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CRAZEOLOGY

Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"

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Contropiede

ALLA JUVE

L'attivismo di Andrea Agnelli.

L'influenza di Giraudo.

La squadra di big del foro.

In tribunale la sfida più dura per la Vecchia signora

di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 16 agosto 2012)

Un bravo allenatore sa adattare il gioco della squadra alle fasi della partita. E la partita del calcioscommesse si stava trasformando in un disastro per la Juventus, che con le partite tarocche c'entra zero. Andrea Agnelli ha rischiato la goleada prima di cambiare schema e di decidere che Antonio Conte, Leonardo Bonucci e Simone Pepe sono abbastanza cresciuti da rispondere di quanto fatto - o non fatto - quando erano tesserati del Siena, del Bari e dell'Udinese.

Il presidente della Juventus, 37 anni il prossimo dicembre, vive il calcio con un tale trasporto emotivo che ci ha messo mesi prima di indietreggiare in nome di un "chi me lo fa fare", italico e catenacciaro. Alla fine, si è convinto che nel calcio la squadra viene prima del singolo e che sulle partite truccate non ci saranno solo le sentenze della giustizia sportiva in assise al Foro Italico. La Procura di Bari, in particolare, ha indagato Bonucci e forse sentirà anche Conte come persona informata dei fatti. Trasformare il caos delle scommesse in una lotta tra il Bene (la Juve) e il Male (il resto del mondo) sarebbe stato un autogol clamoroso, evitato di poco alla vigilia della prima stagione in Champions league dopo l'onta della retrocessione con due scudetti cancellati nel luglio del 2006.

Quello che meglio spiega Andrea Agnelli è il suo atteggiamento in tribuna. Ai tifosi bianconeri che si rivolgono a lui con il titolo di presidente, lui risponde: «Chiamatemi Andrea». Suo padre Umberto, che pure è diventato presidente della Juve a 21 anni, non lo avrebbe mai fatto. Figurarsi lo zio Gianni, che era l'Avvocato e basta. Il rampollo di casa Fiat, unico maggiorenne a portare il cognome della dinastia, ha cambiato qualche abitudine della ditta dei 28 scudetti ma non troppe. E quando sbandiera 30 vittorie in campionato, proclama che nel 2006 ingiustizia è stata fatta.

Dal giorno in cui è diventato presidente del club (29 aprile 2010), Andrea ha tentato di recuperare il maltolto a colpi di ricorsi al Tar, cause al tribunale ordinario, richieste di risarcimento da 400 milioni di euro alla Federcalcio e continue schermaglie con l'arcirivale Massimo Moratti, padrone di un'Inter che, nella vulgata antagonista bianconera, è stata protetta da arbitri venduti, da commissari straordinari nerazzurri (Guido Rossi) e dalla bestia nera per eccellenza, la Procura federale di Stefano Palazzi.

A maggio, lo scudetto vinto da Conte, il mister che era capitano ai tempi di Antonio Giraudo e Luciano Moggi. Il corto circuito nasce lì, e anche lì l'emotività ha un ruolo primario. Giraudo, per cominciare. L'ex amministratore delegato della Juventus ha quotato il club al listino e ha lanciato il progetto dello stadio di proprietà realizzato solo nel settembre del 2011. Condannato in primo grado dal tribunale penale di Napoli a tre anni, vive in esilio dorato a Londra in vista dell'appello previsto in autunno. Secondo la frase di Andrea, «per me è stato un punto di riferimento, come un padre». È stato inoltre l'amministratore immobiliare di fiducia di Umberto Agnelli, dello stesso Andrea, della sorella Anna e della madre Allegra Caracciolo. Vicino di casa, anche. Sulla collina torinese, in via principessa Felicita di Savoia, c'è una residenza principesca così divisa. Il pianterreno e il primo piano sono della Flm75 di Andrea, una società gestita da Giraudo fino al novembre 2006 quando, con la Juve in B, l'ex manager si è dimesso davanti al notaio Antonio Maria Marocco, consigliere dello Ior e professionista di fiducia della Fiat. Il secondo piano è occupato da Beatrice Merz, direttrice del Museo Castello di Rivoli e figlia dell'artista Mario Merz. Al terzo e quarto piano ci sono i Giraudo con le loro immobiliari che Antonio ha girato alla moglie Maria Elena e al figlio Michele in via prudenziale. Sono infatti in corso le cause per risarcimento dei danneggiati di Calciopoli contro la dirigenza juventina del tempo.

Prendere le distanze dalla propria storia è poco consono ai meccanismi di potere torinesi, per quanto in declino possano essere, e lo svecchiamento di Andrea è più formale che di sostanza. Come quando in panchina c'era Giovanni Trapattoni, l'attenzione alla fase difensiva è fondamentale. Per la vicenda Conte, Andrea Agnelli ha scelto la tradizione e si è affidato agli avvocati Luigi Chiappero e Michele Briamonte.

Chiappero lavora allo studio Chiusano, fondato da Vittorio Caissotti di Chiusano, penalista degli Agnelli scomparso nel 2003 dopo essere stato per 13 anni presidente della Juventus. L'organigramma dello studio legale mette in evidenza come consulente esterno un'altra eminenza grigia del sistema. È Franzo Grande Stevens, civilista napoletano di fede juventina trapiantato a Torino e definitosi «l'avvocato dell'Avvocato».

Grazie alla difesa del suo giovane di studio, il trentacinquenne Briamonte, Grande Stevens è uscito indenne da due buriane giudiziarie che minacciavano di avvelenargli la pensione, semmai uno come lui andrà in pensione. Il primo processo riguardava gli equity swap di Exor, la finanziaria che controlla la Fiat e la Juve. Grande Stevens, a giudizio insieme a Gianluigi Gabetti, si è trovato di fronte il procuratore capo Giancarlo Caselli, torinista sfegatato. Gli imputati sono stati assolti. Con lo stesso risultato si è conclusa la vicenda che ha visto Grande Stevens e Gabetti accusati da Margherita de Pahlen, figlia di Gianni Agnelli e Marella Caracciolo, nella vicenda dell'eredità dell'Avvocato.

Briamonte, consigliere della Juventus di Andrea, è un enfant prodige in un ambiente dove manca la generazione di mezzo. Già presente nel collegio juventino al processo sportivo del 2006, il legale torinese ha un curriculum professionale in rapida espansione. Per conto della Fiat ha vinto la causa da 5 milioni di euro di danni contro la trasmissione Rai Annozero. Grazie al notaio Marocco, è diventato consulente dello Ior, la banca vaticana alle prese con la nuova normativa antiriciclaggio. Essendo in quota ai bertoniani e socio della camera di commercio italo-israeliana, Briamonte è stato inserito nella mitica lobby giudo-pluto-massonica da Ettore Gotti Tedeschi, defenestrato presidente dello Ior.

Interessante anche il percorso che ha portato Briamonte nel cda di It holding prima e del Monte dei Paschi di Siena poi. In entrambi i casi, il professionista ha rappresentato fondi di investimento con basi offshore e proprietà italiana. Nel caso di It holding, era in carica per conto del finanziere cuneese-monegasco Luigi Giribaldi, tifoso del Toro come del resto era Giraudo prima della conversione al culto gobbo. L'avventura è finita con l'amministrazione straordinaria per il gruppo tessile fondato da Tonino Perna.

Al Montepaschi Briamonte è stato nominato amministratore in rappresentanza, tra gli altri, del fondo Timelife di Raffaele Mincione, finanziere italo-americano con sede a Londra. Il "triplete" dell'avvocato si chiude con un posto nell'advisory board del londinese Tarchon capital management. Fondato da Alberto Marolda, Tarchon è noto per avere riempito le casse di alcuni enti previdenziali delle note Anthracite, prodotti finanziari tossici. A chiudere la lista, c'è l'incarico nell'Istituto per la ricerca sul cancro di Candiolo, presieduto da Allegra Caracciolo Agnelli.

Con una difesa così, la Juve di Andrea sogna di nuovo in grande. Chi ha conti da pagare, soprattutto se non vestiva in bianconero, si accomodi alla cassa.

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AVVISO AI NAVIGANTI di ETTORE BOFFANO (la Repubblica - Torino 19-08-2012)

FIAT E POLITICA LOCALE, BASTA

CON IL “SILENZIO DEI COLPEVOLI”

«Non possiamo mai dire: le cose vanno bene.

Semmai: le cose non vanno male»

(Sergio Marchionne, 2009)

Su Mirafiori e sui destini torinesi (e dunque italiani) della Fiat, il “silenzio dei colpevoli” non si placa.

E con esso anche quello dei “non colpevoli” (intendendo per essi chi, essendo arrivato da poco nella “stanza dei bottoni” della città, insiste in un attendismo che pare voler salvare l’immagine di colui che lo aveva preceduto, assumendosi omissioni, responsabilità ed errori altrui).

Ma verrà il giorno, e probabilmente ciò accadrà tra settembre e ottobre, in cui il precipitare degli eventi costringerà tutti a parlare, anche chi avrebbe dovuto farlo molto prima (e con titoli e autorevolezza), del “caso Mirafiori” e delle sue conseguenze non solo sulla Fiat, ma sull’intero “sistema-Auto” di Torino e su quello dell’indotto. Quando non sarà più il tempo, per gli eredi dal nome straniero di una Famiglia che fu, di occuparsi delle intemperanze anti-juventine dell’allenatore della Roma, ma piuttosto del futuro torinese della propria dinastia e di tutti i posti di lavoro ad esso collegati.

Allora, però, non sarà certo il travaglio più o meno sincero dei successori dell’Avvocato Agnelli (muniti, da almeno 30 anni, di altri e ben più importanti investimenti in diverse e lontane parti del mondo e garantiti, sul fronte Usa, dalla geniale “campagna americana” di Sergio Marchionne) a occupare la scena. Nel chiedere conto alla Fiat dei suoi comportamenti, la politica locale (e in particolare quella cittadina) sarà infatti costretta anche a rompere il “silenzio dei colpevoli”. E non solo chiamando in causa le omissioni e le connivenze del passato con quelle “politiche industriali”, ma invece aprendo finalmente il giudizio su una lunga fase di “amministrazione della propaganda” esercitata a Torino. E durante la quale le innovazioni, le profonde ristrutturazioni urbanistiche e strutturali della città e i tentativi di dare il via a presunte nuove “vocazioni” torinesi (e chi mai avrebbe avuto il coraggio, avendo a disposizione simili occasioni e simili finanziamenti, di opporsi a tutto ciò?) venivano giustamente agitate come feticci, mentre il silenzio invece calava sull’accondiscendenza e sul fiancheggiamento dei “poteri forti” della città, ai quali fu concessa una libertà d’azione mai vista a partire dai primi anni del Novecento. Un decennio nel quale la rinuncia della politica locale ad agire anche nei confronti dei poteri industriali e finanziari non fu solo evidente, ma costituì anche una scelta ben precisa e fortemente concordata con quegli stessi poteri nei confronti dei quali si abbandonavano la parola e all’azione.

Gli interpreti di quella stagione molto fortunata per il rilancio dell’immagine di Torino e per la sua trasformazione urbanistica, ma molto negativa invece per i suoi assetti industriali (e anche per le casse pubbliche, solo guardando alle condizioni del bilancio comunale e al sostanziale fallimento delle immaginifiche strategie per le società e per le aziende comunali) sono già stati generosamente ricompensati per la loro costante “strategia dell’oblio” e nessuno, oggi, può pretendere che essi siano chiamati in causa per le loro responsabilità. Probabilmente, infatti, è necessario e saggio accettare che il “silenzio dei colpevoli” continui a esercitare la sua efficacia anche e soprattutto per quegli stessi “colpevoli”.

Ma ciò che ci si può aspettare, a questo punto, è che almeno sul “caso Mirafiori” (e sul “caso Marchionne”) trovi finalmente applicazione quella promessa di discontinuità fatta, con eleganza e senza sbavature polemiche, proprio su questo giornale durante la campagna elettorale di due anni fa. Una discontinuità che forse non abbiamo ottenuto nella formazione della giunta comunale (con qualche vecchio trombone salvato per garantire il sindaco precedente e per vigilare sul suo successore; e con qualche giovane trombona promossa a tutti i costi all’Urbanistica e capace, nel dibattito sul destino di Palazzo Gualino, di partorire ragionamenti imperniati sull’illuminante e innovativo concetto di “bisogno di cambiare”), una discontinuità che adesso però è irrinunciabile e obbligata sulla questione Fiat.

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"Chi rifiutò l’accordo non giocò più..."

http://www3.lastampa...medium=facebook

Come si fa a fare dei titoli del genere sul giornale di Torino degli Elkann/Agnelli?

Che schifo...

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Sapevamo che Exor ha venduto la sua sede, la casa di famiglia di gianni, umberto e susanna che vestivano alla marinara, quella di Corso Matteotti, per spostarsi al Lingotto.

Ora in Corso Matteotti, al piano rialzato, c'è:

http://it.wikipedia...._Banca_Leonardo

.asd

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John Elkann, leader della più famosa dinastia imprenditoriale italiana, invita la

politica e le imprese a fare di più per la scuola: «Da qui passa il nostro futuro»

«Ragazzi, studiare vi fa ricchi»

(anche in busta paga)

di GUIDO FONTANELLI (PANORAMA | 19 settembre 2012)

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Calcio. A bilancio 14,5 milioni di proventi extra dall'archivio

La Juve dimezza le perdite

di GIUSEPPE DEBENEDETTO (Il Sole 24ORE 15-09-2012)

Il bilancio dell'anno della ritrovata felicità bianconera si chiude con una perdita netta di 48,7 milioni. Questo il risultato ufficiale del progetto di bilancio al 30 giugno 2012 dell'Fc Juventus, approvato ieri dal consiglio di amministrazione presieduto da Andrea Agnelli. « la stagione del ritorno della Vecchia Signora al successo in campionato, «il trentesimo scudetto vinto sul campo della propria storia», puntualizza il comunicato di corso Galileo Ferraris.

La Juventus rinnova le punzecchiature alla Federcalcio di Giancarlo Abete, che non ha accolto le istanze di revisione dei procedimenti sportivi di Calciopoli, che nel 2006 hanno portato alla revoca dello scudetto 2005-2006 (assegnato all'Inter quando il commissario Figc era Guido Rossi) e alla non assegnazione per l'anno precedente. Secondo la Figc gli scudetti ufficiali del club sono 28.

La perdita di bilancio è «significativa», riconosce la società, che segnala comunque il miglioramento rispetto al buco di 95,4 milioni del 2011, quindi il passivo è dimezzato. Il patrimonio netto rimane positivo a 64,4 milioni, grazie all'aumento di capitale completato nel gennaio scorso che ha fatto entrare nelle casse sociali 118,6 milioni. Le azioni bianconere, offerte nella ricapitalizzazione a 0,1488 euro, ora valgono circa il 46,7% in più (0,218 euro il settembre). L'indebitamento finanziario netto al 30 giugno era di 127,7 milioni, 6,5 milioni in più dello stesso periodo 2011.

Unica squadra italiana ad avere uno stadio di proprietà (e autofinanziato), la Juventus ha visto aumentare nella stagione di riferimento i ricavi da stadio da 11,5 a 31,8 milioni. Questo è l'incremento maggiore tra le voci che compongono i ricavi, saliti da 172,1 a 213,8 milioni (+24,2%). In questo importo sono compresi anche i ricavi da gestione diritti calciatori, pari a 18,2 milioni (invariati), che nelle classificazioni internazionali, per esempio Deloitte, vengono espunti. Al netto di questa voce, i ricavi sono aumentati da 153,83 a 195,35 (+27%).

I conti beneficiano di plusvalenze nette da cessione calciatori per 14,8 milioni e da un provento straordinario di 14,5 milioni per «ripristino valore» dell'archivio Juve. In aumento il costo del personale tesserato, da 126,9 a 137,1. Per l'esercizio corrente «si prevede un netto miglioramento del risultato economico», per effetto dei maggiori ricavi per il ritorno in Champions League e di «un ulteriore moderato incremento dei ricavi da stadio e da diritti tv».

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LUCA DI MONTEPENDOLO

Vede gente, fa cose, tesse, giudica e cresce nei consensi politici. Ma insomma si butta o non si butta?

“Chi vorrebbe essere Elsa Fornero, chi lord Mandelson, e come fa Luca a deluderli?”, scherza un montezemoliano

“Chi te lo fa fare, Luca?, poi per gli affari devi fare il blind trust”, consiglia qualche amico al Montezemolo amletico

Dalle spiagge dove si recava in bermuda e camicia, possibilmente in mocassini, sembrava sicuro di dire quel “che gli italiani pensano”

Montezemolo non era quello che Berlusconi voleva fare ministro dello Sport?, si chiedevano nel generone romano

di MARIANNA RIZZINI (IL FOGLIO 15-09-2012)

Succederà, sta per succedere, roba di ore, di giorni, di settimane, tutti lo sanno, tutti lo dicono, tutti pensano sia così – “Luca Cordero di Montezemolo scioglie la riserva” – e non si capisce come mai non sia successo prima, dicono, e intanto sono giorni che tutti compulsano l’intervista al Corriere della Sera di Nicola Rossi, senatore montezemoliano con passato nel Pd (“ora ci sono tutte le condizioni”, è la frase chiave) e ripassano con sgomento o con sogghigno l’intervista da Cassandra di Massimo Cacciari al Messaggero (caro Luca è tardi, al massimo prendi qualche deputato, dovevi candidarti quando Berlusconi è entrato in crisi). Poi leggono il sito dell’Espresso (“Montezemolo farà le sue liste”, scrive Marco Damilano) o l’analisi di Francesco Verderami sul Corriere (rapporti con Casini interrotti, titubanza intatta) e dicono che l’area Repubblica guarda a tutta la vicenda senza troppa malevolenza e senza il naso arricciato che in passato ha mostrato il Corriere (“rapporto ondivago tra via Solferino e Montezemolo”, sorride un osservatore esperto). Succederà, sta per succedere, ci sarà proprio lui in campo, sperano fortissimamente i montezemoliani che non confessano il sogno percepibile di lanciare il cuore oltre l’età tecnica – “chi vorrebbe essere Elsa Fornero, chi vorrebbe essere lord Mandelson, e come fa Luca a deluderli?”, scherza un montezemoliano impenitente mentre a “Ballarò” parla Irene Tinagli, docente universitaria italiana in terra di Spagna che l’estate scorsa qualcuno dava già per candidata premier di ItaliaFutura, la “cosa” montezemoliana nata tre anni fa in un pomeriggio d’ottobre, ospiti Enrico Letta, Gianfranco Fini e Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio e ora ministro per la Cooperazione internazionale. Era un giorno di sole fuori stagione, tutti curiosi tutti felici, ed erano le ore in cui la Consulta bocciava il lodo Alfano – i cronisti, per forza di cose, a un certo punto smisero di tenere anima e corpo sul lancio montezemoliano, buttandosi un po’ sull’una un po’ sull’altra notizia. Era il 2009 e ItaliaFutura, macchina tenuta nel box come mai nessuna Ferrari al mondo, si presentava con logo rosso e aspirazione da think tank trasversale, in nome di tutte le “convergenze” possibili e auspicabili.

Ma oggi con il Luca Cordero esitante tutto scorre, e qualcuno, in assenza dell’annuncio “Montezemolo candidato premier”, parla addirittura di primarie, seppure senza crederci del tutto. Sono le sacche della prima riunione fattiva-esplorativa, avvenuta il primo settembre al crocevia tra Italia- Futura (liberal-riformisti con eco anticasta da Montezemolo bastonatore dei partiti) e “Fermare il declino” (piattaforma di Oscar Giannino, liberista punto e basta). Ma i montezemoliani trepidanti sono già tornati ad autoconvincersi (“Montezemolo non sarà il padre nobile ma il condottiero vero e proprio”), specie dopo l’invettiva anti Casini apparsa sul sito di ItaliaFutura qualche giorno fa (Casini fai solo un fritto misto). “Sarà stata la presenza di Emma Marcegaglia sul palco ex-post Udc, la spinta definitiva del ‘mollate gli ormeggi’”?, si chiedono gli osservatori di geometrie variabili, quelli che studiano Corrado Passera – prima pareva montezemoliano e ora insomma – e di Marcegaglia dicono che “non ci si aspettava una cosa così”. E tutti concordano una volta di più con il montezemoliano Nicola Rossi – ora ci sono le condizioni, con Casini sono destinati a riparlarsi – e già che ci sono rileggono pure Oscar Giannino (“i due si troveranno, l’Udc non può fare da sola”), e vieppiù pensano che no, ora basta, non si può fare come quello del Corriere dei Piccoli, il Sor Tentenna, e come lo stesso Passera (pazientate ancora un po’, voi che volete sapere se scendo in campo) e come Silvio Berlusconi che forse si fa attendere, e chissà se Montezemolo deciderà dopo che ha deciso il Cav. Non si possono “sfogliare margherite in eterno”, dicono i montezemoliani contagiati dal pallino di Luca per la metafora – “il paese è come un pugile nell’angolo”, disse l’ex presidente Fiat e quasi padre nobile della Ferrari (arriverà Lapo Elkann, secondo l’Espresso), ed era il 2010 ed era il salotto di Fabio Fazio, e la poltrona design di “Che tempo che fa” divenne teatro di sommo j’accuse antiberlusconiano, con il governo che di metafora in metafora ascendeva o discendeva (a seconda del punto di vista) a “cinepanettone ormai alla fine”.

Le metafore hanno preso oggi venature ittiche (“la pesca a strascico di Casini e i docili tonni della società civile”, era il titolo del suddetto editoriale di ItaliaFutura), ma nell’eterno preludio di tenzone sembra presto per tutto, persino per le piccole cattiverie da politica “sangue e m***a”, per dirla con Rino Formica. Eppure lui, Luca Cordero di Montezemolo, quell’adagio di Rino Formica ce l’ha in testa, sempre più in testa, dice chi ne scruta l’animo, tanto che nelle sue segrete stanze, la mattina, quando sfoglia i giornali in ordine di presunta vis antipatizzante (prima il Fatto, poi il Messaggero, poi il Corriere, poi Repubblica) un po’ o molto ci ripensa. Meglio restare sullo sfondo, pensa, e a nulla valgono le telefonate degli amici o degli industriali che incitano alla battaglia, ché c’è sempre il rischio che qualcuno esorti e poi si defili nel più classico “armiamoci e partite” o che qualcuno là fuori si metta a rinfacciargli, come quest’estate, la sentenza sull’abuso edilizio caprese, i rapporti con il vecchio mondo Fiat (“mi auguro per il bene del paese che Montezemolo non si candidi”, ha detto Cesare Romiti sempre da Fazio, qualche mese fa) o il presunto disinteresse per il sonno da bella addormentata dell’Air Terminal romano, gioiello dei mondiali Novanta, epoca montezemoliana, rimasto chiuso per vent’anni – ma ora c’è Eataly, e sotto la volta avveniristica tintinnano i bicchieri.

“Chi te lo fa fare, Luca?, poi per gli affari devi fare il blind trust”, consiglia qualcuno al Montezemolo amletico di settembre, più tormentato ancora dei giorni in cui il suo nuovo treno Italo languiva nella “gabbia” della stazione Ostiense (parole sue: “Triste emblema di chi vuole investire in Italia”). Inutile pure, per il Luca Cordero combattuto oltre ogni limite, sentire e risentire l’ex primo ministro François Fillon, consigliere prediletto oltralpe – studia bene la situazione prima di fare passi, Luca, gli diceva quest’estate Fillon, compagno di vacanza, prima di rompersi un piede, e chissà se poteva immaginare, l’ex premier francese, che al Cordero di Montezemolo fresco di attacco a Casini sarebbe arrivata la lettera di rimbrotto di Paolo Cirino Pomicino (“leggiamo una dichiarazione di un’associazione originale nel nome, tal ItaliaFutura, irriverente nei riguardi di vecchi leader politici democristiani e repubblicani…”, scrive Pomicino, “… Luchino di Montezemolo, come lo chiamano i capresi, dovrebbe, insieme ai suoi associati, togliersi il cappello dinanzi ai vecchi dirigenti democristiani quantomeno ricordando le ore di attesa nelle loro anticamere per avere incarichi come, ad esempio, quando desiderò ed ottenne di organizzare i Mondiali ’90…”). Essere o non essere montiani oltre Monti (e quanto), anche questo è il problema, ma non solo: “L’andazzo, nel mondo”, dice un veterano di universi industriali, “svela una sempre minor simpatia elettorale per i miliardari in politica, e Montezemolo dovrebbe sapere che quelli che osannano la Ferrari la domenica sono gli stessi che inveiscono contro i governi il lunedì”. Anche Clemente Mastella, da “amico non compagno di partito di Montezemolo”, mette in guardia: “Attenzione a pensare che l’aureola che uno si porta e la stima si traducano automaticamente in consenso – per quello bisogna molto faticare. E attenzione ai nuovismi e ai modernismi presentati con schema tolemaico: questi siamo noi, attorno girerà il resto. Attenti, infine, a non trasformare la politica in concorso per Mister Italia sul modello Renzi”. (C’è poi chi, come Giampaolo Pansa, dalle colonne di Libero, avverte Montezemolo del rischio “zitella Consiglia: tutti la vogliono, nessuno la piglia”).

Ma oggi si è quasi a sessantamila seguaci, dice il contascatti sull’home page di ItaliaFutura (“If” per gli amici, e chissà se c’è pure un omaggio recondito alla poesia di Rudyard Kipling, quella che a un certo punto inneggia alla sopportazione di grossi guai anche politici: “… se riesci a parlare alle folle e conservare la tua virtù / o passeggiare con i re, senza perdere il contatto con la gente comune / … se non possono ferirti né i nemici né gli amici affettuosi / se per te ogni persona conta, ma nessuno troppo / … allora sarai un uomo, figlio mio”). E insomma a “If” le cellule locali sono pronte, lo staff dirigenziale macina idee in serena trasversalità tra aree ex dalemiana, riformista e liberista (Andrea Romano, ex ItalianiEuropei, Carlo Calenda, ex Confindustria e Ferrari, Federico Vecchioni, ex Confagricoltura). La longa manus sul territorio (Simone Perillo) aggiunge tacche, e la cosiddetta “galassia”, dicono roboanti i montezemoliani, si espande attorno ai punti fermi dei mesi precedenti, quando si parlava di “piano di Montezemolo per il 2013” e di convention estive (invece la convention si farà a novembre, con Oscar Giannino, con buona pace di chi pensava che luglio fosse meglio di novembre, sulla scorta del sondaggio Ipsos di giugno che dava la creatura montezemoliana al 20 per cento). Ci sono, tra gli altri, nella galassia “If”, gli under trentacinque di “Zeropositivo (Piercamillo Falasca), il docente universitario Marco Simoni (oltre a Tinagli), il critico Francesco Bonami, il referendario Giovanni Guzzetta, già collaboratore di Renato Brunetta, l’esperto di Pubblica amministrazione Alberto Stancanelli, la politologa già finiana Sofia Ventura, l’editorialista di Repubblica e storico Miguel Gotor (peraltro molto bersaniano), l’uomo dell’intersezione con “Fermare il declino” Michele Boldrin, il mondo industriale di Gianni Punzo e quello che gravita attorno a Interporto campano, il costituzionalista Michele Ainis, il produttore cinematografico Riccardo Tozzi, il sociologo ed editorialista della Stampa Luca Ricolfi, la blogger radical-santoriana Giulia Innocenzi, l’ex sindaco di Padova Giustina Destro, eletta alla Camera con il Pdl, poi “delusa”, dice, dal Pdl – “a una certa politica fa comodo dire che Montezemolo tentenna e non decide”, dice Giustina Destro, “ma Montezemolo sa benissimo che cosa fare, anche perché qui, appena uno mette la testa fuori, viene ostacolato da una macchina del discredito vecchio stampo. Intanto si costruisce una rete sul territorio, poi quando sarà ora si metterà in pratica un progetto di rinnovamento e riaccreditamento del paese”. Giustina Destro deve aver memorizzato le parole pronunciate da Montezemolo nell’estate del 2011, quando a Roma LCdM parlava accorato di “Italia con una cattiva reputazione” nel bel mezzo di un convegno di professori, cantanti, preti e guru dell’archeologia, tutti riuniti per la “cultura, orgoglio italiano” al Teatro Argentina. Non augurava al peggior nemico “d’essere precario”, il Montezemolo cantore di “talenti” sommersi nelle scuole (campagna in onore dei “maestri d’Italia”, nostalgia per i tempi dell’abbecedario di Pinocchio) e intercettatore della nouvelle vague pauperista (tassiamo i patrimoni oltre i dieci milioni di euro, disse nei mesi in cui anche gli industriali francesi facevano la stessa cosa, e chissà se anche allora c’era lo zampino di Fillon). Insisteva sul terribile stato “emergenziale” dell’Italia, Montezemolo, e dalle spiagge dove sempre si recava in bermuda e camicia, possibilmente in mocassini, ma mai in t-shirt, si mostrava sicuro di dire le cose “che gli italiani pensano” – roba da far smarrire la bussola a chi aveva sempre creduto che, al di là delle invettive anticasta, l’uomo Ferrari continuasse a interloquire con il Cav. (hanno anche lo stesso doppiopetto): ma come?, Montezemolo non era quello che Berlusconi voleva fare ministro dello Sport?, si chiedevano alcuni esponenti del generone romano. Ma come?, Montezemolo non era di destra?, semplificava qualche occupante del Teatro Valle. Ma come, Montezemolo e Berlusconi non sono sempre in contatto?, si domandavano gli osservatori increduli della scena politica nuova e ingarbugliata, con Montezemolo che faceva discorsi di respiro ecumenico alla Walter Veltroni (politico da lui ammirato nel 2007) ma sempre temporeggiava sul suo ingresso in campo – e vai a sapere che poi, alle prime piogge, sarebbe arrivato Mario Monti, e sarebbe esploso Beppe Grillo, e sarebbe imploso il Pdl, e Casini avrebbe tirato fuori dalla platea di Chianciano proprio lei, Emma Marcegaglia. Vai a sapere, allora, che a Montezemolo sarebbero servite una lettera a Repubblica (31 ottobre 2011) e un botta e risposta con Pierluigi Battista sul Corriere della Sera (maggio 2012) per non sciogliere il rebus che manda ai matti le vedette elettorali: ma Montezemolo alla fine che fa?

E se il Corriere gli chiedeva un chiarimento (risposta: ItaliaFutura “potrebbe essere l’alternativa per il 2013”), e se Repubblica ospitava il suo grido al “tempo scaduto” (contro Berlusconi), i contatti informali con il mondo del Cav. restavano intatti – cosa diversa erano i toni pubblici, più somiglianti a quelli usati dall’amico Diego Della Valle nella pagina comprata sui principali quotidiani il primo ottobre del 2011 (“basta” classe politica “incompetente”, offrite uno “spettacolo indecente”, scriveva il patron Tod’s). E in qualche modo i montezemoliani di memoria lunga si trovarono a ripensare al Montezemolo degli ultimi anni in Confindustria, meno berlusconiano (a parole?) dei piccoli imprenditori del nord-est con cui si era scontrato nel 2004, al momento della designazione a presidente – e quando un giorno, a Vicenza, il Cav. se ne uscì con un dàgli ai giornali un po’ colorito, Montezemolo sussurrò un “non fatemi parlare per carità”, motivo per cui non molti si stupirono degli elogi tributati al Veltroni del Lingotto (“candidatura importante, nuova stagione”).

E ora che ItaliaFutura si deve dividere l’osso centrista con Casini, tutto il nuovo mondo montezemoliano, “convergente” per autodefinizione, mantiene le radici forti nel centrodestra ma rinsalda i contatti sul lato Pd, con Matteo Renzi e, sul piano delle future amministrative romane, con l’area del candidato sindaco democratico Nicola Zingaretti. Tuttavia nessuna mossa montezemoliana pare quella decisiva, e quando il passante chiede a Montezemolo “ma allora ti candidi?”, Montezemolo, con viso meno ieratico di quello ritratto nelle gigantografie in suo onore negli hotel di Monza, risponde no, no e no, forse sì, forse no, fermo restando l’impegno “per il futuro del paese”. Celeberrimo è rimasto lo scorno (per gli illusi) degli auguri di Natale: a fine 2011 Luca Cordero ha diramato una lettera aperta agli iscritti di ItaliaFutura, facendo intravedere, finalmente, sotto l’albero e tra le righe, la svolta attiva. Non più soltanto “fogli del come”, insomma, la gioia del suo imitatore Maurizio Crozza, che a Natale lo descrive sempre preso tra incombenze del “Partito dei carini”, “volano” dell’economia e “cadeaux” malauguratamente recapitati a sproposito da qualche collaboratore sbadato – ed ecco che “l’unicorno inesistente” da regalare a “Emma” o alla misteriosa “Giulia Sofia” viene sostituito da un gruppo di pony che purtroppo finiscono per errore in un delfinario da donare a qualcun altro (e annegano), mentre il “trimarano da quattordici metri” per “Diego” diventa, nella lista della spesa sbagliata, “un’agendina da quattordici metri (“beh, fai rifare a mie spese la scrivania, su”). Niente da fare, neanche quella volta, per la discesa in campo: persino la lettera di Natale si rivelò un al lupo-al lupo. Idem quest’estate: illusione a giugno (specie all’interno di ItaliaFutura), disillusione a luglio, e Montezemolo che come il gambero procedeva un passo avanti e due indietro, con “la Costituzione in testa”, come dice un suo amico, le tempeste dietro l’angolo e neanche un Cino Ricci a indovinare il vento – lontanissimi sono i giorni gloriosi dell’83, quando le vele vincenti di “Azzurra” svolazzavano sui teleschermi ancora poco avvezzi alla gara marittima, e Montezemolo stava dietro le quinte a far da sponsor, tra Gianni Agnelli e l’Aga Khan (ora al posto di Cino Ricci c’è Nando Pagnoncelli, e Luca Cordero scruta il sondaggio come fosse un orizzonte strapazzato dal maestrale).

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http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/bianconeri-in-rosso-per-oltre-48-milioni-dopo-il-disastro-fiat-auto-ormai-non-43968.htm

BIANCONERI IN ROSSO (PER OLTRE 48 MILIONI) - DOPO IL DISASTRO FIAT AUTO, ORMAI NON PIU' OCCULTABILE NEPPURE DALLA STAMPA AMICA, DOPO CHE LA BUFALA FABBRICA ITALIA SI STA RIVELANDOSI TALE E PERSINO IL MINISTRO PASSERA SE NE OCCUPA (DIRA' CHE NON C'E' NULLA DA FARE, COME PER ALCOA, E TORNERÀ AD OCCUPARSI DEL PROPRIO SVILUPPO), CI DOBBIAMO ATTENDERE LA CHIUSURA ANCHE DELLA VECCHIA SIGNORA?..

Bankomat per Dagospia

E' vero che le squadre di calcio non hanno mai portato utili (ufficiali, magari di altro tipo sì) ai loro azionisti e che il Milan, per esempio, ad aprile ha dichiarato perdite per circa 68 milioni nel bilancio appena chiuso, ma la Juve nondimeno perde tanti quattrini e la cosa merita una considerazione.

antonio-conte-andrea-185192_tn.jpgANTONIO CONTE ANDREA AGNELLI

andrea-agnelli-antonio-185190_tn.jpgANDREA AGNELLI ANTONIO CONTE JOHN ELKANN

Si legge oggi sul Sole 24 Ore - pezzo tecnico e non omissivo, diamo atto - che il bilancio appena chiuso registra perdite nette per oltre 48 milioni, la meta' di quelle dell'anno prima. Tale disastro poteva essere peggio se non fossero intervenuti gli aiutini. Per esempio ci sono 18 milioni di ricavi da gestione dei diritti dei calciatori, che il Sole avverte non essere normalmente inseriti nelle riclassificazioni internazionali dei bilanci del settore, quali quella di Deloitte.

Oppure, ed e' un altro classico di tutti i bilanci anche extra sportivi, una sana ed opinabile rivalutazione di beni; in questo caso ne abbiamo per 14,5 milioni, una sana rivalutazione del cosiddetto "archivio Juve". Sara' quello con solo le ricercatissime foto di Boniperti da giovane o contiene anche le carte segrete di Moggi e Giraudo? Se e' quello in effetti Moratti lo pagherebbe tantissimo....

andrea-agnelli-foto-167599_tn.jpgANDREA AGNELLI FOTO MEZZELANI GMT

Con questi conti gestionali ancora una volta disastrosi, che non a caso in 12 mesi hanno fatto lievitare i debiti finanziari da 121 a 127 milioni, un Marchionne qualunque manderebbe tutti a casa.

andrea-agnelli-foto-167600_tn.jpgANDREA AGNELLI FOTO MEZZELANI GMT

Dopo il disastro Fiat Auto, ormai non piu' occultabile neppure dalla stampa amica, e che Dagobankomat da anni stigmatizza, dopo che la bufala Fabbrica Italia sta rivelandosi tale e persino il Ministro Passera se ne occupa (dira' che non c'e' nulla da fare, come per Alcoa, e tornerà' ad occuparsi del proprio sviluppo) ci dobbiamo attendere la chiusura della Vecchia Signora?

No, tranquilli, le migliaia di operai Fiat sfaccendati da casa potranno certamente ancora godersi le gesta della squadra, valorosamente presieduta da un Agnelli che altrimenti si dovrebbe ricollocare da qualche parte. Con la crisi che c'e' in giro vorremo mica aumentare il numero dei senza lavoro? Gia' non e' scontato riuscire a piazzare Lapo, che dalle sue imprese modaiole non guadagna molto, al posto di Luchino alla testa della Ferrari (pare che vogliano uno piu' esperto di piste) per cui Yaki non puo' aggiungere problema a problema.

56684_tn.jpgI GIOVANISSIMI ANDREA AGNELLI COL PADRE UMBERTO E JOHN ELKANN COL NONNO GIANNI

Solo una cosa sommessamente si chiederebbe al Dr Agnelli Andrea, dopo simili e ripetuti disastri gestionali: stai felice, sii contento, ti teniamo il posto di lavoro ma impara possibilmente a perdere meno quattrini e non frollarci piu' gli zebedei con esternazioni saccenti.

Grazie

Bankomat

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http://www.dagospia....i-non-43968.htm

BIANCONERI IN ROSSO (PER OLTRE 48 MILIONI) - DOPO IL DISASTRO FIAT AUTO, ORMAI NON PIU' OCCULTABILE NEPPURE DALLA STAMPA AMICA, DOPO CHE LA BUFALA FABBRICA ITALIA SI STA RIVELANDOSI TALE E PERSINO IL MINISTRO PASSERA SE NE OCCUPA (DIRA' CHE NON C'E' NULLA DA FARE, COME PER ALCOA, E TORNERÀ AD OCCUPARSI DEL PROPRIO SVILUPPO), CI DOBBIAMO ATTENDERE LA CHIUSURA ANCHE DELLA VECCHIA SIGNORA?..

Bankomat per Dagospia

E' vero che le squadre di calcio non hanno mai portato utili (ufficiali, magari di altro tipo sì) ai loro azionisti e che il Milan, per esempio, ad aprile ha dichiarato perdite per circa 68 milioni nel bilancio appena chiuso, ma la Juve nondimeno perde tanti quattrini e la cosa merita una considerazione.

antonio-conte-andrea-185192_tn.jpgANTONIO CONTE ANDREA AGNELLI

andrea-agnelli-antonio-185190_tn.jpgANDREA AGNELLI ANTONIO CONTE JOHN ELKANN

Si legge oggi sul Sole 24 Ore - pezzo tecnico e non omissivo, diamo atto - che il bilancio appena chiuso registra perdite nette per oltre 48 milioni, la meta' di quelle dell'anno prima. Tale disastro poteva essere peggio se non fossero intervenuti gli aiutini. Per esempio ci sono 18 milioni di ricavi da gestione dei diritti dei calciatori, che il Sole avverte non essere normalmente inseriti nelle riclassificazioni internazionali dei bilanci del settore, quali quella di Deloitte.

Oppure, ed e' un altro classico di tutti i bilanci anche extra sportivi, una sana ed opinabile rivalutazione di beni; in questo caso ne abbiamo per 14,5 milioni, una sana rivalutazione del cosiddetto "archivio Juve". Sara' quello con solo le ricercatissime foto di Boniperti da giovane o contiene anche le carte segrete di Moggi e Giraudo? Se e' quello in effetti Moratti lo pagherebbe tantissimo....

andrea-agnelli-foto-167599_tn.jpgANDREA AGNELLI FOTO MEZZELANI GMT

Con questi conti gestionali ancora una volta disastrosi, che non a caso in 12 mesi hanno fatto lievitare i debiti finanziari da 121 a 127 milioni, un Marchionne qualunque manderebbe tutti a casa.

andrea-agnelli-foto-167600_tn.jpgANDREA AGNELLI FOTO MEZZELANI GMT

Dopo il disastro Fiat Auto, ormai non piu' occultabile neppure dalla stampa amica, e che Dagobankomat da anni stigmatizza, dopo che la bufala Fabbrica Italia sta rivelandosi tale e persino il Ministro Passera se ne occupa (dira' che non c'e' nulla da fare, come per Alcoa, e tornerà' ad occuparsi del proprio sviluppo) ci dobbiamo attendere la chiusura della Vecchia Signora?

No, tranquilli, le migliaia di operai Fiat sfaccendati da casa potranno certamente ancora godersi le gesta della squadra, valorosamente presieduta da un Agnelli che altrimenti si dovrebbe ricollocare da qualche parte. Con la crisi che c'e' in giro vorremo mica aumentare il numero dei senza lavoro? Gia' non e' scontato riuscire a piazzare Lapo, che dalle sue imprese modaiole non guadagna molto, al posto di Luchino alla testa della Ferrari (pare che vogliano uno piu' esperto di piste) per cui Yaki non puo' aggiungere problema a problema.

56684_tn.jpgI GIOVANISSIMI ANDREA AGNELLI COL PADRE UMBERTO E JOHN ELKANN COL NONNO GIANNI

Solo una cosa sommessamente si chiederebbe al Dr Agnelli Andrea, dopo simili e ripetuti disastri gestionali: stai felice, sii contento, ti teniamo il posto di lavoro ma impara possibilmente a perdere meno quattrini e non frollarci piu' gli zebedei con esternazioni saccenti.

Grazie

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quanti co*****i ci sono nel mondo

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L’OSPITE DELLA DOMENICA

Lapo Elkann

Occhi porta dell’anima: dicono ciò che siamo. Ci proteggiamo da sguardi indiscreti con gli occhiali. Ma se vogliamo concederci, allora via: bisogna toglierli...

In extremis gli occhiali tributo alla Juve campione: un fatto di scaramanzia. E per la Champions League... Mi spiace non esserci a Stamford Bridge. Questa squadra è da annata palpitante

di ELVIRA ERBI’ (TUTTOSPORT 16-09-2012)

Seriamente simpatico, simpaticamente serio. Ecco il volto operativo di un trentaquattrenne nato a New York, torinese per radici, milanese per lavoro, italiano senza confini. E felicemente compresso tra la squadra del cuore (J...s) e la squadra della vita (I-I). Non inciampa nei congiuntivi, perché parla con passione; e se parcheggia metaforicamente il concetto fuori dalle righe è perché l’entusiasmo per il suo lavoro lo fa meditare, ripetere, ricollocare parole e pensieri. Disordinatamente sparsi, ordinatamente raccolti.

Nome.

«Lapo».

Cognome.

«Elkann».

Per tutti, o quasi, semplicemente...

«Lapo».

Come si definirebbe?

«Un imprenditore creativo. Seguo il percorso che rende vendibile il prodotto, curo i rapporti interpersonali. Non sono uomo di finanza, è chiaro».

Ci presenta la sua “creatura”?

«Italia Independent è un team vincente, una piccola realtà che emerge nella globalità. Creatività, progettualità, competitività sono le nostre linee guida».

Rosa ampia o ristretta?

«Se intendiamo il gruppo allargato, allora siamo un centinaio. Nasciamo in Italia, manteniamo qui la base operativa, ma vantiamo un’esperienza europea e ci espandiamo nel mondo».

Gli occhi sono...

«La porta dell’anima. Dicono ciò che siamo, ciò che si prova, come si sta dentro. Quindi, ci proteggiamo dagli sguardi indiscreti. E quando vogliamo concederci, via gli occhiali».

Che sono tutt’uno con lei.

«E un architrave dell’azienda, in crescita continua. Nel 2009 abbiamo venduto circa 40.000 pezzi, nel 2010 siamo saliti a 140.000, quest’anno stimiamo un balzo a quota 300.000».

Come si “gioca” ai tempi della crisi?

«I numeri non si contestano, le azioni si supportano. Se il prodotto è competitivo e si posiziona con il prezzo giusto, allora si vince la sfida. Anche in momenti difficili».

Largo ai giovani, quindi?

«Noi siamo giovani. Ma non solo. Qui non abbiamo paura di innovare, creare, confrontarci. E spesso dall’uno contro uno scaturisce la genialità».

La partita, allora, si fa intensa.

«Servono grinta e dinamismo. E infinita voglia di fare. Voglia di (ri)mettersi in gioco e in discussione, con umiltà e coraggio, anche all’interno dell’azienda stessa».

Lapo si sente allenatore?

«Non mi piace racchiudermi in un ruolo. Mi sento fondatore di questa realtà molteplice con Giovanni (Accongiagioco), Alberto (Fusignani), Andrea (Tessitore). In fondo, ci sono parecchi altri giocatori notevoli».

Sul mercato si sgomita?

«Ecco le parole d’ordine: diversificare, essere accattivanti. Questo ci ispira. Poi, sappiamo di andare a combattere e lottare per far breccia. Il segreto, alla fine, come in un club sportivo, è avere le persone giuste al posto giusto. La nostra filosofia, inoltre, è chiara e mira al lungo termine, con sostegno e apprezzamento».

L’occhiale per tutti?

«Lo spazio sarebbe chiuso. E allora devi differenziarti, a partire dal prezzo. Tra 120 e 150 euro proponiamo la gamma da vista e sole, il 70% del volume. Abbiamo la fortuna di poter privilegiare il prodotto e operare in una realtà in espansione. Che siamo in crescita lo dice il fatturato, lo confermano le vendite. Uno dei nostri punti forti è la versatilità, la varietà, si parte da 97 euro e si arriva fino a 1007».

Il momento più intenso?

«Quando l’idea prende vita, e quando cammina con le sue gambe. Dietro al prodotto c’è organizzazione; si parte da uno zoccolo duro e si valicano i confini».

Lapo novello Marco Polo, altro che Marcello Lippi: GQ cinese l’ha eletta uomo dell’anno...

«Emozionante e stimolante. Per me la Cina non è un problema, ma un’opportunità. Una risorsa. Un mercato importante per il made in Italy, così come lo sta diventando per gli sportivi. Altri snodi cruciali, comunque, non mancano: penso all’India, all’Asia in genere, agli Emirati Arabi».

Un titolo da festeggiare con occhiali speciali, la scaramanzia da dribblare.

«Zero programmazione, su certe cose come lo scudetto non si scherza, eh. L’idea dell’operazione, quindi, non è il frutto di un lavoro pianificato. Quando si era vicini alla conquista dello scudetto, con il team marketing Juventus si è pensato a un’operazione di co-marketing con Italia Independent che fosse un tributo all’impresa della Vecchia Signora. Un paio di occhiali celebrativi, con un approccio orientato alla condivisione di brand. Di solito ci vogliono 6 mesi, invece in pochissime settimane...».

Matri, Vidal, Pirlo, Bonucci ecc.: tutti immortalati con I-I, il tributo.

«Per me una grande soddisfazione. Abbiamo realizzato due versioni: con frontale nero e aste zebrate, con frontale nero e aste bianche. All’interno delle aste sono riportati il logo di I-I e lo scudetto in un modello, nell’altro lo stemma Juve e la scritta “Campioni d’Italia 2012”».

Italia che corre e ricorre.

«Ideazione, progetto, attuazione: un occhiale che nasce in Italia, prodotto in Italia. Completamente. I nostri due poli sono nel Varesotto e nel Cadore. La vicinanza ci permette controllo e intervento immediato».

Il premio oscar Colin Firth e Karl Lagerfeld, Aurelio De Laurentiis, tra i tanti, “indossatori” famosi...

«Una mossa fondamentale è dare visione. E l’era dei testimonial veri e propri è finita. Il prodotto è dei clienti. Che sono più o meno famosi, molto famosi, molto normali. Curiamo tutti allo stesso modo. Nel corso del Festival del Cinema di Venezia, alla serata Vogue, abbiamo introdotto gli I-Ultra, occhiali oversize di 20 grammi, realizzati con il materiale brevettato XL EXTRALIGHT che galleggia, si lava, non cambia colore al sole. In campo da marzo».

Sempre più internazionali?

«E’ allo studio un’apertura a Miami. Siamo sul mercato in tutta Europa, in più di trenta Paesi nel mondo. Abbiamo quattro monomarca in Italia e uno nel Montenegro. Prossimamente toccherà a Torino, Sestriere e Bologna».

Innovare vuol dire anche sperimentare?

«Siamo anche un marchio di contaminazione. Così, continuamente, creiamo prodotti competitivi e accattivanti. Lavoriamo su forme classiche e materiali innovativi, una linea di occhiali con effetto velluto, contraddistinti dal trattamento brevettato UV LUX. Dal mese di maggio ecco I-Thermic, i primi al mondo che cambiano colore al variare della temperatura. Hanno una colorazione di partenza nero-blu e non appena raggiungono i 30° cambiano in camouflage, pois ecc (30.000 in un mese!). E ci sono quelli che hanno la memoria forma: se li pieghi, non si rompono».

Vendere è un successo?

«Sì, se si rispetta ogni mercato, senza essere arroganti. Noi amiamo la competizione, combattere a trecentosessanta gradi. Il confronto quotidiano è continuo. Emergono i pregi e i difetti di tutti. Riconosciuti i propri limiti, il più è fatto».

Il suo mondo è...

«A colori. Amo il colore. Alla base però c’è il bianco e c’è il nero. E non solo perché sono juventino. Da lì è un’esplosione, anche di sensazioni. Il colore è vita».

Vogue America nel 2007 l’ha definita “l’uomo meglio vestito del mondo”.

«Provo accostamenti mirati, intuitivi. Non mi metto addosso un arcobaleno, mai».

A proposito di colori, ha fatto “epoca” la sua Ferrari mimetica, così come la Jeep.

«Non è un gioco, ma un modo di esprimersi. La gente è sempre più uguale, ha paura di mostrarsi nelle forme differenti, non esprime se stessa. Mi piace lavorare anche con le vernici, con la ricerca continua di materiali da rendere vivi».

E poi torna inevitabilmente al bianco e al nero.

«In squadra, tre su quattro “fondatori” sono “gobbi” persi. Giovanni è napoletano, ma amico della Juve, altrimenti...».

Sarà a Londra per l’esordio in Champions col Chelsea?

«Purtroppo non riesco ad andare a Stamford Bridge. Ma seguirò sempre, compatibilmente con gli impegni, la Juve, anche dal vivo. Il gruppo è vincente e convincente, dal presidente in giù, e gioca con grinta dentro e fuori dal campo».

Pronto per un omaggio europeo?

«Vediamo, fosse Champions... Di sicuro la Juve lotterà e si farà onore su tutti i fronti. Mi aspetto un’annata palpitante come quella passata. Anche di più. E l’inizio, da Pechino in avanti, promette bene».

In fondo, le sue squadre, del cuore e della vita, senza frontiere. Reali e virtuali. Racchiuse in un clic.

«Il web rende il locale globale, abolisce le barriere, annienta le distanze. E i pro superano i contro. Io sono un navigatore, un fruitore della rete. Ma nei rapporti preferisco il faccia a faccia, guardare negli occhi...».

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http://www.dagospia....i-non-43968.htm

BIANCONERI IN ROSSO (PER OLTRE 48 MILIONI) - DOPO IL DISASTRO FIAT AUTO, ORMAI NON PIU' OCCULTABILE NEPPURE DALLA STAMPA AMICA, DOPO CHE LA BUFALA FABBRICA ITALIA SI STA RIVELANDOSI TALE E PERSINO IL MINISTRO PASSERA SE NE OCCUPA (DIRA' CHE NON C'E' NULLA DA FARE, COME PER ALCOA, E TORNERÀ AD OCCUPARSI DEL PROPRIO SVILUPPO), CI DOBBIAMO ATTENDERE LA CHIUSURA ANCHE DELLA VECCHIA SIGNORA?..

Bankomat per Dagospia

E' vero che le squadre di calcio non hanno mai portato utili (ufficiali, magari di altro tipo sì) ai loro azionisti e che il Milan, per esempio, ad aprile ha dichiarato perdite per circa 68 milioni nel bilancio appena chiuso, ma la Juve nondimeno perde tanti quattrini e la cosa merita una considerazione.

antonio-conte-andrea-185192_tn.jpgANTONIO CONTE ANDREA AGNELLI

andrea-agnelli-antonio-185190_tn.jpgANDREA AGNELLI ANTONIO CONTE JOHN ELKANN

Si legge oggi sul Sole 24 Ore - pezzo tecnico e non omissivo, diamo atto - che il bilancio appena chiuso registra perdite nette per oltre 48 milioni, la meta' di quelle dell'anno prima. Tale disastro poteva essere peggio se non fossero intervenuti gli aiutini. Per esempio ci sono 18 milioni di ricavi da gestione dei diritti dei calciatori, che il Sole avverte non essere normalmente inseriti nelle riclassificazioni internazionali dei bilanci del settore, quali quella di Deloitte.

Oppure, ed e' un altro classico di tutti i bilanci anche extra sportivi, una sana ed opinabile rivalutazione di beni; in questo caso ne abbiamo per 14,5 milioni, una sana rivalutazione del cosiddetto "archivio Juve". Sara' quello con solo le ricercatissime foto di Boniperti da giovane o contiene anche le carte segrete di Moggi e Giraudo? Se e' quello in effetti Moratti lo pagherebbe tantissimo....

andrea-agnelli-foto-167599_tn.jpgANDREA AGNELLI FOTO MEZZELANI GMT

Con questi conti gestionali ancora una volta disastrosi, che non a caso in 12 mesi hanno fatto lievitare i debiti finanziari da 121 a 127 milioni, un Marchionne qualunque manderebbe tutti a casa.

andrea-agnelli-foto-167600_tn.jpgANDREA AGNELLI FOTO MEZZELANI GMT

Dopo il disastro Fiat Auto, ormai non piu' occultabile neppure dalla stampa amica, e che Dagobankomat da anni stigmatizza, dopo che la bufala Fabbrica Italia sta rivelandosi tale e persino il Ministro Passera se ne occupa (dira' che non c'e' nulla da fare, come per Alcoa, e tornerà' ad occuparsi del proprio sviluppo) ci dobbiamo attendere la chiusura della Vecchia Signora?

No, tranquilli, le migliaia di operai Fiat sfaccendati da casa potranno certamente ancora godersi le gesta della squadra, valorosamente presieduta da un Agnelli che altrimenti si dovrebbe ricollocare da qualche parte. Con la crisi che c'e' in giro vorremo mica aumentare il numero dei senza lavoro? Gia' non e' scontato riuscire a piazzare Lapo, che dalle sue imprese modaiole non guadagna molto, al posto di Luchino alla testa della Ferrari (pare che vogliano uno piu' esperto di piste) per cui Yaki non puo' aggiungere problema a problema.

56684_tn.jpgI GIOVANISSIMI ANDREA AGNELLI COL PADRE UMBERTO E JOHN ELKANN COL NONNO GIANNI

Solo una cosa sommessamente si chiederebbe al Dr Agnelli Andrea, dopo simili e ripetuti disastri gestionali: stai felice, sii contento, ti teniamo il posto di lavoro ma impara possibilmente a perdere meno quattrini e non frollarci piu' gli zebedei con esternazioni saccenti.

Grazie

Bankomat

.oddio

non leggo dagospia, e se questo è il livello di approfondimento, faccio bene a non perderci tempo

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Ginevra Elkann:

“Colleziono collezioni”

Torino, la Pinacoteca Agnelli compie dieci anni. La presidente

spiega la sua missione nello “scrigno” dell’arte contemporanea

di FRANCESCO BONAMI (LA STAMPA 21-09-2012)

Nel settembre del 2002 nasceva a Torino la Pinacoteca Agnelli, nello «scrigno» progettato da Renzo Piano e sospeso sul tetto del Lingotto. Quattro anni dopo ne diventava presidente la giovanissima Ginevra Elkann, figlia di Alain Elkann e Margherita Agnelli, e nipote dell’Avvocato. La domanda, per una nuova istituzione culturale contemporanea in una città come Torino che aveva un’offerta molto ricca con Gam, Castello di Rivoli e Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, era quale identità avere senza accavallarsi a ciò che già esisteva. Questa domanda è stata la prima alla quale Ginevra Elkann ha dovuto e voluto rispondere. «Quando sono arrivata, nel 2006, lo spazio e l’idea della Pinacoteca erano slegate. Non si era capita bene la missione. Esisteva ancora Palazzo Grassi. Tutto era un po’ troppo generico».

Come è venuta l’idea di focalizzare la vostra attività sulle collezioni, non solo di arte contemporanea ma anche esplorando campi molto diversi?

«Nascevamo da una collezione, quella di mio nonno, con una visione molto soggettiva. Mio nonno aveva scelto le opere semplicemente perché le trovava belle, era quello che voleva vedere».

Ha voluto allora cercare e capire come le collezioni riflettono modi diversi di intendere la bellezza.

«Esattamente. M’interessava aprire la nostra Pinacoteca a visioni del collezionismo diverse».

Ma c’è qualcosa che tiene unite le nature dei diversi collezionisti?

«Il seme che ho scoperto essere comune a ogni tipo di collezionista è l’ossessione e il bisogno o il desiderio del possesso, non solo quello di guardare le cose che ci piacciono. La maggior parte della gente che va in un museo o a una mostra gode nel vedere qualcosa di bello. Al collezionista non basta, deve possederla».

Quale è stata la prima mostra della sua gestione?

«”Sovrana fragilità” con le porcellane di Capodimonte della famiglia reale».

Poi c’è stata la collezione di arte africana di Gianni Pigozzi.

«Sì, una storia molto interessante perché Pigozzi era un collezionista generico ma a un certo punto capì che al massimo avrebbe potuto avere la collezione di un dentista di Cincinnati. Si rese conto che solo concentrandosi su qualcosa di molto specifico avrebbe potuto fare come collezionista la differenza. Attraverso il suo amico e curatore Andre Magnin scoprì l’arte africana e iniziò a raccoglierla senza tregua».

«The Museum of Everything», la collezione del giovane James Brett, invece, era tutta su quella che viene definita «outsider art».

«Sì, e fu curata da Paolo Colombo».

Si affida spesso a curatori esterni?

«Certo io non sono curatrice. A volte le collezioni hanno i loro curatori, a volte ci chiedono di sceglierne uno o una».

C’è anche una sorta di voyeurismo nel mostrare quello che a volte rimane chiuso dietro le mura di una casa privata...

«Sì, credo che il successo di mostrare certe collezioni private al pubblico venga anche da questa occasione di poter vedere cose che altrimenti uno non potrebbe mai vedere».

Una di queste occasioni la Pinacoteca l’offrirà a novembre con la mostra della collezione di Damien Hirst che tutti conoscono come artista ma pochi come collezionista.

«La collezione di Damien Hirst è molto forte perché lui è un vero collezionista, uno che non vuol dimostrare di essere ricco ma dar da mangiare alla sua insaziabile curiosità. Attraverso la sua collezione, che va da Bacon a Koons ai teschi barocchi agli animali impagliati, in qualche modo si riesce a entrare nella sua psiche e quindi si riesce a capire meglio il suo lavoro».

A volte, anzi spesso, le collezioni più interessanti sono proprio quelle che non sono costruite per cercare visibilità o mostrare il proprio potere economico.

«Sì, spesso una collezione nasce da una piccola storia. Come quella del signor Kostakis di Salonicco che emigrato in Unione Sovietica faceva l’autista ma si appassionò all’avanguardia russa e iniziò a comprare per pochi soldi opere che senza la sua passione sarebbero potute sparire. Grazie a lui oggi a Salonicco c’è una delle più grandi collezioni al mondo di quel periodo».

La sua vera passione oltre l’arte è però il cinema. Se dovesse fare un film o un documentario su una collezione, quali sceglierebbe?

«Forse questa bizzarra collezione di un dottore, Mutter, che collezionava le malattie a Philadelphia. Oppure quella di un Rothschild che collezionava animali impagliati e più che altro cani, molto prima di Cattelan».

Per concludere, si potrebbe dire che la sua missione e quella della Pinacoteca Agnelli è di collezionare collezioni.

«Esattamente. Direi che sta diventando una mia ossessione».

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Consiglio agli Elkann di svuotare le varie ville dai pezzi privati dell'avvocato, e di esporli definitivamente al grande pubblico.

So che ci sono delle robe molto interessanti nelle proprietà in giro per il mondo. Non saranno tutti Canaletto o Modigliani, ma credo che ci siano delle cose di un certo livello.

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LA DISMISSIONE

Con la Fiat in ginocchio

l’Avvocato muore oggi

Auto a Detroit, non sarebbe successo

Ora la famiglia assiste in silenzio

di LUCA TELESE (Pubblico 22-09-2012)

Forse l'avvocato Gianni Agnelli morirà davvero solo oggi, per effetto di un paradosso beffardo: quello di essere ucciso da un incontro bilaterale dopo essere sopravvissuto ad un decesso. Ammazzando la storia della Fiat in Italia - infatti - si celebra un delitto contro di lui.

Non era bastato un tumore per oscurare la sua immagine, nel 2000. Anzi: il suo mito e la sua opera, come accade per tutti i grandi, erano proseguiti ben oltre la sua fine biologica. Forse l'avvocato Agnelli morirà davvero solo oggi, a Palazzo Chigi, dopo l'incontro tra il governo e la Fiat, dopo l'ultimo minuetto fra Sergio Marchionne e Mario Monti, soprattutto se al manager italo-canadese, oltre alle dichiarazioni di rito e di facciata dovesse di nuovo essere concesso - come già sei mesi fa - uno spensierato salvacondotto allo smantellamento della più importante azienda italiana. Agnelli muore se si tradisce la missione a cui aveva consacrato una vita, l'idea che la Fiat dovesse essere una grande industria nazionale, italiana, cosmopolita (e nessuna di questa cose senza l'altra).

Lo spirito di Agnelli muore se si perpetua il silenzio assordante dei suoi pallidi eredi, i ragazzoni Elkann, così taciturni, svagati e distanti, da non averci ancora fatto pervenire nemmeno uno sparuto oracolo per capire dove e come immaginano l'azienda, la loro azienda.

Perché il senso dell'operazione Detroit è chiaro: siamo il primo paese al mondo in cui la produzione viene delocalizzata da un paese meno sviluppato, verso uno più sviluppato. L'unico caso di acquisizione in cui il compratore perde il controllo, cedendo i suoi brevetti e le sue tecnologie, decapitando il suo centro di comando a vantaggio di una diramazione periferica.

Ci sono stati interi decenni in cui l'Avvocato ha difeso con tanta passione il proprio marchio e la sua italianitá al punto di diventare egli stesso un marchio dell'italianità, e certo nessuno avrebbe mai potuto immaginare un cataclisma come quello che stiamo vivendo senza una dichiarazione di Agnelli, senza che un Agnelli ci mettesse la faccia.

Se non altro perché l'Avvocato era così attento allo stile da diventare lui stesso un centro Stile, un modello, un logo. Certo, Agnelli era anche un uomo capace di inalberare conflitti di classe: ma la sua devozione all'idea che la Fiat doveva essere una eccellenza italiana non era mai stata in discussione. Gianni e Umberto pensarono lo sbarco in Brasile per conquistare il mercato del Brasile, non avrebbero mai nemmeno ipotizzato lo sbarco in Italia di ben sei modelli sugli ultimi sette lanciati (Freemont, Nuova Thema, Flavia, Ypsilon, 500, e 500xl) costruiti fuori dal nostro paese, ma addobbati con le insegne dell'identitá nazionale.

Se non altro perché era stato proprio lui a edificare il mito del principe popolare che lo accompagnava ovunque. A questo mito non resisteva nemmeno la classe operaia che malgrado gli storici anatemi da corteo anni settanta (come il celeberrimo slogan "Agnelli Pirelli-ladri gemelli") lo aveva assunto come idolo clandestino. Erano soprattutto operai le centinaia di migliaia di persone che incolonnati a serpentine celebrarono la sua camera ardente aziendale sul tetto del Lingotto. Ed erano, moltissimi di loro, operai comunisti. Agnelli aveva iniziato a lavorare alla propria mitografia negli anni Cinquanta, il giorno in cui aveva fatto capolino in uno degli Incontri di Indro Montanelli. Allora il gioco di Indro era stato quello di inscenare un colloquio casuale con un signore in treno, che dopo aver discettato sulla convenienza economica del pranzo al sacco (!) rivelava all'ultima riga di essere l'Avvocato.

E c'era senza dubbio in questa sublime menzogna propagandistica una filosofia, quella mutuata dalla dinastia Windsor del principe umile, del principe moderno, popolare e nazionale. Agnelli diceva, con auto-ironia: «L'importante é da dove si comincia, ed io, modestamente, ho cominciato dalla fine». L'Avvocato era imprenditore, mecenate, capitano di industria, primo tifoso della Juve e primo lettore della «Stampa». Un semidio, un mito sincretico capace di abbattere le barriere della lotta di classe. Era l'amico personale del comunista riformista Luciano Lama. Sergio Garavini, primo segretario di Rifondazione, per spiegare questa capacitá di consenso degli industriali sabaudi, raccontava la sua storia. Diseredato dal padre per la sua scelta di iscriversi al Pci, era rimasto stupito di ritrovare la cellula del partito - con la bandiera rossa! - dietro al feretro del suo genitore il giorno del funerale. «Perché siete qui?», aveva chiesto. «Perché tuo padre era un buon padrone », gli aveva risposto il segretario della sezione aziendale delle carrozzerie Garavini. Il mito del padrone che si combatte ma si ama era una contraddizione in seno al popolo che Agnelli ereditava dalla tradizione del padronato sabaudo, e si fondava su un patto tra produttori, che era asimmetrico, ma che nessuno aveva, fino a ieri, messo in discussione. Adesso tutto si dissolve nella strategia diversiva messa in campo da Marchionne, nei trucchi, nei licenziamenti politici, nel lungo inganno durato tre anni, il tempo, cioè, in cui il solenne impegno di Fabbrica Italia, celebrato dalla promessa di investire 20 miliardi, e dalla voce seducente e flautata con cui Ricky Tognazzi spiegava ad un neonato griffato con un logo tricolore: «Non piangere: potrai comprare una macchina italiana » (povera creatura, fidandosi aveva smesso). Il mito del padrone buono si é dissolto simbolicamente nella notte del referendum sul contratto Mirafiori, quando i vecchi Anziani Fiat si erano dati appuntamento davanti alla porta due per sostenere la battaglia per il No della Fiom. Da quel giorno, sulle loro bocche, così come su quelle di tutti i torinesi, la frase che rimbalzava era la più feroce che si potesse immaginare per gli Elkann: «L'Avvocato non lo avrebbe fatto».

D'altra parte Lapo era già noto per il festino erotico con uno dei trans più brutti d'Italia, ma non ancora celebrato da prove memorabili come il blocco di un passaggio a livello a mezzo Suv e la disavventura del rimanere senza benzina in autostrada. Mentre John si proteggeva con l'assenza, rilasciando un'unica vera intervista (ad Aldo Cazzullo del «Corriere della sera») in cui si lasciava sfuggire quale per lui era stato l'episodio chiave del suo romanzo di formazione: «Mio nonno sulla neve ci faceva correre con il bob a testa in giù». Formati da simili prove, e titanicamente impegnati a combattere con la sintassi italiana, è ovvio che Yaki e Lapo si difendano dal silenzio, molto simili anche fisicamente all'immagine crepuscolare di Hanno Buddenbrock, l'erede esangue che chiude il più importante romanzo di formazione europeo dell'Ottocento. Per questo Marchionne agisce come il killer di una dinastia, uccide l'avvocato mentre medita di chiudere Cassino o Mirafiori. L'unico modo per fermarlo, è dirgli di no. Se solo ci fosse un governo a Roma.

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I RICORDI DI DIEGO NOVELLI

«La Famiglia parlava con Lama

La nostra storia non ha perso»

di TOMMASO LABATE (Pubblico 22-09-2012)

Viviamo un’epoca di grandi contraddizioni.

Già.

E questa storia è piena di contraddizioni.

La storia della Fiat. Dagli Agnelli a Marchionne.

Umberto era meglio di Gianni. E comunque fu lui a scegliere Sergio Marchionne. Chissà, probabilmente non aveva capito che tipo di persona era.

Mettiamoli a confronto. Umberto Agnelli e Sergio Marchionne.

Le basti sapere che, quando diventa il numero uno della Fiat, Umberto Agnelli sconfessa la politica di Vittorio Valletta.

Che dal 1946 al 1966 era stato presidente dell’azienda.

Esatto. Quando arriva al timone della Fiat, Umberto comincia a circondarsi di una serie di manager intellettuali. Tipo Rossignolo, che però recentemente è finito nei guai con la De Tomaso. Sia come sia, insieme a questi manager Umberto avvia un processo in cui per la prima volta, in Fiat, entrano le «human relations» tra le gerarchie aziendali e i lavoratori. Le relazioni umane, insomma. Come era già avvenuto alla Olivetti.

Significativo ripensarci oggi, nei tempi del muro contro muro tra Marchionne e i sindacati.

Le racconto una storia. Anni 1974. Intervisto Umberto Agnelli per «Nuova società». E lui, subito dopo, mi chiede di incontrare Luciano Lama, che all’epoca era segretario generale della Cgil. Prima dell’incontro Agnelli mi manda addirittura cinque cartelle dattiloscritte che, secondo lui,dovevano servire comebase della discussione.

Come andò a finire?

Benissimo. Il dialogo fu molto positivo. Infatti, per le relazioni tra l’azienda e la Cgil, fu un peccato che nel 1976 Agnelli decise di candidarsi al Senato con la Dc e di lasciare la Fiat.

Nelle mani di Carlo de Benedetti.

De Benedetti durò cento giorni. Aveva ceduto una quota della sua azienda, la Gilardini. E in cambio prese delle azioni del Lingotto. Quell ’esperienza finì perché gli Agnelli sospettavano che l’Ingegnere stesse rastrellando altre azioni per scalare la Fiat.

Secondo lei era vero?

Mistero. Non si seppe mai.

Diego Novelli - giornalista, classe ‘31, già direttore della redazione piemontese dell’«Unità», fondatore di «Nuova società», sindaco di Torino dal 1975 al 1985, parlamentare per quattro legislature del Pci e poi, alla fine, della Rete - sta viaggiando da Torino a Roma per dare l’ultimo saluto ad Adalberto Minucci. Tra qualche ora, sempre a Roma, ci sarà l’incontro tra la Fiat e il governo. Storie che si intrecciano. Album dei ricordi da sfogliare. La Fiat, gli Agnelli, Minucci, il Pci, i cancelli di Mirafiori, la Cgil, i lavoratori, i padroni. In ordine sparso.

L’importanza di Minucci per i rapporti tra Fiat e Pci.

Era arrivato a Torino negli anni Cinquanta. E, a conti fatti, fu il giornalista che fece capire a Togliatti come stava cambiando la vita in fabbrica. Le faccio un esempio. Fu lui a raccontare il passaggio dalla «commissione interna» ai «consigli dei delegati». Prima gli operai sentivano solo gli altoparlanti. Poi...

Poi arrivano gli anni Sessanta.

E le rivendicazioni sindacali cominciarono ad andare al di là del salario. Gli anni dello slogan «la salute non è in vendita». Una rivoluzione.

Si può dire che Minucci fu anche talent scout. Le faccio un nome. Walter Veltroni.

Alla fine degli anni Settanta, Minucci torna a Roma. Ed entra nella segreteria nazionale del Pci di Enrico Berlinguer. Prima come responsabile Cultura. Poi occupandosi di quello che, all ’epoca, si chiamava «Stampa e propaganda».

E che oggi si chiama responsabile Comunicazione.

Minucci raccontò di aver sentito parlare Walter, che all’epoca era un ragazzo, in una riunione di sezione. Disse che lo aveva colpito. Per questo fu proprio Adalberto a chiamare Veltroni a Botteghe Oscure, all’ufficio Stampa e propaganda del Pci, col compito di occuparsi di televisione.

Torniamo agli anni di Torino. Alla «scuola» di Torino.

Un giorno Pajetta, che per me era un fratello, mi annuncia l’arrivo in città del figlio di Maurizio Ferrara, Giuliano. Veniva a farsi quello che chiamavamo «un bagno nella classe operaia». Minucci lo stimava, era un enfant prodige. Stette due anni a casa mia, Giuliano...

Quella storia, la sua, di Minucci, è stata sconfitta?

Nel 1980, prima della marcia dei Quarantamila, Romiti aveva annunciato 15mila licenziamenti. Che poi si tramutarono in 20mila cassintegrati. No, non abbiamo perso.

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moggi delinquente e tutti contro moggi

fazio delinquente e tutti contro fazio

craxi delinquente e tutti contro craxi

il giornalismo italiano è questo populista ed acritico

poi gli stessi danno del populista a berlusconi perché dice di voler togliere l'imu

marchionnnnnnneeeeeeeeee

portaci con te via di qui

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La Fiat veramente era già stata venduta a GM, che poi pagò pur di togliere le tende...

Continuare a fare a tutti i costi il santino dell'avvocato mi sembra anacronistico e persino controproducente.

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La Fiat veramente era già stata venduta a GM, che poi pagò pur di togliere le tende...

Continuare a fare a tutti i costi il santino dell'avvocato mi sembra anacronistico e persino controproducente.

ma a chi importa la realtà??

Sapete, da noi non potrete ottenere mai la verità: vi diremo tutto quello che volete sentire mentendo senza vergogna, noi vi diremo che, che Nero Wolfe trova sempre l'assassino e che nessuno muore di cancro in casa del dottor Kildare e che per quanto si trovi nei guai il nostro eroe, non temete, guardate l'orologio, alla fine dell'ora l'eroe vince, vi diremo qualsiasi cazzata vogliate sentire.

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L’AD HA FATTO IL MASSIMO

GLI AGNELLI FORSE NO

di NICOLA PORRO (il Giornale 24-09-2012)

L’incontro tra governo e Fiat di due giorni fa ha partorito una Topolino. Forse meno. Era difficile aspettarsi qualcosa di diverso. Il governo non aveva nulla da dare, la Fiat poco da chiedere. Pensate un po’ ci siamo ridotti a pensare che la riunione sia andata bene solo perché è durata molto: semmai è stata noiosa. E qualcuno si compiace per l’apertura di un tavolo tra le parti al ministero dello Sviluppo economico. Come si sa, in Italia, un tavolo, come una commissione, non si nega a nessuno. Soprattutto se si ha intenzione di fare poco, nulla.

Il governo non può concedere nulla per un motivo molto semplice: non ha un soldo in cassa. Anzi cerca sempre forme nuove per tirarne fuori qualcuno dalle tasche degli italiani. E se per ventura avesse un soldo bucato da investire, sarebbe ben strano che lo concedesse alla Fiat. Ci sarebbe una rivoluzione.

Ma soprattutto la Fiat non ha nulla da chiedere a questo governo. La ditta è diventata una multinazionale: in Italia perde 700 milioni e produce meno di 500mila auto, all’estero fa utili per un paio di miliardini e produce qualche milione di vetture. Il governo brasiliano le presta quattrini per aprire una superfabbrica, da noi ha piuttosto la necessità di chiuderle le fabbriche.

L’incontro a Palazzo Chigi poteva produrre poco e ha perfettamente mantenuto le premesse.

In tutta questa storia c’è un errore di fondo: si confonde il manager che gestisce l’azienda (Marchionne) con il padrone della stessa (Agnelli-Elkann). Quando Marchionne arriva a Torino la Fiat era talmente un disastro che gli americani della General Motors gli danno un mucchio di quattrini per evitare di portarsi a casa, cioè a Detroit, l’intera baracca. Lo pagano per tenersi il bidone. La Fiat all’epoca valeva 6 miliardi, oggi 16. Nel frattempo si è comprata la Chrysler, che come la Fiat era fallita. E l’ha rivoltata come un calzino, rendendola più che profittevole.

Marchionne fa il manager, non il padrone. Gli è stato chiesto di salvare la Fiat e lo ha fatto. Gli è stato chiesto di aumentare il valore delle azioni e lo ha fatto. Gli è stato chiesto di dare un futuro alla casa automobilistica e lo ha fatto. Ha commesso sicuramente molti errori, come quello di raccontare la balla di Fabbrica Italia e dei suoi 20 miliardi di investimenti. Già all’epoca era noto a tutti come in Europa il problema era quello di chiudere le fabbriche non di aprirne di nuove o renderle più grandi.

Chi oggi vuole spiegare a Marchionne come fare nuovi modelli, impostare strategie, rafforzare le fabbriche italiane, dove era nel 2004 quando la Fiat era sostanzialmente fallita? Siamo un Paese di allenatori di calcio, ma anche di manager fuoriclasse. Anche se spesso non tocchiamo una palla e non sappiamo neanche tenere a bada la contabilità domestica.

Diverso è il discorso per l’azionista di riferimento della Fiat, e cioè la famiglia Agnelli. Il manager fa il lavoro brutto e sporco, ma chi gode dei benefici sono gli azionisti. Che non possono far finta di arrivare dalla luna. Marchionne viene dalla luna, gli azionisti di riferimento no. Sono loro che hanno mantenuto in pugno l’industria dell’auto nazionale grazie alla protezione che nel secolo scorso la politica ha garantito loro. La politica anche in questo caso ha il solo potere della moral suasion. Ma non sbagli bersaglio. Le scelte industriali le facciano i manager. Ma dagli azionisti si pretendano investimenti e maggiore attenzione verso l’Italia.

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ma a chi importa la realtà??

Sapete, da noi non potrete ottenere mai la verità: vi diremo tutto quello che volete sentire mentendo senza vergogna, noi vi diremo che, che Nero Wolfe trova sempre l'assassino e che nessuno muore di cancro in casa del dottor Kildare e che per quanto si trovi nei guai il nostro eroe, non temete, guardate l'orologio, alla fine dell'ora l'eroe vince, vi diremo qualsiasi cazzata vogliate sentire.

Vedo che hai dei buoni gusti cinematografici.

E' un film del 1976, ma sembra appena uscito...

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Vedo che hai dei buoni gusti cinematografici.

E' un film del 1976, ma sembra appena uscito...

è senza tempo

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