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andrea

Basket NCAA 2023

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IL TORNEO DEI COLLEGE CHE UNISCE L’AMERICA DAVANTI ALLA TV E VALE UN MILIARDO


Tutto in tre settimane, Final Four a Houston Ricavi super, 68 squadre, chi perde è fuori Rito sociale: in 100 milioni fanno pronostici


Di Riccardo Pratesi · 15 mar 2023

 

La chiamano March Madness, in America. Un rito sociale. Oltre la pallacanestro, oltre lo sport. Il torneo universitario ha preso il via nella notte: partecipano 68 squadre, eliminazione diretta, in palio il titolo di campione nazionale. Formula unica che rende l’evento speciale: chi vince prosegue la corsa verso le Final Four, in programma dal 1 al 3 aprile a Houston, chi perde va a casa. Sorprese, spettacolo, emozioni. Tutto o niente. Pianti di gioia o disperazione di ragazzi dai 18 ai 21 anni, studenti-atleti. Rimarrà un ricordo indelebile per la vita, per alcuni sarà la vetta della piramide. Avranno addosso gli occhi di tanti. La pazzia di marzo elimina differenze di età, ceto, etnia. Tutti col tabellone con i pronostici scaricato sul telefonino e la maglietta dell’alma mater indosso, nei locali. Cibo spazzatura, urla e una palla da far entrare in un canestro. Partite viste, anzi vissute, assieme. Empatia e rivalità. Cioè l’essenza dello sport. Eppure la March Madness è molto di più.
Storia Si gioca dal 1939. L’annullamento del Torneo del 2020 per pandemia è stato così traumatico che l’Ncaa ha concesso a chi aveva perso l’opportunità un ulteriore anno di eleggibilità. Le università di Division I sono 363, solo 68 elette hanno il privilegio dell’invito al Grande Ballo. Trentadue college si guadagnano il biglietto vincendo i tornei di
Conference, 36 sono selezionati dal comitato Ncaa che combina i meriti sportivi: vittorie e sconfitte, difficoltà del calendario, stato di forma, infortuni.
Tradizione Atenei opulenti: élite accademiche e lobbistiche. Di Stati di basket: l’Indiana, il Kentucky, la North Carolina, colori Hoosiers, Wildcats, Blue Devils. Ma anche le piccole università. Le chiamano Cenerentola. Le sfavorite. Hanno il cuore di tutta l’America neutrale che batte per loro, ogni anno una favola diversa si prende le pagine dei giornali. Epica sportiva e sociale.
Giro d’affari Ma c’è anche l’aspetto economico, di business. C’è sempre, in America. Enorme, in questo caso. Nel 2022 il Torneo Ncaa ha generato 1,14 miliardi di dollari di ricavi (circa un miliardo di euro). Da contratti televisivi, sponsor, biglietti in ogni città che ha ospitato l’evento. Le 67 partite, incluse le First Four, spareggio d’ingresso, lo scorso anno hanno tenuto 10.7 milioni di americani appiccicati alla TV di media per partita.
Lo sport Non conta il livello ma il nome davanti alla maglia: quello dell’università, non quello dietro, del giocatore. Oltre il 90% degli studenti-atleti vivrà di un altro lavoro. Poi ci sono i prospetti. Per loro il Torneo è un’audizione sotto pressione di fronte agli scout Nba. Non vale solo il talento, stavolta. Contano freddezza, maturità, durezza fisica e mentale.
Il gioco Quello dei pronostici è rito immancabile. Ogni anno vengono compilati da 60 a 100 milioni di tabelloni. Quello perfetto è più raro di un’eclisse solare. Persino Obama da presidente l’aveva fatto. Non è facile metterci la faccia. Perché i protagonisti sono ragazzi, le partite secche rendono i risultati imprevedibili.
I tifosi Nelle Arene, nei locali, a casa di fronte al computer. La March Madness come un fermo immagine, blocca e cambia la quotidianità di tanti, in America.
Favorite e italiani Alabama col super prospetto Brandon Miller è la prima testa di serie. Le altre sono Houston, Kansas e Purdue. Arkansas e Duke sono zeppe di talenti Nba, Abramo Canka, guardia matricola di Ucla, rappresenta l’Italia in maglia Bruins.


 

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Febbre a 70... mila
COME UNA FINALE DI CHAMPIONS CONNECTICUT RE DEI COLLEGE

 

Tutto esaurito a Houston: gli Huskies col quinto trionfo eguagliano Duke e Indiana È la squadra di Napier, play di Milano, che nel 2014 vinse da mvp


di Paolo Bartezzaghi · 5 apr 2023

 

La follia di marzo Nel torneo che ha eliminato tutte le teste di serie, domina la più forte delle quattro


Le sorprese e tutta la follia si sono esaurite a marzo. La Final Four di aprile ha eletto la più forte delle quattro squadre che sono arrivate in fondo alla “march madness”, la follia di marzo in cui il torneo universitario ha stravolto ancora più pronostici del solito. Ha vinto Connecticut, l’unica delle quattro ad avere esperienza di Final Four. E l’unica che ha rispettato, almeno ad aprile, i pronostici di un torneo che ha eliminato tutte le prime tre teste di serie delle quattro parti in cui si divide il tabellone. Al primo turno una delle numero 1, Purdue, è stata mandata a casa dall’improbabile Fairleigh Dickinson in uno dei risultati più sorprendenti della storia. Anche perché ha fatto sì che, pronti via, nessuno dei milioni di bracket, i tabelloni con i pronostici compilati negli Stati Uniti e non solo, potesse essere azzeccato al cento per cento. È il fascino di un torneo a eliminazione diretta, in un mondo dello sport dove le partite “secche” sono sempre meno e quindi sempre più affascinanti.
Quinta volta Lo Nrg Stadium di Houston, dove giocano i Texans di football, era ovviamente pieno. Succede sempre per le Final Four a prescindere da dove si giochi e da chi le giochi. Davanti a 72.423 spettatori,
Connecticut ha battuto San Diego State 76-59. Nelle semifinali erano usciti due college della Florida, Miami e Florida Atlantic. Gli Huskies, nomignolo di Connecticut, hanno vinto le sei partite del torneo di oltre 10 punti e con una media di 20. E hanno conquistato il quinto titolo della loro storia. Una storia recente per i risultati cestistici maschili: i 5 successi sono arrivati dal 1999 in poi e senza mai perdere una finale. Il numero di titoli proietta il college di Storrs in un’élite della pallacanestro universitaria statunitense, alla pari di Duke e Indiana. Più in alto si entra nell’Olimpo: 11 di
Ucla (come la Connecticut femminile di
Geno Auriemma), 8 di Kentucky e 6 di North Carolina.
Gli ex L’ultima volta che gli Huskies vinsero il torneo è stata nel 2014. Ad Arlington (Texas) battè Michigan State e il premio di miglior giocatore andò a Shabazz Napier, il playmaker ora a Milano. Ieri Napier ha preferito non parlare per lasciare che i meriti e i riflettori fossero tutti per la squadra di oggi. «Abbiamo il sangue blu? Gli orsi la fanno nei boschi? Certo che abbiamo il sangue blu», ha spiegato in modo anche più esplicito su Twitter aggiungendo: «Sì, ho vinto il mio bracket». A Houston c’erano anche altri ex Huskies che hanno fatto la storia non solo del college: Ray Allen, campione Nba con Boston e Miami di cui Connecticut ha ritirato la maglia numero 34; Emeka Okafor, campione nel 2004 e seconda scelta Nba pochi mesi dopo; Kemba Walker, miglior giocatore delle finali vinte nel 2011 e quattro volte All Star, vestito con maglia UConn e cinque anelli alle dita come i cinque titoli del college. Testimonianze, queste, di quanto profondo sia il legame di appartenenza dei giocatori con le proprie università. Chi c’era ma per ragioni di famiglia è Bill Murray. Il 72enne attore, tra gli altri anche in “Space Jam” con Michael Jordan nel 1996, è il padre di Luke, dal 2021 assistente di Dan Hurley, allenatore della squadra campione. Murray padre con il college ha una storia da film. Nel 1970 lasciò la Regis University di Denver, dove studiava medicina, per possesso di marijuana. Gliela trovarono degli agenti che lo perquisirono all’aeroporto quando sentirono il 20enne Bill scherzare con un amico: «Sai, ho due bombe nella valigia». Nel 2007 ricevette la laurea honoris causa dallo stesso college e andò a ritirarla in calzoncini corti da pigiama dalle mani del presidente, reverendo Michael Sheeran.


 

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