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CRAZEOLOGY

Topic "C O M P L O T T O D I F A M I G L I A"

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C'entra poco, anzi nulla, ma la butto lì ugualmente.

I nuovi proprietari hanno cominciato la ristrutturazione della vecchia sede di Exor, acquistata di recente, Corso Matteotti 26, (ex palazzo della famiglia ai tempi di Gianni e Umberto bambini, quando vestivano alla marinara... per capirci).

Ovviamente qualche tempo fa sono anche passato al Lingotto per vedere se nella nuova sede Exor era tutto a posto (insegna, cancello, ecc), e lo è. Trasloco fatto da tempo, e tutto in ordine.

Per ciò che invece riguarda la Juve, sono passato davanti alla sede spesso in questo periodo, e ho notato la presenza di qualche dirigente anche dopo le 20, evidentemente è un periodo dove si lavora parecchio.

Così sanno che tengo sempre d'occhio la situazione... sefz

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Joined: 14-Jun-2008
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C'entra poco, anzi nulla, ma la butto lì ugualmente.

I nuovi proprietari hanno cominciato la ristrutturazione della vecchia sede di Exor, acquistata di recente, Corso Matteotti 26, (ex palazzo della famiglia ai tempi di Gianni e Umberto bambini, quando vestivano alla marinara... per capirci).

[cut]

Così sanno che tengo sempre d'occhio la situazione... sefz

L’ufficio di due Agnelli

diventerà un superattico

Nella casa di corso Vittorio capolavoro dell’architettura degli anni Trenta

di MAURIZIO LUPO (LA STAMPA 21-06-2012)

Il finanziere Riccardo Gualino negli anni Trenta si riservò uno spettacolare

studio «presidenziale » con vista sulla collina e sul Valentino, che divenne

poi quello del senatore Giovanni Agnelli e in seguito anche del nipote

Umberto. Si trovava al numero 8 di corso Vittorio Emanuele II, al sesto piano

del palazzo per uffici che Gualino aveva commissionato nel 1928 agli

architetti Gino Levi Montalcini e Carlo Pagano Pogatschnig.

L’edificio, considerato un capolavoro dell’architettura razionalista, diverrà

un prestigioso complesso di 40 appartamenti. Li realizza l’immobiliare Klg

Torino, che ha affidato il progetto delle opere agli architetti Armando

Baietto, Sebastiano Battiato e Beppe Bianco. Devono riplasmare 6500 metri

quadri, distribuiti su sette piani in corso Vittorio Emanuele e su sei in via

della Rocca, ai quali aggiungeranno una rimessa sotterranea di 80 box su tre

piani. Il cantiere in 24-30 mesi trasfigurerà un edificio che oggi soffre di

degrado, ma che rappresenta un importante pezzo di storia di Torino e

dell’architettura. Per fondarlo vennero impiegate tecnologie innovative per

gli anni Trenta. Levi Montalcini e Pagano colsero le grandi opportunità che

offriva il cemento armato. Ne fecero un immobile d’avanguardia. Per questo è

tutelato dalla Soprintendenza.

L’intervento, annunciato come un recupero scrupoloso delle caratteristiche

originarie, mette mano a un palazzo che da Gualino passò al Gruppo Fiat, poi

al Comune. E’ stato quindi acquisito da Klg Torino. Vi investe «circa 30

milioni di euro». Il cantiere manterrà inalterati gli esterni, riportati agli

equilibri originali. Gli interni verranno ridistribuiti, per avere anche

caratteristiche antisismiche.

I prezzi? La proprietà parla di «5900 euro al metro quadro, al netto delle

parti comuni». Ma precisa che «il prezzo di ogni appartamento dipende dalla

posizione e dalla vista». L’ex ufficio di Gualino diverrà un attico di 650

metri quadri, con terrazza «a parco» e vista dalla collina alla Mole, fino

alle Alpi. Dicono che abbia già ricevuto un’offerta «da un bel nome

piemontese. Manon è stata accettata».

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PANORAMA | 4 luglio 2012

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Fusioni Gli effetti dell’operazione sui veicoli industriali che cancellerà la sede di Torino

Agnelli Holding in trasferta

Governance all’olandese

Fiat Industrial e Cnh saranno assorbite da una società estera

Exor potrebbe aumentare i diritti di voto oltre il 50 %

Il gruppo potrebbe chiamarsi Cnh, brand che riassume le vicende

di tre aziende storiche: Fiat Geotech, Ford New Holland, Case

di MASSIMO MUCCHETTI (CORRIERECONOMIA 02-07-2012)

La fusione prossima ventura tra Fiat Industrial e Cnh Global non sta

suscitando attenzione. Il Financial Times e l’agenzia di rating Moody’s

l’hanno promossa perché migliora la struttura finanziaria, anche se non di

molto. Il governo e la Consob, la Commissione di controllo sulla Borsa, hanno

altro per la testa. E tuttavia qualche pensiero andrebbe pur fatto se la metà

migliore del vecchio gruppo Fiat, quella che produce veicoli industriali,

macchine movimento terra e macchine agricole, prende la strada dell’Olanda

smarcandosi dalla giurisdizione e dalla supervisione regolatoria del Paese

d’origine. L’esempio degli Agnelli, infatti, ha una forte razionalità, e

potrebbe far scuola in Italia.

Niente premi

Partiamo dalle notizie. A fine maggio, Fiat Industrial annuncia l’intenzione

di integrarsi con Cnh Global. Ma non sarà la holding Fiat Industrial a

incorporare la società operativa Cnh Global né accadrà l’inverso. Verrà invece

costituita una scatola di diritto olandese che assorbirà entrambe le società

oggi esistenti. Agli azionisti di queste ultime, destinate a scomparire,

andranno le azioni della nuova società-scatola, in proporzioni determinate

dalla media delle quotazioni borsistiche di Fiat Industrial e di Cnh Global.

Non sono previsti premi per nessuno, nemmeno a favore delle minoranze di Cnh

benché, come osservano gli analisti di Cheuvreux, il titolo Fiat Industrial

sia negoziato sulla base di un valore dell’impresa (capitalizzazione di Borsa

più debito) pari a dieci volte il margine operativo lordo, mentre Chn Global

viene trattata sulla base di un rapporto pari a sette volte. Ma a ben vedere

le novità più interessanti sono altre.

La prima e più importante è la decisione di trasferire all’estero, in un

mezzo paradiso fiscale qual è l’Olanda, la sede dell’altra Fiat. In altri

tempi non sarebbe stata una tragedia.

L’Iveco ha sempre avuto sede nei Paesi Bassi e la direzione e gli

stabilimenti dove doveva averli: in Italia, Francia, Spagna, Brasile. Nel

diventare multinazionale la Fiat Geotech, figlia della più antica Fiat

Trattori, ha spostato anch’essa la sede in Olanda. Ma il vertice della

piramide restava a Torino. Non sarà più così. In un’epoca in cui, sull’altro

versante, si teme la chiusura di tre delle cinque fabbriche italiane di Fiat

Auto.

All’indomani della visita di John Elkann e Sergio Marchionne a Palazzo Chigi,

il premier Mario Monti si limitò a dire che la Fiat, soggetto privato, era

libera d’investire come e dove ritenesse giusto. Ineccepibile. E però se tutti

i gruppi che possono pagarsi un po’ di avvocati si facessero la loro scatola

olandese, il governo continuerebbe a lavarsene le mani? La seconda notizia è

la decisione di far scomparire Fiat Industrial dalla Borsa di Milano. La nuova

società sarà quotata a New York e probabilmente Amsterdam.

Si prevede che, cancellando il nome Fiat, riprenderà la ragione sociale Cnh,

acronimo di Case New Holland nel quale si riassume le vicende di tre aziende

storiche: Fiat Geotech, Ford New Holland e Case. Per tale via le operazioni

sul capitale e le eventuali dismissioni avverranno secondo la legge dell’Aja,

assai più comoda sul piano fiscale e meno rispettosa dei soci minori nei

passaggi di proprietà.

Il peso di Exor

La terza novità è l’accrescimento della presa di Exor, la holding degli

Agnelli, sulla nuova entità. Al momento l’Exor detiene il 30,4% del capitale e

la Fiat Spa il 3,2%. Con la fusione, ceteris paribus , queste due

partecipazioni scenderebbero rispettivamente al 27,6% e al 2,9%. Questo almeno

è il conteggio di Mediobanca Securities. Ma il progetto elaborato da John

Elkann e Sergio Marchionne prevede che quanti depositeranno le azioni di Fiat

Industrial e Cnh Global in vista dell’assemblea straordinaria e le

conserveranno fino a fusione avvenuta avranno diritto a due voti per ogni

azione della nuova società-scatola che riceveranno. Uguale diritto matureranno

i nuovi soci che conservassero per tre anni azioni della società-scatola

acquistate successivamente. In caso di vendita, i titoli a voto plurimo

tornerebbero al voto semplice. Comunque sia, entrambe le categorie di azioni

avranno uguali diritti patrimoniali. Poiché alle assemblee non partecipa mai

la totalità del capitale, ma una percentuale tra il 40% e il 65%, sempre

secondo Mediobanca Securities, Exor potrebbe ottenere oltre la metà dei

diritti di voto senza sborsare un euro. Blindando come non mai il gruppo Fiat

Industrial. Senza il costoso fastidio di un’Opa.

Se la stessa cosa facessero le Generali, i soci eccellenti italiani

(Mediobanca, Banca d’Italia, Ferak, Del Vecchio, De Agostini, Caltagirone,

Benetton, Fondazione Cariplo) potrebbero raggiungere risultati analoghi a

quelli dell’Exor in termini di voti assembleari. E che dire di Eni, Enel e

Finmeccanica? Imitando Exor, il Tesoro italiano potrebbe andare in trasferta

in Olanda e ottenere la maggioranza assoluta dei diritti di voto con il 30%

del capitale.

La trasferta in Olanda (o in altro Paese equivalente) sarebbe necessaria

perché in Italia le azioni a voto multiplo sono vietate dal Codice civile e le

azioni di risparmio sono scoraggiate dalla cultura finanziaria prevalente fin

dagli anni Ottanta. Si tratta — è bene dirlo — di un’impostazione singolare.

Si presuppone che il comando si giustifichi solo in base al numero di azioni

ordinarie possedute e che non possa essere protetto con artifici statutari

dalle scalate ostili, considerate l’igiene del mondo che cancella a colpi di

Opa gestioni inette.

La realtà è molto più diversificata. I diritti di governance interessano ad

alcuni e non a tutti i soci; le scalate ostili sono non di rado contrarie agli

interessi permanenti dell’impresa; la stabilità favorisce gli investimenti

industriali più dell’incertezza. D’altra parte, quello stesso mondo

anglosassone che a ragione critica i patti di sindacato e le piramidi

societarie italiane perché consentono l’appropriazione privata dei benefici

del controllo, è anche la patria delle azioni a voto multiplo. Forse sarebbe

il caso, prendendo spunto dagli Agnelli, di riaprire una riflessione sulla

questione del controllo delle società per azioni quotate e sul loro rapporto

con il Paese.

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GaSport 02-07-2012

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CHI | 11 LUGLIO 2012

Elkann & Friends

GIOCHI nell'azzurro

mare di LUGLIO

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Zhu Zhu

FORZA LAPO,

FORZA JUVE

Figlia di un militare cinese, matematica per forza,

laureata in ingegneria. Poi modella, presentatrice Tv,

attrice, musicista. E nuova fiamma del giovane Elkann.

Che l'ha iniziata agli spaghetti (quelli veri), agli gnocchi,

ai paparazzi. E al tifo bianconero: qui e a Pechino

di PAOLA JACOBBI (VANITY FAIR | 4 LUGLIO 2012)

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Se cercate «Zhu Zhu» sn Google, vi imbatterete prima negli Zhu Zbu Pets,

ovvero una linea di criceti giocattolo: piccoli robot tipo Tamagochi. Solo

dopo successiva ricerca troverete la Zhu Zhu di queste foto: attrice, cantante,

modella e presentatrice televisiva cinese. E' lei stessa a mettermi

sull'avviso, quando ci incontriamo, smentendo quel luogo comune sul fatto

che i cinesi sarebbero privi di senso dell'umorismo. Brillante, cosmopolita,

perfettamente bilingue (parla un ottimo inglese, altra cosa rara tra i suoi

connazionali), Zhu Zhu è apparsa all'ultimo Festival di Cannes accanto a Lapo

Elkann, prendendo il posto - se non ancora nel cuore, certo nello splendore

mondano di certe uscite a due - di Bianca Brandolini d'Adda.

Zhu Zhu, che si pronuncia come fosse scritto Ju Ju, significa Perla Rossa. Non

sappiamo quanti anni abbia perché, con molta civetteria, non vuole farlo

sapere. Per il resto, è abbastanza loquace. L'ho intercettata a Los Angeles,

dove era ospite di Max Mara per l'evento Women in Film. Il giorno dopo è

tornata in Cina dove la aspettava la presentazione di un suo film allo

Shanghai Film Festival. Ma, in testa, aveva il ricordo delle sue giornate in

Italia. È presto per dire se Zhu Zhu stia a Lapo come Priscilla Chan sta a

Mark Zuckerberg o Wendi Deng a Rupert Murdoch. Se sia, insomma, la

tigre cinese che farà capitolare l'ambito uomo. Si vedrà.

Come ha conosciuto Lapo?

«A un evento di moda a Shanghai».

È la sua ragazza, adesso?

«Non vorrei dare definizioni precise. Per ora, mi limito a dirle che siamo

amici».

D’accordo. Che cosa la colpisce di lui?

«Di lui, ma devo dire un po’ di tutti gli italiani, ammiro il fatto che non

temete di mostrare le vostre passioni e le vostre emozioni. È una cosa

bellissima».

È stata con Lapo al party di Vanity Fair America a Cannes.

«Splendida festa, ma la cosa più divertente che abbiamo fatto insieme è stato

andare alla partita a Torino. Non avevo mai visto una partita di calcio dal

vivo e non so nulla di questo sport, a parte il fatto che bisogna mandare la

palla nella porta dell'avversario. Eppure, raramente sono stata così felice:

mi sono lasciata contagiare dall'energia della gente. Indimenticabile».

Che altro ha visto dell'Italia?

«Per ora, solo Milano e Torino. Spero di tornare. Il cibo è straordinario. Ho

scoperto gli gnocchi, non li avevo mai mangiati prima, buonissimi».

A proposito di cibo, lei sta con quelli che dicono che gli spaghetti

li hanno inventati gli italiani, o con i cinesi che rivendicano il

primato?

«Gli spaghetti sono una cosa, e i nostri noodles un'altra. Non credo si

possano attribuire a un unico inventore».

Molto diplomatica. Mi racconta qualcosa della sua famiglia?

«Sono figlia unica per colpa della politica del controllo delle nascite. Mio

padre sta nell'esercito e i miei sono stati molto severi riguardo agli studi.

Io avrei voluto cantare e ballare fin da piccola, lui mi ha fatto frequentare

corsi di matematica. Andavo a lezione tutti i giorni, mentre gli altri bambini

giocavano. È finita che mi sono laureata in Ingegneria ma poi, finalmente,

ho avuto il permesso di dedicarmi ai miei veri interessi. E comunque,

al mio primo lavoro come modella mi ci ha accompagnata mio padre, per

controllare la situazione di persona».

Lei è uno dei volti di Mtv China. Come ci è arrivata?

«Dopo aver lavorato come modella e come assistente di una fashion editor ad

Harper's Bazaar China, è capitato che un giorno mi chiamassero da Mtv perché

la presentatrice di un programma bilingue si era ammalata. Un puro caso. Poi è

arrivato il cinema sotto forma di una piccolissima parte nel remake cinese di

What Women Want - Quello che le donne vogliono, dove Gong Li interpreta il

ruolo di Helen Hunt nell'originale».

Adesso, rappresentata da Caa, importante agenzia di Hollywood, sta

lavorando in diverse coproduzioni americane: ha girato The Man With

the Iron Fists prodotto da Quentin Tarantino con Russell Crowe, e

Cloud Atlas diretto dai fratelli Wachowski con Tom Hanks. Inoltre,

incide dischi pop. Quanto lontano vuole arrivare Zbu Zhu?

«Il più possibile: non mi pongo limiti. Ma se dovesse andarmi male con il

cinema o con la musica posso sempre trovar lavoro come ingegnere».

In Italia i paparazzi l'hanno fotografata con Lapo. Anche in Cina, la

vita privata delle persone famose è seguita come in Occidente?

«Meno. In Cina sono più le celebrità a voler uscire sui giornali che non i

giornali a prendersi la briga di fotografare le celebrità. Sono rimasta

comunque, molto favorevolmente colpita dalle foto che i paparazzi italiani

banno scattato a me e Lapo. Erano belle, sembravano i poster di un film. Che

professionalità!».

Su Weibo, il Twitter cinese, lei ha 120 mila followers. Che messaggi

manda alle ragazze che la seguono?

«Le voglio incoraggiare a essere più libere e coraggiose. Le invito a

viaggiare, studiare, conoscere il mondo e amarsi di più».

I suoi followers sono rimasti colpiti dall'amicizia con Lapo?

«I tifosi della Juventus moltissimo!».

Perché, in Cina ci sono tifosi della Juventus?

«Un sacco, non ha idea quanti. Io nemmeno potevo immaginarlo».

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PRIMO PIANO

Gli italiani non comprano più auto

alla Fiat basterebbe solo Mirafiori

LE PREVISIONI DI FABBRICA ITALIA, IL PIANO PRESENTATO DA

MARCHIONNE DUE ANNI FA SI RIVELANO OGGI TROPPO OTTIMISTICHE.

MANCANO ALL’APPELLO TRA 600 MILA E UN MILIONE DI AUTO. E GLI

STABILIMENTI DA CHIUDERE POTREBBERO ESSERE DUE. FORSE PERFINO TRE

di PAOLO GRISERI (la Repubblica AFFARI&FINANZA 09-07-2012)

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Uno stabilimento su quattro è a rischio, dice Sergio Marchionne parlando dello

stato drammatico del mercato italiano dell’automobile. Ma, a fare bene i conti,

l’ad del Lingotto pecca di ottimismo. Perché se davvero, come prevede il

manager di Torino, il mercato delle quattro ruote rimarrà a 1,4 milioni di

pezzi venduti per «i prossimi 24-36 mesi», non ci sarà da chiedersi quale

stabilimento verrà tagliato sui quattro oggi in attività in Italia. Piuttosto,

si tratterà di capire quale dei quattro è destinato a rimanere. Perché con

l’attuale livello del mercato, le 450 mila automobili che verranno prodotte in

Italia nel 2012 potrebbero tranquillamente uscire da una sola fabbrica.

Rendendo superflue le altre tre. E’ davvero auspicabile che accada qualcosa.

O, come dice Marchionne, «cominciando a produrre per gli Stati Uniti con

le linee italiane», o trovando il modo di aumentare le vendite in Italia. Magari

con quegli incentivi che il Lingotto protesta di non volere nonostante la

pressante richiesta di Federauto, l’associazione dei concessionari. Per il

momento il calcolo è presto fatto e il risultato è sconfortante. Il panorama è

sideralmente distante da quello che Sergio Marchionne aveva immaginato solo

due anni fa, al momento del lancio del piano 2010-2014, chiamato, all’epoca,

Fabbrica Italia. Quel piano prevedeva «di incrementare gradualmente i nostri

volumi di produzione negli stabilimenti italiani fino al 2014, quando

raggiungeranno 1.400.000 unità, più del doppio delle 650.000 prodotte nel

2009».

La realtà indotta dalla crisi dice che, in luogo dell’incremento graduale

previsto, si è verificata una discesa graduale. Nel 2011 la produzione di

automobili negli stabilimenti italiani della Fiat è stata inferiore alle

480.000 unità, quasi 200.000 in meno del livello raggiunto nel 2009. Di

conseguenza, per raggiungere l’obiettivo di Fabbrica Italia bisognerebbe

incrementare la produzione di un milione di automobili nel triennio 2012-2014.

In realtà, con il mercato italiano a questi livelli è piuttosto probabile che

il numero di auto prodotte negli stabilimenti della Penisola scenda ancora e

si avvicini a quota 450 mila nel 2012.

Se il mercato dell’auto in Italia resterà tanto depresso, basterebbe un solo

stabilimento a soddisfare la richiesta. A Melfi, per fare un esempio, il

record produttivo risale al 1999, ma quei livelli sono stati avvicinati più

recentemente anche nel 2006. Nel 1999 arrivarono dirigenti e autorità a

festeggiare in fabbrica il record: gli incentivi e i buoni modelli avevano

portato lo stabilimento a sfiorare quota 400 mila auto prodotte in un anno. Un

numero importante. Nel piano Fabbrica Italia presentato da Sergio Marchionne

il 21 aprile del 2010 si legge che a Melfi «il numero di vetture prodotte nel

2014 sarà superiore alle 400 mila unità». Al momento delle aspre discussioni

con i sindacati sull’introduzione del nuovo contratto aziendale, si calcolava

che già senza i 18 turni settimanali a Melfi la capacità produttiva teorica

superava le 400.000 unità e che con i 18 turni avrebbe sfiorato le 450 mila.

Per questo oggi, da sola, Melfi potrebbe produrre tutte le auto del Lingotto.

Si tratta, naturalmente, di un calcolo teorico. Nessuno stabilimento

raggiunge, nella realtà, il 100 per cento della capacità produttiva

installata. E, soprattutto, Melfi, al momento, non è in grado di produrre il

mix necessario per saturare la produzione italiana, ancora oggi compresa tra

il segmento mini della Panda di Pomigliano e la piattaforma media di Delta e

Giulietta. Ma una simile possibilità ci sarebbe, ad esempio, a Mirafiori dove

lo spazio per installare linee diverse non manca e dove l’esperienza dei

dipendenti ha consentito negli anni di produrre dalla Punto alla Thesys. Del

resto, se la capacità produttiva media di uno stabilimento è intorno alle 300

mila unità all’anno, è chiaro che con un milione di auto in meno del previsto

le fabbriche in eccesso potrebbero essere tre.

Questo scenario è quello che spaventa il Lingotto. Difficilmente la politica,

anche quella italiana molto distratta in questi anni su quel che accadeva

a Torino, potrebbe accettare un ulteriore drastico taglio di stabilimenti e

posti di lavoro dopo il sacrificio di Termini Imerese. Ma se il mercato non

riprende è evidente che la sovracapacità produttiva installata dalla Fiat in

Italia sfiora il milione di pezzi. Perché proprio il piano Fabbrica Italia,

fissando a 1,4 milioni l’obiettivo per il 2014 diceva che quella soglia

corrisponde «alla capacità ottimale di utilizzo». E aggiungeva che del totale

faranno parte anche «300 mila veicoli destinati al mercato statunitense ».

Oggi nessuno stabilimento italiano produce per il mercato Usa che, a

differenza di quelli europei, continua ad essere in crescita. Così, se anche

la situazione italiana rimanesse quella attuale, la produzione di 300 mila

veicoli per il Nordamerica ridurrebbe a 6-700 mila la sovracapacità, salvando

uno stabilimento dalla chiusura. Ne rimarrebbero comunque due di troppo.

Una ripresa del mercato delle quattro ruote nella Penisola tra oggi e il 2014

che riporti le vendite intorno a quota 2 milioni (era stato di 2,4 milioni il

record del 2007) potrebbe salvare un altro stabilimento italiano

ma ,difficilmente potrebbe salvarne due. Non va dimenticato che la Fiat

detiene il 30 per cento del mercato domestico e che una quota

significativa è stata ottenuta negli ultimi anni grazie alle utilitarie prodotte

in Polonia. Per salvare tutta la capacità installata oggi in Italia si può

immaginare o un ritorno del mercato ai livelli record del 2007 o un

raddoppio delle esportazioni previste negli Usa. Anche in quest’ultimo

caso però non mancherebbero le incognite: ammettendo che la Fiat possa

produrre in Italia auto con i marchi Chrysler, Jeep e Dodge da vendere negli

Stati Uniti, quanto tempo durerà la ripresa del mercato d’Oltreatlantico e

per quanto tempo potrebbe assorbire 5-600 mila auto aggiuntive rispetto a

quelle prodotte negli stabilimenti statunitensi?

Ecco dunque i dilemmi che si trova a dover affrontare in queste settimane

l’amministratore delegato del Lingotto. Decisioni non semplici da prendere. A

fine mese l’ad incontrerà i sindacati che hanno firmato gli accordi aziendali

ed è probabile che in quella sede qualcuno chieda conto delle strategie

italiane del gruppo. Quel che appare abbastanza scontato (a meno di

clamorose inversioni di tendenza del quadro economico) è che il piano

Fabbrica Italia non raggiungerà gli obiettivi previsti. Solo a ottobre, esaminando

i dati dei primi nove mesi dell’anno, Marchionne annuncerà quali sono i nuovi

obiettivi tenendo conto degli effetti della crisi. Ed è dunque difficile che prima

di allora voglia o possa anticipare le sue mosse. Anche perché fissare nuovi

obiettivi significa rispondere alla domanda cruciale su quanti stabilimenti

saranno necessari in Italia alla Fiat di domani e, nel caso, quanti e quali

tagliare.

Il problema della sovracapacità non riguarda solo il Lingotto. Nei giorni

scorsi la Peugeot ha annunciato l’intenzione di tagliare 10.000 posti di

lavoro in Francia (che equivalgono a due stabilimenti della Fiat in Italia) e

problemi di eccesso di capacità installata li hanno anche i tedeschi della

Opel. La differenza con la Fiat è che l’annuncio della Peugeot è stato seguito,

poche ore dopo, dall’annuncio del ministro del Riassetto produttivo, Arnaud

Montebourg, di «un piano per salvare la filiera dell’auto francese in una fase

di contrazione del mercato» e dall’invito ai vertici di Psa a «fare

immediatamente la massima trasparenza sulle loro intenzioni ». In Italia

invece, due giorni dopo l’annuncio di Marchionne sul rischio che salti uno

stabilimento italiano, il ministro dello sviluppo, Corrado Passera, si è

limitato ad affermare che «nessuno può mettere in discussione le scelte di

un’azienda privata. Lo Stato - ha aggiunto il ministro - può intervenire con

aiuti all’innovazione e alla competitività». Un po’ poco rispetto a quanto

fanno in casi analoghi i governi d’oltralpe. L’eventuale chiusura di

stabilimenti in Italia avrebbe infatti conseguenze sull’intera filiera

dell’auto e metterebbe fortemente in discussione l’esistenza stessa di

un’industria che continua a rappresentare, anche oggi, l’11 per cento

del Pil italiano.

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[iL CASO]

Un italiano a capo della bibbia

di Detroit sull’automotive

in versione europea

di PAOLO GRISERI (la Repubblica
AFFARI&FINANZA
09-07-2012)

E’ un torinese il nuovo direttore di Automotive News Europe, la

testata europea della rivista specializzata con sede in Gratiot

Avenue, a Detroit. Luca Ciferri, 53 anni, vive a Torino da 30 ed è

stato nominato il 26 giugno. La sua ascesa alla guida di ANE è

una delle vicende simbolo dell’integrazione tra le due sponde

dell’Atlantico dopo lo sbarco della Fiat a Detroit. «Mi trovo oggi

ad indossare due cappelli - spiega Ciferri - uno come reporter per

Fiat-Chrysler e l’altro come direttore di Automotive News Europa».

Come giudica le prospettive del Lingotto? «Credo che senza

l’alleanza con Chrysler la Fiat sarebbe già stata costretta a

chiudere o almeno ad accettare una nazionalizzazione per salvare i

posti di lavoro. Insomma, non sarebbe sopravvissuta da sola a

questa crisi. Penso invece che con la mossa di Marchionne e gli

utili fatti in Nordamerica, per questa volta il gruppo si sia

salvato. In ogni caso, per quanto possano andare male le cose in

Europa, Fiat ha sempre il 61 per cento di Chrysler e non il

contrario». In futuro, secondo Ciferri, «il gruppo dovrà

consolidare molto la sua presenza in Asia. Lo stabilimento cinese

inaugurato di recente è un punto di partenza ma certo non ci si

può accontentare di 150 mila auto in un mercato da 17 milioni.

Solo con la gamba asiatica il gruppo Fiat-Chrysler potrà uscire

dalla terra di mezzo in cui si trova oggi con 4 milioni di auto

vendute. Ne mancano ancora almeno due milioni per competere

con gli altri costruttori generalisti». E l’Europa? «Oggi i due

mercati principali del gruppo sono il Nordamerica e il Brasile. In

Europa Fiat è ormai al sesto posto».

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[L’ANALISI]

La parabola degli Agnelli

l’unica grande famiglia che

non crede più nei motori

GLI ALTRI GRANDI GRUPPI DI QUA E DI LA DELL’ATLANTICO SONO

ANCORA TUTTI CONCENTRATI SUL CORE BUSINESS. SOLO LA DINASTIA

TORINESE MOSTRA DA ANNI FORTE INSOFFERENZA VERSO IL SETTORE

DI ORIGINE E PIÙ ATTENZIONE AD OGNI POSSIBILE DIVERSIFICAZIONE

di LUCIANO GALLINO (la Repubblica AFFARI&FINANZA 09-07-2012)

La Fiat ha due facce. C’è quella americana, la faccia di chi ha mantenuto

le promesse, sconfitto i dubbiosi, vinto difficoltà eccezionali negli anni della

Grande Crisi. La Chrysler controllata dalla Fiat macina record di vendite; ha

ripagato buona parte dei suoi debiti; generato utili nel 2011 per centinaia di

milioni di dollari. A riconoscimento delle sue capacità manageriali, l’ad

Sergio Marchionne è stato appena designato il “michiganiano dell’anno”.

E’ un onore toccato a pochi altri, tra cui, nientemeno, Clint Eastwood. Poi

c’è la faccia europea e italiana. Quella di chi scuote mestamente il capo

dinanzi a un mercato europeo che ha visto le auto Fiat perdere a giugno

un’altra percentuale di vendite a due cifre. Che annuncia di dover chiudere

almeno uno stabilimento in Italia, stima che nella Ue vi sia una

sovraccapacità produttiva di oltre 2 milioni di vetture e propone agli altri

costruttori europei di elaborare un piano concertato per chiudere impianti

in varie parti della Ue. Sentendosi però rispondere, dai tedeschi, che

gli impianti li chiudano semmai gli italiani e i francesi, visto che lavorano al

60-65% della capacità effettiva, mentre loro (non solo Volkswagen, ma

anche Mercedes e Bmw) lavorano sopra il 90% e non si sognano di

chiudere un bel niente. Per tacere del fatto che la faccia europea della Fiat

ha pure espresso l’intenzione di chiudere entro il 2012 ben cinque stabilimenti

che producono autocarri Iveco in Francia (Chambery), Austria Graz),

Germania (Ulm e altre due località).

Come mai la Fiat si presenta nel mondo con due facce, e perché proprio

all’Italia, dove essa è nata 113 anni fa, sembra toccare la faccia peggiore?

Una spiegazione possibile è che il gruppo Fiat, e più ancora la famiglia

Agnelli che lo controlla, hanno smesso da decenni di credere che il gruppo

dovesse produrre soprattutto automobili. L’ultimo ad che cercò di

concentrare sull’auto gli investimenti, la ricerca, le strategie di localizzazione

e di vendita, la rete internazionale dei fornitori, fu forse Vittorio Ghidella,

negli anni 80. Dopo di allora si sono susseguiti alla testa del gruppo degli

ad i quali - di fronte a una famiglia che tale concentrazione non sembrava

gradire per niente - o si sono barcamenati per assecondarla, oppure hanno

loro stessi elaborato progetti di differenziazione produttiva e finanziaria di cui

l’auto era soltanto un elemento. Quando Marchionne ha assunto la direzione

del gruppo, recando con sé conoscenze e inclinazioni da nordamericano,

si è trovato presto ad aver a che fare con una Fiat che tra le tante attività

costruiva anche auto, ed era per di più controllato da una finanziaria

familiare, la Ifil poi Exxor, che più o meno poneva sullo stesso piano

automobili e industria alberghiera o grande distribuzione; e con un altro

gruppo, Chrysler, che in vita sua non ha mai prodotto nient’altro se non

automobili. Anche la Chrysler ha avuto un tracollo a causa della crisi, non

meno che General Motors e Ford. Ma è sicuramente meno arduo rilanciare

sul mercato dell’auto un gruppo che costruisce soltanto automobili, che non

un gruppo con un lungo passato di differenziazione in altri settori come Fiat.

Con la conseguenza che qualunque investimento nell’industria dell’auto viene

visto dalla proprietà, o da parti significative di essa, come un concorrente

rispetto a investimenti che si reputano più redditizi. Pare evidente che il

nuovo ad abbia cercato il successo dove la posta si giocava tutta sull’auto, e,

stando ai commenti (ma anche ai dati) americani, lo abbia ottenuto.

All’innegabile successo oltre Atlantico corrisponde l’insuccesso della Fiat

nel nostro paese e in Europa, con i costi pagati dai lavoratori italiani e

dall’intera nostra economia. Perché ci si può rallegrare per le straordinarie

vendite di Fiat-Chrysler in Usa, ma fino a un certo punto. Sarà pur vero che

grazie al rilancio di Chrysler e alle accresciute dimensioni derivanti dalla

sua acquisizione il gruppo stesso si trova ad essere più solido di prima. E

che in Italia si stanno vendendo auto progettate e/o costruite in Usa e in

Canada, ma con lo scudetto Lancia sul cofano, cui ne seguiranno altre con

lo scudetto Alfa Romeo. Ma in questo modo aumenteranno forse di qualcosa

i posti di lavoro nei saloni di vendita in Italia, non certo sulle linee di

produzione.

Mentre ciò che importa, o dovrebbe importare a tutti noi, a cominciare

dai partiti e dal governo, sono i posti di lavoro, il livello di occupazione nel

cuore dell’industria automobilistica, fornitori compresi, nelle nostre

regioni. E’ qui che la faccia italiana di Fiat mostra i suoi tratti più

inquietanti. Pomigliano ha ripreso a produrre, ma la capacità utilizzata non

supera il 50%. Come attesta anche il numero dei dipendenti richiamati in

fabbrica, circa la metà dei 5. 000 che vi lavoravano un tempo; nonché la

minaccia di Marchionne di mettere in cassa integrazione 145 dei neoassunti nel

caso che un tribunale del lavoro lo costringesse davvero a riassumere i 145

esclusi dalle procedure di riavvio al lavoro perché avevano una tessera

sindacale non gradita all’azienda. Con il corredo di una impeccabile

spiegazione tecnico-economica: il mercato, ha detto l’ad, non assorbe più di

quello che Pomigliano produce al momento, per cui il personale deve restar

fermo al livello raggiunto - la metà di una volta.

La faccia italiana di Fiat comprende anche la dichiarazione dell’ad che prima

o poi bisognerà chiudere almeno uno stabilimento in Italia, e “portare la

produttività in America”. E’ improbabile che la mannaia cada su Pomigliano;

se n’è parlato troppo, e si è anche investito abbastanza, per poter fare un

simile clamoroso passo indietro. Melfi produce ancora a pieno regime. Lo

stabilimento Sevel di Val di Sangro, che produce furgoncini in collaborazione

con la Peugeot, è troppo piccolo per fare la differenza in termini di occupati

da ridurre in Italia. Lo stesso vale per il modesto numero di vetture

costruite a Cassino, di cui pure si è subito parlato come candidato alla

chiusura. I motori prodotti a Termoli sono una produzione che tira. Fatti due

conti, se Fiat vuole davvero tagliare un consistente numero di posti in Italia,

diciamo tra i 5 e i 10.000, la scelta più ovvia, se non la più probabile, al

momento parrebbero essere Mirafiori e gli enti centrali del Lingotto.

Quale che sia l’impianto su cui cadrà la scure, pare ormai evidente che

l’occupazione in Fiat si ridurrà di molto. In tal modo la società che nacque a

Torino e per decenni ha dato lavoro a centinaia di migliaia di persone avrà

conseguito due primati. Anzitutto quello di una famiglia che fu la fondatrice

di uno dei maggiori marchi mondiali dell’auto ma ha evidentemente deciso

di occuparsi d’altro. Diversamente, si noti, da altre stirpi europee. La famiglia

Porsche controlla tuttora il marchio di auto sportive, ed è robustamente

presente nel CdA della Volkswagen. La Bmw è da sessant’anni controllata

dalla famiglia Quandt. I Peugeot contano ancora nell’azionariato della fabbrica

che fondarono generazioni fa. Il secondo primato potrebbe essere quello di un

ad che riduce ai minimi termini la produzione di un marchio mondiale nel paese

d’origine allo scopo di rafforzare la produzione interna di un marchio

straniero. Due primati che inducono a dire, e spiace proprio dirlo, grazie

signora Fiat.

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Le vacanze

John e Lapo a pranzo a Nerano

tra vino bianco e mozzarella

di ANNA MARIA BONIELLO (IL MATTINO 15-07-2012)

Crociera nel Mediterraneo per John Elkann, il giovane e affascinante

presidente Fiat che prima di recarsi negli Stati Uniti si è regalato una

vacanza tutta familiare a bordo del «Dionea», una delle imbarcazioni della

«flotta Agnelli» che è stata trasformata da barca d’epoca in un

superaccessoriato e moderno yacht a bordo il quale Jaki e Lapo Elkann hanno

navigato nelle acque del Golfo insieme con tutta la famiglia di John.

L’elegantissima Lavinia Borromeo che nei tratti e nello stile rievoca nonna

Marella e i piccoli di casa Elkann, Leone, Oceano e Vita, l’ultima arrivata,

nata sette mesi fa.

La passione del mare che unisce gli Agnelli da generazioni, da quando nonno

Gianni li trasportava a Capri con il suo «Stealth», la barca più cara

all’Avvocato, dalle linee innovative e uniche e dalla vela completamente nera

e che ha poi visto al timone il nipote Lapo, che come il nonno sfida i mari

nelle regate più ardite. Il tour nel Golfo di John Elkann in questa insolita

versione familiare è durato alcuni giorni con itinerario nei piaceri della

cucina nostrana e tappa a Lo Scoglio a Nerano uno dei luoghi più frequentati

dalla famiglia Agnelli. Menù classico del locale di Marina del Cantone dove

John, Lapo e Lavinia hanno respirato l’atmosfera familiare che li ha visti sin

da bambini essere tra i clienti più amati e dove si gustano i sapori e i

piatti tipici della nostra cucina. Un menù tutto mediterraneo che è stato

molto apprezzato dai giovani Agnelli e dall’esile Lavinia, partendo dai

classici spaghetti alla Nerano con le zucchine alla mozzarella e vino doc. La

skyline dell’isola azzurra che si stagliava lungo la rotta che portava la

«Dionea» a Ponza ha fatto da richiamo per una sosta fuori programma nella baia

di Marina Piccola, davanti ai Faraglioni e un blitz a terra per John e Lapo

che hanno voluto regalarsi una passeggiata fuori programma nel borgo marinaro

di Marina Grande.

Poi all’imbrunire la crociera è continuata per la meta finale dell’isola di

Ponza dove si è fermata la navigazione per far ripartire il presidente della

Fiat verso i suoi impegni che lo hanno visto volare negli Stati Uniti, nella

Sun Valley, nello stato dell’Idaho dove insieme al nostro premier Mario Monti

ha preso parte alla cena organizzata da Herb Allen nella sua sontuosa dimora e

alla quale erano invitate oltre cento persone, tra miliardari e guru

dell’hi-tech. Insieme al presidente della Fiat e al presidente del consiglio

dei ministri, c’erano il sindaco di New York Michael Bloomberg, il presidente

di Google Eric Schmidt e il tycoon della comunicazione Rupert Murdoch.

Un’intensa scaletta di impegni per John Elkann che sono riusciti ben presto a

riportare il patron della Fiat lontano dalle atmosfere rilassate e soft del

break vacanziero che lo ha visto navigare nelle acque del Golfo e quelle

intorno all’isola di Ponza. Ma prima di andar via ha fatto una promessa:

«Torneremo presto per vivere ancora qualche giorno di assoluto relax».

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l'Espresso | 19 luglio 2012

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Le vacanze

John e Lapo a pranzo a Nerano

tra vino bianco e mozzarella

di ANNA MARIA BONIELLO (IL MATTINO 15-07-2012)

Crociera nel Mediterraneo per John Elkann, il giovane e affascinante

presidente Fiat che prima di recarsi negli Stati Uniti si è regalato una

vacanza tutta familiare a bordo del «Dionea», una delle imbarcazioni della

«flotta Agnelli» che è stata trasformata da barca d’epoca in un

superaccessoriato e moderno yacht a bordo il quale Jaki e Lapo Elkann hanno

navigato nelle acque del Golfo insieme con tutta la famiglia di John.

L’elegantissima Lavinia Borromeo che nei tratti e nello stile rievoca nonna

Marella e i piccoli di casa Elkann, Leone, Oceano e Vita, l’ultima arrivata,

nata sette mesi fa.

La passione del mare che unisce gli Agnelli da generazioni, da quando nonno

Gianni li trasportava a Capri con il suo «Stealth», la barca più cara

all’Avvocato, dalle linee innovative e uniche e dalla vela completamente nera

e che ha poi visto al timone il nipote Lapo, che come il nonno sfida i mari

nelle regate più ardite. Il tour nel Golfo di John Elkann in questa insolita

versione familiare è durato alcuni giorni con itinerario nei piaceri della

cucina nostrana e tappa a Lo Scoglio a Nerano uno dei luoghi più frequentati

dalla famiglia Agnelli. Menù classico del locale di Marina del Cantone dove

John, Lapo e Lavinia hanno respirato l’atmosfera familiare che li ha visti sin

da bambini essere tra i clienti più amati e dove si gustano i sapori e i

piatti tipici della nostra cucina. Un menù tutto mediterraneo che è stato

molto apprezzato dai giovani Agnelli e dall’esile Lavinia, partendo dai

classici spaghetti alla Nerano con le zucchine alla mozzarella e vino doc. La

skyline dell’isola azzurra che si stagliava lungo la rotta che portava la

«Dionea» a Ponza ha fatto da richiamo per una sosta fuori programma nella baia

di Marina Piccola, davanti ai Faraglioni e un blitz a terra per John e Lapo

che hanno voluto regalarsi una passeggiata fuori programma nel borgo marinaro

di Marina Grande.

Poi all’imbrunire la crociera è continuata per la meta finale dell’isola di

Ponza dove si è fermata la navigazione per far ripartire il presidente della

Fiat verso i suoi impegni che lo hanno visto volare negli Stati Uniti, nella

Sun Valley, nello stato dell’Idaho dove insieme al nostro premier Mario Monti

ha preso parte alla cena organizzata da Herb Allen nella sua sontuosa dimora e

alla quale erano invitate oltre cento persone, tra miliardari e guru

dell’hi-tech. Insieme al presidente della Fiat e al presidente del consiglio

dei ministri, c’erano il sindaco di New York Michael Bloomberg, il presidente

di Google Eric Schmidt e il tycoon della comunicazione Rupert Murdoch.

Un’intensa scaletta di impegni per John Elkann che sono riusciti ben presto a

riportare il patron della Fiat lontano dalle atmosfere rilassate e soft del

break vacanziero che lo ha visto navigare nelle acque del Golfo e quelle

intorno all’isola di Ponza. Ma prima di andar via ha fatto una promessa:

«Torneremo presto per vivere ancora qualche giorno di assoluto relax».

mh

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Elkann prende casa a Milano

In gran segreto il presidente della Fiat sta allestendo la dimora famigliare all’ombra della Madunina. Per ora farà il pendolare, ma per molti è il primo passo verso il trasloco definitivo

Mercoledì 18 Luglio 2012

Difficile immaginarlo in coda al casello dell’autostrada o stipato in una lercia carrozza ferroviaria. Da qualche settimana c’è però anche lui, John Elkann, tra le migliaia di torinesi che ogni giorno fanno la spola con Milano. Infatti, il pendolare vip ha da poco preso casa nel capoluogo lombardo, quartiereSant’Ambrogio, zona alla periferia sud della città, ultimamente interessata da massicci interventi di riqualificazione. Si tratta di un immobile prestigioso, dotato di tutti i confort, attorno al quale è attualmente in costruzione un ampio parcheggio privato. A breve, riferiscono le fonti, sarà pure annessa una piattaforma per l’atterraggio di elicotteri. A spingere oltre Ticino il presidente della Fiat, che al momento ha mantenuto la residenza sotto la Mole, nella villa che fu dell’Avvocato sulla collina di Torino, pare sia stata la moglie, Lavinia Borromeo, che da tempo anelava a ritornare nella sua città e riprendere la vita mondana e, soprattutto, i suoi interessi nella moda. Ma è anche l’inizio della carriera scolastica del primogenito, Leone, a cui nel giro di un anno seguirà Oceano, ad aver indotto la coppia a scegliere Milano e un prestigioso istituto.

Nella celebre intervista a Claudio Sabelli Fioretti, quella in cui ammette di non avere amici “poveri”, costretti a lavorare, Donna Lavinia, come l’araldica impone di chiamarla, aveva già fatto capire di trovare la capitale sabauda un tantino noiosa e comunque di preferire il glamour milanese. Ora il primo passo è fatto. E se, forse per non dare troppo nell’occhio, gli Elkann-Borromeo si divideranno tra Pisapia e Fassino, c’è chi giura che la decisione sul domicilio definitivo è stata presa. Anticipando il destino della ditta di famiglia.

http://www.lospiffer...ilano-5361.html

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UN REBUS CHIAMATO FIAT

La strategia finora vincente di Marchionne deve fare i conti con le vendite

che calano, i dubbi che aumentano e una strana voglia di soluzioni stataliste

Per la Fiom di Landini serve un piano statale: perché il governo francese si interessa di Peugeot e Monti si disinteressa di Fiat?

Lo storico Berta, osservando il bilancio Exor, dice che la famiglia Agnelli guarda ormai fuori l’Italia, anzi fuori l’Europa

L’ipotesi in ballo di un interesse tedesco di Volkswagen per il marchio Alfa Romeo (e non solo per il marchio)

La strategia all’americana di Marchionne che adesso però vede con timori le aperture dell’Ue all’import di auto giapponesi

di UGO BERTONE (IL FOGLIO 20-07-2012)

Giorgio Airaudo, responsabile nazionale della Fiom per l’auto, attacca con la solita

litania. “Sergio Marchionne – dice al Foglio – in Fiat non ne ha azzeccata una: piano,

tempi, prodotti”. Poi però cambia tono: “Marchionne, che mi è pure simpatico, fa quel

che può con quello che ha…”. Carlo Callieri, uno dei grandi protagonisti della Fiat

dell’Avvocato nelle battaglie degli anni Ottanta, almeno sotto questo profilo, la vede

in maniera quasi simile: “Marchionne è un manager tenuto a stecchetto”, ha commentato

ieri in un’intervista a Repubblica.

Insomma, il vero problema non è il manager con il maglioncino che quando ha potuto

disporre, accanto alle tecnologie Fiat, dei quattrini prestati da Barack Obama, ha

saputo fare miracoli in Chrysler. Intanto, per colpa del mercato (ma non solo) la Fiat

italiana è deperita a livelli impensati: nell’anno bisesto 2012 in Italia non si

produrranno più di 400 mila macchine, un milione in meno di quanto previsto dal piano

Fabbrica Italia, 800 mila in meno di quel 2004, pure un anno disgraziato, in cui il

manager mise piede al Lingotto per la prima volta.

Il problema, insiste Callieri, non è lui, ma la mancanza di quattrini a sua

disposizione per gli investimenti che ci vorrebbero. Roba che riguarda la proprietà:

“Se c’è batta un colpo – ironizza Callieri – Ma per ora non vedo niente”. “Ormai Exor

ha compiuto le sue scelte – commenta Giuseppe Berta, storico dell’economia e grande

cultore di Fiat dalle origini a oggi – Basta vedere il portafoglio per capire che la

famiglia guarda fuori Italia, anzi fuori Europa”. E allora? Se non ci pensa la

famiglia, non resta che pensare alla mano dello stato? Assieme, o in alternativa,

“all’ingresso di altri produttori”, come dice il leader della Fiom.

L’ipotesi di un coinvolgimento del pubblico, in una qualche forma, insomma non è più

un tabù. Per il sindacato non è una novità. Per il mondo politico e per buona parte

del mondo degli addetti ai lavori, sì. Proprio ieri lo stesso Corrado Passera (uno che

con Marchionne non si è mai preso fino in fondo) si è spinto a dire che “noi del

governo dobbiamo seguire con grande attenzione quelle che possono essere le

conseguenze sul nostro paese della trasformazione importante del settore

dell’automobile”.

Messa così la dichiarazione può significare molto o molto poco. Ma c’è molta

differenza tra questa posizione e la solidarietà sfoderata dal premier Mario Monti

anche dopo la visita lampo in Serbia, dove Fiat ha dirottato l’investimento per la

500L, inizialmente previsto a Mirafiori.

Certo, al di là degli umori o delle preoccupazioni, le munizioni finanziarie a

disposizione del governo, qualora si volesse metter mano a una qualche forma di

incentivo accettabile anche in sede comunitaria (i motori verdi, per esempio, in cui

l’Italia conta ancora un discreto vantaggio) sulla falsariga di quanto intende fare

Parigi per Psa, sono davvero poca roba. “Per ora – spiega Berta – gli unici soldi sul

totale di cui sono a conoscenza sono gli 80 milioni messi a disposizione dalla regione

Piemonte: sono pochi pure per aiutare l’industria locale che, mi dicono, sta perdendo

rapidamente le competenze accumulate negli anni al punto che non è più in grado di

progettare e produrre, in base alle sole competenze locali, una vettura di classe C.

Ma in chiave nazionale sono uno sputo nell’oceano”.

Vero, ma spesso la volontà in politica conta più dei mezzi. Nel 2008/09, quando

Marchionne tirò fuori dal cilindro la carta Chrysler, nessuna forza politica e

sindacale italiana era disposta a sborsare un euro per gli “Agnelli che hanno avuto

tanto”. E oggi? “Mi viene voglia di lanciare un’idea bizzarra – replica Airaudo –

facciamo come in America. Diamo alla Fiat i soldi che chiede all’interesse del 9-10

per cento. Così Marchionne li restituirà il più in fretta possibile, dopo aver fatto

gli investimenti. A differenza del passato, quando gli Agnelli non hanno restituito

nulla”. Ma non si poteva fare prima, quando magari c’era ancora qualche spicciolo per

dare una spinta all’industria dell’auto? “Forse sì, ma in quegli anni anche nei

sindacati ha pesato la spinta leghista”.

Difficile che certi ragionamenti facciano breccia nel Marchionne pensiero. Il numero

uno di casa Fiat/Chrysler è più impegnato a occuparsi della crescita del gruppo in

Cina e Russia e a tamponare l’inevitabile frenata del mercato brasiliano, in crescita

geometrica ormai da troppi anni che ai tempi di sviluppo e realizzazione dei nuovi

prodotti per la vecchia Europa. “Riteniamo – ha detto in occasione del lancio della

500L il responsabile del marketing Olivier François ribadendo il pensiero del capo –

che lanciare oggi altri nuovi modelli su questo mercato sia una grande cazzata”.

Meglio godersi i successi della sua Chrysler, ormai beniamina della grande stampa Usa.

Il Wall Street Journal ha appena dedicato un servizio affettuoso alla Dart “l’auto che

ha salvato Chrysler”, senza dimenticare di far notare che l’ultima nata di Detroit “è

stata sviluppata sulla piattaforma dell’Alfa Romeo”.

Il che ha il sapore della beffa: in Europa, in attesa delle nuove Alfa (Marchionne ha

confidato ad Automotive News di averne bocciate quattro perché troppo Fiat style), il

marchio del Biscione venderà quest’anno meno di 100 mila vetture. Intanto gli Stati

Uniti si abituano al ritorno della vettura che sarà prodotta in Michigan o in Canada.

Piuttosto che ai coupé Alfa che saranno sfornati da Fiat presso gli stabilimenti di

Mazda in quel di Hiroshima per poi raggiungere la California. “Secondo voi – è il

parere di Airaudo – per l’Italia conta di più un modello Alfa sviluppato da un’azienda

a proprietà straniera ma con lavoro italiano od operazioni di questo genere?”. Conta

il rispetto della proprietà privata, visto che il marchio Alfa è degli azionisti Fiat.

“Vero, Marchionne cerchi di trarre tutto il vantaggio possibile. Ma lo stato non può

più essere assente: Fiat ha firmato contratti con il governo in Brasile, Serbia e Usa.

Ma da noi non c’è nemmeno un post it”.

Intanto, proprio oggi, il giorno dopo l’annuncio che, causa l’invenduto di nuove

Panda sui piazzali, nello stabilimento gioiello di Pomigliano scatterà dopo le ferie

la Cassa integrazione, Volkswagen pianta in forma definitiva la sua bandierina sulla

Ducati, dopo il via libera dell’Antitrust. Da Wolfsburg è arrivato un bell’assegno da

860 milioni, tanto per dimostrare che l’ammiraglia dell’auto tedesca, impegnata nella

sua scalata al primato mondiale (dieci milioni di vetture nel 2018), non ha paura a

puntare sul Bel Paese, dove già contano più di un piede grazie al controllo di

Lamborghini, L’Italdesign di Giorgetto Giugiaro e, più ancora, grazie a una fitta rete

di fornitori destinata a crescere dopo la sessione di incontri che De Silva, assieme

allo stesso Giugiaro, hanno avuto con una fitta schiera di medie e piccole aziende

cresciute a suo tempo nell’indotto Fiat. Oltre a una folta schiera di emigrati di

lusso che non vedono l’ora di rimetter mano al Biscione. Primo fra tutti Walter De

Silva da Como che, prima di sbattere la porta e approdare alla corte di Ferdinand

Piech (che gli ha affidato il design di tutti i 12 marchi del gruppo), ha disegnato la

linea delle Alfa che ancora caratterizza la Giulietta.

“Gli incontri tra Volkswagen e Marchionne a suo tempo ci sono stati – commenta lo

storico Berta – Da quel che ne so io i tedeschi erano interessati solo al marchio per

cui hanno offerto una bella cifra, un miliardo almeno. Marchionne ha sparato molto più

in alto. Non solo, ha posto come condizione la cessione di uno stabilimento in Italia,

mentre il gruppo Volkswagen era interessato solo al marchio”. Fin qui le trattative

passate. Ma, anche nel mondo dell’auto, non bisogna mai dire mai. Lo stesso De Silva

ha fatto notare che Volkswagen ha pure investito in paesi ad alto costo del lavoro,

vedi il Belgio. “Sarebbe un fatto nuovo – riconosce Berta – anche se non penso che i

tedeschi siano interessati a uno solo degli stabilimenti Fiat in Italia. Semmai

potrebbero aprirne uno nuovo. Ma è presto per parlarne”. Intanto, la casa di Wolfsburg

ha appena introdotto per i suoi mille e passa dipendenti italiani il contratto alla

tedesca. Se domani si aprisse un tavolo a Palazzo Chigi o presso il ministero di

Passera sul futuro dell’auto in Italia, il colosso che affida una bella parte dei

componenti dell’Audi ai fornitori del nord est potrebbe far la parte del convitato di

pietra. O anche dell’ospite ufficiale, nel nome di un’amicizia industriale che frau

Angela Merkel, a dire il vero, non dimostrò quando scartò l’ipotesi Lingotto per la

Opel: visto com’è andata (tre anni dopo aver incassato i contributi governativi, Gm si

prepara a chiudere almeno uno stabilimento oltre Reno), forse valeva fidarsi di

Marchionne, come ha fatto Obama.

Ma bando al futuribile. La sensazione è che molte decisioni, le più importanti,

dovranno essere prese nei prossimi mesi. “Io mi fido di Marchionne – chiude Airaudo –

lui aveva detto che i conti si sarebbero tirati con l’ultimo trimestre. Siamo vicini”.

Le prospettive? “E’ stato lui a spiegarci al tavolo delle trattative che con una quota

di mercato inferiore al 7 per cento fai fatica a tenere in piedi una rete distributiva

e di assistenza a livello continentale”.

Non meno drastico lo storico bocconiano Berta: “E’ arrivato il momento delle scelte.

Ovvero di tirar fuori un progetto per l’Italia che oggi non c’è. A partire dai suoi

attori: la Fiat, il sindacato, il governo e tutti gli altri che sono disposti a

mettere quattrini e tecnologie su un progetto integrato. Non escludo nemmeno, in linea

di principio, il modello Giugiaro, cioè la collaborazione a livello di indotto e di

componenti. Insomma, un progetto in cui sia senz’altro la Fiat ma non solo più la

Fiat”. Cosa risponderanno i vertici del Lingotto? La linea è ben nota: finché il

mercato dell’auto resta quello che è (le vendite in Italia sono scivolate ai minimi

dal ’79, meno di 500 mila vetture) la strategia non cambia: primo non prenderle.

La sorpresa sarà relativa: Marchionne ha già fatto sapere che, di questo passo, alla

Fiat cresce almeno uno stabilimento in Italia. Quale? Secondo Mediobanca Securities, i

candidati più probabili alla chiusura sono Melfi (destinato alla nuova Punto, rinviata

a data da destinarsi) e Cassino. Ma, a parte le linee della ex Bertone di Grugliasco,

destinata alla Maserati, l’incertezza regna sovrana, anche in quel di Mirafiori dove

gli investimenti per le linee dei primi Suv di casa Fiat, a detta dei sindacati,

segnano il passo. Nel frattempo, Marchionne potrà continuare a interpretare la parte

del Messia dall’altra parte dell’oceano, dove non passa mese senza che Chrysler non

macini qualche nuovo record. E quella di Cassandra a Bruxelles, dove gli altri

costruttori (non i tedeschi) stanno prendendo atto che il ceo di Fiat diceva il vero

quando aveva previsto che la guerra dei prezzi, in assenza di interventi sulla

capacità produttiva, avrebbe mandato all’aria i costruttori che più avrebbero

confidato nella ripresa del mercato. Su un punto non è lecito nutrire dubbi: se

Marchionne non avesse stretto i cordoni della borsa in Italia, concentrandosi su

Chrysler, la Fiat, troppo fragile per reggere alla seconda ondata di crisi dopo aver

resistito alla tempesta Lehman Brothers, sarebbe andata all’aria ben prima di Peugeot.

E in Italia? La battaglia per assicurare agli impianti italiani condizioni in linea

con il resto del mercato è ben lungi dall’essere vinta. La flessibilità, rispetto ai

concorrenti, resta un miraggio lontano. Anche perché, come ha ricordato lui stesso,

l’ultima vague del mercato è il contratto che le unions inglesi hanno accettato di

firmare pur di ottenere il trasferimento ad Ellesmere della produzione della Opel

Astra: 51 settimane di lavoro, tre turni, sabato lavorativo a richiesta della

direzione aziendale. Un gioco pesante, non c’è che dire.

Chissà, però, se dall’altra parte del tavolo il capo azienda Marchionne, che è un

ottimo giocatore di poker, non troverà stavolta un ministro disposto ad andare a

vedere le carte del numero uno del Lingotto prima che il baricentro del gruppo non sia

del tutto spostato sull’altra riva dell’Atlantico. “Parliamoci chiaro – ha detto ieri

sera il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini – il Piano Fabbrica Italia

non c’è più. Non è possibile che se la Peugeot in Francia annuncia licenziamenti

interviene il presidente francese in persona oltre al governo e ai ministri

interessati, mentre in Italia il premier Mario Monti ha detto che la Fiat è libera di

investire dove vuole”.

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Auto. Alla famiglia 24 milioni per il 2011

G.Agnelli & C.,

cresce la cedola

L'AUTOMOBILE Gli analisti vedono per Fiat un utile di quasi 1 miliardo

nel secondo trimestre L'azienda assume in Brasile e aumenta la produzione

di ANDREA MALAN (Il Sole 24 ORE 25-07-2012)

Risultato netto tornato in attivo per oltre 50 milioni di euro, aumento del

dividendo da sei a otto euro per azione. Questi i dati salienti del bilancio

2011 della Giovanni Agnelli & C. sapaz – l'accomandita per azioni al vertice

del gruppo Agnelli – approvato il mese scorso dai soci.

La società ha chiuso l'esercizio 2011 con un utile netto di 52, 5 milioni

di euro rispetto al rosso di 18, 1 nel 2010; su quest'ultimo risultato

aveva pesato l'impatto di una transazione con il fisco per 47,4 milioni per

chiudere le contestazioni di violazione di norme fiscali in relazione all'Opa

del 1999 della filiale lussemburghese Exor Group (ora ribattezzata Old

Town) sulla Giovanni Agnelli Sa. L'utile 2011 deriva essenzialmente dai

dividendi che la G.Agnelli & C. ha incassato nel 2011 dall'attuale Exor

(ex Ifil) per 40,7 milioni e da Old Town per 17, 3 milioni. La posizione

finanziaria ,dell'accomandita rimane negativa per 168,8 milioni di euro;

i debiti bancari erano pari a fine anno a 104 milioni, su cui l'azienda

ha pagato nell'esercizio 2,4 milioni di interessi.

L'assemblea della G.Agnelli & C. , tenutasi il 7 giugno scorso sotto la

presidenza di John Elkann, ha deliberato un aumento del dividendo

unitario da sei a otto euro per azione, per un esborso complessivo di

circa 24 milioni; la Dicembre s.s., che controlla poco più di un terzo

delle azioni e raggruppa gli interessi di John Elkann e dei fratelli Lapo

e Ginevra, incasserà circa 8 milioni di euro.

I conti trimestrali delle due principali controllate dell'accomandita

(tramite Exor), ovvero Fiat e Fiat Industrial, verranno resi noti la

settimana prossima. Secondo le stime degli analisti Fiat spa (che

controlla a sua volta Fiat Auto e Chrysler) dovrebbe chiudere il

secondo trimestre 2012 con un utile di gestione di 965 milioni di

euro, di cui 870 in arrivo dall'azienda americana e 95 da Ferrari e

Maserati; il resto delle attività è dunque in pareggio ma Fiat Group

Automobiles è in passivo, con gli utili brasiliani che non riescono

a compensare le (crescenti) perdite in Europa.

Un confronto con il 2011 non è possibile, in quanto nel trimestre

corrispondente Chrysler era consolidata solo per un mese; nel 2°

trimestre 2011 Fga e il settore componenti avevano guadagnato circa

300 milioni di euro contro il pareggio previsto per quest'anno. Il debito

netto industriale è previsto a 5,7 miliardi a fine trimestre e a 6,285 a fine

anno; per l'intero 2012 gli analisti prevedono un utile di gestione a 3,69

miliardi di euro (3,1 da Chrysler) e un risultato netto a 1,32 miliardi,

compreso nella forchetta di previsione (1,2-1,5 miliardi) fornita dalla

società ad aprile.

A Fiat Industrial viene attribuito per lo stesso periodo un utile di gestione

di 575 milioni (dai 530 dello stesso periodo 2011) di cui 455 attribuibili

ai trattori di Cnh (erano 381) e 90 a Iveco, in calo dai 135 del 2011;

ilrisultato netto è visto in aumento a 285 milioni (da 239) con un

indebitamento netto industriale a 1,65 miliardi.

Fiat Auto, che la settimana scorsa ha annunciato cassa integrazione

aggiuntiva a Mirafiori e anche a Pomigliano, ha comunicato lunedì sera,

secondo l'agenzia Dow Jones, che assumerà 600 dipendenti in Brasile

per aumentare la produzione di 150 veicoli al giorno; la mossa arriva dopo

che le misure di sostegno prese dal Governo a fine maggio hanno rilanciato

la domanda di auto in Brasile. I nuovi assunti lavoreranno nei reparti presse

e verniciatura.

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Semestre nero per Rcs: persi 427 milioni di euro

LA SOCIETÀ HA CHIUSO LA PRIMA METÀ DELL’ANNO CON RICAVI IN CALO DI OLTRE IL 10%, IL CDA CONVOCA L’ASSEMBLEA DEI SOCI

Nuova crisi in vista per via Solferino

La società prevede una chiusura in forte perdita

di GIOVANNA LANTINI (il Fatto Quotidiano 01-08-2012)

La patata appena presa in mano da Pietro Scott Jovane si fa subito incandescente. Rcs Mediagroup, l'editrice del Corriere di cui l’ex numero uno di Microsoft Italia ha preso in mano le redini il 2 luglio, ha chiuso i primi sei mesi del 2012 con un rosso di 427 milioni di euro. Quasi 100 milioni in più delle perdite registrate nell’intero 2011 principalmente a causa della svalutazione della controllata spagnola Unidad Editorial. La stessa che si è fatta pesantemente sentire in questa prima metà dell'anno con una nuova svalutazione per oltre 300 milioni. Una situazione che comporterà delle decisioni importanti da prendere e rapidamente.

Il precipitare della situazione spagnola, ha infatti contribuito pesantemente al dimezzamento del patrimonio netto della capogruppo che è passato dai 716,8 milioni di euro di gennaio a quota 335,6 milioni, facendo scattare la tagliola dell'articolo 2446 del Codice Civile che, in caso di perdite superiori a un terzo del capitale impone agli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. E se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate. La ricapitalizzazione dell’editrice torna a imporsi ai soci, in primis Mediobanca, Fiat e Intesa, ma anche Rotelli, Della Valle e Unipol subentrata ai Ligresti. Quasi tutti già impegnati in altre situazioni complesse da gestire, a partire da Mediobanca ancora alle prese con l’affaire Ligresti su cui si attendono novità dalla Procura, ma anche la debacle in Impregilo. Senza contare che l'affollata compagine azionaria che controlla il Corriere è fresca di stracci volati in occasione della recente scelta del nuovo amministratore delegato. A Jovane spetta quindi una prova a dir poco erculea. Per il momento l'ad ha preso tempo collegando le misure sul capitale al nuovo piano industriale. L'assemblea è stata convocata per i giorni 16 e 23 ottobre, rispettivamente in prima e seconda convocazione.

Secondo quanto precisato dalla società, il gruppo avrebbe “già avviato le attività preliminari volte alla predisposizione di un piano per lo sviluppo” che “risponderà con linee guida e strategie adeguate alle nuove sfide del mercato, sia per gli aspetti strutturali della congiuntura macroeconomica, sia per le criticità dei prodotti tradizionali, puntando con determinazione a una innovativa logica editoriale e di sistema”. Anche qui impresa erculea, tanto più se sono corrette le indiscrezioni che parlano di frizioni con i giornalisti del gruppo, gli stessi che a gennaio si erano duramente espressi contro la “casta di intoccabili che non paga il minimo pegno per le scellerate scelte di politica aziendale, di investimenti (l’acquisizione della Recoletos spagnola) che, ben oltre la crisi congiunturale, hanno portato al disastro”. E che dovranno portare a nuovi tagli. Tanto più che il 2012 secondo le previsioni della stessa società si chiuderà in perdita, nonostante i profitti generati dalla vendita della francese Flammarion ancora da perfezionare.

Palombo, presto, vada in pensione! Quel palazzo di vetro sporco sta scricchiolando dalle fondamenta.

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Il Sole 24ORE 01-08-2012

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INTERVISTA

GIANLUIGI GABETTI

[utilizzare colori nerazzurri non è il massimo della simpatia, ndt]

di SERGIO LUCIANO (Panorama | 8 agosto 2012)

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C’era una volta a Torino:

com’è cambiato lo stile Agnelli

ANDREA SI SCAGLIA CONTRO I GIUDICI, MARCHIONNE GIOCA

A SPARARLE GROSSE. TRIONFA IL MODELLO BERLUSCONIANO

di FERRUCCIO SANSA (il Fatto Quotidiano 04-08-2012)

Chissà da dove ci guarda l’Avvocato. C’è la questione del cammello nella cruna dell’ago. Chissà se vede la sua famiglia toccata dal virus di questi anni: il berlusconismo. Le parole di Andrea Agnelli, quel “sistema dittatoriale” rivolto ai giudici sportivi, ne rivelano una forma galoppante. L’Avvocato, che pure si era trovato i giudici alle porte, non l’avrebbe mai detto. Mai. Vero, lui che trasudava fastidio per il Cavaliere aveva infine compiuto il grande inchino. Ma il gesto gli era stato perdonato, avvolto nella luce del tramonto. Ora è diverso, l’homo berlusconianus vive a villa Frescot.

Pure Sergio Marchionne pare contagiato. Quel maglione nero quattro stagioni, all’apparenza tanto diverso dal doppiopetto con cravatta Marinella del Cavaliere, risponde alla stessa logica: la divisa per creare un simbolo. E non sono neanche le battaglie contro i giudici per Pomigliano ad aver berlusconizzato Marchionne. No. Piuttosto è il ricorso alla politica degli annunci. Se ti trovi con le spalle al muro, spariglia. O, come dicono i critici, buttala in caciara. Ipotizza trasferimenti in America, chiusure di stabilimenti. Annuncia nuovi modelli poi spariti nel nulla oppure miliardi per Fabbrica Italia. Berlusconi docet. Poi c’è Lapo – in Famiglia considerato una delle menti più acute – che ti molla il suv sui binari del tram che “i milanesi ancor s’incazzano”. Una manovra tanto berlusconiana. Gianni non l’avrebbe mai fatto, era una categoria a parte. Oltre l’arroganza. Oltre le regole.

Ma forse l’Avvocato soffrirebbe anche di più vedendo la Fiat, perfino la Juve, guardate con antipatia. Sì, proprio la Juve, che resta la squadra simbolo d’Italia, con una tifoseria sterminata, dal Po al Belice.

Certo, ci sono gli scandali, gli Scudetti cancellati. Ma in questa Italia non sono un demerito. Il punto è che l’Avvocato era il re di un Paese bisognoso di sovrani. Se lo Stato era il padre, la Fiat era la madre.

Perfino le sue auto somigliavano agli italiani: fantasiose, scattanti, ma un po’ incostanti negli anni, con la ruggine che si mangiava la carrozzeria. Proprio come le virtù italiche che non resistono alla prova del tempo. Italia, Fiat e Juve unite nella buona e nella cattiva sorte. Ma ora basta: gli Agnelli-Elkann-Marchionne sono diventati internazionali, è bastata l’autocertificazione. Di italiano resta un tricolore sulla felpa. Dallo scudetto Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) rischiano di sparire la “i” e la “t”. Ma anche la “F” e la “a” traballano.

DA TORINO, anzi Auburn Hills, sembrano far capire che l’Italia – pur prodiga in passato di finanziamenti – sia ferma al Giurassico. Avranno pur qualche ragione, ma gli italiani sono legati ai propri difetti e non sopportano chi glieli ricorda. Soprattutto se, magari, li condivide con loro.

L’Avvocato godeva di immunità (che proteggono i potenti, ma anche i sudditi dal dubbio) da fare invidia al Quirinale. Ogni sua frase diventava aforisma (anche se a rileggerle adesso, senza la famosa “r”, viene qualche dubbio). Nessuno fiatava ai suoi attestati di stima per soggetti come Henry Kissinger e George W. Bush.

Oggi, senza re, la dinastia ha perso i privilegi. Certo, per gli ex sovrani è difficile sottostare alle decisioni di anonimi burocrati: i magistrati. Intanto i sudditi si sentono orfani. Dopo la politica e la Chiesa anche gli Agnelli ci lasciano. Dissolto il velo della soggezione – insondabile miscuglio di invidia e ammirazione – l’abbandono diventa rabbia. Per la Fiat, perfino per la Juve. E davanti alla foto di Lapo, vestito tipo domatore di leoni, ti assale un dubbio: sarà pure un maestro di stile, ma ricorda tanto quei ragazzi di borgata alla festa brasiliana di Capannelle.

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C’era una volta a Torino:

com’è cambiato lo stile Agnelli

ANDREA SI SCAGLIA CONTRO I GIUDICI, MARCHIONNE GIOCA

A SPARARLE GROSSE. TRIONFA IL MODELLO BERLUSCONIANO

di FERRUCCIO SANSA (il Fatto Quotidiano 04-08-2012)

Chissà da dove ci guarda l’Avvocato. C’è la questione del cammello nella cruna dell’ago. Chissà se vede la sua famiglia toccata dal virus di questi anni: il berlusconismo. Le parole di Andrea Agnelli, quel “sistema dittatoriale” rivolto ai giudici sportivi, ne rivelano una forma galoppante. L’Avvocato, che pure si era trovato i giudici alle porte, non l’avrebbe mai detto. Mai. Vero, lui che trasudava fastidio per il Cavaliere aveva infine compiuto il grande inchino. Ma il gesto gli era stato perdonato, avvolto nella luce del tramonto. Ora è diverso, l’homo berlusconianus vive a villa Frescot.

Pure Sergio Marchionne pare contagiato. Quel maglione nero quattro stagioni, all’apparenza tanto diverso dal doppiopetto con cravatta Marinella del Cavaliere, risponde alla stessa logica: la divisa per creare un simbolo. E non sono neanche le battaglie contro i giudici per Pomigliano ad aver berlusconizzato Marchionne. No. Piuttosto è il ricorso alla politica degli annunci. Se ti trovi con le spalle al muro, spariglia. O, come dicono i critici, buttala in caciara. Ipotizza trasferimenti in America, chiusure di stabilimenti. Annuncia nuovi modelli poi spariti nel nulla oppure miliardi per Fabbrica Italia. Berlusconi docet. Poi c’è Lapo – in Famiglia considerato una delle menti più acute – che ti molla il suv sui binari del tram che “i milanesi ancor s’incazzano”. Una manovra tanto berlusconiana. Gianni non l’avrebbe mai fatto, era una categoria a parte. Oltre l’arroganza. Oltre le regole.

Ma forse l’Avvocato soffrirebbe anche di più vedendo la Fiat, perfino la Juve, guardate con antipatia. Sì, proprio la Juve, che resta la squadra simbolo d’Italia, con una tifoseria sterminata, dal Po al Belice.

Certo, ci sono gli scandali, gli Scudetti cancellati. Ma in questa Italia non sono un demerito. Il punto è che l’Avvocato era il re di un Paese bisognoso di sovrani. Se lo Stato era il padre, la Fiat era la madre.

Perfino le sue auto somigliavano agli italiani: fantasiose, scattanti, ma un po’ incostanti negli anni, con la ruggine che si mangiava la carrozzeria. Proprio come le virtù italiche che non resistono alla prova del tempo. Italia, Fiat e Juve unite nella buona e nella cattiva sorte. Ma ora basta: gli Agnelli-Elkann-Marchionne sono diventati internazionali, è bastata l’autocertificazione. Di italiano resta un tricolore sulla felpa. Dallo scudetto Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) rischiano di sparire la “i” e la “t”. Ma anche la “F” e la “a” traballano.

DA TORINO, anzi Auburn Hills, sembrano far capire che l’Italia – pur prodiga in passato di finanziamenti – sia ferma al Giurassico. Avranno pur qualche ragione, ma gli italiani sono legati ai propri difetti e non sopportano chi glieli ricorda. Soprattutto se, magari, li condivide con loro.

L’Avvocato godeva di immunità (che proteggono i potenti, ma anche i sudditi dal dubbio) da fare invidia al Quirinale. Ogni sua frase diventava aforisma (anche se a rileggerle adesso, senza la famosa “r”, viene qualche dubbio). Nessuno fiatava ai suoi attestati di stima per soggetti come Henry Kissinger e George W. Bush.

Oggi, senza re, la dinastia ha perso i privilegi. Certo, per gli ex sovrani è difficile sottostare alle decisioni di anonimi burocrati: i magistrati. Intanto i sudditi si sentono orfani. Dopo la politica e la Chiesa anche gli Agnelli ci lasciano. Dissolto il velo della soggezione – insondabile miscuglio di invidia e ammirazione – l’abbandono diventa rabbia. Per la Fiat, perfino per la Juve. E davanti alla foto di Lapo, vestito tipo domatore di leoni, ti assale un dubbio: sarà pure un maestro di stile, ma ricorda tanto quei ragazzi di borgata alla festa brasiliana di Capannelle.

i soliti C******I

pontificano e sono pievani

sentono di poter osare

tanto nessuno li cerca

carneadi

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Dinastia tormentata

Il bel René che fece ballare Virginia Agnelli

La famiglia ha sempre difeso la privacy, ma la vedova di Edoardo ebbe una intensa

relazione (non solo platonica) col tenebroso Wild, bisessuale e amico di Pablo Picasso

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UNA DINASTIA TORMENTATA Qui sopra, René Wild, protagonista di una relazione con Virginia Agnelli. La madre di Gianni Agnelli, dopo la morte del marito Edoardo, è stata a lungo legata allo scrittore Curzio Malaparte: il matrimonio, già fissato, fu stoppato dal suocero di Virginia, il senatore Giovanni Agnelli. Virginia dovette anche combattere contro il tentativo di quest’ultimo di sottrarle la patria potestà sui figli. Rientrata libera a Roma alla fine della Seconda guerra mondiale, Virginia organizzò un incontro in Vaticano fra papa Pio XII e il Comandante delle SS in Italia, Karl Wolff, per evitare spargimenti di sangue durante l’imminente ritirata tedesca da Roma. Da Edoardo Agnelli, scomparso nel ’35, Virginia ebbe sette figli: Clara, Gianni (l’Avvocato), Susanna, Maria Sole, Cristiana, Giorgio e Umberto. Nell’articolo Festorazzi avanza prove di una relazione con René Wild, rampollo di un miliardario svizzero e reduce della Prima guerra mondiale che si stabilì in Italia e conobbe Virginia. Romantico, tenebroso, sposò per un breve periodo Gertrude Rotter, figlia di un banchiere ebreo da cui divorziò. Ebbe una intensa vita sentimentale con avventure anche omosessuali.

di ROBERTO FESTORAZZI (Libero 07-08-2012)

Nel turbinoso vortice della vita sentimentale di Donna Virginia Agnelli, nata Bourbon del Monte, madre dell’Avvocato, non ci fu soltanto spazio per Curzio Malaparte, alias Kurt Suckert. Ai tempi del naufragio del matrimonio dell’autore di Kaputt con la «regina di cuori» della grande dinastia torinese, un’altra figura maschile dominava la vita della più ambita, corteggiata e contesa donna d’Italia, che nel luglio del 1935 rimase vedova del marito Edoardo, perito durante l’ammaraggio del suo idrovolante.

La storia che stiamo per raccontare narra l’intenso legame affettivo, forse soltanto platonico, ma più probabilmente non privo d’implicazioni sentimentali, che s’instaurò tra la «farfalla» di casa Agnelli e un esteta allo stato puro, che risponde al nome di René Wild. Una figura rimasta totalmente in ombra, tanto che perfino Marina Ripa di Meana e Gabriella Mecucci, autrici della bella biografia di Virginia, pubblicata nel 2010 da Minerva, la ignorano completamente.

Nato a Torino nel 1894, Wild era il rampollo di un miliardario svizzero, l’industriale del cotone Emilio Wild, un calvinista trapiantato nel Nord Italia. Ma René, esattamente come il fratello maggiore, Enrico, non era tagliato per il business. La loro anima era segnata dalla melanconia e dal romanticismo tipici degli hommes de lettres. E nelle profondità del loro spirito albergava una segreta malattia.

Distrutto dalla guerra

In casa Wild si consumava droga già da una generazione e Anna Sieber, moglie di Emilio, era divenuta preda dell’etere. Dediti alla morfina, allo studio e alla contemplazione, i due fratelli vissero mollemente nella condizione di privilegio che il rango consentiva loro. A differenza di Enrico, cultore di occultismo e di antico Egitto, il minore dei Wild si dedicava alla traduzione di testi classici. Bello, due metri di altezza, gli occhi chiari e un profilo inconfondibilmente nordico, René si era arruolato come volontario nella Grande Guerra. Tornò dalla carneficina che pesava 32 chili e con una grande ferita ai piedi causata dalle schegge di una bomba. Un vulnus che gli causava indicibili sofferenze lenite dagli stupefacenti e dalla rinuncia ai calzari.

Il bel René si divideva tra Zurigo, Londra, Parigi e l’Italia e non di rado si lasciava incantare dalle mete esotiche, come l’India. I Wild possedevano due magnifiche residenze a Blevio, sul lago di Como, la Villa Roccabruna e la Rospini, e come gli Agnelli villeggiavano a Levanto e a Forte dei Marmi. Nella località marina del Levante ligure, situata al confine con le Cinque Terre, Enrico si era fatto costruire una villa pompeiana che tuttora esiste.

In qualità di invalido di guerra, a René era stato concesso il privilegio di poter abitare al Forte una vasta tenda piantata non lontano da riva. Era una vera casa sontuosamente arredata, in cui non mancavano tappeti, parquet, una cucina con marmi. Questo dandy crepuscolare attraverso la spiaggia raggiungeva a piedi nudi la villa degli Agnelli, per incontrare la vedova di Edoardo. Questo mi è stato confermato, anni fa, da Susanna Agnelli: «È vero, era molto amico di mia madre e veniva a trovarla camminando sulla spiaggia. Aveva male ai piedi e dunque poteva soltanto camminare senza scarpe».

Soltanto molto amico, o anche qualche cosa di più? Gli Agnelli hanno sempre difeso strenuamente la loro privacy famigliare e l’Avvocato, in particolare, ha fatto calare l’oblio sulla figura della madre, evitando che la sua vita spumeggiante divenisse oggetto di gossip. Nel 1977 Gianni comprò i diritti cinematografici e televisivi di «Vestivamo alla marinara» (il libro autobiografico di sua sorella Susanna), per impedire la realizzazione di un film e di uno sceneggiato alle cui riprese stava già lavorando il regista Mauro Bolognini.

Fatti per incontrarsi

René e Virginia erano due personaggi decadenti, belli e dannati, che sembravano nati per incontrarsi. Lei, alta, capelli ricci color tiziano, donna esuberante, persino spregiudicata nel suo anticonformismo. Lui, un umanista del Cinquecento catapultato in tempi ingrati con il duro mestiere di reggere alla fatica del vivere quotidiano. Lei è stata paragonata a Lady Diana, per il suo essere icona della libertà e insieme simbolo di dignità regale. Lui si iniettava direttamente la sostanza stupefacente nelle natiche, senza neppure abbassarsi i pantaloni, con una siringa dall’ago di platino che si portava sempre appresso.

Entrambi irresistibilmente attratti dalla perfezione formale, René e Virginia frequentavano la comunità degli artisti che aiutavano e proteggevano da autentici mecenati. Wild era amico di Pablo Picasso, al quale commissionò i disegni per alcune sculture che fece disporre sulla sommità di colonne, attorno alla piscina di Villa Rospini.

La complicità tra Wild e Virgina divenne totale. René era bisessuale e, a parte le frequentazioni maschili, aveva avuto molti amori etero. Nel 1926, aveva sposato a Vienna Gertrude Rotter, figlia di un banchiere ebreo, dalla quale aveva rapidamente divorziato. Le donne impazzivano per il bel tenebroso intellettuale miliardario, il quale tuttavia, con il sopraggiungere della maturità, ebbe a manifestare in prevalenza tendenze gay. Forse Virginia fu l’ultima donna a calcare le scene della sua vicenda sentimentale.

Quando, verso la fine del 1936, sembrava che Kurt fosse sul punto di impalmare l’amazzone di casa Agnelli, il senatore ricorse a tutti i possibili mezzi per impedire quel matrimonio che avrebbe introdotto l’Arcitaliano nella sua family business. Considerava quelle nozze un’autentica iattura, considerati i precedenti. Malaparte, infatti, cinque anni prima era stato defenestrato dalla direzione della Stampa, e l’ultima cosa che il vecchio patriarca desiderava era di trovarselo tra i piedi come genero.

Le botte di Malaparte

Giovanni Agnelli senior fu poco meno che infame con la nuora. Fece spiare lei e Kurt dalla Polizia Politica di Arturo Bocchini e cercò di toglierle i sette figli, ma invano. Nella furiosa battaglia legale, si inserì a un certo punto Mussolini, che ricevette Virginia, trasformatasi in Erinni per non farsi strappare i figliuoli.

Profittando dell’ascendente che Wild era in grado di esercitare su Virginia, il senatore persuase René ad agire quale ambasciatore della sua causa. Lo mandò da Malaparte per indurlo a recedere dai suoi propositi matrimoniali, ma lo scrittore lo accolse malamente, sferrandogli un pugno in faccia. Più tardi, attendendo che le acque si calmassero, Wild convinse la madre dei giovani Agnelli a restare per alcuni mesi sua ospite a Zurigo.

La vedova di Edoardo accettò di dimenticare Malaparte, quale prezzo per poter continuare ad esercitare il suo ruolo di madre. Morì in un incidente automobilistico, il 21 novembre 1945, a conferma ulteriore del fatto che le vite straordinarie hanno spesso un finale tragico.

René visse nella dissoluta gaiezza gli ultimi anni della sua vita. A Villa Rospini di Blevio, si installò una strana corte dedita ai piaceri estremi. Enrico Wild, nel marzo del ’44, giunse persino a chiedere un intervento della Questura di Como per liberare la proprietà da occupanti profittatori che in assenza di suo fratello davano scandalo. La villa venne così assegnata al ministro di Polizia di Salò, Guido Buffarini Guidi.

Dall’inizio degli anni Quaranta, Enrico aveva iniziato una relazione con la pianista francese Magda Brard, che era stata amante del Duce. René Wild amava raccontare, non senza malignità, che Mussolini, stanco della sua ormai logora liaison con la musicista, l’avesse sbolognata al fratello. Il dandy che affrontò Malaparte, finì per fare coppia fissa con un cantante nero. Ma non dimenticò mai Virginia. Si spense nel 1965. Aveva 71 anni.

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PER RCS E’ UN ‘MUNDO’ CRUDEL - UNIDAD EDITORIAL, CONTROLLATA DI RCS CHE POSSIEDE LA TESTATA SPAGNOLA “EL MUNDO” È IN CRISI NERA - LE VENDITE SONO CROLLATE, LA PUBBLICITÀ PURE - A GIUGNO SONO STATI LICENZIATI 130 GIORNALISTI, E IN AUTUNNO ALTRI 190 FINIRANNO IN CASSA INTEGRAZIONE - E ORA ANCHE IL SITO INTERNET ELMUNDO.ES È STATO SUPERATO DA EL PAIS – IN PROFONDO ROSSO, RCS HA SOLO VOGLIA DI SBARAZZARSI DEL GRUPPO EDITORIALE…

http://www.dagospia....de-la-42503.htm

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PER RCS E’ UN ‘MUNDO’ CRUDEL - UNIDAD EDITORIAL, CONTROLLATA DI RCS CHE POSSIEDE LA TESTATA SPAGNOLA “EL MUNDO” È IN CRISI NERA - LE VENDITE SONO CROLLATE, LA PUBBLICITÀ PURE - A GIUGNO SONO STATI LICENZIATI 130 GIORNALISTI, E IN AUTUNNO ALTRI 190 FINIRANNO IN CASSA INTEGRAZIONE - E ORA ANCHE IL SITO INTERNET ELMUNDO.ES È STATO SUPERATO DA EL PAIS – IN PROFONDO ROSSO, RCS HA SOLO VOGLIA DI SBARAZZARSI DEL GRUPPO EDITORIALE…

http://www.dagospia....de-la-42503.htm

:261: :261: sefz

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Il progetto "Continassa" cresce in silenzio

http://www.ju29ro.com/tutto-juve/4255-il-progetto-qcontinassaq-cresce-in-silenzio.html

.ciao

Modificato da CRAZEOLOGY

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