Una scelta che porterà quindi a termine il processo di internazionalizzazione della Fiat, iniziato con l’operazione Chrysler.

(*) dietro lo pseudonimo di Albus Silente si nasconde un importante esponente del mondo finanziario italiano residente all’estero.

Martedì, 09 Ottobre 2012

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A “Dicembre” i segreti degli Agnelli

Scritto da Gigi Moncalvo

Pubblicato Giovedì 11 Ottobre 2012, ore 7,50

È in cima alla catena di comando che controlla Fiat, ma per 17 anni è stata “fuorilegge”. E non è l’unica stranezza. Viaggio in tre puntate di Gigi Moncalvo nel sancta sanctorum della Famiglia

E pensare che parlano, ogni due per tre, di trasparenza, limpidezza, casa di vetro, etica, valori morali. In quale categoria può essere catalogato ciò che stiamo per raccontare, e che solo su queste pagine web potete leggere? E’ una storia che riguarda la “cassaforte di famiglia”, cioè la “Dicembre società semplice”, che detiene – tanto per fare un esempio - il 33%, dell’“Accomandita Giovanni Agnelli & C. Sapaz”, cioè controlla quella gallina dalle uova d’oro che quest’anno ha consentito agli “eredi” - senza distinzioni tra bravi e sfaccendati – di spartirsi 24,1 milioni di euro (rispetto ai 18 milioni del 2011) su un utile di 52,4. “Dicembre” di fatto è la scatola di controllo dell'impero di famiglia, ed è dunque – proprio attraverso l’Accomandita - l'azionista di riferimento di Exor, la superholding del gruppo Fiat-Chrysler.

Non ci crederete ma la “Dicembre”, nonostante questo pedigree, fino al luglio scorso non risultava nemmeno nel Registro delle Imprese della Camera di Commercio di Torino, nonostante la legge ne imponesse l’iscrizione. La “Dicembre” è una delle società più importanti del paese, dato che, controllando dall’alto la piramide dell’intero Gruppo Fiat, ha ricevuto dallo Stato centinaia di miliardi di euro di fondi pubblici. Ebbene per i registri ufficiali dell’ente presieduto da Alessandro Barberis, un uomo-Fiat, non... esisteva. Quindi lo Stato erogava miliardi a una società la cui “madre” non risultava nemmeno dai registri e che ha violato per anni la legge.

“Dicembre” è stata costituita il 15 dicembre 1984 con sede in via del Carmine 2 a Torino (presso la Fiduciaria FIDAM di Franzo Grande Stevens), un capitale di 99,9 milioni di lire e cinque soci:Giovanni Agnelli (col 99,9% di quote), sua moglie Marella Agnelli (10 azioni per un totale di 10 mila lire) e infine Umberto Agnelli, Gianluigi Gabetti e Cesare Romiti, con una azione ciascuno da mille lire. Come si vede fin dall’inizio Gianni Agnelli considerava la “Dicembre” appannaggio del proprio ramo famigliare. Poco più di quattro anni dopo, il 13 giugno 1989, c’è un primo colpo di scena: escono Umberto e Romiti e vengono sostituiti da Franzo Grande Stevens e da sua figlia Cristina. Gianni Agnelli “dimentica” di avere due figli, Edoardo e Margherita, e privilegia invece Stevens e la sua figliola, a scapito perfino di suo fratello Umberto Agnelli. Se si prova – come ho fatto io - a chiedere al notaio Ettore Morone notizie e copie di questo “strano” atto, risponde che “non li ha conservati e li ha consegnati al cliente”. Non vi fornisce nemmeno il numero di repertorio. Forse a rogare sarà stata sua sorella Giuseppina?

La “Dicembre” torna a lasciare tracce qualche anno più tardi, il 10 aprile 1996: c’è un aumento di capitale (da 99,9 milioni a 20 miliardi di lire), entrano tre nuovi soci (Margherita Agnelli, John Elkann, e il commercialista Cesare Ferrero), le quote azionarie maggiori risultano suddivise tra Gianni Agnelli, Marella, Margherita e John (di professione “studente” è scritto nell’atto) col 25% ciascuno, con l’Avvocato che ha l’usufrutto sulle azioni di moglie, figlia e nipote. Tutti gli altri restano con la loro singola azione che conferisce un potere enorme. Siamo nel 1996, come s’è visto, e nel frattempo è entrata in vigore una legge (il D.P.R. 581 del 1995) che impone l’iscrizione di tutte le società nel registro delle imprese. A Torino se ne fregano. Anche se la “Dicembre” ha un codice fiscale (96624490015) è come se non esistesse… Gabetti, Grande Stevens e Ferrero, così attenti alla legge e alle forme, dimenticano di compiere questo semplicissimo atto. Né si può pretendere che fossero l’Avvocato o sua moglie o sua figlia o il suo nipote ventenne, a occuparsi di simili incombenze.

La Camera di Commercio si “accorge” di questa illegalità solo quattordici anni dopo, il 23 novembre 2009. La Responsabile dell’Anagrafe delle Imprese, Maria Loreta Raso, allora scrive agli amministratori della “Dicembre” e li invita a mettersi in regola. Non ottiene nessun riscontro. Ma la signora, anziché rivolgersi al Tribunale e chiedere l’iscrizione d’ufficio, non fa nulla. Fino a che nei mesi scorsi un giornalista, cioè il sottoscritto, alle prese con una ricerca di dati per un suo imminente libro (Agnelli segreti, Vallecchi Editore) cerca di fare luce su questa misteriosa “Dicembre” e si accorge dell’irregolarità. Si rivolge alla Camera di Commercio, la dirigente in questione fa finta di non sapere ciò che sa dal 2009 e comincia a chiedere documenti e dati che già ben conosce. Il giornalista fornisce copia dell’atto di aumento di capitale del 1996 e indica il numero di codice fiscale, ma la Camera di Commercio pone ostacoli a ripetizione: vogliono l’atto costitutivo, quello inviato è una fotocopia, ci vuole quello autenticato dal notaio Morone. Passano i mesi, vengono fornite tutte le informazioni, il giornalista comincia a diventare fastidioso. La signora Raso non può più fare a meno di rivolgersi, con tre anni di ritardo, al Tribunale. Il giornalista va, fa protocollare le domande, sollecita e scrive. E finalmente il 25 giugno di quest’anno la dottoressa Anna Castellino, giudice delle Imprese del Tribunale di Torino, ordina l’iscrizione d’ufficio della “Dicembre”, in quanto socia della “Giovanni Agnelli & C. Sapaz”. L’ordinanza del giudice viene depositata due giorni dopo. La Camera di Commercio ottemperato all’ordinanza del Giudice in data 19 luglio 2012. Possibile che ci voglia un giornalista per far mettere in regola la più importante società italiana “fuorilegge” da ben 17 anni e che oggi ha come soci di maggioranza John Elkann e sua nonna Marella, con il solito quartetto Gabetti-Ferrero-Grande Stevens padre e figlia? Ma perché tanta segretezza su questa società-cassaforte? E’ il tema della nostra prossima puntata.

(1- continua)

http://www.lospiffer...&action_ref_map

Modificato da CRAZEOLOGY

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(*) dietro lo pseudonimo di Albus Silente si nasconde un importante esponente del mondo finanziario italiano residente all’estero.

Tango? mh

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Trasporti. Lo special committee Usa rigetta la proposta di fusione: «Inadeguata»

Nozze Fiat Industrial-Cnh:

stop dagli «indipendenti»

Marchionne: «Ancora convinti dei benefici dell'operazione»

di MARCO FERRANDO (Il Sole 24ORE 16-12-2012)

«Abbiamo unanimamente concluso che la proposta è inadeguata». Lapidariamente, lo special committee del cda di Cnh ieri ha rispedito al mittente l'offerta formulata da Fiat Industrial per l'integrazione tra i due gruppi. Compito del comitato era quello di vegliare sugli interessi dei titolari di quel 12% di Cnh attualmente non in mano al Lingotto e i cinque rappresentanti degli azionisti di minoranza, per lo più fondi d'investimento, hanno ritenuto che i concambi formulati nella proposta, che non prevedono alcun premio per i soci di Cnh, non siano adeguati.

Il semaforo rosso era nell'aria almeno da un paio di settimane, da quando cioè avevano iniziato a circolare voci di un possibile slittamento della fusione tra Fiat Industrial e Cnh al 2013. Il cinque ottobre scorso il Lingotto, in una nota, aveva annunciato l'intenzione di fornire un aggiornamento sull'operazione in occasione dei propri risultati del terzo trimestre, ma lo stop degli americani è arrivato prima del previsto e a questo punto il timore è diventato una certezza: le nozze tra i due gruppi, sempre che si possano celebrare, non si terranno prima dell'anno prossimo, ci sarà ancora da discuterne le condizioni e il conto alla fine potrebbe essere un po' più salato del previsto.

«Fiat Industrial rimane convinta dei benefici strategici e finanziari della fusione, che semplificherebbe la struttura societaria del gruppo e ne aumenterebbe la capacita di attirare l'interesse degli investitori internazionali», ha detto ieri Sergio Marchionne, che di Fiat Industrial è presidente. L'impressione è che gli azionisti americani la pensino allo stesso modo – in fondo, c'è in ballo la nascita del terzo gruppo mondiale dei veicoli industriali, alle spalle di Caterpillar e Volvo – tuttavia ai soci di minoranza non va giù che i rapporti di cambio (3,9 azioni Fiat Industrial per ogni azione Cnh) non prevedano alcun premio, né tantomeno un conguaglio cash. Per questo, ieri i cinque consiglieri indipendenti hanno deciso di puntare i piedi e chiedere un nuovo round di trattative, certi di compiacere i fondi che hanno confermato o aumentato la propria esposizione su Cnh proprio in vista della fusione e dei relativi benefici.

Come andrà a finire? «La notizia non è buona, perché il deal è a rischio», si legge in una nota di ieri a firma di Mediobanca. «Riteniamo che l'operazione sia talmente importante per il gruppo che un cambio dei termini sarebbe sensato»,

scrive invece Equita Sim, ricordando che la diluizione dell'utile per azione post fusione «sarebbe modesta»; secondo Intermonte, un cambio più favorevole per Cnh, ad esempio 4,5 azioni contro una, «sarebbe sostanzialmente neutrale» prima delle sinergie e «comunque positivo per Fiat Industrial».

Se ne parlerà a partire dai prossimi giorni, quando torneranno a incontrarsi gli advisor di Fiat e quelli di Cnh. Dal Lingotto, oltre alle dichiarazioni ufficiali, emerge chiaramente che il desiderio è quello di andare avanti, dunque un po' di margine per la trattattiva sembra esserci. Anche se i paletti, nei fatti, non sono larghissimi: come dichiarato a fine maggio all'annuncio dell'operazione e confermato ancora nei giorni scorsi durante le più recenti presentazioni agli analisti – l'ultima è del 20 settembre, quando si è tenuta l'Autumn conference di Cheuvreux – Fiat Industrial non prevede alcuna offerta per cassa sulle azioni Cnh, ma è anche vero che al Lingotto si è già preventivata una spesa di 250 milioni per l'esercizio del diritto di recesso da parte degli azionisti di Fiat Industrial, e fonti vicine al dossier lasciano intendere che una parte di questa somma potrebbe essere dirottata sugli azionisti di minoranza di Cnh.

Ieri, comunque, la Borsa ha reagito compassata, con il titolo Fiat Industrial che ha chiuso in calo dello 0,32% a 7,81 euro dopo aver perso in corso di seduta oltre un punto percentuale.

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ANALISI

Se il nodo è il prezzo

l'accordo è rinviato

I MARGINI DI MANOVRA Le sinergie dell'integrazione

possono riassorbire gli oneri di una revisione dei concambi

di ANTONELLA OLIVIERI (Il Sole 24ORE 16-12-2012)

Comunque vada il no dello special committee di Cnh all'iniziale proposta di fusione con Fiat Industrial avrà l'effetto di rallentare la tabella di marcia: impossibile a questo punto che la nuova realtà industriale – un conglomerato attivo nei settori delle macchine agricole, dei camion e delle macchine movimento terra – possa apparire sui tabelloni di Wall Street a inizio gennaio, come era previsto.

Se è solo questione di concambi, però, un accordo si troverà. Lo special committee, che è composto da consiglieri indipendenti del board Cnh, ha di fatto lasciata aperta la porta a una trattativa («disponibili a esaminare alternative») e Fiat Industrial ha subito colto la palla al balzo, dicendosi a sua volta pronta a discutere dell'operazione sotto altri termini.

La proposta iniziale, formulata a fine maggio, prevedeva lo scambio di 3,9 azioni Fiat industrial per ogni azione Cnh: di fatto si erano presi a riferimento semplicemente i prezzi di Borsa delle due società, senza riconoscere alcun premio agli azionisti Cnh, come si fa di prassi, anche se in questo caso il flottante da riassorbire è limitato al 12% poichè l'88% del capitale è già controllato da Fiat Industrial.

Gli analisti calcolano che se anche i termini venissero modificati significativamente a favore delle minoranze – per ipotesi 5 azioni Fiat industrial per ogni azione Cnh – sarebbe comunque un "sacrificio" di poco conto. Infatti, alle condizioni ipotizzate, ci sarebbe un impatto solo lievemente negativo sull'utile per azione, impatto che, tenuto conto delle possibili sinergie derivanti dalla fusione, tornerebbe a essere positivo. Anche il rischio di un'eccessiva diluizione di Exor non è un tema. Alle condizioni inizialmente proposte la quota di riferimento si sarebbe ridimensionata al 27,5%, a condizioni più favorevoli per gli azionisti di minoranza potrebbe scendere di un altro punto. Grazie al meccanismo dei diritti di voto raddoppiati sulle azioni dei soci storici, il controllo potrebbe comunque essere mantenuto oltre il 40 per cento.

Se però non fosse solo questione di concambio, le cose si farebbero un po' più complicate. L'aspetto più critico dell'operazione è forse il fatto che con la fusione ricadrebbe direttamente sugli azionisti ex Cnh la garanzia – 3 miliardi di euro fino al 2017 – che Fiat Industrial si è accollata nei confronti di Fiat auto al momento della scissione. Problema che sarebbe risolto con un'offerta cash (dell'ordine, all'incirca di 1 miliardo di dollari) per rilevare le minoranze, ma non sembra essere questo l'orientamento dell'azionista di maggioranza.

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Caso Ifil-Exor. Le motivazioni della sentenza con cui la Cassazione chiede un nuovo processo

Gabetti e Grande Stevens

tornano a giudizio

IL COMUNICATO I giudici hanno accolto il ricorso della Procura

contro il proscioglimento deciso due anni fa in secondo grado

di GIOVANNI NEGRI (Il Sole 24ORE 16-10-2012)

Processo da rifare sia a Gianluigi Gabetti sia a Franzo Grande Stevens. Ma anche a Ifil Investments spa (ora Exor) e all'accomandita Giovanni Agnelli & C.. Lo ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza n. 40393 della Quinta sezione penale depositata ieri. Il reato contestato a manager e società, per i diversi profili, è quello di manipolazione del mercato in relazione all'equity swap che nel 2005 permise a Ifil di conservare il controllo di Fiat malgrado l'esercizio del prestito convertendo da parte delle banche. È stato così accolto il ricorso presentato dalla procura generale di Torino contro il verdetto di assoluzione emesso dal tribunale nel dicembre del 2010.

Numerosi i punti critici che vengono fatti valere dalla Cassazione contro il proscioglimento di 2 anni fa. I giudici sottolineano che la manipolazione del mercato deve avvenire attraverso la diffusione di notizie non solo false ma anche idonee in concreto a provocare un sensibile effetto distorsivo sul mercato finanziario. Per verificare la rilevanza penale della condotta, allora la prognosi sull'idoneità della notizia non può che essere postuma.

Ma il tribunale di Torino, pur restato formalmente fedele a questa impostazione, ha poi commesso errori da matita blu per la Cassazione. Innanzitutto ha escluso la possibilità di un confronto tra il comunicato diffuso al mercato (con il quale Ifil si chiamava fuori da qualsiasi operazione finanziaria in vista della scadenza del convertendo) e gli effetti che sarebbero potuti derivare dalla comunicazione del vero. Per i giudici torinesi in discussione c'è una condotta attiva e non una di omissione e quindi una verifica controfattuale (cosa sarebbe successo se...) è del tutto fuori luogo.

Non di questo parere invece la Cassazione. Che avverte: l'individuazione del contenuto che avrebbe dovuto assumere la comunicazione se fosse stata rispondente al vero è un presupposto non solo della verifica sull'idoneità delle notizie false ad alterare il prezzo di strumenti finanziari, ma è anche elemento fondamentale del giudizio sulla falsità stessa delle notizie. Non è infatti possibile un'affermazione di falsità se non dopo un confronto con il dato reale e una constatazione di relativa diversità. Del resto è lo stesso tribunale di Torino a riconoscere che il comunicato diffuso da Ifil è falso, dimostrando di avere ben presente quale sarebbe stato il suo contenuto se avesse rispettato la verità.

Inoltre, al contrario di quanto ritenuto dal tribunale, contesta ancora la Cassazione, non è vero che l'alternativa alla diffusione di false notizie poteva essere il solo silenzio; anzi, esiste un obbligo preciso di rispondere alle richieste di diffusione al pubblico di informazioni rivolta dalla Consob alle società interessate. Di conseguenza si rivela necessaria proprio quell'analisi controfattuale che dovrà essere svolta davanti alla Corte d'appello di Torino in un nuovo processo.

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I SEGRETI DEGLI AGNELLI

E la Fiat finì in mano a due prestanome

Moncalvo continua l’indagine sulla famiglia dell’Avvocato. Svelando il ruolo di strani legali durante

Tangentopoli, i rapporti tesi di Edoardo con la madre, la storia lesbo di Suni, le «mance» a Valletta...

di GIGI MONCALVO (Libero 19-10-2012)

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IL VENERDI DI REPUBBLICA | 19 ottobre 2012

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Il Sole 24ORE 20-10-2012

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12 milioni a quell'inetto per farci diventare lo zimbello d'italia. un vero esempio di furto legalizzato .oddio .oddio .oddio

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12 milioni a quell'inetto per farci diventare lo zimbello d'italia. un vero esempio di furto legalizzato .oddio .oddio .oddio

Juve-Napoli,

per qualcuno è un derby

L’ex presidente

Un napoletano in bianconero

L’OSMOSI Le due città hanno un ottimo e storico rapporto

LA STORIA «Vivo qui da 60 anni È qui che mi sono avvicinato al calcio»

di EMANUELA MINUCCI (LA STAMPA 20-10-2012)

Avvocato Grande Stevens, come vive lei, da napoletano, ed ex presidente della Juve (e bianconero da sempre), la vigilia di questa partita?

«Benissimo, andrò allo stadio con mia moglie e due dei miei figli, Cristina e Riccardo, e penso anche che sarà una bellissima partita e vinceremo 2 a 1».

È una sfida al vertice, prevede una partita tesa?

«Sarà avvincente, c’è una sana rivalità sportiva, ma fra napoletani e torinesi esiste un feeling che risale all’unificazione dell’Italia: penso a Crispi, Scialoja, Settembrini, Pepe... Ci sono stati grandi professori che hanno legato le due città: Kerbaker, torinese, che fu direttore dell’Istituto Orientale di Napoli, che all’epoca si chiamava Collegio dei cinesi, e Abbagnano, che insegnò all’università di Torino dopo essersi laureato in filosofia a Napoli. E non dimentichiamo che due Agnelli hanno sposato due Caracciolo».

E lei? Si sente più torinese o napoletano?

«Vivo a Torino da quasi sessant’anni. Ci arrivai nel ’53 e venni subito “sequestrato” da Bobbio e Galante Garrone: entrai nello studio dell’avvocato Dante Livio Bianco, già comandante partigiano, che, appassionato d’alpinismo, era appena morto durante un’escursione. Affittai una camera ammobiliata in via Cibrario: cominciò tutto da lì. Guadagnavo 30 mila lire e ne spendevo 10 di affitto, colazione compresa. A Torino mi sono avvicinato al calcio e subito affezionato ai colori bianconeri».

Chi vincerà?

«Noi: finirà 2-1, siamo più squadra, anche se loro singolarmente hanno uomini invidiabili. Però noi al momento siamo i migliori d’Italia».

E lo scudetto chi lo vincerà?

«La vecchia Signora ha tutte le carte in regola per farlo».

E il migliore della Juve?

«Le dico quello che piace di più a me: Marchisio, il più completo. E rispetto a Pirlo, che è comunque preziosissimo, è torinese e più giovane».

Che cosa pensa di Conte?

«Un grande allenatore, riesce a imprimere alla squadra qualcosa in più: ha un rapporto psicologico di grande empatia con la squadra».

E la presidenza di Agnelli?

«La migliore possibile. Intanto perché si chiama Agnelli, e poi perché è autorevole, si intende di conti e bilanci e per una società quotata in Borsa non è un dettaglio trascurabile, è stimato e lega con la squadra».

Da buon partenopeo si porterà un amuleto allo stadio?

«Non credo nei portafortuna né nei riti scaramantici, ma vinceremo lo stesso».

Quanto incide lo stadio di proprietà sulle ottime performance della Juve che in campionato non perde da 46 partite?

«Tantissimo e il merito, va ricordato, è di Jean Claude Blanc. Un uomo che non era esperto di calcio: ma era un manager dello sport che sapeva veder lungo».

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non hanno certo paura del ridicolo pur di cercare di salvare la faccia .oddio

Modificato da Tokio96

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Fiat, gli Agnelli e il biennio più difficile

le scelte della famiglia sull’auto in crisi

I CONTI DEL LINGOTTO SONO IN LINEA CON LE PREVISIONI E GRAZIE AI PROFITTI USA DARANNO ANCORA SODDISFAZIONI AGLI AZIONISTI, PER I QUALI, VISTI I MAGRI RISULTATI DELLE DIVERSIFICAZIONI DI EXOR, L’AUTOMOTIVE RESTERÀ CENTRALE

di SALVATORE TROPEA (Repubblica.it ECONOMIA & Finanza 22-10-2012)

«L’anno peggiore dell’ultimo quarantennio». Sergio Marchionne continua a ripeterlo, aggiungendo che «il mercato italiano dell’auto non si riprenderà nel 2013 se non in misura marginale». Gli esperti hanno già coniato il termine «demotorizzazione » per dire una disaffezione indotta dalla recessione e che la Fiat, in Italia e in Europa, sta pagando più dei concorrenti con i quali condivide questa caduta dei mercati che pare inarrestabile e che ha cominciato a intaccare anche le sicurezze della stessa Germania. La previsione di chiudere il 2012 con una produzione di poco più di 400 mila vetture in Italia e una perdita di 700 milioni di euro a livello europeo fotografa lo stato di salute del Lingotto, gli impone di rivedere i target, ma non dice tutto. «La Fiat, nel suo insieme, è sana e in ottima forma», ha assicurato Marchionne, riferendosi ai risultati della prima metà dell’anno da lui definiti «in linea con i nostri obiettivi». Potrà confermarlo al board di fine ottobre sul terzo trimestre? Se lo si chiede al Lingotto la risposta è sì. I numeri non sono sostanzialmente cambiati rispetto a tre mesi fa e indicano ricavi superiori ai 77 miliardi di euro, un utile della gestione ordinaria compreso tra 3,8 e 4,5 miliardi (il più alto nei 113 anni di storia di una società che pure includeva Fiat Industrial), un utile netto tra 1,2 e 1,5 miliardi, un indebitamento netto industriale tra 5,5 e 6 miliardi, una liquidità largamente oltre la soglia di 20 miliardi. Se le cose stanno effettivamente così i ritocchi al ribasso riguarderanno soltanto le attese per una produzione che dovrà essere commisurata a una caduta del mercato che fa apparire un miraggio persino i 2 milioni e mezzo di vetture vendute in Italia nel 2011 che pure non era stato certo tra gli anni migliori, anzi era stato il punto più basso dal 2007.

«Ci sarà una revisione del piano industriale sulla base del mercato che è cambiato», dice il numero uno di Fiat e Chrysler e fin qui non ci sono grandi novità rispetto a quello che va sostenendo da tempo. Che cosa intenda per «revisione » lo si saprà meglio il 30 ottobre anche se è assai improbabile che egli scopra le carte. L’unica cosa certa è che riproporrà la versione della Fiat «bifronte» che guadagna nelle Americhe, dal Canada al Brasile, e perde in Italia e in Europa. Una realtà, questa, di cui sembra essere più che convinto il giovane presidente John Elkann per il quale «è meglio far parte di un gruppo che c’è e fa profitti piuttosto che di un gruppo che non c’è più». E se poi, come lui ha detto, la Fiat conta di chiudere il 2012 con un risultato economico aggregato che sarà il migliore della sua storia, con l’aria che tira, questo all’azionista di controllo può bastare, eccome.

Finchè si rivedono le previsioni industriali la famiglia Agnelli non ha motivo di preoccuparsi. «Essa non è stata mai tanto garantita e tranquillizzata dal punto di vista finanziario come lo è adesso», assicura un analista che segue da tempo le vicende Fiat.

«Marchionne deve preoccuparsi soltanto di mantenere questo stato di cose. Che poi i soldi arrivino dall’America piuttosto che dall’Europa conta poco». Dopo tutto, il ceo di Fiat e Chrysler sa che il suo rapporto con gli eredi dell’Avvocato si regge su questa garanzia e lavora affinché essa non subisca incrinature. Tanto più in un momento in cui gli affari di Exor, la società di investimenti attraverso la quale gli Agnelli controllano Fiat, non sembrano dare molte soddisfazioni. Il piano di investimenti di Exor, dal Giappone agli Stati Uniti, passando per l’Europa, procede infatti al rallentatore. La crisi internazionale morde e non aiuta a trovare grandi opportunità. E anche l’avere affidato in giugno la responsabilità degli investimenti all’avvocato di affari e banchiere elvetico-iraniano, Shahariar Tadjbakhsh, ha prodotto sinora poche novità. La sua esperienza in America, Europa e Asia, gli 800 milioni di euro in cassa, e il miliardo di bond emessi a più riprese (l’ultimo da 150 milioni è della settimana scorsa) non sono bastati a piazzare il «colpaccio ».

Una ragione di più perché gli Agnelli guardino con sempre maggiore interesse all’asset Fiat che rappresenta la parte preponderante di Exor assieme a Fiat Industrial (60 per cento del portafoglio di cui 20 è auto e 40 camion e trattori). «I conti sono buoni ma i soldi vengono dall’altra parte dell’Atlantico », dicono in Fiat per tranquillizzarsi e anche per dare un senso alla strategia attendista di Marchionne. Il quale ha scelto di aspettare la fine della bufera, compensando con i profitti americani la famiglia Agnelli e sperando che Roma e Bruxelles, per strade diverse, lo aiutino a risolvere il rebus della Fiat italiana. Ma è su questo percorso che gli analisti hanno qualche dubbio e perciò lo tengono d’occhio, seguendo tutte le sue mosse e anche le reazioni dei suoi avversari che da qualche tempo sono più numerosi di quanto lui potesse immaginare. Nel suo dossier i problemi sono più d’uno.

La difficoltà più immediata con la quale deve fare i conti è quella del ritardo di nuovi modelli. Lui continua a sostenere che, nel perdurare di un mercato in caduta libera, non è saggio produrre automobili «che nessuno compra o che pochi comprano». Le argomentazioni per confutare questo ragionamento e che vengono addotte continuamente da più parti non lo hanno sinora convinto ad abbandonare la strada imboccata quando pensava che la crisi sarebbe stata meno cruenta e meno lunga di quanto poi si è rivelata. Ma se la ripresa non ci sarà prima del 2014 allora troverà lunga l’attesa, a meno che non ritenga di farcela con qualche nuova versione della Panda come quella presentata la settimana scorsa o con poco altro. I sindacati si attendono che a fine mese fornisca indicazione sulle produzioni da destinare ai quattro stabilimenti italiani. Ma non ci sperano tanto. Lo esclude la Fiom di Giorgio Airaudo ma anche un dirigente della Fim che segue da tempo il Lingotto come, Claudio Chiarle, osserva che «per due anni si può resistere senza nuovi modelli, ma se di anni se ne lasciano passare quattro allora si perde il passo e il recupero diventerà veramente problematico».

Un’altra difficoltà, Marchionne la sta incontrando sul fronte europeo da lui aperto nel tentativo di coinvolgere in una battaglia coÈ mune gli altri costruttori. La richiesta di agevolazioni che aiutino il settore a uscire dal guado a livello europeo non sembra trovare la sponda giusta. E anche l’appello alla Ue perché «smetta di sottoscrivere accordi di libero scambio in un momento difficile come questo», ancorchè lanciato nella sua veste di presidente dell’Acea, l’Associazione dei costruttori europei di auto, non ha ancora fatto registrare un seguito apprezzabile. Anche perché, come dice qualcuno, Marchionne non ha in Europa gli amici che pensava di avere e, col suo carattere, fatica a trovarli. Non solo nella Germania della Volkswagen e della Merkel ma anche altrove.

Da non sottovalutare poi l’incognita rappresentata dal comportamento del mercato Usa. Gli analisti avvertono infatti che non è per niente scontata una tenuta del mercato americano dell’auto sui ritmi degli ultimi due anni che tante soddisfazioni hanno dato a Marchionne. Il quale deve riprendere in esame anche il capitolo riguardante la politica delle alleanze che, per via della crisi ma non solo, ha subito un sensibile rallentamento. E che, per alcuni aspetti, ha visto la Fiat del 2007-2008 trasformarsi da cacciatore in lepre. Un cambiamento, questo, che negli ultimi mesi ha riproposto ripetutamente l’ipotesi della messa in vendita dell’Alfa Romeo anche se Marchionne ancora di recente l’ha respinta con fermezza.

E con una convinzione che ha indotto qualcuno a pensare che la partita possa essere più grossa di quella relativa a un marchio più che prestigioso. Ma fino a quando da Detroit e da Belo Horizonte arriveranno soldi non c’è urgenza, almeno per l’azionista di controllo. Più avanti, dopo il ritorno di Chrysler a Wall Street se ne potrà parlare.

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Il risiko delle alleanze

l’asse franco-tedesco blocca

la strategia di Marchionne

MARCHIONNE CERCA PARTNER CON CUI CONDIVIDERE IL PESO DELLA RIDUZIONE DEGLI IMPIANTI MA PER ORA HA RACCOLTO SOLO “NIET” DAI COSTRUTTORI DEL VECCHIO CONTINENTE. E LE SUE STRATEGIE INIZIANO ORA A GUARDARE VERSO L’ASIA

di PAOLO GRISERI (lRepubblica.it ECONOMIA & Finanza 22-10-2012)

L’ultima scena (ma sarà presto la penultima) è quella di Sergio Marchionne e Martin Winterkorn che escono sorridenti dallo stand Fiat al Salone di Parigi. Si stringono la mano e si spendono in dichiarazioni di grande e reciproca ammirazione, ad uso dei fotografi e dei cronisti presenti. Poi lo show finisce e i problemi rimangono esattamente quelli che avevano preceduto l’incontro. Problemi che sono solo in parte riconducibili al braccio di ferro tra Torino e la Volkswagen, uno dei molti ingaggiati in questo periodo in Europa dall’ad del Lingotto. Il nodo da sciogliere è però più intricato, la questione più profonda: se ci sia posto nella sala dei bottoni dell’auto europea, oggi monopolizzata da tedeschi e francesi, per un terzo incomodo italiano. Da quando, all’inizio di quest’anno, l’ad del Lingotto è diventato leader dell’Acea, l’associazione dei costruttori europei, la questione è diventata di stretta attualità. Marchionne ha cercato di trasformare la crisi delle quattro ruote su questa sponda dell’Atlantico in opportunità per creare una sorta di direttorio dei costruttori. Questo, in fondo, è uno dei significati del tentativo, fallito, di «fare come per la siderurgia » ottenendo da Bruxelles incentivi e sconti per chi chiude stabilimenti. La proposta di Marchionne avrebbe consentito a Torino di distribuire anche sui concorrenti il peso sociale della riduzione degli addetti e delle linee. Ma la risposta che è venuta soprattutto dalla Germania è stata un secco no. E quella risposta, condita dalle punzecchiature sulla vendita dell’Alfa, è stato uno dei detonatori delle ultime polemiche.

Il no tedesco ha una seria motivazione tecnica: si calcola che gli stabilimenti europei dell’auto oggi siano sovradimensionati rispetto alle richieste del mercato. La capacità produttiva in eccesso sarebbe superiore ai 2 milioni di unità. Ma non sarebbe equamente distribuita. Quella delle fabbriche italiane oggi sfiora il milione di auto ed è dunque vicina alla metà del problema da risolvere. Chiusure di stabilimenti le dovranno fare nei prossimi anni anche tedeschi e francesi (che in parte le hanno già annunciate). Ma il sospetto è che il problema più grande (in base ai dati di mercato di oggi) sia proprio quello italiano. Condividerlo a livello continentale vorrebbe dire alleviare il problema italiano ed aggravare quelli dei costruttori degli altri paesi. E’ plausibile che questi ultimi cerchino di evitare uno scenario del genere.

La seconda strada tentata da Marchionne all’inizio dell’anno era quella di realizzare un’alleanza industriale e finanziaria che dividesse almeno sui governi di due paesi il peso e i costi necessari a sostenere economicamente la crisi dell’industria dell’auto. Così, all’inizio di gennaio, si erano avuti i contatti tra Torino e i francesi della Psa per far nascere in Europa un colosso delle utilitarie in grado di bilanciare i costruttori tedeschi. Un colosso dai piedi d’argilla perché, come si è visto negli ultimi mesi, Psa ha almeno 8.000 lavoratori in esubero e si prepara a chiudere lo stabilimento di Aulnay. Inoltre, un’alleanza con un costruttore di utilitarie avrebbe avuto pesanti ripercussioni sulla Fiat per i rischi di sovrapposizione della gamma. Ma l’azzardo avrebbe avuto il vantaggio di dividere i costi di ristrutturazione tra Italia e Francia e di creare un polo mediterraneo dei costruttori in grado di dialogare alla pari con quelli dell’Europa centrale.

Anche questo secondo progetto è fallito. Perché avrebbe finito per rafforzare le attività europee di Chrysler ed era dunque visto con sospetto dal gruppo Gm-Opel. Come accade non di rado nel mondo globalizzato, una battaglia tra Auburn Hills e il Renaissance Center di Detroit, sede della Gm, ha finito per giocarsi sullo scacchiere europeo, lontano migliaia di chilometri. Così Gm ha accettato in fretta l’offerta di un’alleanza tra Opel e gli stessi francesi della Psa, soffiando l’alleato alla Fiat e ricreando quell’asse franco-tedesco che, non solo nel mondo dell'auto, detta legge in Europa. La conseguenza è che il costruttore italiano è rimasto ancora una volta fuori dalla stanza dei bottoni anche se proprio Marchionne continuerà ad avere la leadership dell’Acea fino a dicembre del 2014. A patto, ed è questo il senso dell’incontro chiarificatore di Parigi, che non entri in rotta di collisione con i costruttori tedeschi. I quali, per parte loro, continuano a minacciare di scendere in Italia a fare shopping. Dopo Lamborghini, Ducati, Giugiaro, potrebbe toccare all’Alfa, oggetto del desiderio della Volkswagen di Winterkorn. Ipotesi che comincia a mietere consensi anche in Italia, tanto che in un’occasione è stato proprio Marchionne a indicare l’esistenza in Italia di gruppi d’opinione filotedeschi.

Tagliata fuori dall’asse Parigi-Berlino e minacciata dallo shopping germanico, che cosa farà la Fiat in Europa? A quali alleanze alternative sta pensando il Lingotto per fronteggiare il problema della sua sovracapacità produttiva? Recentemente l’ad della Fiat ha risposto che «stiamo lavorando ad alleanze fuori dall’Europa », e molti hanno pensato che si riferisca ai giapponesi della Mazda o alla Suzuki. Questi ultimi continuano ad avere rapporti difficili con Volkswagen (che ha il 20 per cento della società nipponica) e potrebbero rinsaldare la loro collaborazione con Fiat sui motori e sui modelli (oggi le due case producono insieme il Sedici). In ogni caso il rischio è che la Fiat sia costretta ad abbandonare la battaglia europea rinchiudendosi nel fortino italiano e intrecciando da questo alleanze anche industriali con aree esterne al Vecchio Continente. Una strategia che potrebbe avere ripercussioni anche sulle vendite. A settembre la Fiat è scesa sotto la soglia del 6 per cento del mercato continentale e ormai vende nel resto d’Europa la stessa quantità di auto che immatricola in Italia: circa mille auto al giorno da Lisbona a Kiev.

Una parte di questi interrogativi potranno essere sciolti a fine mese quando al Lingotto si riunirà il cda per esaminare i conti del terzo trimestre. Nell’occasione Marchionne dovrebbe fornire qualche elemento di chiarezza sull’attività degli stabilimenti italiani. Ma non sarà un vero e proprio piano: ormai l’ad di Torino conosce le insidie dei progetti troppo precisi che rischiano di essere smentiti dalla realtà.

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Banche. Richiesta depositata in Corte d'Appello - La decisione è attesa a breve

I fondi libici: dissequestro

per le quote in UniCredit

Anche Lafico chiede lo sblocco delle partecipazioni in Fiat e Juventus

di CELESTINA DOMINELLI (Il Sole 24ORE 24-10-2012)

Nuova puntata nella partita che vede opposti la Lybian Investment Authority (Lia) e i giudici italiani sulle partecipazioni detenute dai libici nel nostro paese. Ieri i legali della Lia, come riportato dall'agenzia Radiocor, hanno chiesto il dissequestro della quota controllata dal fondo sovrano libico in UniCredit, pari all'1,256% e messa sotto sequestro nel marzo scorso, insieme alle altre partecipazioni di Tripoli in Italia, durante la repressione da parte di Gheddafi sui ribelli. La richiesta, su cui il procuratore generale ha ribadito parere negativo, è stata depositata presso la quarta sezione della Corte di appello che si è riservata di decidere. Dopo la Lia, poi, anche Lafico (Lybian Foreign Investment Company, controllata al 100% dalla Lia ma gestita autonomamente) ha avanzato analoga richiesta per le sue partecipazioni in Fiat (0,33%), Fiat Industrial (0,33%) e Juventus (1,5% circa): l'udienza è stata fissata per il 13 novembre.

«Per UniCredit - ha spiegato il legale di Lia, Fabrizio Petrucci - non c'è nessun motivo per non concedere subito il dissequestro. La Guardia di Finanza precisa che ad oggi Lia è proprietaria in UniCredit dello stesso pacchetto di azioni, non una in più, non una in meno» rispetto a marzo scorso. La richiesta di dissequestro avanzata dal fondo libico ruota attorno a un recente accertamento delle fiamme gialle. Secondo il documento firmato dalla Gdf e datato 16 ottobre, UniCredit ha comunicato che al fine della partecipazione all'assemblea dell'11 maggio scorso «relativamente alla Lybian Investment Authority ci sono pervenute da "Société Générale Securities Services" su richiesta della Euroclear Bank due comunicazioni di partecipazione al sistema di gestione accentrata Monte titoli, entrambe datate 10 maggio 2012 e scaturenti dall'invito rivolto alla Lia per la partecipazione all'assemblea ordinaria e straordinaria di UniCredit». In più «dall'esame delle "comunicazioni di partecipazione", emerge come le quantita complessive di azioni in esse indicate dalla Société Générale Securities Services e riferibili al cliente Lia siano pari a quelle effettivamente sottoposte a sequestro preventivo il 28 marzo scorso presso la UniCredit spa di Roma (72.723.442 azioni)». Nell'ultima udienza la Corte aveva ritenuto di dover attendere l'esito del controllo delle fiamme gialle sulla proprietà delle quote. Per i giudici capitolini non vi era infatti certezza sull'appartenenza alla Lia delle partecipazioni in Finmeccanica (2,01%) e in UniCredit. Mentre il nodo della proprietà è stato sciolto per il pacchetto detenuto in Eni (0,572%), sbloccato a luglio.

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LA PAROLA CHIAVE

Fondo sovrano

Si tratta di fondi di investimento controllati direttamente dei governi degli Stati ai quali appartengono e che agiscono su scala globale. Sono utilizzati per investire in strumenti finanziari - azioni, obbligazioni e immobili - i proventi ottenuti da materie prime (petrolio su tutti) e dalle esportazioni, i surplus fiscali o le riserve di valuta estera. I fondi sovrani sono nati soprattutto nei paesi esportatori di petrolio: Emirati Arabi Uniti, Qatar, Norvegia, ma anche Singapore. Il più grande fondo sovrano al mondo è l'Abu Dhabi Investment Authority (Adia), fondato nel 1976, che possiede asset in tutto il mondo per un controvalore di 627 miliardi di dollari.

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SMONTEZEMOLATI IN FUGA! - NEANCHE È USCITO IL MANIFESTO BY LUCHINO & RICCARDI CHE QUALCUNO GIÀ SI SFILA: RETROMARCIA DI FRANCESCO DE GREGORI - ITALIA FUTURA COSTRETTA A SMENTIRE LA SUA FIRMA “INSERITA PER ERRORE” - MA ‘’L’UNITÀ’’ NON SI ACCORGE DELL’INCIDENTE E METTE L’ADESIONE DEL CANTAUTORE IN PRIMA PAGINA…

http://www.dagospia....gi-si-45902.htm

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