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Gianfranco Zigoni

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Joined: 31-May-2005
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http://it.wikipedia.org/wiki/Gianfranco_Zigoni



Nato a Oderzo (Treviso) il 25 novembre 1944. Cresciuto nella societá, nel 1961, poco piú che diciassettenne, debutta in bianconero ed in serie A. Dopo un triennio caratterizzato da sporadiche apparizioni la Juventus lo cede in prestito al Genoa. Due stagioni con i rossoblu e nell'estate del 1966 rientra a Torino dove conquista la maglia di titolare. Attaccante di ottimo talento, eccede in personalismi ed un autentico limite é il suo carattere ribelle che in molte occasioni gli costa espulsioni e squalifiche.

"Zigo" ha la fama da sciupafemmine ma, si rende protagonista di vere e proprie bravate da bullo di periferia. Come quando, per cercare di sconfiggere la noia dei ritiri, si diverte a sparare ai lampioni con la sua "Colt 45". Ma Zigoni, per fortuna, non é solo questo. É soprattutto un calciatore, anzi, un fuoriclasse. "Quello é un musso, é un "figlio de puta" e poi ha troppe donne che lo sfiniscono, ma quando vuole é un purosangue".

Queste parole, pronunciate da Saverio Garonzi, presidente di Zigoni nei suoi anni a Verona, riassumono perfettamente la personalitá ed il carattere del nostro. Pare di vederlo ancora, "Zigo", che si toglie pelliccia e cappello, il suo abbigliamento da panchina, saluta il suo pubblico e, se gli gira bene, porta a casa la partita con un paio di prodezze.

Racconta: "Detestavo gli arbitri, tiranni al servizio delle squadre piú potenti e fregarli non era solo un piacere, ma un dovere per chi giocava in una squadra di provincia. Sognavo di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso. Mi immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non piú "Bentegodi", ma Gianfranco Zigoni.

Ho accumulato piú giorni di squalifica che goal, perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili ed ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica e trenta milioni di multa perché dissi ad un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio lí. Trenta milioni negli anni settanta: all'epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertá di opinione.
Ho un unico rimpianto, essermi tagliato i capelli alla Juventus, ma ero troppo giovane, non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli. Avevo una grande opinione di me stesso, pensavo di essere il piú forte calciatore sulla terra. In campo odiavo l'avversario e lo colpivo col mio pugno, che era micidiale, fuori gli volevo bene e lo invitavo a bere un whisky.
Un giorno, alla Roma, capita di incontrare il Santos di Pelé, in amichevole, allo stadio Olimpico. Mi dico: "Oh, giustizia sará fatta, oggi il mondo capirá che Zigo-goal é piú forte di Pelé". Lo aveva giá detto Trapattoni dopo un Genoa-Milan 3-1 degli anni Sessanta, tripletta mia. "Ragazzi", dichiaró il Trap quel giorno, "Zigoni é meglio di Pelé". Lo aveva ammesso Santamaria, gran difensore, dopo una sfida Juventus-Real Madrid: io avevo fatto impazzire il Santa, finte e tunnel, e quello a fine partita si rivolse cosí a Sivori: "Sto chico é migliore del negro". Ero convinto della cosa, mi sentivo piú bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi.

Poi arriva l'amichevole col Santos, vedo Pelé dal vivo e mi prende un colpo. Madonna, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annunceró in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparo la dichiarazione in terza persona: "Zigoni lascia l'attivitá, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno piú forte di lui". Ad un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelé va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora é umano, penso, e cosí resto giocatore".

Girava in pelliccia, mangiava coniglio e polenta prima di un allenamento, erano piú le volte in cui usciva dal campo con la maglietta ancora asciutta, ma sapeva come far innamorare i tifosi. Calzettoni perennemente abbassati, una stempiatura evidenziatasi ben presto nonostante sulla nuca i capelli fossero sempre lunghi, Gianfranco Zigoni dall'inizio degli anni sessanta alla fine dei settanta é stato uno dei calciatori piú spettacolari. Faceva impazzire gli allenatori, ma li ripagava sul campo. "Piú forte di me? C'é stato solo Pelé, io ero il corrispettivo in bianco. Solo che per avere continuitá avrei anche dovuto allenarmi, qualche volta".

Il vocabolo estroso sarebbe fin troppo riduttivo per inquadrare Zigo-goal. Lui era la mosca bianca, quello che usciva dagli schemi, che non si faceva ingabbiare, convinto che il suo enorme talento sarebbe comunque emerso. Juventus, Genoa, Roma, Verona, Brescia. "In bianconero vinsi anche uno scudetto con Heriberto Herrera: mi faceva impazzire chiedendomi di andare a coprire a centrocampo. Quello era uno Zigoni vincente, ma triste".

Il meglio é convinto di averlo dato a Verona (sei campionati, uno in serie B) e nelle ultime due stagioni con il Brescia. "A Verona ero e sono tuttora un idolo. I bambini incidevano sui banchi delle chiese il mio nome ed i preti si arrabbiavano con me. Ci vorranno almeno altri trent'anni prima che a Verona mi dimentichino. Quando giocavo penso di aver distribuito almeno 5.000 fotografie autografate ed ancor oggi i tifosi mi chiamano nei club".

Arriva a Brescia l'11 ottobre 1978, al mercatino di riparazione, lo pagarono 60 milioni. Ha giá 34 anni, si teme che sarebbe venuto a tirare indietro il piedino, ma serve una quarta punta dietro il trio Mutti-Grop-Mariani. "La squadra era in B e navigava in brutte acque. Mi chiamó il mio amico Gigi Simoni, con il quale avevo giocato nella Juventus. Giocai 21 partite e segnai 4 goals, ci risollevammo in fretta per una salvezza dignitosa".

L'anno successivo é quello della promozione. "Rimasi, ben sapendo che il mio compito sarebbe stato quello di uomo spogliatoio".

Lo ricordiamo con il numero 14 sulle spalle (al tempo in panchina andavano tre giocatori), in quei riscaldamenti sotto la tribuna del "Rigamonti". "Entravo sempre, io dicevo al mister di far giocare i giovani, ma lui aveva bisogno della mia esperienza".

Quando la gara non si sblocca, dalle scalette del "Rigamonti" s'alza il coro: "Zigo, Zigo, Zigo" e Simoni, puntualmente, opera il cambio. Capita peró che vada a prendere posto in panchina a partita giá ampiamente iniziata. Capita proprio in un Brescia-Verona del 6 gennaio 1980: "Ad una certa etá il freddo pungente fa male", commenta a fine gara, mentre Simoni lo guarda sorridendo. "L'anno della promozione non feci goal, ma dopo un pessimo inizio della squadra giocai 4 partite consecutive e facemmo sette punti. Ci diedero la spinta decisiva".

Ma Zigoni in che ruolo giocava? "Lerici, l'allenatore che ebbi al Genoa, diceva prima della partita: date la palla a lui. Ero un numero undici, che aveva bisogno di giocare a briglie sciolte, oggi mi farebbero stare, forse, nei Dilettanti, eppure ero il piú forte. Per fare un'altra carriera avrei dovuto rinunciare a parecchie bicchierate con gli amici, e vedere qualche alba in meno, ma non ne valeva la pena". Fare il calciatore per Zigoni, che oggi allena i ragazzini nel paese natale di Oderzo, é stato un gioco. Il bello é che gli é venuto anche bene.

Nonché un aneddoto ulteriore, con parole sue: "Prima della gara Valcareggi mi dice: "Zigo, oggi non giochi". Non c'era nulla da fare, dovevo andare in panchina, e visto che era una giornata molto fredda decisi di andare in campo con la pelliccia ed il cappello. Entrai in campo e ci fu un boato".

Nelle sette stagioni al servizio della maglia bianconera totalizza 118 presenze ed un bottino di 33 goal. Con la Juventus si laurea campione d'Italia nel 1967. Nell'estate del 1970 lascia Torino e si accasa alla Roma, dopo un biennio nella capitale raggiunge il Verona dal quale si separa al termine della stagione 1977/78 per indossare la maglia del Brescia e con le "Rondinelle", a trentasei anni suonati, conclude l'attivitá a livello professionistico. Zigoni, il 25 giugno 1967, debutta in Nazionale A lanciato a Bucarest contro la Romania da Valcareggi e rimane quella la sua unica esperienza azzurra.


da "Hurrá Juventus" del marzo 1996:

Siamo a cavallo del 1968, l'anno in cui in gran parte dell�Europa occidentale esplode la contestazione studentesca. Il calcio italiano, generalmente impermeabile ai fermenti politici e sociali, va avanti per la sua strada come se nulla stesse accadendo. Sui rettangoli di gioco al massimo fa la sua timida apparizione qualche calciatore dai capelli lunghi ed i modi un po� originali che viene immediatamente bollato come rivoluzionario. Nello sport attuale, il look non scandalizza pi� nessuno. Ma all�epoca per i vari Meroni, Mondonico, Sollier e Zigoni si gridava quasi allo scandalo. In quel mondo un po� bacchettone ed omologato dove i presidenti dei club, da qualcuno definiti i ricchi scemi, erano di fatto i padri padroni del sistema calcio, chi cantava fuori dal coro stonava e steccava davvero. Anche se la politica c�entrava proprio marginalmente.

Tutto questo lungo preambolo per presentare Gianfranco Zigoni, barbuto e capellone attaccante un po� bohemienne di un calcio in cui gli attori cominciavano timidamente a prendere coscienza dei loro diritti. �Sin da piccolo avevo l�abitudine di portare i capelli lunghi�, racconta Zigoni, �per cui da calciatore il mio aspetto era assolutamente in linea con il mio carattere e non aveva nulla a che vedere con le idee politiche. Certamente anch�io, come tanti miei coetanei dell�epoca, nutrivo simpatia per Che Guevara: ma ero affascinato pi� dal personaggio che da quello che faceva�.

Gianfranco nasce a Oderzo, in provincia di Treviso, nel novembre del 1944, e da i primi calci nel Settore Giovanile dell�Opitergina. A sedici anni e mezzo lo acquista la Juventus, che lo fa esordire in Serie A pochi mesi pi� tardi. Per altre due stagioni rimane in bianconero a mezzo servizio tra prima squadra e �De Martino�, quindi viene spedito al Genoa per fare esperienza. Le sedici reti realizzate sotto la Lanterna sono il migliore biglietto da visita per il rientro a Torino.

Siamo nell�estate del 1966: ha inizio la seconda avventura juventina della punta veneta che, in quattro stagioni, mette complessivamente a segno 32 goal in 117 incontri ufficiali. Molti dei quali entrando in campo con il numero tredici. �Accadde con una certa regolarit� nel corso della mia ultima stagione in riva al Po, che non fu proprio felice. l metodi d�allenamento ed i rapporti con Heriberto Herrera mi avevano distrutto fisicamente e psicologicamente. Ero arrivato quasi sull�orlo dell�esaurimento. Dopo il triennio con il trainer uruguagio arriv� Carniglia, il quale vide giusto. Ed io ripagai la sua fiducia a suon di goal dalla panchina�.

Nel 1969 la separazione definitiva. Ma per il capelluto attaccante la carriera conserver� ancora corpose e durature soddisfazioni, raccolte tra Roma, Verona e Brescia: nel complesso altri dieci campionati da protagonista che porteranno il suo score definitivo, tra A e B, a toccare le quasi cento marcature in circa quattrocento incontri. Ma quali erano le migliori caratteristiche di gioco di Gianfranco? �Nei primi anni della carriera ero un attaccante puro e mi muovevo da prima punta. Avrei potuto esordire, in A, a sedici anni, ma una squalifica rimediata con la �De Martino� rimand� l�esordio. Ricordo ancora come fosse adesso il mio enorme disappunto e la voce di Stivanello che mi gridava: �Ehi fu bambino, ne avrai tempo per giocare�.
Dopo la massacrante esperienza con Heriberto mi convertii nel ruolo di seconda punta: non pi� sfondatore, ma uomo assist che si divertiva un mondo a far segnare i compagni. Ero un tutto mancino con un discreto colpo di testa ed un destro deboluccio, con il quale ho realizzato qualche goal per caso�.

Domanda indiscreta: il calcio di 15-20 anni fa ti ha arricchito? �Credo che soltanto i Rivera ed i Mazzola abbiano fatto fortuna. Ma io ancor ora posso definirmi benestante e non potrei mai lamentarmi della vita che ho fatto: se penso a mio padre che ha lavorato tutta la vita in fabbrica. Della mia carriera ho solo un rammarico: non aver dato alla Juve tutto ci� che era nelle mie possibilit�. Approdai a Torino con la nomea del fenomeno, tant�� che �Gipo� Viani mi defin� �La perla nel fango�. Dopo essere arrivato in Nazionale a venti anni con il Genoa, vissi male, forse anche per colpa mia, i sistemi di allenamento che trovai al mio ritorno in bianconero.

Di certo non ho alcun rimpianto di tipo economico: per il mio modo di vedere la vita i soldi non rappresentano la vera fortuna per un uomo. Anzi, se ce ne sono troppi, spesso si rovina qualcosa dentro. Oggi, cinquantenne, vivo a Oderzo, dove mi trovo da re con la mia famiglia. Ho un maschietto di soli quattro anni che mi fa letteralmente impazzire, alleno i giovani della Opitergina e dirigo una scuola calcio collegata con la Juventus, alla quale ho segnalato alcuni ragazzini promettenti come un certo Zigoni�.

Per chiudere, chiediamo a Zigoni di svelarci qualche episodio divertente. �Ottobre 1969, Furino disputa il primo dei suoi tantissimi derby, nei minuti iniziali realizzo il goal del nostro vantaggio e quindi si va negli spogliatoi per l�intervallo. L� Herrera mi dice �Gianfranco, ti vedo stanco, vai sotto la doccia�. Io non fiato, ma ci rimango di sasso, anche perch� stavo andando alla grande. Morale: nella ripresa il Torino pu� riversarsi in massa nella nostra met� campo, e vince per 2-1�.



http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/11/gianfranco-zigoni.html Modificato da Socrates

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UN DIO SULLA FASCIA

Storia e leggenda di Gianfranco “Zigo” Zigoni, campione folle e

geniale che del calcio “perfetto” di oggi non saprebbe che farsene

Preferiva la vita fuori da quel rettangolo erboso, troppo stretto per lui. Era il tombeur de femmes più chiacchierato di Verona

Naturalmente, il processo di divinizzazione si era già concretizzato sul campo, a suon di prodezze e gol spettacolari

Da piccolo gioca nella squadra dell’oratorio, fino a che non passa da quelle parti Bepi Rocco, che reclutava giovani per la Juve

“Gesù è venuto sulla terra per dirci che gli uomini sono tutti uguali. Io, Gesù Cristo e il Che siamo il trio perfetto”

di MAURO ZANON (IL FOGLIO 18-07-2015)

 

“La vita è un lungo cammino di speranze e di illusioni, di lotte contro fantasmi e di angeli che ti guidano. Poi il risveglio e ti sembra di non esserti mai allontanato. Un attimo di sgomento, ora sono qui nel mio dolce quartiere, mi guardo intorno, qualcosa è cambiato, il fiume che non c’è più, qualche ruga, molti capelli bianchi, amici che non vedo, la tristezza mi pervade, il mio pensiero corre lontano, ma che sia stato solo un lungo sogno?”. (Gianfranco Zigoni, testo tratto da “Dio Zigo pensaci tu”, Biblioteca dell’Immagine)

 

Nell’immaginario collettivo dell’Italia pallonara, che negli anni Settanta seguiva il dipanarsi del sacro campionato sulla popolare trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto”, più che ogni altro gol, dribbling, rovesciata o meraviglia balistica resta impresso un fotogramma di quel primo febbraio 1976: Gianfranco Zigoni, l’idolo di Verona e dei butei della curva gialloblù, seduto in panchina con addosso una pelliccia e un cappello da cow-boy. Quel giorno al Bentegodi arrivava la Fiorentina di Carletto Mazzone, e Zigo, come tutti lo chiamavano, era sceso dal pullman che accompagnava la squadra allo stadio con una voglia matta di giocare. Situazione che si era verificata poche altre volte durante l’anno, perché lui, l’indomabile Zigo, il tombeur de femmes più chiacchierato di Verona, preferiva la vita fuori da quel rettangolo erboso, così stretto e soffocante per il suo incontenibile, straripante bisogno di libertà. La domenica precedente era stato fuori per squalifica, una delle tante giornate di sospensione inflittegli da quelle “giacchette nere”, gli arbitri, che il suo spirito ribelle mal sopportava tanto quanto i “noiosissimi allenamenti”. Il Verona aveva vinto comunque e così, Ferruccio Valcareggi, all’epoca allenatore della squadra scaligera, decise di riproporre quella formazione vincente, senza il suo diamante. Poco prima del calcio d’inizio, zio Uccio, come Zigo lo chiamava affettuosamente, gli si avvicinò e senza troppi giri di parole gli comunicò la scelta: “Zigo, oggi non giochi”. Un fulmine inaspettato, uno schiaffo più doloroso dei fallacci che subiva in campo ogni domenica da avversari che non avevano altre soluzioni per arginare il suo talento sconfinato. Rimase attonito Zigo quando sentì quelle parole. Non voleva crederci. Poi prese fiato e tuonò: “Come, non fai giocare il giocatore più forte del mondo? Stai scherzando, spero!”. No il Valca non stava affatto scherzando, ma nemmeno Zigo scherzò poco dopo, quando annunciò ai suoi compagni di squadra che per fargliela pagare sarebbe entrato in campo con la pelliccia che una delle sue amanti veronesi gli aveva regalato e il cappello da cow-boy che si era portato con sé da New York, quando era in tournée con la Juventus. Gli undici titolari uscirono dal tunnel degli spogliatoi, seguiti da Valcareggi, che non si era accorto dell’ultima trovata della sua ingovernabile ala sinistra. Passarono soltanto pochi secondi e sbucò Zigo, avvolto nel suo manto ferino, con aria spavalda e la sua chioma riottosa arginata da un cappello à la John Wayne. Dalla curva dell’Hellas si levò un boato. Zigo con passo solenne, ieratico, si avviò verso la panchina dove si accomodò sfrontatamente, prima di rivolgere uno sguardo di sfida a tutto lo stadio. Gli scatti erano tutti per lui, i tifosi veronesi erano in sollucchero per la loro rockstar, e Zigo era già il migliore in campo, ancor prima che la partita cominciasse. Per la prima volta nella storia del calcio, la gente sugli spalti tenne gli occhi incollati sulla panchina per tutti i novanta minuti, fregandosene di quello che stava accadendo sul rettangolo di gioco.

La cifra dell’imprevedibile genialità di Zigo, del suo estro senza eguali, del suo essere intimamente anticonformista e refrattario a ogni regola imposta contro la sua volontà, è certamente rintracciabile in quest’episodio. Un episodio che lo ha definitivamente allontanato dai comuni mortali del calcio, per lanciarlo nel pantheon delle divinità pagane della palla rotonda. Il processo di divinizzazione si era naturalmente già concretizzato sul campo, a suon di prodezze e gol spettacolari, serpentine e assist favolosi, giocate da capogiro e finte che mandavano gli avversari al manicomio e le tifoserie in visibilio. E non è un caso che a Verona, nella sua adorata Verona, dove sfoggiò al meglio le doti calcistiche che madre natura gli aveva concesso, sia per tutti ancora oggi il venerato “Dio Zigo” (“Dio Zigo pensaci tu” è anche il titolo dell’esilarante biografia, scritta a quattro mani con un altro grande poeta del calcio che il nord-est ha sfornato, Ezio Vendrame). Quella vampata di calore che irruppe in un Bentegodi infreddolito, quell’incursione da divo hollywoodiano in una Verona che sognava e sperava ogni domenica che Zigo-gol avesse la luna giusta, fu però soltanto il punto esclamativo di una vita, calcistica e no, straripante di storie, aneddoti, incontri incredibili e amori esagerati. Una vita che ha avuto come protagonisti donne bellissime e preti eroici, divi e disgraziati, principi e contadini, intellettuali e vitelloni, allenatori dittatori e compagni di squadra misericordiosi, una vita da trascinatore di folle, da romantico del pallone, da eroe e antieroe popolare, da sudamericano, per passione e follia, nato in Veneto per sbaglio o forse per dono di Dio, una vita, soprattutto, da uomo libero, eternamente insubordinato. Tutto, d’altronde, era già chiaro nell’origine del suo nome: Gianfranco, derivante dall’ebraico Yohanan, che significa “dono del signore”, e dal germanico Franc, che significa “libero”.

Oggi, a quasi trent’anni dall’abbandono del calcio come professione, Zigo indossa gli scarpini soltanto per partite di beneficenza, specialmente se i destinatari degli incassi sono i bambini, ma continua a scaldare i cuori dei nostalgici del suo mancino micidiale e delle sue avventure mondane in veste di narratore. Durante la stagione balneare, Zigo lo fa nella splendida Caorle, deliziando con la sua innata ironia un pubblico composito di giovani e meno giovani, nonni e bambini, pescatori e bagnini, curiosi e ammiratrici, e anche qualche turista, affascinato dai suoi modi fuori dal comune. Il Foglio lo ha incontrato proprio lì, in quel lembo di terra accarezzato dal mare Adriatico e popolato da gente pittoresca, stravagante e genuina, proprio come lui. La storia di Gianfranco Zigoni inizia nel Veneto profondo, rurale, umile, religioso, a Oderzo in provincia di Treviso, nel quartiere popolare Marconi, “nel Bronx”, come era chiamato, “dove noi bambini eravamo degli emarginati, dunque ci sembrava inevitabile che per espiare la colpa di essere figli della miseria avremmo dovuto commettere qualche ingiustizia”, e “dove da sempre è rimasto il mio cuore”. Vi era nato nel novembre del 1944, “tremavo sul lettino per i bombardamenti”, ricorda Zigo, e lì nei primi anni della sua vita ne combinava di tutti i colori assieme agli altri figli del Bronx opitergino. Spedizioni per rubare le uova alle suore e le galline ai contadini, “perché la vita era grama in periferia”, in attesa del momento più bello dell’anno per “quelli del Marconi”: l’estate e il Grest, durante il quale venivano organizzate gare di ogni disciplina. “Sulla carta – racconta Zigo – i più forti erano quelli del centro e il prete tifava per loro perché non mancavano mai alla Santa Messa. Ma purtroppo per lui alla fine vincemmo tutto noi”. La sfida più sentita era naturalmente quella calcistica. E guarda caso, un anno, in finale, si scontrarono “quelli del Marconi” e “quelli del centro”. Zigo, prima del fischio d’inizio, si rivolse ai suoi compagni ordinando: “Tutti in difesa e la palla a sempre me”. La partita, va da sé, la vinse Zigo da solo, ma venne anche espulso per le proteste veementi contro l’arbitro di quella gara, Nane Vendrame, che poi divenne un suo grande amico ma che quella volta gli annullò un gol regolare: “Da quel giorno ho iniziato a detestare gli arbitri”. Nel Bronx, nel suo amato Bronx, erano nati anche Armando Buso “il più grande pittore veneto in bianco e nero del Novecento”, e la celebre presentatrice Gabriella Farinon, il “viso d’angelo” della televisione italiana, che però, racconta Zigo, “si è sempre vergognata delle sue origini al contrario di Armando Buso”, e “purtroppo per lei, non capendo i valori del quartiere, da queste parti non è più tornata”.

Da adolescente Zigo giocò nella squadra dell’oratorio, il Patronato Turroni, fino a quando non passò da quelle parti Bepi Rocco, detto il Crèp, che all’epoca reclutava giovani per la Juve. Bastarono pochi istanti per capire che quel ragazzo lì, che palleggiava scalzo davanti al portone di casa con la grazia di un ballerino, meritava di fare strada. E così decise di mandarlo al Pordenone per un provino, prima di lanciare la profezia: “Gianfranco, un giorno giocherai nella Juve”. Arrivò a Torino ad appena diciassette anni, nella Juve del suo grande idolo Omar Sivori, “ma ero triste perché avevo lasciato il quartiere e gli amici”, e in più era un grande tifoso del Toro. Eppure si verificò un episodio emblematico in quei prime tre anni alla Juve (vi ritornò dal 1966 al 1970 dopo una parentesi al Genoa), che Zigo ricorda sempre con piacere: Real Madrid-Juventus, amichevole a Torino, finisce tre a uno per gli spagnoli, ma Zigo fa una partita da urlo, e nel secondo tempo prima prende un palo clamoroso, poi segna. Il Real era quello di Di Stefano, Puskas, Gento, Santamaria, ed è proprio quest’ultimo che a fine partita si avvicina a Luis Del Sol per una curiosità: “Chi è quel ragazzo con la maglia numero 9?”, chiede il grande difensore centrale argentino. “Si chiama Zigoni”, risponde Del Sol. “Porcos ****”, replica Santamaria, “è più forte di Pelé”. Da quel momento, un po’ per gioco, un po’ perché i colpi di genio à la Pelé ce li aveva veramente, si autoproclamò il “Pelé Bianco”, anche se per Zigo i più grandi di sempre sono stati Maradona e Sivori: “Messi e Ronaldo non sono nulla rispetto a loro”. E quando gli chiedi un nome per l’Italia, Zigo non ha dubbi: “Meroni, il grande Gigi Meroni, la ‘farfalla’ del glorioso Toro, che ci ha lasciato troppo presto (morì a 24 anni travolto da un’auto, ndr)”. E che, come Zigo, era un ribelle, un creativo, un avanguardista, che per le strade di Torino si dice andasse in giro con una gallina al guinzaglio, vestito sempre con una pelliccia e gli occhiali da sole, come una vera rockstar. Ma Zigo aveva anche un altro mito, che a calcio non aveva mai giocato, ma come lui amava il popolo, e il popolo ricambiava: Ernesto Guevara de la Serna, il Che. “In quell’uomo che lottava per la povera gente e per combattere in ogni parte del mondo l’ingiustizia io mi identificavo”. E accanto al Che, anche Gesù Cristo: “Sarebbero andati d’accordo. Gesù è venuto sulla terra per dirci che gli uomini sono tutti uguali. Io, Gesù Cristo e il Che: siamo il trio perfetto”.

Alla Juve, nonostante lo scudetto e i grandi ricordi come la semifinale di Coppa dei Campioni contro il Benfica di Eusebio, non fu mai totalmente a suo agio. Disciplina tattica e comportamentale, rigore, intransigenza e inflessibilità: parole che non esistevano nel vocabolario di Zigo. Figurarsi poi, quando nel 1964 arrivò il sergente di ferro Heriberto Herrera: “Era un dittatore, mi faceva sempre correre. Ora che se n’è andato spero di non doverlo incontrare in cielo quando sarà il mio turno, perché quello è capace di farmi correre anche lassù”. Pur non dimenticando la sua parentesi genovese così come i due anni giocati con la maglia del Brescia di Gigi Simoni, gli anni più entusiasmanti per la carriera di Zigo furono quelli trascorsi nelle fila della Roma (1970-1972) e del Verona (1972-1978): “Quando nell’estate del 1972 la Roma mi vendette al Verona ero triste. Ma non sapevo ancora che avrei trovato un altro paradiso”. La capitale, per Zigo, è un fiume di ricordi: la città stessa, “un’esplosione di bellezza”, l’attico sulla Cassia, dove portava le sue conquiste per dimenticare il mondo, l’incontro con Laura Antonelli, “bellissima, la conobbi in una sartoria, dove andava anche Alain Delon, mi mostrò una mutandina di raso rosso che si stava comprando e mi chiese con uno splendido sorriso se mi piaceva” – la grande amicizia con Franco Citti e il povero Alessandro Momo, le ceste di birra e i quintali di Marlboro rosse per passare il tempo nel ritiro a Fiuggi mentre il “Mago” Herrera andava a trovare di nascosto la sua Fiora Gandolfi, i pizzicotti di Franco Scaratti quando non aveva voglia di giocare, e naturalmente la mitica curva Sud. Per Verona fu lo stesso: la curva dei butei che cantava a squarciagola Zigo-gol, il rapporto di amore e odio con il presidente Garonzi, le porsche sfasciate, la Fatal Verona, gli spari ai lampioni con la sua inseparabile Colt 45, le notti infinite, il derby col Vicenza, quando dopo settanta minuti di letargo segnò un gol pazzesco e subito dopo decise di uscire dal campo, le estati a Jesolo, dove conobbe Pier Paolo Pasolini, i “ritiri spirituali” in cascina, come lui li chiamava, con il sacro uovo sodo, il sacro panino col salame e il sacro raboso, fino alla crisi mistica che lo condusse a vivere per un anno in parrocchia da don Augusto – uno dei tanti preti che aveva segnato la sua vita – e diede l’assist all’Arena di Verona per un titolo che ancora oggi riecheggia nelle strade della città scaligera, “Zigoni: dal Dom Perignon all’acqua santa”.

Alvise Tommaseo Ponzetta scrive bene nella prefazione di “Dio Zigo pensaci tu”, che il grande Zigo, “pur diversissimo nel carattere, potrebbe essere paragonato, per certi versi, a Primo Carnera, il gigante buono di Sequals”, perché “a entrambi il denaro e il successo, che pur avevano meritatamente conquistato, interessavano relativamente; quello che contava erano gli amici e l’amore per la loro terra, dove alla fine sono sempre tornati”. Vorresti che il flusso dei racconti che sgorga dalla bocca di Zigo non si fermmasse mai. Poi lo guardi e non hai dubbi che quella frase che ama ripetere per descrivere il suo grande amico Ezio Vendrame vale anche per lui: troppo grande per essere di questa terra.

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Juventus Logo 3D" Poster by StepupDesign | RedbubbleGIANFRANCO ZIGONI

 

Pes Miti del Calcio - View topic - Gianfranco ZIGONI 1966-1969

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Gianfranco_Zigoni

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Oderzo (Treviso)
Data di nascita: 25.11.1944

Ruolo: Attaccante
Altezza: 176 cm
Peso: 78 kg

Nazionale Italiano
Soprannome: Zigo - Cavallo Pazzo

 

 

Alla Juventus dal 1961 al 1964 e dal 1966 al 1970

Esordio: 10.12.1961 - Serie A - Udinese-Juventus 2-1

Ultima partita: 18.04.1970 - Serie A - Juventus-Roma 1-1

 

119 presenze - 33 reti

 

1 scudetto

1 coppa delle Alpi

 

 

«Metto fuori classifica io, Pelé e Maradona perché calcisticamente siamo tre extraterrestri.»

(Gianfranco Zigoni)

 

Gianfranco Cesare Battista Zigoni (Oderzo, 25 novembre 1944) è un allenatore di calcio ed ex calciatore italiano, di ruolo attaccante.

Ha al suo attivo 265 presenze e 63 gol in Serie A con le maglie di Juventus, Genoa, Roma, Verona, oltre a tre convocazioni in Nazionale, con la quale scese in campo solo una volta.

 

Gianfranco Zigoni
Gianfranco Zigoni - AC Hellas Verona 1973-74.jpg
Zigoni al Verona nella stagione 1973-1974
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 176 cm
Peso 78 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Attaccante
Termine carriera 1987 - giocatore
Carriera
Giovanili
1954-1958 non conosciuta Patronato Turroni
1958-1961   Pordenone
Squadre di club
1961-1964   Juventus 9 (3)
1964-1966    Genoa 58 (16)
1966-1970   Juventus 110 (30)
1970-1972   Roma 49 (12)
1972-1978   Verona 139 (29)
1978-1980   Brescia 40 (4)
1980-1983   Opitergina 42+ (4+)
1983-1987 600px 3 stripes Yellow HEX-FFFF00 Black.svg Piavon ? (4+)
Nazionale
1967 Italia Italia 1 (0)
Carriera da allenatore
1987-1997   Opitergina Giovanili
1997-2005 600px Arancione e Nero.svg Ponte di Piave Giovanili
2005-2009 600px Rosso e Blu3-Flag.svg Basalghelle Giovanili

 

Biografia

Nativo di Oderzo, ha trascorso l'infanzia nel Quartier Marconi, zona ai margini meridionali della città, provenendo da una numerosa famiglia contadina.

Ha avuto quattro figli: di questi, Gianmarco ha intrapreso anch'egli la carriera di calciatore, così come alcuni suoi nipoti.

Nel 2002 ha pubblicato, per le edizioni Biblioteca dell'Immagine di Pordenone, il libro Dio Zigo pensaci tu, un'irriverente e romanzata biografia, scritta dall'amico e collega Ezio Vendrame.

Si è procurato con gli anni una reputazione di ribelle ed eccentrico a causa del suo amore per l'alcol, le donne e i motori e per alcuni suoi comportamenti piuttosto bizzarri. Divenne per questo uno dei calciatori simbolo degli anni 1970.

Caratteristiche tecniche

Giocava da ala sinistra e da centravanti.

Carriera

Giocatore

Club

Inizi e Juventus

Da adolescente giocò nel Patronato Turroni, la squadra giovanile dell'oratorio. Notato dagli osservatori della Juventus, entrò nelle giovanili del Pordenone, all'epoca società satellite dei bianconeri, quindi si trasferì a Torino, debuttando in prima squadra il 10 dicembre 1961 in campionato contro l'Udinese a diciassette anni. All'epoca giocò anche un'amichevole con il Real Madrid, persa dagli juventini per 3-1: si dice che al termine della gara José Santamaría, difensore del Real, lo paragoni a Pelé con tanto di bestemmia annessa. Nel 1972, con la maglia della Roma, giocò proprio contro Pelé in amichevole contro il Santos.

Zigoni, in tre anni alla Juventus, giocò in campionato quattro partite in Serie A segnando un gol.

Genoa

Nell'estate del 1964 si trasferì al Genoa. Nella sua prima stagione in Liguria segnò, in media, un gol ogni tre partite: saranno 8 in tutto al termine della stagione in cui la squadra retrocesse.

Nella stagione successiva giocò quindi in Serie B, segnando 8 gol in 34 incontri: la squadra non ottenne la promozione per due punti, classificandosi quinta.

Ritorno alla Juventus
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Zigoni con la maglia della Juventus nel 1966

 

Al termine del prestito Zigoni fece ritorno alla Juventus contribuendo con 8 gol in 23 partite alla vittoria dello scudetto 1966-1967. Nella stagione successiva giocò le sue uniche partite in Coppa dei Campioni.

Anche nelle stagioni successive le sue presenze in campo non furono mai più di 22-23 all'anno, complici anche le frequenti squalifiche dovute al suo temperamento irrequieto. Calarono anche i gol: 7 nella stagione 1967-1968, 3 in quella successiva, 4 (in 14 gare) nella stagione 1969-1970, l'ultima con la casacca bianconera.

In totale con la Juventus Zigoni segnò 33 gol in 119 partite.

Roma
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Zigoni alla Roma nel 1971

 

Nel 1970 va a giocare nella capitale, alla Roma allenata da Helenio Herrera.

Nei suoi due anni con la Roma mise a segno 12 gol in 48 partite, ottenendo un sesto e un settimo posto in Serie A. Nella sua seconda stagione giallorossa vinse la Coppa Anglo-Italiana, contribuendo con un gol in finale, nel 3-1 contro il Blackpool il 24 giugno 1972.

Verona

Nel 1972, a ventotto anni, venne ingaggiato dal Verona. Negli anni passati in Veneto segnò meno che nelle stagioni precedenti, ma sia per le sue giocate sia per alcuni gesti clamorosi divenne un idolo della tifoseria. Il 20 maggio 1973, ultima giornata di campionato, il Milan in testa alla classifica doveva vincere a Verona per vincere lo scudetto. I veronesi vinsero per 5-3, permettendo alla Juventus di superare di un punto i rossoneri e vincere il quindicesimo titolo. Zigoni in quella gara fornì gli assist a Livio Luppi. Questo fu il primo dei due episodi che fece diventare la città scaligera per i milanisti la Fatal Verona.

 

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Zigoni con la sua famosa pelliccia, durante una gara del Verona passata in panchina

 

Nel 1974 la squadra venne retrocessa d'ufficio all'ultimo posto per illecito sportivo: Zigoni contribuì nella stagione successiva all'immediata promozione con 9 gol, il massimo numero di reti da lui segnato nelle sei stagioni veronesi. Nelle due annate successive segnò 2 gol in 18 presenze e 6 gol in 26 presenze: la squadra si classificò rispettivamente undicesima e nona. Nella stagione 1975-1976 la squadra raggiunse la finale di Coppa Italia, perdendola. Una volta Valcareggi lo lasciò in panchina e lui, non approvando la decisione, ci andò in pelliccia e cappello. Nel corso di un'amichevole di fine stagione Verona-Vicenza, dopo una partita in cui non brillò, a venti minuti dalla fine saltò in dribbling quattro avversari e infilò il pallone all'incrocio dei pali, salvo poi andare dritto negli spogliatoi, imitato dai tifosi che abbandonarono lo stadio.

Nella stagione 1977-1978, l'ultima a Verona, andò a segno una volta in 26 partite.

Brescia
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Zigoni al Brescia

 

Nel 1978, trentaquattrenne, passò al Brescia, sodalizio di Serie B guidato in panchina da Luigi Simoni. Durante il suo primo anno segnò 4 gol in 21 partite e la squadra arriva ottava.

Nella stagione successiva i lombardi ottennero il terzo posto e la promozione in Serie A. In quella stagione Zigoni non andò mai in rete in 19 presenze, uscendo quindi dai piani della società.

Nell'ultima stagione bresciana si rifiutò di giocare contro il Verona.

Opitergina e Piavon

Nell'estate del 1980, quella dello scandalo del "Totonero", Zigoni fu contattato di nuovo da Luigi Simoni, nuovo allenatore del Genoa, per tornare a giocare in Liguria, ancora in Serie B. Zigoni, trentaseienne, preferì tornare a Oderzo abbandonando il professionismo e andando a giocare nella squadra della sua città, ritrovandosi in squadra il suo concittadino Renato Faloppa. Nella cittadina trevigiana giocherà tre anni.

La dirigenza biancorossa finì il campionato di Serie D al penultimo posto. Nella stagione 1981-1982 la squadra perse la promozione allo spareggio contro il Pro Gorizia, mentre l'anno successivo arrivò terza.

Nel 1983 si trasferisce al Piavon, squadra di Terza Categoria dove ottiene una promozione in Seconda Categoria.

A Piavon, frazione comunale di Oderzo, terminò la carriera a quarantatré anni, contribuendo alla salvezza della squadra: l'ultima partita della carriera, nel maggio del 1987, la giocò contro il Musile di Piave, segnando quattro gol: la gara finì 5-4.

Nello stesso periodo gestiva un negozio di articoli sportivi a Oderzo sempre insieme a Faloppa.

Nazionale

Gioca la sua unica partita in nazionale il 25 giugno 1967, nella vittoriosa trasferta 1-0 sulla Romania.

Verrà convocato altre due volte senza scendere in campo.

Allenatore

Dopo il ritiro entrò come allenatore nel settore giovanile dell'Opitergina. Una decina di anni dopo lasciò la società per andare ad allenare le formazioni "Giovanissimi" nel Ponte di Piave e nel Basalghelle, due società dilettantistiche della zona.

In seguito è divenuto responsabile della Scuola Calcio del Basalghelle a lui intitolata, ed è stato spesso invitato a partecipare come opinionista in trasmissioni calcistiche in televisioni locali.

 

Palmarès

Giocatore

Club

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Competizioni nazionali
Competizioni internazionali

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Juventus Logo 3D" Poster by StepupDesign | RedbubbleGIANFRANCO ZIGONI

 

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«Quello è un “musso”, è un “figlio de puta” e poi ha troppe donne che lo sfiniscono, ma quando vuole è un purosangue». Queste parole, pronunciate da Saverio Garonzi, presidente di Gianfranco Zigoni nei suoi anni a Verona, riassumono perfettamente la personalità e il carattere del nostro. Pare di vederlo ancora, Zigo, che si toglie pelliccia e cappello, il suo abbigliamento da panchina, saluta il suo pubblico e, se gli gira bene, porta a casa la partita con un paio di prodezze.
Racconta: «Detestavo gli arbitri, tiranni al servizio delle squadre più potenti e fregarli non era solo un piacere, ma un dovere per chi giocava in una squadra di provincia. Sognavo di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso. Mi immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non più Bentegodi, ma Gianfranco Zigoni. Ho accumulato più giorni di squalifica che gol, perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili e ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica 30 milioni di multa perché dissi a un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio là. 30 milioni negli anni ‘70: all’epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertà di opinione. Ho un unico rimpianto, essermi tagliato i capelli alla Juventus, ma ero troppo giovane, non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli. Avevo una grande opinione di me stesso, pensavo di essere il più forte calciatore sulla terra. In campo odiavo l’avversario e lo colpivo con il mio pugno, che era micidiale, fuori gli volevo bene e lo invitavo a bere un whisky».
Un giorno, alla Roma, gli capita di incontrare il Santos di Pelé, in amichevole, all’Olimpico. «Mi dico: “Oh, giustizia sarà fatta, oggi il mondo capirà che Zigo-gol è più forte di Pelé”. Lo aveva già detto Trapattoni dopo un Genoa-Milan 3-1 degli anni ‘60, tripletta mia. “Ragazzi – dichiarò il Trap quel giorno – Zigoni è meglio di Pelé”. Lo aveva ammesso Santamaría, gran difensore, dopo una sfida Juve-Real Madrid: io avevo fatto impazzire il Santa, finte e tunnel, e quello a fine partita si rivolse così a Del Sol: “Este chico es mejor que el N***o”. Ero convinto della cosa, mi sentivo più bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi. Poi arriva l’amichevole con il Santos, vedo Pelé dal vivo e mi prende un colpo. Madonna, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annuncerò in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparo la dichiarazione in terza persona: “Zigoni lascia l’attività, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno più forte di lui”. A un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelé va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora è umano, penso, e così resto giocatore».
Girava in pelliccia, mangiava coniglio e polenta prima di un allenamento, erano più le volte in cui usciva dal campo con la maglietta ancora asciutta, ma sapeva come far innamorare i tifosi. Calzettoni perennemente abbassati, una stempiatura evidenziatasi ben presto nonostante sulla nuca i capelli fossero sempre lunghi, Gianfranco Zigoni dall’inizio degli anni ‘60 alla fine dei ‘70 è stato uno dei calciatori più spettacolari. Faceva impazzire gli allenatori, ma li ripagava sul campo: «Più forte di me? C’è stato solo Pelé, io ero il corrispettivo in bianco. Solo che per avere continuità avrei anche dovuto allenarmi, qualche volta».
Il vocabolo estroso sarebbe fin troppo riduttivo per inquadrare Zigo-gol. Lui era la mosca bianca, quello che usciva dagli schemi, che non si faceva ingabbiare, convinto che il suo enorme talento sarebbe comunque emerso. Juventus, Genoa, Roma, Verona, Brescia: «In bianconero vinsi anche uno scudetto con Heriberto Herrera: mi faceva impazzire chiedendomi di andare a coprire a centrocampo. Quello era uno Zigoni vincente, ma triste».
Il meglio è convinto di averlo dato a Verona e nelle ultime due stagioni con il Brescia: «A Verona ero e sono tuttora un idolo. I bambini incidevano sui banchi delle chiese il mio nome e i preti si arrabbiavano con me. Ci vorranno almeno altri trent’anni prima che a Verona mi dimentichino. Quando giocavo penso di aver distribuito almeno 5mila fotografie autografate e ancor oggi i tifosi mi chiamano nei club».
Arriva a Brescia l’11 ottobre 1978, al mercatino di riparazione, lo pagarono 60 milioni. Ha già 34 anni, si teme che sia a tirare indietro il piedino, ma serve una quarta punta dietro il trio Mutti-Grop-Mariani: «La squadra era in B e navigava in brutte acque. Mi chiamò il mio amico Gigi Simoni, con il quale avevo giocato nella Juventus. Giocai 21 partite e segnai 4 gol, ci risollevammo in fretta per una salvezza dignitosa».
Quando la gara non si sblocca, dalle scalette del Rigamonti si alza il coro: “Zigo, Zigo, Zigo” e Simoni, puntualmente, opera il cambio. Capita però che vada a prendere posto in panchina a partita già ampiamente iniziata. Capita proprio in un Brescia-Verona del 6 gennaio 1980: «A una certa età il freddo pungente fa male», commenta a fine gara, mentre Simoni lo guarda sorridendo. «L’anno della promozione non feci gol, ma dopo un pessimo inizio della squadra giocai 4 partite consecutive e facemmo 7 punti. Ci diedero la spinta decisiva».
L’anno successivo è quello della promozione: «Rimasi, ben sapendo che il mio compito sarebbe stato quello di uomo spogliatoio». Lo ricordano con il numero 14 sulle spalle (al tempo in panchina andavano tre giocatori), in quei riscaldamenti sotto la tribuna del Rigamonti: «Entravo sempre, io dicevo al mister di far giocare i giovani, ma lui aveva bisogno della mia esperienza».
Ma Zigoni in che ruolo giocava? «Lerici, l’allenatore che ebbi al Genoa, diceva prima della partita: date la palla a lui. Ero un numero 11, che aveva bisogno di giocare a briglie sciolte, oggi mi farebbero stare, forse, nei Dilettanti, eppure ero il più forte. Per fare un’altra carriera avrei dovuto rinunciare a parecchie bicchierate con gli amici, e vedere qualche alba in meno, ma non ne valeva la pena».
Fare il calciatore per Zigoni è stato un gioco. Il bello è che gli è venuto anche bene. Nonché un aneddoto ulteriore, con parole sue: «Prima della gara Valcareggi mi dice: “Zigo, oggi non giochi”. Non c’era nulla da fare, dovevo andare in panchina, e visto che era una giornata molto fredda decisi di andare in campo con la pelliccia e il cappello. Entrai in campo e ci fu un boato».
 
NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL GIUGNO 2016
È l’antica Opitergium, oggi Oderzo provincia di Treviso, ad aver dato i natali a Gianfranco Zigoni, venuto al mondo il 25 novembre 1944 sotto le bombe, nel quartiere Marconi, il Bronx come lo definisce lui. È qui che si è manifestato il lussureggiante talento di uno dei giocatori-simbolo degli anni ‘70 quanto a genialità e anticonformismo. Capelli lunghi, viso stropicciato, sguardo truce. D’inverno la pelliccia. E sotto la pelliccia, il petto nudo e la fondina con la pistola. Ma soprattutto, sotto la pelliccia, un ragazzo nato libero, buono e romantico, roso da un’inquietudine eterna che ancora oggi non lo abbandona. Una carriera lunghissima che lo ha visto indossare le maglie di Juventus, Genoa, Roma, Verona e Brescia, prima di chiudere ultraquarantenne con l’Opitergina e il Piavon nei Dilettanti.
Uno scudetto con i bianconeri nel 1967 e una serie infinita di avventure. Il Bronx si diceva: è qui che ci troviamo, nella sua vecchia casa. Piano terra, una taverna tappezzata da foto e ritagli di giornali. Un tazebao di ricordi, tra immagini giovanili, ritratti del “Che” e la sciarpa del Rayo Vallecano. “Tatino”, il fratello minore, è con noi: a lui il compito di preparare il pranzo. Uova sode, salame, formaggio e buon vino. «Questa è l’amicizia. Condividere la tavola».
La nostra chiacchierata inizia così, a stomaco pieno. «Siamo una famiglia di sportivi. Mio figlio Gianmarco è adesso alla Spal. Spero che faccia bene. È un bravo centravanti oltre che un ottimo figliolo. Mio fratello Duilio era un pugile. Domenico e Fiorenzo calciatori; Giovanni era una grande atleta, oggi purtroppo è malato di sclerosi a placche e costretto alla sedia a rotelle. Tatino, che ha più di 60 anni, fa ancora le maratone. Io 42 chilometri non li ho mai corsi in tutta la mia carriera».
 Però tra i calciatori sei stato il più grande.
«Grande è solo Dio, Gesù. Poi Che Guevara per la sua idea di uguaglianza. I grandi veri sono i missionari, i chirurghi».
 E tu dove stai?
«Sto con i fuoriclasse del pallone. Insieme a Pelé e Maradona perché calcisticamente siamo tre extraterrestri».
 Pelé lo hai visto da vicino.
«Amichevole Roma-Santos, 1972, in notturna. Una meraviglia nera. Salta di testa un paio di volte. Salta e rimane sospeso in aria. Di fronte a quella visione, mi dico: “Io al calcio non gioco più”. Poi Ginulfi, il nostro portiere, gli para un rigore ed io riprendo coraggio. “Allora Pelé è come me”».
 L’unica differenza è il colore.
«Parole di Gipo Viani, il mio direttore tecnico quando ero al Genoa, metà anni ‘60. Una volta disse anche che la nostra squadra era come il letame con un diamante incastonato, riferendosi a me. Io risposi dicendo che dal letame nascono i fiori. E i miei compagni sono ancora lì a ringraziarmi».
 Per il madridista Santamaria eri più forte di Pelé.
«Lo disse al mio grandissimo amico Del Sol dopo avergli chiesto chi fosse il “niño” con la maglia numero 9. Real Madrid-Juventus, avevo 17 anni. Perdemmo 3-1, il gol lo feci io. E nel tabellino dei marcatori accanto ai nomi di Puskas e Di Stefano, c’è anche quello di Zigoni».
 Chiamato Gianfranco in memoria del fratello morto piccolino, quinto di otto figli.
«Una grande famiglia: mio padre Francesco faceva l’operaio; mia madre Stefania tutto il resto. Devo tutto a loro e al Bronx, il mio quartiere dove ho imparato a vivere. Libertà, giochi, amicizia, uguaglianza. C’erano anche molti bambini di famiglie che venivano dal Sud. Mai saputo cosa fosse il razzismo. Un’infanzia non semplice, ma bella. Il fiume, le prime nuotate. La campagna, le corse e quando arrivava maggio con il rosario serale alla Madonna, si stava fuori anche dopo cena».
 E al Bronx c’è spazio anche per il pallone.
«Ed io ero il Duce. Non c’erano regole o costrizioni. Si giocava liberi, a piedi nudi. Solo l’istinto e il talento naturale. Ed io sono sempre stato il migliore. Sai quante volte ho giocato da solo contro tutti! A fine carriera ho allenato per anni i bambini. E con loro sono tornato ai quei primi anni fantastici».
 Eri tifoso di qualche squadra da piccolo?
«Il Grande Torino mi era entrato nel cuore, anche per la sua tragica fine. Stravedevo per Nacka Skoglund, grandissimo per la vita e anche per la morte. Mi piaceva Fausto Coppi. Mi attrae il talento, specie quando è maledetto. Anche in altri campi come la poesia e la musica. Ho avuto un debole per Pasolini con cui ho giocato una volta in una partita con gli artisti: mi fece un cross d’esterno che neanche i miei veri compagni di squadra. Ero l’idolo di Fabrizio De Andrè e lui lo era per me».
 Come è che sei finito alla Juventus?
«Fosse stato per me non mi sarei mai mosso dal paese. Ma ero bravo e se ne accorsero quelli del Pordenone che, a fine anni ‘50, era una succursale della Juve. Mi venne a cercare al quartiere Bepi Rocco e mi trovò che stavo palleggiando davanti casa a piedi nudi. Feci il provino per il Pordenone sotto gli occhi di Viri Rosetta, che lavorava per la società bianconera. Quindici minuti, tanto durò la mia esibizione. Preso all’istante».
 Quanti anni avevi?
«Quindici e fino ad allora non avevo avuto mai nessun allenatore. Non volevo farne di niente. Fu il prete a insistere e a convincere mia madre. Ed io lo feci per lei, santa donna. Al Pordenone trovai Ercole Rabitti. Un anno dopo ero alla Juve insieme ad altri tre ragazzi. Ricordo ancora il viaggio in treno a Torino: era la prima volta che ne prendevo uno».
 Come stavi?
«Male. Mi pesava la lontananza. Mi dicevo che cosa ci stessi facendo lontano da casa. Per fortuna c’erano dei parenti a Torino. E poi le regole, le fatiche, le corse. L’ho sempre detto: avevo doti tecniche incredibili; con l’allenamento le ho solo peggiorate».
 Quanto guadagnavi alla Juve?
«15mila lire al mese. A Natale portai i soldi dei primi quattro mesi a casa e li consegnai a mia madre per le esigenze di famiglia. Tempo dopo andai a fare un prelievo e sul libretto che mi era stato aperto ci trovai 50mila lire. Hai capito? Ce li aveva messi mia mamma i soldi in più. Mi viene ancora adesso la pelle d’oca dall’emozione».
 Alla Juve hai l’opportunità di conoscere Omar Sivori.
«Un fuoriclasse, un’artista. Il primo incontro fu traumatico. Ero in sede insieme ad altri compagni. Lui si avvicina e ci chiede chi, nella squadra giovanile, indossi il “10”. Divento rosso come un peperone quando gli dico che lo porto io. “Ragazzo cambia maglia perché con quel numero non giocherai mai”».
 E invece hai giocato la tua prima partita con la Juve proprio con la sua maglia.
«10 dicembre 1961, avevo 17 anni, trasferta a Udine. Omar era infortunato e chi poteva sostituirlo se non io? I giornali parlarono di me. Allo stadio c’erano anche tanti miei compaesani a vedermi. Purtroppo l’emozione mi tagliò le gambe. Non feci bene».
 Chi ti ha impressionato di più alla Juve, oltre al Cabezon?
«Luis Del Sol. Un uomo vero, dritto, leale e sincero. Gran fumatore, grande bevitore, ma in campo un giocatore fondamentale e di una generosità unica. Lui non mi avrebbe mai detto a brutto muso di portargli la borsa come fece una volta Sivori. Io, comunque gli risposi per le rime: “Perché non porti tu la mia?”».
 Non c’è male come risposta: è per questo che a novembre 1964 lasci la Juve?
«No. Ero giovane e dovevo giocare. Meglio avere qualche opportunità altrove. Andai al Genoa e per due anni sono stato benissimo, nonostante la retrocessione in B. Giocavo, facevo divertire la gente, ho vinto i due derby con gol miei. E poi c’era mister Lerici che diceva alla squadra: “Ma quale tattica e tattica. Date la palla a Zigoni. Se ha voglia di giocare la partita è vinta. Altrimenti non c’è nulla da fare, possiamo stare qui anche tre giorni senza fare risultato».
 Hai sempre avuto voglia?
«No. Odiavo i compiti tattici. Dovevo essere libero di esprimermi. Il mio talento non poteva essere imbrigliato. Se mi lasciavano fare non ce n’era per nessuno. Una volta in un Inter-Juventus giovanile feci piangere Aldo Bet che non riusciva mai a beccarmi. Anni dopo in un Verona-Lazio, all’ennesimo tentativo di aggrapparsi alla maglia, tiro un cazzotto in faccia ad Ammoniaci che per poco non rimane secco e duro in campo. Lui dopo si rialzò. Io presi quattro giornate di squalifica».
 Immagino che non vedevi l’ora di allenarti.
«Non ho mai sopportato gli allenamenti. Ero sempre l’ultimo al campo. E se per caso capitava di arrivare in anticipo, mi nascondevo per poi comparire quando gli altri erano già pronti per la seduta. Anche prima della partita mi preparavo per ultimo e chiudevo la fila all’ingresso nello stadio. Il bello è che, specie a Verona, mi facevano trovare la roba già pronta, cosa che faceva imbestialire qualche mio compagno, su tutti Domenghini che era stato all’Inter e in Nazionale. Ma a lui rispondevano che solo per me facevano questo, perché ero Zigoni, il migliore».
 E dei ritiri che mi dici?
«Che io facevo di tutto per starci il meno possibile e per trovare altri modi di impiegare il tempo. Le notti erano lunghe. Sì, ho avuto molte donne. Ho bevuto, soprattutto whisky. Ma ho anche letto tanti libri, soprattutto di filosofia. Mi piaceva vivere la notte, respirarne l’aria, guardare le stelle. E la mattina dormivo fino alle dieci. E guai a chi mi svegliava prima, perché mi incazzavo come una bestia».
 Anche con Guidolin?
«Francesco era molto giovane. Era in camera con me. La squadra si trovava alle 8.30 per fare colazione. Allora io gli dicevo di portarmi caffè e cornetto direttamente in camera, alle dieci in punto, non un minuto prima. E lui da bravo figliolo, eseguiva».
 E nessuno reclamava?
«Qualcuno sì. Per esempio Antonio Logozzo, baffuto terzinone con i piedi di marmo. Una mattina fuori dalla mia camera sento il suo vocione, mentre io sono ancora a letto. Stava chiedendo a Valcareggi il perché di quel privilegio. E il mister, un grande, rispose così: “Tonino, quando avrai i suoi piedi potrai dormire anche tu fino alle dieci”».
 La leggenda narra di uno Zigoni abile tiratore con la pistola.
«Ma quale leggenda? È la verità. Io avevo una Colt 45, registrata e con regolare porto d’armi. La portavo sempre con me nella fondina sotto la pelliccia. E quando ne avevo voglia, aprivo la finestra della camera e centravo tutti i lampioni a portata di tiro. Lo facevo già alla Roma, con Petrelli. Al Verona era un testa a testa con Mascalaito, uno che tirava benissimo».
 Manca il capitolo delle auto per completare il quadretto.
«La storia più bella è quella dell’incidente con la mia Porsche. Un trattore mi attraversa la strada. Per scansarlo finisco in fossato. Macchina sfasciata, ma io neanche un graffio. Dietro di me, su un’altra auto, c’è il mio compagno Maddè e il medico del Verona. Che si precipitano verso di me. E allora io fingo di essere morto. Loro iniziano a urlare: “Zigo è morto”, hanno le facce come il marmo. Alcuni secondi di panico, poi gli faccio l’occhiolino. Me l’hanno perdonata dopo un po’ di tempo. Invece il padrone del trattore mi chiese l’autografo».
 E infine l’allergia alle regole e agli arbitri in particolar modo.
«L’ideale è giocare come si faceva da bambini, senza arbitro. Non ho mai sopportato l’ingiustizia. Prendevo fuoco subito e qualche volta dovevano contenermi con la forza. Una volta quando ero a Verona, giocavamo con una squadra che doveva salvarsi, noi eravamo tranquilli. L’arbitro la combinò grossa: convalidò l’1-0 su punizione di seconda che fu tirata direttamente in porta e poi vide solo lui il classico gol-fantasma che valse il 2-1 finale. Lo avrei strangolato».
 Qual è stato l’episodio più clamoroso che ti ha visto protagonista?
«Di sicuro quello con il guardalinee che, dopo un Verona-Vicenza, nel sottopassaggio a fine gara, ebbi l’ardire di interrompere un dialogo tra me e il mio compaesano Faloppa».
 Perché?
«Voleva sapere cosa gli avevo detto in campo durante la partita.
 E in campo cosa era successo?
«A una mia protesta, lui mi si avvicinò e mi disse: “Sei sempre per terra, non stai in piedi”. Effettivamente la notte precedente ero stato con una donna fino all’alba. Ma quelli non erano fatti suoi e lo mandai a quel paese. Così a fine partita venne da me a chiedermene conto. Ed io gli dissi: “Come ti permetti di interrompermi mentre sto parlando. La bandierina te la cacci su per il c**o”. Morale, mi dettero sei giornate di stop e mi tolsero sei mesi di stipendio».
 Nel 1966 torni alla Juve e vinci lo scudetto.
«Feci il gol del 2-0 nell’ultima gara contro la Lazio. Lo avevo detto a Cinesinho di tirare teso, sul primo palo. Il merito di quello scudetto va tutto a Heriberto Herrera, che ci ha creduto fino in fondo».
 Come erano i tuoi rapporti con HH2?
«Tesi. Lui mi ha tarpato le ali. E di me diceva. “Tua madre è una santa, ma tu sei un hijo de puta”. È stato un dittatore, una volta mi dette un cazzotto nello stomaco perché in una partita di Coppa Campioni contro l’Olympiakos non avevo seguito il mio marcatore. Mi è dispiaciuto lasciare la Juve, ma non sopportavo le regole ferree, le telefonate alle dieci di sera, i capelli corti».
 E così nel 1970 vai alla Roma.
«Due stagioni discrete. Con Bob Vieri una volta litigammo per battere una punizione. Intervenne l’arbitro Lo Bello a mettere fine alla sceneggiata. Calciai io e feci gol. Un’altra volta a Catanzaro tirai da lontanissimo, approfittando del vento. Del Sol mi dava del pazzo, io segnai. E la sera in tv lo fecero rivedere molte volte».
 A Roma trovasti l’altro Herrera, Helenio.
«Una pacchia. Perché il Mago era innamorato perso di Fiora Gandolfi. Così lui verso le undici di sera, credendo che la squadra stesse dormendo, lasciava il ritiro per andare da lei. E noi si faceva lo stesso».
 1972: inizia la tua storia d’amore con il Verona.
«Sono stato lì sei anni. Mi hanno voluto bene. Ed io ho ricambiato l’affetto con tutto me stesso. Sono stati i tifosi gialloblù a scrivere un giorno su uno striscione: “Dio Zigo, salvaci tu”. Una cosa bellissima».
 Alla fine del tuo primo campionato con il Verona, fate lo scherzetto al Milan di Rivera: fu tutto regolare?
«Regolarissimo. Altrimenti io non sarei sceso in campo. In tutta la mia carriera solo due volte, in campo, ripeto: in campo, ci siamo di fatto accordati per un pareggio. E solo un’altra volta, in un Cesena-Brescia di B, alcuni ex compagni che giocavano nella squadra romagnola, ci chiesero di lasciare loro la vittoria. Io comunque non mi risparmiai, tanto da far fare una figuraccia al mio marcatore che era osservato dal Milan e che non fu preso».
 Torniamo alla “Fatal Verona” che costò lo scudetto della stella al Milan.
«La verità è questa. A noi la società aveva promesso il premio doppio, 600mila lire a testa per la vittoria. Noi eravamo salvi, ma c’era in ballo la regolarità del campionato. Nessuno di noi avrebbe potuto tirarsi indietro. Io ricordo che mi scaldai parecchio quando vidi lo stadio colorato di rossonero. Guardai il mio amico Mazzanti e gli dissi: “Questo non va bene”. Allora rivolto ai miei compagni dico: “Datemi al più presto il pallone, che ci penso io”».
 Minuto 17: fuga di Zigoni sulla destra, cross in area e Sirena fa l’1-0.
«E il Milan affondò. Il primo tempo finì 3-1 per noi. Nel secondo tempo arrivarono altre due reti per parte per il 5-3 finale. E lo scudetto alla fine lo vinse la Juve».
 Ma durante l’intervallo non successe nulla?
«Niente. Temevo che qualcuno del Milan potesse venire da noi, ma erano miei pensieri. La partita è stata regolarissima. L’unica cosa è che il presidente Saverio Garonzi ci fregò perché ridusse il premio a 500mila lire».
 Tu e Garonzi eravate veramente una coppia di fuoco.
«Gli davo del tu, lo chiamavo Saverio. Se il Verona vinceva ero il migliore. Se perdeva la colpa era mia che avevo troppe distrazioni. Era un uomo normale che aveva fatto i soldi con il lavoro. Era rimasto modesto e tremendamente tirchio. Una volta mi regalò una cravatta. Ed io gli dissi: “Saverio, e che ci faccio solo con la cravatta. Mi serve anche il vestito”. Acconsentì. Ma quando gli arrivò il conto, 350mila lire, minacciò di tagliarmi lo stipendio».
 Una volta ti promise una Jaguar, vero?
«Era usata, verde. Comunque sì. L’avevo vista nella sua concessionaria. “Se fai otto gol te la regalo”. Ero a quota sette. Contro la Sampdoria c’è un rigore per noi. Prendo il pallone per calciare, ma Emiliano Mascetti, il rigorista della squadra, non ne vuole sapere. Litigammo in campo per alcuni minuti. Poi il mio amico Mazzanti mi convinse. Ed io, per ripicca, in quel campionato non segnai più, rimanendo a sette gol».
 Garonzi nel gennaio del 1975 fu vittima di un rapimento.
«Ed è rimasto sempre convinto che io fossi uno dei suoi carcerieri».
 Nel 1975, dopo il ritorno in A, sulla panchina del Verona si siede Ferruccio Valcareggi.
«Un papà. Mi fece debuttare in Nazionale, nel 1967, a Sofia contro la Bulgaria. Poi mi convocò altre due o tre volte, senza farmi giocare. Così gli dissi di non chiamarmi più. E addio maglia azzurra. Mi voleva bene e mi ha sempre trattato come un figlio».
 Però quella volta che ti tenne fuori con la Fiorentina, ne tirasti fuori un’altra delle tue.
«Stagione ‘75-76. Andai in panchina con la pelliccia e il cappello da cow boy. Ma guarda che non credevo di suscitare tanto scalpore».
 Mica dici sul serio?
«Il “Valca” si permise di tenere fuori il più grande. “Zigo oggi non giochi”. “Come, non fa giocare il giocatore più forte del mondo? Sta scherzando spero!”. I miei compagni, tra cui anche Klaus Bachlechner, molto tirchio, scommisero che non sarei andato in panchina conciato in quel modo. Scommessa persa, ma io avevo già deciso che l’avrei fatto comunque».
 E del malore nell’intervallo di Juventus-Verona che mi dici?
«L’anno dopo, campionato ‘76-77. La verità è che mi colpì di striscio una bottiglietta mignon sulla spalla. Sirena e Franzot che erano dietro di me mi dissero di buttarmi per terra, mentre un ragazzino fece sparire la bottiglia. Io mi sentii male davvero, ma per l’agitazione che mi prese, non per il colpo subito. Mi dettero un calmante, non stavo in piedi e non rientrai in campo. Valcareggi insistette perché rientrassi, ma non ce la facevo proprio».
 Qual è il gol che ricordi con più piacere della tua parentesi veronese?
«La bordata di destro, che non è il mio piede migliore, in un’amichevole contro il Vicenza. Una rete bellissima. E appena vidi la palla gonfiare la rete me ne andai dal campo. E così fece gran parte del pubblico del Bentegodi che non avrebbe potuto vedere di meglio».
 Avresti mai lasciato Verona?
«No. Nel 1974 rifiutai una bella offerta dell’Inter. Il mio sogno era quello di morire con la maglia del Verona addosso con tanto di intitolazione del Bentegodi al sottoscritto: “Stadio Gianfranco Zigoni”. Senti come suona bene».
 Dopo il Verona, ancora un po’ di professionismo con il Brescia in B.
«Al Brescia mi chiamò il mio ex compagno Gigi Simoni nel 1978. Gli detti una mano per la promozione in A l’anno dopo. Poi ho preferito fare ritorno a casa tra la mia gente».
 C’è stato un tuo erede?
«Dirceu, che ha giocato anche nel Verona. Un giorno lo incontrai a Milano e lui mi venne incontro per ringraziarmi di tanto onore».
 Hai tatuaggi?
«Nessuno. I veri tatuaggi li ho nel mio cuore: i miei genitori, la mia nipotina morta a quattro anni e tutti i bambini del mondo».
 

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