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Gianni Agnelli - Presidente

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Joined: 04-Apr-2006
133504 messaggi
Inviato (modificato)
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Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Torino
Data di nascita: 12.03.1921

Luogo di morte: Torino

Data di morte: 24.01.2003
Ruolo: Presidente

Soprannome: L'Avvocato

 

 

Presidente della Juventus dal 1947 al 1955

 

260 partite - 152 vittorie - 60 pareggi - 48 sconfitte

 

2 scudetti

 

 

 

Giovanni Agnelli, detto Gianni e noto anche come l'Avvocato (Torino, 12 marzo 1921  Torino, 24 gennaio 2003), è stato un imprenditore, politico e militare italiano, principale azionista e amministratore al vertice della FIAT, senatore a vita, nonché ufficiale del Regio Esercito.

Figlio di Edoardo Agnelli e di Virginia Bourbon del Monte dei Principi di San Faustino, era il secondo dei sette figli della coppia.

 

Gianni Agnelli
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Senatore della Repubblica Italiana
Senatore a vita
Durata mandato 1º giugno 1991 –
24 gennaio 2003 (81 anni)
Legislature X, XI, XII, XIII, XIV
Gruppo
parlamentare
Per le autonomie
Tipo nomina Nomina presidenziale di Francesco Cossiga
Sito istituzionale

Sindaco di Villar Perosa
Durata mandato 28 aprile 1945 –
9 giugno 1980
Successore Alberto Castagna

Dati generali
Partito politico Indipendente
Titolo di studio Laurea in Giurisprudenza
Professione

imprenditore

 

 

Biografia

Famiglia

Nato a Torino nella casa di famiglia in corso Oporto (ora corso Matteotti), Gianni Agnelli fu il nipote dell'omonimo senatore Giovanni Agnelli. Il padre Edoardo morì tragicamente in un incidente aereo nel 1935, quando Gianni aveva 14 anni. Ha sposato nel 1953, a Strasburgo, nel castello di Osthoffen, Marella Caracciolo dei Principi di Castagneto dalla quale ha avuto due figli, Edoardo e Margherita.

Gioventù

A Torino frequenta il Liceo classico Massimo d'Azeglio, dove consegue la licenza liceale nel 1938. In quello stesso anno intraprende un viaggio negli Stati Uniti, dove visita New York, Detroit e Los Angeles. Durante il periodo bellico nel 1940 segue il corso per ufficiale di complemento presso la Scuola di Applicazione di Cavalleria di Pinerolo. Con il grado di sottotenente viene arruolato nel 1º Reggimento "Nizza Cavalleria" e inviato con il CSIR come addetto al comando sul fronte russo. Rientrato in Italia alla fine del 1941, nel gennaio 1942 viene aggregato al Reggimento Cavalleggeri di Lodi e assegnato al comando di uno squadrone autoblindo, con il quale viene inviato a Tripoli il 23 novembre 1942, poche settimane prima della conquista di Tripoli da parte dell'Ottava Armata britannica. Partecipa alla Campagna di Tunisia dove è insignito della Croce di guerra al valor militare il 14 febbraio 1943. Su richiesta del nonno viene rimpatriato il successivo 29 aprile, sbarcando in Sicilia.

 

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Gianni Agnelli con suo nonno Giovanni Agnelli Senior nel 1940

 

Durante il periodo passato in Italia, tra il novembre 1941 e il novembre 1942, prosegue gli studi fino a ottenere la laurea in giurisprudenza, presso l'Università di Torino. Dopo l'8 settembre, tenta di rifugiarsi insieme alla sorella Susanna nella tenuta di famiglia posta nella provincia di Arezzo, scortato da un maresciallo dell'esercito tedesco, cui è stata promessa, in compenso, un'automobile nuova. Durante la trasferta la vettura, condotta dal sottufficiale, subisce un grave incidente e il giovane Agnelli, con la gamba destra fratturata, viene ricoverato nel nosocomio del capoluogo toscano, ove il 23 agosto 1944 giungono le truppe alleate. Terminata la lunga degenza, si trasferisce a Roma, arruolato quale ufficiale di collegamento del Corpo Italiano di Liberazione con le truppe alleate.

Nel novembre del 1945 anche la madre viene coinvolta in un incidente automobilistico mortale, nei pressi di Pisa, rimanendone vittima. Appena terminata la seconda guerra mondiale, all'età di 25 anni, diviene presidente della RIV, la società di produzione di cuscinetti a sfere fondata da Roberto Incerti e dal nonno nel 1906: l'incarico però ha una connotazione praticamente solo rappresentativa.

Nello stesso anno viene eletto sindaco di Villar Perosa, un paese ubicato poco dopo Pinerolo lungo la statale del Sestriere. È il paese ove la famiglia risiede d'estate (e da dove la stessa proviene) ed è proprio Villar Perosa la città che ospita anche il primo stabilimento RIV. Non si tratta di un incarico molto impegnativo e Agnelli lo manterrà per quasi trent'anni. Tra la fine del 1945 e l'inizio del 1946 si trova coinvolto, in rappresentanza della famiglia, in complesse trattative fra il CLN, le autorità alleate di occupazione e il governo italiano provvisorio, per la normalizzazione della conduzione della FIAT, della quale la famiglia Agnelli è ancora il principale azionista e il 23 febbraio 1946 firma egli stesso l'accordo che ricostituisce il consiglio di amministrazione della società e ristabilisce Vittorio Valletta, precedentemente estromesso con l'accusa di collaborazionismo con i tedeschi, nella carica di amministratore delegato.

Il dopoguerra

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La villa (detta Il castello) della famiglia Agnelli a Villar Perosa.

 

Al termine del 1946, a quasi un anno dal decesso del nonno, Vittorio Valletta, divenuto dominus indiscusso dell'azienda, ebbe un colloquio con il giovane successore del defunto senatore per decidere delle sorti dell'azienda. Il sessantatreenne manager, pose al nuovo proprietario questo dilemma: «Esistono solo due possibilità: o il presidente della Fiat lo fate voi o lo faccio io», al quale il giovane Agnelli rispose: «Ma di certo voi, professore». Con questa risposta il "professore" si è guadagnato la sua autonomia manageriale e il giovane erede la sua libertà di godersi la giovinezza, seguendo un consiglio che gli avrebbe dato lo stesso nonno: «Prenditi qualche anno di libertà prima di immergerti nelle preoccupazioni dell'azienda». In seguito, comunque, Valletta lamenterà, più volte, l'eccessiva latitanza del principale azionista dall'impegno aziendale.

 

Intanto, già nel 1947, Gianni Agnelli diviene presidente della squadra di calcio che il padre Edoardo aveva portato al ruolo di "prima donna" nel calcio italiano: la Juventus, squadra cui sarà affezionato per tutta la vita. Viaggia in continuazione in tutto il mondo, frequentando i luoghi più mondani d'Europa, le persone più famose del jet-set internazionale: attrici, principi, magnati, uomini politici (i suoi rapporti di amicizia con John Fitzgerald Kennedy, allora Senatore democratico, risalgono a quegli anni come pure la frequentazione dei banchieri David D. Rockefeller e André Meyer della banca d’affari internazionale Lazard, conosciuto attraverso Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia).

 

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Interni di villa Agnelli a Torino (progettata dall'arch. Amedeo Albertini), fotografati da Paolo Monti nel 1961.

 

Intreccia numerose relazioni sentimentali, delle quali solo una, peraltro piuttosto burrascosa, farebbe pensare a un legame stabile: è il rapporto con Pamela Digby (1920 – 1997), già Pamela Digby-Churchill, ex nuora di Winston Churchill, avendone sposato il figlio Randolph. Al termine di questa relazione, nell'estate del 1952, Gianni è vittima di un terribile incidente d'auto: correndo da Torino verso Monte Carlo, si schianta contro un autocarro. Lo estraggono dalle lamiere piuttosto malconcio, la gamba destra è nuovamente, seriamente ferita e per la seconda volta rischia l'amputazione. La gamba sarà operata più volte, ma una complessa protesi gli consentirà di continuare a praticare uno dei suoi sport preferiti: lo sci (e sarà proprio sciando che se la romperà per la terza volta nel 1987). Supera l'incidente abbastanza bene, tuttavia rimarrà leggermente, ma visibilmente, claudicante per tutta la vita.

 

Nel 1953 sposa la principessa Marella Caracciolo di Castagneto, appartenente a un'antica nobile famiglia di origini napoletane. Nel 1959 diviene presidente dell'Istituto Finanziario Industriale (IFI), una società finanziaria pura che è una delle casseforti di famiglia e che assieme all'IFIL, altra cassaforte di famiglia, controllano la Fiat. Diventa inoltre Amministratore Delegato della stessa Fiat nel 1963, una carica che deve condividere con Gaudenzio Bono, un "vallettiano" a tutto tondo, e in ogni caso il timone dell'azienda automobilistica rimane per ora nelle mani del "professore" sempre presidente.

La presidenza della FIAT

Anni sessanta

Il 30 aprile 1966, l'ormai ultraottantenne presidente FIAT Vittorio Valletta propose, quale suo sostituto, il nome di Gianni Agnelli all'Assemblea Generale degli Azionisti, che ne deliberò l'approvazione, restituendo il timone aziendale alla famiglia Agnelli, dopo oltre 20 anni di presidenza Valletta. Il nuovo assetto dirigenziale, naturalmente, teneva conto dell'inesperienza di Agnelli, mantenendo Valletta quale delegato speciale per i programmi produttivi, i rapporti con le maestranze e le iniziative estere, mentre Gaudenzio Bono assumeva le cariche di amministratore delegato unico e direttore generale.

Insediatosi al timone della Fiat all'età di 45 anni, dopo avervi svolto praticamente solo ruoli di rappresentanza, Gianni Agnelli si trovò dinnanzi a due problemi. Il primo riguardava l'esecuzione dell'accordo con l'Unione Sovietica per la costruzione di uno stabilimento presso una cittadina sul Volga (che verrà chiamata Togliatti), per il quale la Fiat doveva fornire all'Autoprominport (l'ente sovietico preposto) lo stabilimento "chiavi in mano" e il know-how per la produzione. Il contratto era stata l'ultima opera di Valletta e la morte di questi, avvenuta nel 1967, rischiava di renderne difficoltosa l'attuazione, ma la gestione non si presentò particolarmente onerosa: i sovietici rispettarono i termini stabiliti e tutto procedette secondo il programma stabilito.

Il secondo problema è assai più grave. Venendo incontro al presidente dell'Alfa Romeo Giuseppe Luraghi, che da anni va predicando l'impossibilità di far quadrare i conti aziendali senza un'adeguata "massa critica" di volumi produttivi (e cogliendo l'occasione di aprire un grosso stabilimento al Sud), il governo italiano ha deciso di finanziare l'Alfa per la costruzione di uno stabilimento nell'Italia meridionale, ove si produca un modello di autovettura di livello medio, nella stessa fascia di mercato, più o meno, della Fiat 128, che verrà lanciata di lì a poco.

Secondo Gianni Agnelli, nell'orticello del mercato italiano dell'auto di fascia bassa e media, concupito già dalle concorrenti europee grazie alla graduale riduzione dei dazi all'interno della CEE, non c'è spazio per un altro concorrente italiano, specialmente se questo può contare sui finanziamenti a carico del contribuente. Ma tutti i tentativi per contrastare a livello politico questo progetto falliscono; la sede designata è Pomigliano d'Arco, un paese a pochi chilometri da Napoli, ove già operano la piccola Alfa Motori Avio, e l'Aerfer, azienda parastatale di medie dimensioni, che produce parti di velivoli commerciali per conto di grosse aziende americane (che verrà poi incorporata in Aeritalia, divenuta successivamente Alenia). Per trovare i quadri tecnici intermedi in numero sufficiente a far funzionare lo stabilimento, la neonata Alfasud non può che rivolgersi alla FIAT, cui sottrae questi personaggi offrendo loro stipendi di entità superiore rispetto a quelli dell'azienda torinese.

Sulla base di uno studio commissionato a una società di consulenza americana, dai primi del 1968 dà il via a una complessa opera di ridisegno del sistema aziendale, affidato soprattutto all’intervento del nuovo Amministratore delegato, il fratello Umberto Agnelli (nato nel 1934). Questi, che sedeva nel Consiglio di amministrazione della Fiat dal 1964, viene da una precedente esperienza di riorganizzazione della consociata francese Simca, all’epoca quarto produttore di automobili sul mercato d’Oltralpe. Rinunciando alla politica industriale di Vittorio Valletta (Terra/mare/cielo), Gianni Agnelli decide di disfarsi di quelle produzioni che richiedono continui investimenti e la cui redditività è precaria e condizionata (non solo sul mercato italiano) da scelte spesso legate a decisioni di carattere politico. Vengono così cedute alla Finmeccanica il 50% della Grandi Motori, detta Divisione Mare, specializzata in motori marini a ciclo Diesel per grosse navi, che sarà trasferita a Trieste con il nome iniziale di Grandi Motori Trieste.

Analogamente si procede con la cosiddetta Fiat Velivoli, specializzata in fabbricazione di aerei, prevalentemente di uso militare, spesso su licenza di grosse aziende estere, che viene aggregata all'Aerfer di Pomigliano d'Arco, nella società a partecipazione statale Aeritalia (divenuta molti anni dopo Alenia). La partecipazione Fiat rimarrà solo un fatto finanziario, poiché il controllo operativo è di Finmeccanica: il restante 50% delle azioni verrà definitivamente alienato da Fiat nel 1975. Così va anche per altre realtà minori.

Nel 1969 la Ferrari cede alla Fiat il controllo della sua casa di auto sportive: il reparto corse resterà gestito per molti anni ancora dall'ing. Ferrari. Il primo febbraio del 1970 viene acquisita dalla famiglia Pesenti, a un prezzo simbolico di un milione di lire, la Lancia, glorioso marchio di auto di prestigio (era detta "la Mercedes italiana") fondata a Torino da Vincenzo Lancia nel 1907, ormai in stato di quasi insolvenza.

 

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Gianni Agnelli

 

Il sogno di Gianni Agnelli è l'internazionalizzazione della FIAT. Due anni dopo l'assunzione della guida della Fiat, Gianni Agnelli concorda con François Michelin, proprietario del pacchetto di controllo della Citroën, che si trova in cattive acque, l'acquisto della partecipazione con l'intenzione di giungere successivamente al controllo totale della casa automobilistica francese.

La sinergia fra i due costruttori europei sembra promettere bene: Citroën è un marchio prestigioso, con buona fama nella produzione di auto di alta gamma, la Fiat ugualmente nelle utilitarie. L'accordo si conclude, al vertice Citroën arrivano uomini Fiat ma ci si mette di traverso l'opposizione di stampo nazionalistico dei gollisti: alla Fiat viene fatto divieto di acquisire la maggioranza delle azioni Citroën. Le incomprensioni fra i tecnici italiani e i tecnici francesi compiono il resto: la Fiat, senza il controllo totale dell'azienda, non può imporre nulla senza accordo con le altre forze nel gioco, può solo investire per ammodernare impianti e strutture.

Alla fine, quattro anni dopo, il sogno s'infrange e Gianni Agnelli dovrà rinunciare alla sua internazionalizzazione, almeno attraverso questa via, e la quota Fiat viene ceduta alla Peugeot. L'Avvocato ripiega, sperimentando altre vie, verso un altro modello di internazionalizzazione che passerà attraverso gli stabilimenti Zastava per la produzione del mod. 128 (Jugoslavia) e Tofaş per la produzione del mod. 124 (Turchia). Già presente sul mercato polacco con la fabbricazione del mod. 125, il 29 ottobre 1971, la Fiat sigla un importante contratto di licenza e collaborazione industriale con la Pol-Mot. Ne segue, presso gli stabilimenti F.S.M. di Tychy, la produzione su larga scala della Fiat 126. Il modello, prodotto alla media di oltre mille vetture al giorno, contribuì notevolmente alla motorizzazione dell'intera Polonia e dei mercati d'oltre cortina. Poco dopo verrà decisa l'avventura di una produzione oltre oceano: creare uno stabilimento in Brasile (Belo Horizonte nello stato di Minas Gerais) ove si produrrà inizialmente la 127, opportunamente modificata per quel mercato (il nome del modello brasiliano sarà 147). L'ambizioso progetto di Giovanni Agnelli, per rendere noto al mondo il marchio FIAT, si realizza nel giro di una decina d'anni con le unità produttive presenti su 4 continenti:

 

  • Europa - Italia (Fiat, Lancia, Autobianchi, Ferrari), Spagna (Seat), Jugoslavia (Zastava), Polonia (F.S.M.).
  • Sud America - Brasile (Automoveis), Argentina (Concorde).
  • Asia - Turchia (Tofas).
  • Africa - Piccole unità produttive in Egitto e Sud Africa.
  •  

Non sono trascorsi che tre anni dal suo insediamento al vertice della FIAT, che Gianni Agnelli deve affrontare un problema piuttosto difficile: il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici (1969). La vertenza procede per tutta la prima metà dell'anno più o meno aspramente rispetto alle volte precedenti, ma all'inizio di settembre le cose cambiano radicalmente ed emergono nuove, inattese forme di sciopero: incomincia quello che verrà subito battezzato autunno caldo.

Iniziano i carrellisti di Mirafiori, Stabilimento Presse: scioperano al di fuori delle direttive del sindacato, sono scioperi improvvisi, mezza giornata o meno per volta, ma l'effetto è paralizzante. Il loro compito è trasportare le parti di carrozzeria appena stampate dalle presse alla catena di montaggio: fermi loro, ferma tutta la produzione. In un primo momento il sindacato disapprova queste forme di protesta spontanee e autonome, poi tenta di farle rientrare nell'alveo della propria iniziativa, agevolato anche dalla posizione dell'Azienda, che vuole un unico interlocutore ufficiale di fronte alle maestranze. Iniziano, così, forme di sciopero del tutto nuove: si entra al mattino alle 8 al lavoro ma dopo venti minuti passano delegati nei vari reparti ad annunciare uno sciopero improvviso che inizierà alle otto e trenta e durerà fino all'ora di pranzo (od analogamente al pomeriggio). Tutto ciò a rotazione: ora in uno stabilimento, ora nell'altro.

Si formano nelle officine cortei (detti "serpentoni") di operai muniti di fischietti e altri strumenti sonori che percorrono i locali invitando i colleghi riluttanti ad astenersi dal lavoro. Quasi sempre invadono anche le Palazzine uffici, rendendo problematiche le condizioni di lavoro per gli impiegati che non vogliono scioperare. Si verificano anche degli episodi di violenza, sui quali l'azienda non interviene, per non inasprire gli animi ed evitare danni alle persone e alle apparecchiature. Questi episodi di violenza, accaduti prevalentemente all'ingresso degli stabilimenti produttivi, sono fomentati da forze estranee all'azienda, come risulta dai verbali redatti dalle forze dell'ordine e dalle pubbliche dichiarazione dell'allora questore di Torino Giuseppe Montesano. Viene rilevata la presenza attiva di esponenti della neonata Lotta Continua e una massiccia presenza di studenti universitari provenienti dalla Sapienza di Roma.

Dal punto di vista del business le cose vanno bene: la crisi economica del 1964 è ormai superata, la richiesta di autovetture è in continuo aumento, tanto che la Fiat non riesce a soddisfarla e i tempi di consegna si allungano. Proprio in quest'autunno entra in funzione lo stabilimento di Rivalta di Torino, ove si provvederà al montaggio della nuova media cilindrata (per quei tempi), la 128, destinata a prendere il posto della famosa 1100 (mod. 103). È un'auto dalla linea moderna e accattivante, il prezzo è contenuto e piace subito, ma per averla bisogna attendere fino a nove mesi.

La vertenza si chiude nel gennaio del 1970 con un nuovo oneroso contratto per le aziende, con concessioni normative consistenti, che incideranno pesantemente sui bilanci futuri. Fra l'altro vengono abolite le differenze territoriali per la determinazione del minimo sindacale del salario (fino a quel momento i salari minimi sono differenziati per provincia, a seconda dell'indice del costo della vita locale elaborato dall'ISTAT) cosicché il neoassunto a Palermo percepirà, a parità d'inquadramento, lo stesso salario di quello assunto a Milano.

Si valuta che la perdita di produzione durante il periodo "caldo" ammonti a oltre 130.000 vetture (ma c'è chi dice molto di più, oltre 270.000: si tratta di vedere entro quali termini temporali viene considerato il periodo "caldo"). Intanto gli effetti dell'apertura dei mercati all'interno della CEE si fa sentire e la concorrenza straniera aumenta la sua penetrazione in Italia.

Anni settanta

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Gianni Agnelli presso lo stabilimento Fiat Mirafiori, Torino 1970 ca

 

Nella prima metà degli anni settanta Gianni Agnelli deve affrontare la prima grossa crisi della Fiat, la più grande forse a partire dalla prima guerra mondiale: l'autofinanziamento non è più possibile (l'investimento brasiliano ha pesato non poco e i primi risultati sono deludenti, le vendite di auto in Italia calano e la concorrenza straniera, grazie alla piena attuazione del Trattato di Roma in materia di barriere doganali nell'Europa, si fa sempre più agguerrita, erodendo alla Fiat quote crescenti di mercato) e la Fiat non può più fare a meno, come è stato fino a quel momento, di ricorrere massicciamente al credito.

Viene assunto in quel periodo un nuovo responsabile della finanza aziendale: Cesare Romiti (autunno del 1974) che raggiungerà nel quasi quarto di secolo di permanenza in Fiat, il massimo vertice. Auspice Romiti, Gianni Agnelli trasforma la Fiat S.p.A. da un'azienda industriale in una holding finanziaria. Da questa dipenderanno tante holding di settore, una per ogni settore produttivo, alle quali saranno sottoposte le rispettive società operative. Il processo dura più di cinque anni e nascono così (citiamo solo quelle di dimensioni maggiori): la Fiat-Allis, settore macchine agricole, l'Iveco, settore veicoli industriali, La Macchine Movimento Terra, la Teksid (fonderie, produzioni metallurgiche e altro). Ultima, ma solo in ordine di tempo, la Fiat Auto (autovetture e veicoli commerciali leggeri).

Separazione secondo il mercato servito e internazionalizzazione. L'avvento di Agnelli al timone della Fiat segna anche una svolta nella politica finanziaria della Fiat: l'Avvocato si avvicina sempre più alla Mediobanca di Enrico Cuccia (forse anche a seguito delle traversie finanziarie della Fiat e ai buoni rapporti che intercorrono fra Romiti e Cuccia) dalla quale il suo predecessore Valletta si era sempre tenuto a una cortese distanza.

 

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Gianni Agnelli con Ciriaco De Mita negli anni settanta; in secondo piano, Cesare Romiti.

 

Nel 1976 accadono due nuovi eventi: la meteora De Benedetti e l'alienazione della SAI. Carlo De Benedetti è un giovane imprenditore rampante: ha rilevato l'azienda del padre, ha acquisito, per poco prezzo e per gradi, alcune aziende operanti nel settore della componentistica auto, che non se la passavano bene, e le ha ristrutturate e razionalizzate inserendole nella sua Gilardini, di cui ha il controllo con il 60% delle azioni. Si avvale di diversi collaboratori e inoltre dal 1974 al 1976 è stato presidente dell'Unione Industriale di Torino.

Conosciuto il personaggio (è stato compagno di scuola del fratello Umberto), Gianni Agnelli gli propone di entrare in Fiat come direttore generale accanto a Romiti. Carlo De Benedetti accetta ma a patto di diventare azionista Fiat, cosicché Gianni Agnelli fa acquistare dalla Fiat la Gilardini (azienda il cui fatturato è prevalentemente costituito dalle forniture alla stessa azienda) e la paga con un pacchetto di azioni Fiat pari a circa il 5% del capitale sociale della medesima. De Benedetti, che si è portato dietro alcuni fedelissimi tra i quali il fratello Franco e l'ingegnere Giorgio Garuzzo, inizia un lavoro di sfoltimento del management aziendale.

Poi, improvvisamente, a fine agosto, decide di andarsene. I motivi di questo dietro-front dopo così poco tempo non sono mai stati spiegati chiaramente. Gianni Agnelli gli ricompra il pacchetto di azioni Fiat allo stesso prezzo di valutazione della Gilardini quando quattro mesi prima fu acquisita dalla Fiat, ove rimarrà. L'altro evento riguarda la Compagnia di assicurazione SAI, di proprietà della famiglia Agnelli. Fondata dal nonno di Gianni negli anni venti per riporci le polizze delle sue aziende e quelle personali, segue lo sviluppo della Fiat giovandosi dell'automatica acquisizione del cliente che acquista a rate l'autovettura con finanziamento SAVA (la società della Fiat che fornisce il credito alla clientela).

La quota di controllo della SAI, che è quotata in borsa, è nel portafoglio di una delle "casseforti di famiglia", l'Istituto Finanziario Industriale (IFI). In questo momento è la terza compagnia italiana per raccolta premi e la prima nel settore delle assicurazioni auto (preponderante di molto rispetto agli altri rami esercitati). Questo pare venga considerato il suo tallone di Achille: le tariffe RC Auto sono bloccate dal Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato da quando è entrata in vigore l'obbligatorietà dell'assicurazione RC per gli autoveicoli; l'inflazione gonfia i costi di riparazione, qualcuno incomincia a pensare che l'attività assicurativa di questo ramo verrà nazionalizzata.

Nel luglio del 1976 in assemblea viene dato un annuncio improvviso: la compagnia è stata venduta al finanziere Raffaele Ursini. Sembra che la vendita, caldamente patrocinata presso l'Avvocato dal management IFI, si sia rivelata improduttiva per il venditore: il ricavato dell'acquisto, cosa già nota in sede di trattative con Ursini, se ne va quasi tutto nel riacquisto della consistente quota di azioni FIAT, ordinarie e privilegiate, che stavano nel portafoglio della Compagnia.

Il blitz dell'Avvocato irrita il fratello Umberto che al momento della firma del contratto di cessione si trova negli USA e, tornato in Italia, si sarebbe trovato di fronte al fatto compiuto. Sulla vendita si scatenano le polemiche (anche se allora non vi era per questi casi l'obbligo di OPA😞 il prezzo di vendita, si dice, è stato troppo basso e nell'entourage Fiat si diffonde il malcontento.

Ironia della sorte, un anno dopo il Ministero concederà agli assicuratori il sospirato aumento delle tariffe (20%), la SAI rifiorirà, se mai fosse appassita, passerà ancora di mano (da Ursini al costruttore d'immobili Salvatore Ligresti) e, come altre compagnie, tornerà a essere nel giro di pochi anni altamente redditizia. La FIAT costituirà poco dopo una compagnia propria l'Augusta Assicurazioni, ma rientrerà di fatto nel business assicurativo solo molti anni dopo, acquistando il pacchetto di maggioranza della Toro Assicurazioni dal fallimento del Banco Ambrosiano.

 

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Sandro Pertini incontra Gianni Agnelli

 

Alla fine del 1976 i problemi finanziari sembrano risolti con la cessione di poco più del 9% del capitale FIAT alla Lafico (Lybian Arab Foreign Investment Company), una banca controllata dal governo libico di Mu'ammar Gheddafi (in dieci anni il socio libico, nel mero ruolo di investitore, arriverà a possedere quasi il 16% del capitale Fiat). La cessione getta un certo sconcerto negli ambienti politici occidentali per le tensioni esistenti tra la Libia di Gheddafi e diversi altri stati, USA in testa.

La crisi si riaffaccia prepotente a fine anni settanta (la quota di mercato della FIAT Auto in Italia, il mercato più importante per l'azienda torinese, è scesa dal quasi 75% del 1968, a meno di due anni dall'esordio di Gianni Agnelli come responsabile attivo dell'azienda, al 51% del 1979, ovvero quasi 25 punti in meno in dieci anni. Nel resto dell'Europa, Spagna esclusa, le cose non sono andate meglio, si passa da un già modesto 6,5% del 1968 al 5,5 del 1979), ma la crisi viene superata grazie alla ottima riuscita di modelli voluti dal nuovo direttore generale di FIAT Auto, Vittorio Ghidella: la Uno e, successivamente, la Croma e la Thema.

Anni ottanta

I conflitti della FIAT di Gianni Agnelli con le forze sindacali italiane rappresentano un esempio delle relazioni tra il mondo degli industriali e i sindacati negli anni '80.

Uno dei più aspri scontri con il mondo sindacale si risolve in favore degli industriali nel 1980, quando uno sciopero generale, che ha portato al blocco della produzione, (il "blocco" dei cancelli FIAT durò ben 35 giorni) viene spezzato dalla cosiddetta "marcia dei quarantamila", (dal - supposto - numero di lavoratori "qualificati" che il 14 ottobre dello stesso anno sfilano a Torino reclamando il diritto "di poter andare a lavorare"). Questa azione segna un punto di svolta e una brusca caduta del potere sino ad allora detenuto dai sindacati degli operai in Italia all'interno della FIAT.

 

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Gianni Agnelli nel suo ufficio di corso Marconi, Torino 1984

 

Si tratta di un periodo in cui le cose vanno abbastanza bene; l'azienda, grazie al successo ottenuto con i nuovi modelli di cui si è detto e alla riduzione dei costi di produzione ottenuta con una forte spinta all'automazione dei processi produttivi (robotizzazione) che la porta a primeggiare nel mondo in questo campo, produce nuovamente buoni utili per i suoi azionisti e assume anche nuova mano d'opera. A metà degli anni ottanta inizia una trattativa di accordo societario con la Ford Europa ma poi, a trattative già avanzate, l'accordo sfuma (ottobre 1985).

Poco dopo Gianni Agnelli strappa proprio alla Ford l'acquisto dall'IRI dell'Alfa Romeo, che il governo italiano ha deciso di vendere. Le offerte dei due contendenti comprendono un corrispettivo a titolo di acquisto più impegni finanziari successivi nella nuova realtà produttiva. In effetti il confronto fra le due offerte non è facile poiché, al di là del mero corrispettivo di acquisto, si inseriscono altri fattori quali: le modalità di pagamento di tale corrispettivo, gli impegni a mantenere i livelli occupazionali dell'Alfa, l'ammontare degli investimenti che i due acquirenti promettono di fare nella azienda acquisita. Queste complessità favoriscono il fiorire di numerose polemiche.

 

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Gianni Agnelli nel 1986 a Venezia, in occasione dell'inaugurazione del nuovo Palazzo Grassi.

 

Nell'autunno si risolve poi un problema già vivo da qualche anno: la presenza di una banca dello stato libico nella compagine azionaria. Tale presenza ha già dato luogo a numerosi problemi alla Fiat per i rapporti che il gruppo tiene con numerose società ed enti statunitensi, arrivando a essere causa di rifiuto di acquisto di forniture di aziende del gruppo da parte di enti federali americani o di società private, le quali però lavorano per la Difesa statunitense. Proprio nella primavera la tensione giunge al culmine: il 15 aprile 1986 uno stormo di cacciabombardieri americani attacca una base navale libica presso Bengasi e la residenza dello stesso Gheddafi vicino a Tripoli (Operazione El Dorado Canyon), in ritorsione a una serie di attentati contro basi americane e luoghi frequentati da americani, la cui responsabilità viene attribuita dall'amministrazione USA al governo libico. Poche ore dopo due missili libici cadono non lontano dalle coste dell'isola di Lampedusa. Dopo una trattativa durata qualche mese con i rappresentanti della banca libica la quota Fiat in mano ad essa viene riacquistata da una delle "casseforti di famiglia", l'IFIL (settembre 1986). L'operazione, studiata da Agnelli e Romiti con Enrico Cuccia, che vede coinvolte sia Mediobanca che la Deutsche Bank, è una manovra finanziaria complicata, che nel complesso riesce ma solleva molte critiche.

Nel 1987 Gianni Agnelli blinda il controllo della Fiat da parte della famiglia costituendo la Società in accomandita per azioni Giovanni Agnelli, nella quale confluiscono le partecipazioni degli ormai numerosissimi componenti della famiglia. Questa "tecnica" verrà presto utilizzata da altri industriali. Inspiegabilmente, alla fine del 1988, l'artefice della potente ripresa dell'azienda sui mercati italiano ed europeo, Vittorio Ghidella, viene bruscamente allontanato dalla Fiat dopo essere stato sugli scudi per tanto tempo. Due anni prima lo stesso Gianni Agnelli, entusiasta dei risultati ottenuti da Ghidella, l'aveva pubblicamente indicato come il futuro successore di Cesare Romiti. Intanto incomincia a pesare anche in Italia la concorrenza di avversari temibilissimi: i giapponesi.

Anni 2000

Al principio degli anni 2000, Gianni Agnelli, convinto che la Fiat non ce la farà da sola ad affrontare la sfida del mercato mondiale (fra il 1990 e il 2001 la quota di mercato FIAT in Italia si è ridotta da circa il 53% a circa il 35% e in Europa da poco più del 14% a meno del 10%), apre agli americani della General Motors (GM), con i quali conclude un'intesa: la grande azienda statunitense acquista il 20% della Fiat Auto pagandolo con azioni proprie (un aumento di capitale riservato alla Fiat) che valgono in totale circa il 5% dell'intero capitale GM e la Fiat ottiene una clausola put, il diritto esercitabile in questo caso dopo due anni ed entro gli otto successivi, di cedere a GM il rimanente 80% della Fiat Auto a un prezzo da determinarsi con certi criteri predefiniti e che GM sarà obbligata ad acquistare. Sono previste inoltre fusioni fra società costituite da stabilimenti Fiat Auto e stabilimenti Opel, la consociata europea di GM, con sede in Germania.

 

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Funerale di Gianni Agnelli al Duomo di Torino, 26 gennaio 2003

 

L'accordo si rompe cinque anni dopo (sia FIAT che GM si trovano in grosse difficoltà) con un risultato opposto a quanto ipotizzato originariamente: non è la Fiat Auto che viene interamente ceduta a GM, bensì è GM che paga per evitare l'esercizio del diritto di cessione (clausola put) da parte Fiat, cedendo a quest'ultima anche le quote GM di Fiat Auto. Le società operative miste, già costituite e operanti, vengono sciolte e ognuno si riprende la sua parte, anche se GM mantiene i diritti di produzione dei motori MultiJet, che saranno montati su tutta la gamma GM e costruiti in un apposito stabilimento GM-Powertrain a Tychy, in Polonia. La crisi economica del settore auto del Gruppo Fiat trova Agnelli già in lotta contro il tumore ed egli può partecipare ormai solo in maniera limitata allo svolgersi degli eventi.

La morte

Il 24 gennaio 2003 Gianni Agnelli muore, all'età di 81 anni, a Torino nella sua storica residenza collinare Villa Frescòt (al confine con Pecetto Torinese) per carcinoma della prostata. La camera ardente viene allestita nella Pinacoteca del Lingotto, secondo il cerimoniale del Senato. Il funerale, trasmesso in diretta su Rai 1, si svolge nel Duomo di Torino, seguito da un'enorme folla. La moglie, con una lettera aperta al direttore del quotidiano La Stampa ringrazierà poi tutte le figure nazionali e internazionali e tutti i cittadini presenti. È sepolto nella monumentale cappella di famiglia presso il piccolo cimitero di Villar Perosa.

Altri interessi

Circoli

Gianni Agnelli era socio di vari circoli aristocratici, come il Circolo della Caccia a Roma, il Knickerbocker Club di New York, e il Yacht Club Costa Smeralda di Porto Rotondo .

Il calcio

«Io considero di essere stato per il passato... non mi piace la parola "mecenate", infine un supporter della Juventus che ha avuto la possibilità d'aiutarla.»

(Gianni Agnelli, 1963)

 

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Gianni Agnelli nel 1972, a colloquio con alcuni giocatori della sua Juventus.

 

La figura di Gianni Agnelli fu anche intimamente legata alla storia della Juventus, la squadra di calcio del capoluogo piemontese di cui fu nominato presidente dal 1947 al 1954. La sua attività presidenziale ebbe un impatto all'interno del club simile a quello del padre Edoardo un ventennio prima, acquistando giocatori di rilievo quali Giampiero Boniperti, John Hansen e Karl Åge Præst, decisivi per la conquista di due campionati di Serie A nel 1950 e 1952, i primi vinti dalla vecchia Signora in quindici anni, nonché per la trasformazione subita a livello societario, durante la sua gestione, da un club privato facente parte della casa automobilistica rivale Cisitalia, presieduta da Piero Dusio, a un'azienda indipendente con capitale privato a responsabilità limitata.

 

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Gianni Agnelli nel 1995 insieme al tecnico juventino Marcello Lippi

 

Dopo l'attività presidenziale a fronte del club rimase legato ai colori bianconeri svolgendo diverse attività dirigenziali in qualità di presidente onorario con cui poté mantenere la sua influenza a fronte il club fino al 1994, anno in cui consegnò tali attività al suo fratello Umberto, permettendo ai bianconeri di ottenere altri dieci titoli di campione d'Italia, quattro coppe nazionali, una Coppa Intercontinentale, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, tre Coppe UEFA e una Supercoppa europea, per un totale di 23 trofei ufficiali in 48 anni; facendone una delle personalità più importanti nella storia dello sport. Le sue quotidiane telefonate delle 6 del mattino al celebre capitano della squadra prima e a sua volta presidente poi, Giampiero Boniperti, effettuate da dovunque fosse, sono leggendarie.

Nel 2000 fu nominato presidente del comitato d'onore di Torino 2006 e acclamato membro onorario del CIO, cariche che ricoprì fino alla morte.

L'editoria

Gianni Agnelli fu presente anche nell'editoria, sia pure attraverso la Fiat. Il 100% del quotidiano La Stampa era, fin dal 1926, di proprietà della Fiat e lo è tuttora. Anche il Corriere della Sera lo fu per un terzo del capitale dal 1973 al 1974 quando Gianni Agnelli decise di cedere la partecipazione. Ci rientrerà dieci anni dopo acquistando, attraverso la Gemina, società finanziaria collegata Fiat, poco più del 46% della Rizzoli, nel corso di una operazione di "salvataggio" della società editrice, che in quel momento era piuttosto malandata.

Confindustria

Nel 1974 Gianni Agnelli fu eletto presidente della Confindustria, il sindacato degli industriali. La sua politica fu una sorta di appeasement verso i sindacati nella speranza che l'asprezza delle lotte si mitigasse e fosse possibile così riprendere lo slancio produttivo. L'interlocutore privilegiato divenne Luciano Lama, segretario generale della CGIL e responsabile della politica dei tre sindacati principali (la cosiddetta "triplice", cioè CGIL, CISL e UIL).

L'effetto principale fu l'accordo sulla cosiddetta scala mobile, il meccanismo di indicizzazione dei salari al costo della vita. L'accordo fu trovato, il meccanismo precedente fu modificato e fu anche abolita la differenziazione fra categorie: lo scatto di contingenza (importo mensile lordo da corrispondere in più a ogni punto di incremento del costo della vita) diveniva uguale per tutti, dal semplice manovale allo specialista, al quadro impiegatizio della categoria più alta prima della dirigenza.

Agnelli lasciò la presidenza della Confindustria nel 1976: il suo operato fu successivamente fortemente criticato (l'accusa era quella di aver fatto delle concessioni troppo ampie, incompatibili con la situazione economica e a lungo termine dannose anche per le maestranze, in quanto nel meccanismo di adeguamento, si celerebbe un fattore moltiplicativo dell'inflazione). In compenso la conflittualità all'interno delle fabbriche non si ridusse, anzi si accrebbe e si aggravò, come dimostrarono i fatti negli anni subito a seguire.

La presenza nelle istituzioni

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Gianni Agnelli nel 1983

 

Il primo incarico di natura pubblica lo ricevette nel 1961 quando, in occasione dei festeggiamenti per il primo centenario dell'unità d'Italia, fu nominato presidente dell'Esposizione internazionale del lavoro. All'inizio del 1976 l'allora segretario del Partito Repubblicano Ugo La Malfa offrì a Gianni Agnelli una candidatura nelle liste del partito per le elezioni politiche che si sarebbero svolte in giugno e a un primo momento parve che Gianni Agnelli avesse una certa intenzione di aderire alla proposta, ma poi declinò l'invito, avendo nel frattempo il fratello Umberto accettata la candidatura nella Democrazia Cristiana (Umberto verrà poi eletto senatore nelle file della DC).

Nel 1991 venne nominato senatore a vita dall'allora presidente della Repubblica Italiana Francesco Cossiga: Agnelli si iscrisse al Gruppo per le Autonomie e venne ammesso alla Commissione Difesa del senato. Nel 1994 fu tra i tre senatori a vita (insieme a Giovanni Leone e allo stesso Cossiga) a votare la fiducia al primo governo Berlusconi nonostante avesse dichiarato, quando Berlusconi stava per entrare in politica: «Se vince, avrà vinto un imprenditore, se perde avrà perso Berlusconi». (Per la prima volta nella storia d'Italia comunque quei parlamentari di nomina presidenziale o di diritto furono decisivi per la fiducia a un esecutivo). Quando però nel 1998 cadde il governo Prodi I e fu nominato premier Massimo D'Alema, il primo post-comunista, fece scalpore il suo voto a favore della fiducia; come ebbe a spiegare alla stampa: «...oggi in Italia un governo di sinistra è l'unico che possa fare politiche di destra».

Vita privata

Nonostante le apparenze di uomo composto, Gianni fu molto disinvolto nelle sue relazioni. Come riportato da un documentario americano del 2017, prodotto dalla rete TV HBO, presentato al festival del cinema di Venezia e da molte pagine web, godendo di un indiscusso fascino, Gianni si divertiva molto con relazioni ed avventure galanti, che consumava nelle sue numerose garçonnière.

Tra le tante sue donne si ricordano le più famose, come Anita Ekberg, Dalila Di Lazzaro e persino con Jacqueline Kennedy. Alcune di queste sono state rivelate dalle stesse interessate, magari dopo la sua morte; altre informazioni e foto sono state soffocate sul nascere, da familiari e da illustri collaboratori.

Gianni amava molto anche correre con tutti i mezzi e particolarmente in automobile, ignorando i limiti di velocità, con conseguenze a volte gravi, tra cui il sopra citato incidente del 1952, che gli compromise la gamba e nel quale era con una delle sue conquiste.

Onorificenze

Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
  — 27 dicembre 1967
Cavaliere del lavoro - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere del lavoro
  «Laureatosi in giurisprudenza presso l'Università di Torino, partecipò alla seconda Guerra Mondiale meritandosi al termine delle ostilità la croce di guerra al V.M. Dopo la parentesi bellica, assunse il suo posto di responsabilità alla Fiat. Nel 1949 fu nominato Vice Presidente, nel 1964 Amministratore Delegato e infine nel 1966, presidente della Società. Sotto la Presidenza di Giovanni Agnelli la Fiat ha realizzato la sua trasformazione in società multinazionale sviluppando le proprie attività anche in nuovi campi fino ad assumere l'assetto di "holding" operante in ben undici diversi settori dell'industria meccanica. Dal maggio 1974 al giugno 1976, ha ricoperto la carica di Presidente della Confederazione Generale dell'Industria Italiana.»
— 1977
Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte
  «Mecenate»
— 2 giugno 1987
Croce di guerra al valor militare - nastrino per uniforme ordinaria Croce di guerra al valor militare
  «Comandante di coppia di autoblindo in azione di ricognizione, ripetutamente mitragliata da bassa quota da numerosi apparecchi nemici reagiva tenacemente, continuando nell'azione malgrado che il suo mezzo fosse stato colpito ed immobilizzato. Rientrato alla base ne ripartiva per continuare la missione, raggiungendo per primo e interrompendo una importante rotabile.»
— Gebel Majoura (Tunisia) 13 febbraio 1943
Croce al merito di guerra - nastrino per uniforme ordinaria Croce al merito di guerra
   
Medaglia commemorativa del periodo bellico 1940–43 - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia commemorativa del periodo bellico 1940–43
   

Ascendenza

      Genitori     Nonni     Bisnonni     Trisnonni
                  Edoardo Agnelli     Giuseppe Francesco Agnelli  
   
    Maria Maggia  
Giovanni Agnelli    
    Aniceta Frisetti Giovanni Frisetti  
     
    Anna Lavista  
Edoardo Agnelli    
    Leopoldo Francesco Primo Boselli Giuseppe Boselli  
     
    Maddalena Lampugnani  
Clara Boselli    
    Maddalena Lampugnani Luigi Lampugnani  
     
    Maria Sanpietro  
Gianni Agnelli    
  Ranieri Bourbon del Monte, III principe di San Faustino Francesco Bourbon del Monte, marchese di Monte Santa Maria  
     
    Carolina Scarampi di Pruney  
Carlo Bourbon del Monte, IV principe di San Faustino    
    Maria Francesca Massimo Vittorio Emanuele Camillo IX Massimo, II principe di Arsoli  
     
    Maria Giacinta Della Porta Rodiani  
Virginia Bourbon del Monte    
    George W. Campbell Jr. George W. Campbell  
     
    Harriett Campbell  
Jane Allen Campbell    
    Virginia Watson Alexander Watson

Eredità

La documentazione prodotta da Gianni Agnelli durante il periodo della sua attività nell'azienda di famiglia (1966-2003) è conservata nel fondo Fiat dell'Archivio storico Fiat.

 

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Las mujeres de Gianni Agnelli, el último rey sin corona de Italia | Vanity  Fair

 

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Juventus Logo 3D" Poster by StepupDesign | RedbubbleGIANNI AGNELLI

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«La Juve è per me l’amore di una vita intera, motivo di gioia e orgoglio, ma anche di delusione e frustrazione, comunque emozioni forti, come può dare una vera e infinita storia d’amore. La Juventus è la compagna della mia vita, soprattutto un’emozione. Accade quando vedo entrare quelle maglie in campo. Mi emoziono persino quando leggo sul giornale la lettera J in qualche titolo. Subito penso alla Juve».
 
GIANNI ARMAND-PILON, DA “LA STAMPA” DEL 24 GENNAIO 2003
Giovanni Agnelli è morto, a 81 anni, nella sua villa sulla collina di Torino. Si è spento in una mattina gelida di fine gennaio, poche ore dopo avere ricevuto l’estrema unzione dal cardinale Severino Poletto. Il presidente onorario della Fiat, nipote del fondatore dell’azienda che ha fatto dell’Italia un Paese industriale, aveva accanto la moglie Marella, la figlia Margherita e il nipote John Elkann. La notizia si è diffusa in città pochi minuti prima che iniziasse la riunione dell’accomandita di famiglia. Il primo ad arrivare è stato il presidente della Fiat, Paolo Fresco, seguito da Egon Von Furstenberg, Pio Teodorani Fabbri, Maria Sole Agnelli, John Elkann, Andrea Agnelli e Tiziana Nasi. Susanna Agnelli, visibilmente affranta, non ha rilasciato dichiarazioni. «Vi ringrazio», ha invece detto ai cronisti coprendosi il volto con una borsetta. Margherita Agnelli, figlia del senatore a vita, arrivando per ultima e lasciando per prima l’assemblea.
Otto mesi fa – maggio 2002 – era stato lo stesso Agnelli ad annunciare che andava negli Stati Uniti a curare un male alla prostata che lo tormentava da tempo. Una scelta, quella di rendere pubblica la malattia, che andava contro i suoi desideri e il suo stesso stile. Ma una scelta necessaria, quasi obbligata, «per mettere a tacere voci e speculazioni di borsa sulla Fiat» come aveva spiegato in un’intervista. «Non posso accettare che un mio problema personale si ripercuota sugli azionisti, sull’azienda e su tutto ciò che si muove attorno a noi». L’azienda era tutta la sua vita, difenderla dagli attacchi il suo primo pensiero. E quindi; «Ho deciso di agire con la massima trasparenza».
Era partito per un primo ciclo di cure a New York a ridosso dell’assemblea Fiat, e Dio solo sa quanto gli era costato dover rinunciare a quell’appuntamento. Per la prima volta dopo 60 anni, i lavori dell’assemblea convocata per il 14 maggio 2002 si sono aperti senza l’Avvocato fisicamente presente, a illustrare le cifre dell’azienda. Agnelli aveva seguito lo stesso il susseguirsi degli interventi, collegato a Torino dalla sua abitazione affacciata su Park Avenue. Via telefono, gli era arrivata l’eco metallica del lungo applauso che si era levato dopo le parole del presidente Paolo Fresco, che in apertura gli augurava di guarire presto, e in fretta di tornare a Torino, per riprendere in mano la guida dell’azienda di famiglia.
Era rientrato un mese dopo – 4 giugno – in anticipo sulle previsioni. La notizia della fine del ciclo di terapia era stata data da un portavoce del Gruppo a Stupinigi, dove quel giorno si presentavano due nuovi modelli di casa Lancia, la Phedra e la Thesis. E la conferma di quanto il mercato guardasse con attenzione alle condizioni di salute del presidente onorario Fiat era arrivato praticamente in tempo reale dalla borsa di Milano, dove il titolo Fiat aveva subito recuperato un punto.
Dopo l’estate trascorsa tra Villa Frescot e la residenza di Villar Perosa, il 20 settembre Giovanni Agnelli era intervenuto all’inaugurazione della Pinacoteca che porta il suo nome e quella della moglie Marella, all’interno dello «scrigno» progettato dall’architetto Renzo Piano sul tetto della vecchia fabbrica Fiat, al Lingotto. Qui, tra i capolavori del Canaletto e di Picasso (un dono lasciato alla città perché «mi sentivo in colpa, voglio proprio usare questa parola, verso Torino, verso la mia città, che mi ha dato tanto»), l’incontro con il presidente della Repubblica Ciampi, la moglie Franca, il presidente del Senato Pera, il ministro per i Beni culturali Urbani e l’amico Kissinger. Venti minuti passati a parlare di economia, pittura e calcio, nessun giornalista ammesso, nessuna telecamera, solo un fotografo per la foto ufficiale pubblicata il giorno dopo su tutti i giornali. L’ultima immagine di Giovanni Agnelli mostra un uomo tirato ma non sofferente, elegante in abito grigio, camicia bianca e cravatta scura, su uno sfondo di piante sempreverdi.
Sembrava che la malattia fosse, se non vinta, almeno sotto controllo. E invece, due mesi dopo – siamo allo scorso novembre – ecco la notizia di un secondo viaggio a New York per un nuovo ciclo di cure. Poi il ritorno a casa, al lavoro per l’azienda di famiglia nonostante un’autonomia sempre più ridotta.
Ieri, la resa davanti al male. Alle 20, la famiglia ha chiamato il cardinale Poletto pregandolo di salire a dare l’estrema unzione all’Avvocato. Ieri mattina alle 8,30 la notizia, diffusa con un comunicato dalla famiglia: «Giovanni Agnelli è spirato, nella sua casa torinese. La camera ardente sarà allestita al Lingotto e i funerali si svolgeranno a Villar Perosa in forma strettamente privata».
 
IGOR MAN, DA “LA STAMPA” DEL 25 GENNAIO 2003
E così sia, Giovanni (Gianni) Agnelli, detto l’Avvocato. Sopravvive allo strazio fisico il sorriso antico del vecchio marinaio, la curva amara delle labbra s’è fatta paziente, distesa. Dio con una mano dà, con l’altra leva: e accade che la morte asciughi la sofferenza, prima che possa umiliare troppo l’uomo. Dice il Salmo: «Tenero e pietoso è il Signore / lento all’ira e grande nella benignità (...). Come il padre è tenero coi suoi figli / così il Signore è tenero verso coloro che credono in Lui». Questo che cito, il Salmo 103-3, era molto caro a Edoardo Agnelli, il figlio-bambino dell’Avvocato e di Donna Marella, la Principessa Caracciolo, moglie infinitamente paziente di Gianni Agnelli, madre dolorosa. A chi scrive riesce difficile, in questo momento, mettere ordine nel tumulto dei sentimenti.
Era, fu, un Potente ma non dimenticò mai i doveri del gentiluomo. Consapevole d’essere uno degli «Imperatori del Mondo Industriale», non trascurò la lezione di suo Nonno-Fiat: «Gianni, l’educazione è tutto. Non dimenticare mai le buone maniere». La sua gentilezza era, dunque, una divisa che indossava notte e giorno?, gli chiesi una volta. Rispose che se l’era domandato spesso anche lui concludendo che, buone maniere o no, il segreto stava nel sapersi dominare, nel temperare l’arroganza. «So d’esserlo, arrogante, e me ne dolgo sicché capita che magari invece d’un cicchetto sembra ch’io elogi chi ha fatto una cappellata. E in questo caso chi è intelligente capisce e incassa mentre il cretino (l’Avvocato arrotava tremendamente la R quando diceva cre-ti-no) se ne va tutto contento, tranne a realizzare dopo il disastro». Pensa di avere molti nemici?, gli domandai una delle ultime volte che l’ho visto al Lingotto, diciamo prima della Malattia. «Certamente», rispose, subito aggiungendo con un sorriso divertito: «Ma qualche amico ce l’ho e me lo tengo caro». Henry Kissinger è stato un amico, forse il primo amico dell’Avvocato e certamente lo era quell’ignoto marinaio al centro d’un accadimento che racconterò perché dà la misura di chi fosse, e come fosse, il Personaggio.
L’Avvocato era un uomo impaziente, facile ad annoiarsi. Aveva un solo aggettivo, lui che parlava veloce e incisivo, elegante. «Divertente». Tutto quello che andava bene: una partita di calcio, un articolo, un libro, un’operazione finanziaria – se meritava, appunto, il suo interessamento, era «divertente». Ma quest’unico aggettivo – «divertente» – non è che ricorresse sempre nel suo discorso. Era molto esigente, l’Avvocato e questo si può capire, e spesso divertente quando non affascinante (allorché parlava della sua esperienza di soldato nell’ultima guerra) ma non avrei mai immaginato che potesse risultare «noioso». Sua figlia Margherita, sì la pittrice che riesce a «dipingere in russo» Il Piccolo Principe, mi disse un giorno che «Papà come genitore è piuttosto noioso, sicché quando siamo insieme, a famiglie riunite, cerchiamo di portare il discorso sul giornale, su di lei, sulle sue avventure che tanto interessano papà». E cosa dice di me? «Divertente», rispose con un sorriso terribilmente simile a quello di suo padre. «Papà dice che lei è divertente». Coi figli, dunque, era «noioso». E tuttavia li amava. Oh come li amava: di Margherita ammirava non tanto il «talento d’artista» («dovrebbe solo organizzare meglio il suo lavoro, forse», diceva) quanto il carattere, la fantasia. «È come una matrioska all’incontrarlo», mi disse di lei quando fece una mostra – presentata da monsignor Ravasi a Milano. Sarebbe a dare? «Alla fine, leva leva, rimane la bambola più grande. Appunto, una matrioska in ordine inverso». Stimava dunque sua figlia Margherita, l’Avvocato. Ma con Edoardo, con suo figlio Edoardo quali erano, furono, i rapporti? «Nec tecum nec sine te vivere possum»: potrebbe essere questa la risposta giusta a un interrogativo crudele. Li univa, padre e figlio, una affettuosa incompatibilità di carattere, se così può dirsi. L’Avvocato mi chiese un giorno, or è tant’anni, di ricevere suo figlio: «Ha molti interessi, forse troppo, lo attira l’Oriente in senso lato, quelle religioni ama studiarle ma temo faccia un po’ di confusione, le dispiace incontrarlo?». Venne a casa mia, ci vedemmo ancora una volta in via XXIV Maggio, e di nuovo in occasione d’una diretta televisiva su Khomeini eccetera. Ricordo in particolare un incontro a Roma, nel vasto living di casa Agnelli, dominato dal nudo castamente sensuale di Modigliani. L’allora giovanissimo Edoardo era con il suo amico Almagià. Non aveva letto il Corano se non a spizzichi e bocconi sicché gli consigliai una bella edizione francese e, ovviamente, l’opera del Busani.
Edoardo aveva una intelligenza rapace ma spesso dava l’impressione di straniarsi dalla realtà per costruire mentalmente una sorta di «utopia personale rivoluzionaria», come ebbe a dire un amico comune, Enrico Becchi, il giovine ma già grande costruttore torinese morto pilotando un vecchio Catalina trasformato in aereo-anfibio. Al funerale di Enrico, Edoardo era accanto a sua madre Marella. All’uscita, qualcuno mi strinse il braccio. Era Edoardo: «Lo sapeva che Enrico le voleva molto bene? Anch’io gliene volevo», disse asciugandosi gli occhi, «e ho pregato per lui, insieme con mia mamma. Mi scusi ma debbo correre da lei, da mia madre, è proprio addolorata». Dal modo con cui Edoardo disse: «debbo correre da lei», sentii che portava a sua madre un amore sconfinato, di quelli che si provano pei genitori soltanto quando si è bambini.
Col padre era più difficile. «Non vanno d’accordo», dicevano. Banalmente, poiché non «andar d’accordo» è un conto, amarsi un altro. E i due, Gianni e Edoardo, si amavano. Si scontravano in un clima affatto piemontese ma guai a chi incautamente criticava il padre cercando di arruffianarsi il figlio: questi lo zittiva con furore. Di Edoardo con l’Avvocato abbiamo parlato una volta sola: io ho «spiegato» al padre quanto suo figlio, a conti fatti, gli somigliasse: era, forse, Edoardo, l’altra metà di Gianni Agnelli, quello che diceva cose che il Monarca-Fiat non poteva né doveva dire – così com’è nel destino dei leaders. E qui debbo dire che l’Avvocato ha cominciato a morire (giorno dopo giorno, lentissimamente ma inesorabilmente) il mattino in cui Edoardo tirò lo zip, ghigliottinando la sua giovine vita agra. Educato a dominare ogni pena, sia fisica che spirituale, l’Avvocato riuscì a non far pesare il suo stravolgimento interiore a chi gli stava intorno per lavoro, per usuale frequentazione. Pochi giorni erano passati dalla tragedia quando, insieme a Donna Marella, non volle mancare al premio Pannunzio, assegnato fra l’altro a un giornalista ch’egli apprezzava e non poco: Paolo Mieli. Lui, l’Avvocato, sembrava esser diventato di giada, lei. Donna Marella, era già quella «addolorata» che oggi somma il distacco dal suo compagno che lei sola sa «chi» veramente fosse, alla mutilazione subita con la morte di Edoardo. Ora, Donna Marella, stringe le mani ai visitatori, amici e conoscenti, e sul suo viso tatuato dalla pena il ricordo sovrappone i lineamenti modiglianeschi d’una fanciulla gaia, ricca di interessi artistici. Lei, giovanissima principessa Caracciolo, il cui padre, presidente dell’Aci, accompagnavo spesso dall’ufficio di via Marsala (vi andavo a prendere l’aperitivo sotto l’occhio attento di Enzo de Bernart) alla Lungarina dove, appunto, abitavano i Caracciolo. Come sorrideva bene Donna Marella, allora. Un giorno la marchesa Sant’Angelo mi disse che li aveva fatti incontrare: l’Avvocato e la Principessa «due giovani da romanzo», disse: «Sarà il matrimonio del secolo».
Non so se lo sia stato, ed ha poca importanza oramai: so che niente e nessuno è riuscito a togliere la regalità a Donna Marella. Così come so che a soffrire terribilmente sarà Susanna Agnelli, la sorella. Un giorno ch’eravamo nel living a prendere l’aperitivo, ed era appena passato come un cordiale uragano Mario d’Urso, vidi d’un tratto l’Avvocato tendere l’orecchio e, poi, con un sorriso estatico sussurrare: «È lei». Lei era Suni, la sorella cara, la confidente, la Persona con cui aveva vissuto momenti terribili, dolorosi, sempre temperati dall’ironia, dal bon mot. Si abbracciarono come se si vedessero dopo tanto tempo, Suni e l’Avvocato si volevano bene sul serio, basta del resto leggere quel libro per molti versi straordinario ch’è Vestivamo alla marinara. Si volevano bene assolutamente, e tuttavia quando sua sorella fu Ministro degli Esteri (atipico ministro ma audace e capace) Gianni spesso polemizzò con lei.
Quante se ne sono dette sui rapporti fra Gianni e Umberto, fra l’Avvocato e il Dottore. Io non oso dar giudizi non fosse altro perché non ero un «intimo di Casa Agnelli», ci mancherebbe. Ma in questo momento difficile – sul piano dei sentimenti, sul piano della realtà industriale – posso dar testimonianza del rapporto forte tra i due fratelli. Una volta che avevo un appuntamento con il Dottore, vidi, prima d’incontrarlo in Corso Matteotti, l’Avvocato: al Lingotto. Accompagnandomi all’ascensore (camminava spedito allora, ancorché caracollando) disse, come se parlasse a se stesso: «Non è facile, me ne rendo conto, essere mio fratello. Col mio caratteraccio non capisco, a volte, come faccia a sopportarmi, Umberto. Noi gli dobbiamo molto come... ditta, come famiglia. La morte giovane di Giovannino non ha piegato la sua determinazione. Il suo genio finanziario è un grosso valore aggiunto», concluse. Naturalmente mi guardai bene dal riferire questo rapido discorso a Umberto Agnelli, ma ora è diverso; ora l’Avvocato non c’è più e ogni remora cade di fronte alla verità. E la verità parla di un uomo genialmente contraddittorio, che di certo intuì il precipitare del Destino ma volle esorcizzare l’intuizione con l’indifferenza, con la preghiera (clandestina).
Proprio l’ultima volta che l’ho visto, non so come il discorso cadde su Cesare Romiti. «Cosa vuole che le dica – disse l’Avvocato –, più passa il tempo, più mi convinco che a quell’uomo in definitiva io voglio bene. Ha fatto tanto per noi, per Fiat, per il lavoro. Quando lo vede, glielo dica». Non gliel’ho mai detto ma adesso tutto va detto: è il modo migliore, penso, per chi lo amò, di onorare il Principe. Che aveva una etica dell’amicizia tutta particolare.
Avevamo stabilito che non mi chiamasse, se non in casi urgenti, prima delle 8 del mattino né io avrei potuto telefonargli dopo le 10 della sera. Ma un mattino (ero a Sabaudia) mi telefonò alle 5 allarmando mia moglie (con la quale poi si scusò con molto spirito), facendomi prendere un mezzo accidente: «Dovremo spostare di un po’ l’appuntamento. Dovevamo vederci alle 9 in via XXFV Maggio, le dispiace rinviare diciamo alle undici?». Roger, ricevuto – risposi, come sempre.
Alle undici ero dunque a casa sua, parlammo nel piccolo salotto zeppo di giornali stranieri e italiani, sorseggiando io la solita acqua minerale, l’Avvocato l’abituale tè lunghissimo, bollente. Indossava un paio di jeans molto vissuti e una camicia di lino vecchia di taglio eppur sontuosa. Al momento del congedo mi disse tra l’irritato e il sorpreso: «Non vuol sapere perché ho spostato l’appuntamento?». Avvocato, se non me lo dice lei, per me va bene lo stesso: immagino siano fatti suoi, risposi. «Vede – disse – è morto un mio vecchio amico marinaio; un caro amico. È morto in Corsica, sono andato a salutarlo».
Un vecchio marinaio?, dissi: come quello della famosa ballata di Coleridge? (SamuelTaylor Coleridge: poeta, filosofo, 1772-1834). E qui l’Avvocato, con mia sorpresa, prese a recitare i versi della Ballata del Vecchio Marinaio. In inglese, in quell’inglese senza accento che tanto affascinava i suoi amici anglosassoni, Kissinger per primo. «Higher and higher every day / Till over the mast at noon (...) At length did cross an Albatros: / torough the fog it came; / as if it had been a Christian soul / we hailed il in God’s name». (Ogni giorno più in alto, sempre più in alto, al di sopra dell’albero maestro, a mezzodì – In fine dalla nebbia sbucò un albatros – e noi lo salutammo, anima cristiana, nel nome del Signore).
Uno scrive l’Avvocato, e tutti capiscono. Non c’è bisogno di specificare che il dottor Agnelli Giovanni, presidente onorario della Fiat, sia «lui», l’Avvocato: lo sanno anche nel Burundi. Enzo Biagi, tanti anni fa, dedicandogli un libro intero, lo ha chiamato Il Signor Fiat. E son tanti gli scritti, perlopiù di autori stranieri, a lui dedicati: nel senso che ambiscono a raccontare il Personaggio e la Fabbrica. La Fiat, giustappunto, intimamente legati – uomo e azienda, a filo doppio alla Storia, non soltanto italiana. Nella buona e nella cattiva sorte.
Si sa che l’Avvocato, pur essendo uno degli uomini più ricchi del mondo, non ha mai toccato il denaro. Una mattina, tanti e tanti anni fa, Agnelli decise di andare a Villa Giulia perché alla Galleria di Arte Moderna Palma Bucarelli esponeva anche il famoso Modigliani contestato nella sua autenticità da Virgilio Guzzi, critico rigoroso. L’Avvocato coinvolse Alberto Ronchey, ch’egli da sempre giudica un grande giornalista swiftiano, che a sua volta reclutò il sottoscritto. Varcato l’ingresso della Galleria, un’impiegata chiese all’Avvocato se volesse il catalogo. «Certo che sì, grazie», disse lui. Sono 15 mila lire, aggiunse quella e l’Avvocato sfiorando il suo doppiopetto galles: «Non ho con me denaro – disse –, Ronchey le dispiace fare per me?». Borbottando: si figuri, Alberto sganciò.
Un po’ tutti conoscono la sua competente passione in fatto di antiquariato, ebbene, sempre un bel po’ di anni fa, a Hong Kong, andò a trovare uno dei più rinomati antiquari (un cinese) della terra. Acquistò in cambio di un bel mucchietto di dollari un cavallino di legno di buona dinastia, ma quando venne il momento di firmare l’assegno, chiese uno sconto. Il cinese e l’accompagnatore (l’allora console generale Bolla) trasecolarono: «Io, lei lo sa, non pratico mai sconti», obiettò il cinese. «Allora non se ne fa nulla», scandì l’Avvocato, irritatissimo. Finì che ebbe lo sconto: cinquecento dollari, un’inezia, ma era tutta una questione di principio del signor Agnelli, non dell’Avvocato, uno degli «imperatori del mondo», quella di farsi fare lo sconto, da buon piemontese.
Lo so, codesta è aneddotica: per certi versi «illuminante»; ma sempre aneddotica. Io che ho avuto la fortuna di frequentarlo dal 1963 e che sono pressoché suo coetaneo, ho avuto modo di ascoltarlo quando si abbandonava ai ricordi. Perché raccontando di questo o di quello, egli finiva col raccontarsi, non accorgendosi – seppure vigile e controllatissimo –, di squarciare un po’ l’aura di mistero che l’avvolgeva. Mistero intimo, non biografico, sia chiaro, custodito da un sorriso da antico marinaio: un sorriso appena accennato che sfuma malinconico in una piega quasi dolorosa delle labbra, agli angoli della bocca. Sappiamo del suo coraggioso comportamento in combattimento, è noto il suo «no» all’imboscamento sia pure stragiustificato durante la guerra; sua sorella Suni in quel libro unico che è Vestivamo alla marinara, ci ha fatto toccare con mano la sua eccezionale capacità di dominare il dolore più atroce, ironizzandoci sopra, addirittura. Ebbene, la sua cognizione del dolore (non solo fisico) faceva sì ch’egli partecipasse della sofferenza altrui recandosi a visitare un suo vecchio marinaio in difficoltà, ovvero un operaio ferito o semplicemente un amico: che può essere Rockefeller ovvero un suo anonimo dipendente.
Aveva il culto dell’amicizia, l’Avvocato, sicché l’addolorava il «tradimento». E questo può valere per un calciatore come per una sua eccezionalmente, signorilmente brava assistente personale. Un piemontese come lui, quella versione postmoderna di Principe Rinascimentale ch’egli fu, aveva dell’amicizia un culto curiosamente siciliano. (Per un siciliano spesso l’amico è più del fratello. Col fratello puoi vivere alla peggio insieme, con l’amico ti coniughi).
Mi piaceva ascoltarlo, tanto che infinite volte ci siamo ripromessi di mettere sul tavolo un registratore ad andar sul filo della memoria. Era importante per me sentirlo parlare di New York («colei che non si deve amare», come diceva Ugo Stille), la New York del Cinquanta, del Sessanta in particolare. Scoprii che avevamo incontrato le stesse persone, poiché un giornalista è come la salamandra, va dappertutto: da casa Vanderbilt allo studio di Pollock, dall’Algonquin al Village. Però lui li ha conosciuti dentro, il reporter li ha solo sfiorati, i big. Ma qualche amico comune c’è stato, ad esempio Raimondo Lanza che aveva acquistato un centravanti per il Palermo solo perché lo incantava l’eleganza del suo dribbling stretto. E ciò spiega il rapporto di simpatia amicale che legava l’Avvocato al grande Platini. A proposito; lui che era sempre piuttosto aggiornato in fatto di letteratura straniera, e di saggistica economico-finanziaria, non nascondeva, al pari del Vecchio Cronista, di leggere il Guerin Sportivo.
Mi piaceva ascoltarlo anche perché imparavo. Per esempio che il cinismo ch’egli ostentava truccandolo da battuta, non aboliva il sentimento profondo dell’etica cristiana. Mi raccontò, un giorno, che capì definitivamente quanto sporca sia la guerra vedendo, sul fronte russo, soldati tedeschi con lo zaino pieno di munizioni andare su di una passerella per rifornire un reparto isolato, cadendo come le mosche sotto il fuoco sovietico. Espresse il suo sgomento e si sentì rispondere dall’ufficiale tedesco di collegamento: «Ma no, quelli sono prigionieri russi ai quali abbiamo messo la divisa tedesca». Era stato ufficiale in Africa e in Russia e, pur avendo sofferto, aveva molti bei ricordi della vita militare. Tra gli altri, come amava ripetere, uno, tra il malinconico e il gentile, degli ufficiali rumeni di cavalleria che, a Bucarest, portavano un ramo di jasmin sul kepi.
 
ROBERTO BECCANTINI, DA “LA STAMPA” DEL 25 GENNAIO 2003
Fu Edoardo, il padre, a presentargli la Juventus, un pomeriggio del settembre 1925. Aveva poco più di quattro anni. Ne sarebbe nato un romanzo, un’emozione lunga una vita, la sua vita, con digressioni forti e non meno suggestive: la Ferrari, la vela, lo sci. «Vinca la Juve o vinca il migliore? Sono fortunato, spesso le due cose coincidono». Penso che sia questa – soprattutto questa – la frase che più di ogni altra riassume lo spirito di Giovanni Agnelli. La volontà di eccellere, il piacere di riuscirci spesso, il privilegio di partire da una posizione di forza: ereditata e continuamente allenata, sì, ma non urlata. Lo sport gli deve una passione ruspante, una curiosità quasi mai banale, uno stile che esula dal patrimonio e dal potere. Se bastava il nome degli Agnelli ad aprire le porte, l’Avvocato, di sicuro, non si è mai dimenticato le chiavi: e non ha mai sbattuto l’uscio.
Non esiste al mondo una società caratterizzata da una famiglia come la Juventus. Il fratello Umberto ha sempre incarnato la figura del «primo ministro», l’Avvocato ha raccolto via via su di sé le funzioni e le aspettative del «sovrano»: operativo, quando toccava a lui dirigere; distaccato ma vigile, quando era stabilito che toccasse ad altri. Fosse stato un giocatore, penso che avrebbe scelto il «dieci», il numero più fantasioso ed esteticamente più sgargiante, la maglia di Omar Sivori e Michel Platini, i suoi pupilli. Il calcio che «giocava», al telefono o dalla tribuna, era il calcio che aveva respirato in gioventù, molto dribbling e poco lavagna: lampo, non tuono. Era curioso, sapeva ascoltare. Detestava gli specialisti, «così noiosi...», aveva un gusto innato per l’ironia, che spalmava sui taccuini di noi cronisti, golosi e ossequiosi. L’ha detto l’Avvocato: titolo a nove colonne, e la soddisfazione di aver superato un esame.
Prima dell’elicottero di Berlusconi, c’è stato il suo. Quello che, a Villar Perosa, ciondolava sul campo e sanciva (allora) il battesimo della stagione, i titolari della Juve contro i giovani della Primavera. Era diventato un rito, una cerimonia: la sfilata della squadra a casa Agnelli, la processione dei tifosi, gli autografi, la partita e poi l’intervista. Questa non meno attesa, e ambita, di quella. E poi le telefonate. Rigorosamente non dopo le sette di mattina. Un giorno di Juve calante mi disse: «Veda. Bei tempi, quando buttavo giù dal letto Boniperti all’alba. Il guaio è che adesso devo svegliarlo alle quattro del pomeriggio». Si divertiva. Dello sport, detestava soltanto l’aspetto politico, le beghe di palazzo, le volgarità cortigiane. Di politica ne aveva fin sopra ai capelli, il pallone era il suo giardino; la Juve, la sua compagna di vita. Le ha amate tutte, anche le più scalcinate, anche quella che definì «socialdemocratica», la Juve di Heriberto Herrera, un coro senza tenori. Ce n’è stata una, nel 1983, che portò addirittura alla Casa Bianca, e George Bush il vecchio, all’epoca vice di Ronald Reagan, si abbandonò in suo onore a un improbabile palleggio. L’ha offerta in visione agli amici, guardare ma non toccare: a Henry Kissinger parlò di Zbigniew Boniek come del «bello di notte». Ci volevano le serate di coppa, per vellicarne il cuore e i garretti.
L’orologio sopra il polsino e la cravatta sopra il pullover furono colti per la prima volta allo stadio. Non che ci tenesse, ma tutto, dell’Avvocato, faceva notizia. Le sue frecciate, per esempio, e le sue battute. Roberto Baggio è passato da «Raffaello» a «coniglio bagnato». Alessandro «Pinturicchio» Del Piero potrà sempre raccontare di essere stato insignito di un gerundio: «Aspettando Godot». Zidane, «più divertente che utile». Zidane gli era stato consigliato da Platini. Platini, in compenso, era arrivato nel 1982, suggerito personalmente da Agnelli. Michel: glamour francese in salsa italiana. Gli piacevano così. O viziosi come Sivori o eleganti come Platini. I mediani li tollerava al massimo nella Confindustria, non nella sua squadra. Lo snobismo dell’Avvocato ha sempre nascosto competenza e umiltà: la competenza maturata affacciandosi negli spogliatoi, l’umiltà di stare a sentire anche l’ultimo degli scribi. Durante gli Europei del 1996, si avventurò fino a Wembley per Inghilterra-Spagna. Mi telefonò, mi partecipò le sue sensazioni, si divertiva, contento, parafrasando Andy Warhol, di essersi ritagliato «un’ora e mezzo di non popolarità».
Le polemiche non competono ai monarchi, competono ai suoi dignitari. L’Avvocato le ha sempre sorvolate. La Juve è diventata, nel tempo, la società più amata e più odiata, lo stile Juve si è diffuso attorno alla sua persona e alla sua personalità, rispetto, distacco e un amore spruzzato di aristocratico understatement. Lo ricordo choccato all’Heysel, a mattanza appena consumata, abbattuto ad Atene, la sera in cui l’Amburgo sfilò alla Juve una Coppa che sembrava già vinta: e sferzante, sempre, più con i suoi che con gli avversari. E non erano i bersagli ad arrabbiarsi: erano gli esclusi. Trovava «emozionante» il modo in cui difendeva Julio Cesar, e, quando irruppe Silvio Berlusconi, era convinto che lui e Sacchi avrebbero rovinato il Milan. Si sbagliava, si scusò. Berlusconi «ha trasformato il calcio da sport di città a spettacolo televisivo. Il suo Milan lo paragonerei agli Harlem Globetrotters». La Juve di Boniperti gli corse dietro, ma aveva ali di cera e si sciolse come Icaro al sole. «Se solo avessi potuto – confessò Agnelli a Candido Cannavo – avrei preso quel Milan e lo avrei trasferito, in blocco, a Torino». Salvo aggiungere, per tirare su il morale di Boniperti: «Loro, però, hanno vinto due campionati di serie B e tu non ci sei ancora riuscito».
Non gli piaceva perdere, ma sapeva perdere. Uno dei pochi. Era fiero della sua torinesità, cui la Juve assicurava una finestra sul mondo. Detestava il Delle Alpi, il meno inglese degli stadi italiani. Da quando nella conduzione diretta della società era subentrato il fratello, si era riappropriato del rango e dei panni di primo tifoso, navigatore e non più pilota, attento alle curve della suscettibilità. Il calcio e lo sport in genere si erano messi ad andare a velocità folli, soltanto la Juve riusciva a garantirgli un aggancio con il passato: non in quanto tale, ma come periodo più adatto ai suoi ritmi, la mitica Juve del Quinquennio, la Juve di John Hansen e Praest, quella di Boniperti-Charles-Sivori. Dal 24 luglio 1923 fa parte integrante della famiglia. Agnelli ne è stato presidente dal 22 luglio 1947 al 18 settembre 1954. Altri tempi. E che dirigenti, i dirigenti di allora. Fra i suoi amici c’era il principe Raimondo Lanza di Trabìa, presidente del Palermo. Trattava gli affari dalla vasca da bagno. Aveva seguito in vestaglia e pantofole il suo amico e allora ministro degli Esteri Galeazzo Ciano in missione ufficiale a Budapest. Con un tipo così, non ci si poteva proprio annoiare. Si sentivano spesso, lui e l’Avvocato.
La Ferrari è venuta dopo. Molto dopo. La Fiat vi si avvicinò sulle ceneri, calde e tempestose, di un mancato accordo con la Ford. Il matrimonio risale al 18 giugno 1969. La Juve aveva già vinto tredici scudetti. Nel trattare con Enzo Ferrari, Agnelli rimase colpito da quel senso di solitudine che era così palpabile e grandioso da incutere soggezione: o comunque, da costituire una barriera. Entrambi uomini di fabbrica, ma l’uno, la sua, l’aveva costruita dal nulla; l’altro, viceversa, l’aveva ereditata dal nonno: non che l’Ingegnere lo facesse pesare, però l’Avvocato ne avvertiva il misterioso fluido allusivo. Se la Juventus era un affetto, la Rossa è stata un effetto. «Un impegno nazionale. Perché la Ferrari è una realtà molto importante nel mondo. Io l’ho vista sempre sotto questo profilo». Ventun anni senza titolo, senza niente. «Ma adesso che è maggiorenne, vedrete...». Anche qui, fra i motori, molto telefono ed esposizioni mirate. Patti chiari, però: «Confesso che conquistare uno scudetto è tuttora la cosa che mi emoziona maggiormente». A differenza di Platini, Michael Schumacher non è stato pagato un tozzo di pane. Il caviale costa. Per Agnelli, vincere era molto, non tutto. E così quando il tedesco, a Jerez, cercò di buttar fuori Villeneuve nell’ultimo, decisivo, Gran Premio del 1997, operazione fra l’altro fallita, prese il telefono e chiamò Montezemolo: Luca, bisogna assumersi le responsabilità di questo episodio tremendo, sportivamente è una tragedia, per Schumacher, per la Ferrari...
Ecco: è stata proprio questa coscienza del limite, questo «dovere» di fair play riparatorio, ad averne nobilitato la diversità. Più dell’intuizione di affidare il rilancio della Juve sessantottina a Boniperti. Più della scelta di inviare Montezemolo a Maranello per la ricostruzione. Più delle regate al timone del suo «Stealth». Anche i tifosi più faziosi percepivano in lui, non solo o non tanto il potere del casato che di solito trasmette arroganza e alimenta invidie, ma l’arte di sdrammatizzare e di capire le ragioni dell’avversario. Non credo che recitasse una parte per equilibrare gli eccessi dei «sudditi»: era così di educazione, attratto da quel modello anglosassone che, nei cimenti agonistici, ha sempre privilegiato il rispetto delle regole alla giungla degli istinti. Nel 1948, gli avevano segnalato un massiccio attaccante svedese, Gunnar Nordahl. Mancava solo la firma. Nello stesso tempo, però, John Hansen aveva consigliato un danese, Johannes Ploeger, in procinto di arruolarsi al Milan. Con una manovra spericolata, i dirigenti juventini lo indussero a cambiare idea. E così Ploeger, salito sul treno «milanista», scese alla Stazione Centrale di Milano «juventino». Per il Milan, una beffa atroce. Atroce come l’imbarazzo di Agnelli, quando lo venne a sapere. La Juve si tenne Ploeger e, a titolo di risarcimento, girò al Milan Nordahl. Che, al contrario del danese, avrebbe messo a fuoco e fiamme il nostro campionato. Per quanti sforzi faccia, non riesco a collocare un episodio del genere nello sgangherato pollaio del calcio attuale.
Italiano, certo, ma non così miope da negare alla Juve e alla Ferrari il fior fiore dell’ingegno internazionale. Se ai suoi livelli era facile permettersi di tutto, non altrettanto semplice era lasciare tracce di una superiorità capace di farsi accettare anche dai più accaniti rivali. L’ultimo gesto che ha compiuto per la sua Torino è stato l’Olimpiade invernale del 2006, ufficialmente assegnata a Seul nel giugno del 1999. L’olimpismo attraversava un periodo di gravi turbolenze, squassato com’era da gravi e molteplici scandali. Il presidente del Cio, Juan Antonio Samaranch, lo pregò di garantire, con il suo nome e il suo prestigio, il passaggio dalla decadenza alla rinascita. Entrò, con Kissinger, Boutros Ghali e altri personaggi di primissimo piano, in un comitato di riforma olimpica. C’erano Torino e i Giochi di mezzo, «ma avrei accettato l’invito anche se Torino non si fosse candidata», disse. Un atto d’amore: verso lo sport e la sua città. Impossibile stabilire un ordine: l’uno ha sempre affiancato l’altra. Con la Fiat, sullo sfondo, a fungere da pendolo.
Nella scia della Juve e della Ferrari, c’è posto per la Coppa America di vela, «una summa di tutto quello che lo sport può offrire», e per nostalgici frammenti delle Olimpiadi di Cortina, di Roma, di Monaco, quella finita nel sangue. E fra gli atleti che, allontanandosi dai sentieri del calcio, ha più ammirato figurano Ondina Valla, Luigi Beccali, Livio Berruti, Pietro Mennea, Giusi Leone, Sara Simeoni. Su tutti, Jesse Owens e Wilma Rudolph, la gazzella che si mangiò l’Olimpico. Gli sarebbe piaciuto guidare come Tazio Nuvolari. I grandi rimpianti sono stati Alfredo Di Stefano e Diego Maradona: «Con uno di quei due, avremmo potuto giocare senza allenatore». Il destino, prima dolce e poi terribile, l’ha costretto a vivere a passo di carica. Se ne va con la Juve campione d’Italia, Schumacher e la Ferrari in cima al mondo. Da quel pomeriggio di 77 anni fa, quando, bambino, il padre lo accompagnò al campo di corso Marsiglia, scrivere Juventus e dire Agnelli è diventata la stessa cosa. Al timone resta Umberto. L’Avvocato è salito dalla tribuna un po’ più su, immagino la sorpresa di Enzo Ferrari.
 

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Gianni Agnelli - Gentleman Of Style

 

Umberto (padre di Andrea) e Gianni Agnelli

Modificato da Socrates

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