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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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L’INTERVISTA Carlo Petrini

“Soldi, truffe e doping

è il calcio di sempre”

di MALCOM PAGANI & ANDREA SCANZI (il Fatto Quotidiano 28-12-2011)

Gli è rimasto qualche desiderio. “Mi piacerebbe bere un caffettino”. Ottiene

una brodaglia nerastra allungata con l’acqua. Un fondo in cui leggere e

diluire passato e presente. Il campo adesso è un divano, la mobilità

un’illusione e l’orizzonte un muro di nebbia. “Ho tumori al cervello, al rene

e al polmone. Ho un glaucoma, sono cieco, mi hanno operato decine di volte e

dovrei essere già morto da anni. Nel 2005 i medici mi diedero tre mesi di

vita. È stato il calcio. Ne sono certo. Con le sue anfetamine in endovena da

assumere prima della partita e i ritrovati sperimentali che ci facevano colare

dalle labbra una bava verde e stare in piedi, ipereccitati, per tre giorni. Ci

sentivamo onnipotenti. Stiamo cadendo come mosche”. Ieri, abbattuto dalla

leucemia se n’è andato anche Sergio Buso. Saltava da portiere nella Serie A

degli anni 70. Quella raccontata da Carlo Petrini, centravanti di Genoa, Milan,

Roma, Bologna e di altre stazioni passeggere: “Da mercenario che pensava solo

a drogarsi, scopare, incassare assegni e alterare risultati”. Vinse, perse,

barò. Scrisse libri su doping e calcioscommesse. Fece nomi e cognomi. Rimase

solo. Il Carlo Petrini di ieri non c’è più. Il corpo che un tempo gli serviva

per conquistare amori di contrabbando e tribune esigenti tra San Siro e il

Paradiso, è un quotidiano inferno che gli presenta conti con gli interessi e

cambiali da scontare. A 63 anni, con il vento che scuote Lucca e non lo

accarezza più, non c’è Natale o epifania possibile. A metà conversazione,

mentre lamenta l’abbandono di chi un tempo gli fu amico: “Ciccio Cordova,

Morini, non mi chiama più nessuno”, un segno. Squilla il telefono. La voce di

Franco Baldini (San Prezzemolo - ndt). Il dirigente della Roma. Il nemico di

Luciano Moggi. Petrini gli parla: “Ho fatto molta chemio. Sto cercando di

superare il male. Io spero, Franco. Spero ancora”. Poi lacrima. In silenzio.

Rumore di rimpianto. E di irreversibile.

Petrini, come si racconterebbe a chi non la conosce?

Un presuntuoso. Un ċoglione. Uno che credeva di essere un semidio e morirà

come un disgraziato. Ero bello, forte, ricco, invidiato. Avevo tutto e ora non

ho niente.

Perché?

I miei errori iniziarono a metà dei ’60, al Genoa. Siringhe. Sostanze. La

chiamavano la bumba. Avevo 20 anni. Non smisi più. Il nostro allenatore,

Giorgio Giorgio Ghezzi, ex portiere dell’Inter, ci faceva fare strane punture

prima della gara. Un liquido rossastro. Se vincevamo, si continuava.

Altrimenti, nuovo preparato.

Cosa c’era dentro?

Mai saputo. L’anno dopo, disputammo a Bergamo lo spareggio per non retrocedere

in C. Il tecnico Campatelli scelse cinque di noi come cavie. Stesso intruglio

per tutti. Eravamo indemoniati. La punta, Petroni, sembrava Pelé. Vincemmo 2-0

e, in premio, ebbi il trasferimento al Milan.

Perché non vi ribellavate?

Venivamo da famiglie poverissime. Mio padre era morto a 40 anni, di Tetano.

Rifiutare le punture, le pastiglie di Micoren o le terapie selvagge ai raggi X,

significava essere eliminati. Fuori dal circo. Indietro, in cantina, senza

ragazze o macchine di lusso. Nei nostri miserabili tinelli, con la puzza di

aringa che mia madre metteva in tavola un giorno sì e l’altro anche.

Quindi continuò ad assumere sostanze proibite?

Ovunque andassi. A Roma il massaggiatore ce lo diceva ridendo: ‘A ragà, forza,

fa parte der contratto’. A Milano, dove mi allenava Rocco, feci invece i raggi

Roengten per guarire da uno strappo muscolare. Non so se Nereo sapesse. Con me

aveva un rapporto particolare: ‘Testa de casso, se avessi il cervello saresti

un campiòn’.

Di radiazioni Roengten, secondo la famiglia, morì anche Bruno Beatrice.

Fu mio compagno a Cesena, Bruno. Se ne andò a 39 anni, a causa di una rara

forma di leucemia, tra agonie e sofferenze atroci. Come tanti, troppi altri.

Si muore di pallone?

Hanno sperimentato su di noi. Non ci curavano, ci uccidevano. Vorrei sapere

con quali ausili gli eroi contemporanei disputano 70 incontri l’anno.

Lei insinua.

Affermo, ma non ho le prove. Nonostante l’impegno di Guariniello, hanno

nascosto tutto. Ai nostri tempi le punture le faceva chiunque e un minuto dopo,

sentivi un mostro che ti sollevava e ti faceva volare .

Chi ha nascosto tutto?

Allenatori, calciatori, presidenti. Il sistema che ancora foraggia con le

elemosine quelli capaci di non tradire. Gente che ogni mattina si alza con la

paura e che continua a tacere anche se oggi, grazie agli ‘aiutini’

farmacologici o è una lapide con un’incisione o recita da vegetale.

Di chi parla Petrini?

Di quel piccolo uomo di Sandro Mazzola, che ha smesso di parlare al fratello

Ferruccio. Di Picchio De Sisti, che nega l’evidenza nonostante la malattia. O

del commovente Stefano Borgonovo. Uno che sta molto male, aggredito dalla Sla

e che continua a sostenere che il pallone non c’entri nulla. Se non mi facesse

piangere, verrebbe da ridere.

E invece?

Sono triste. Vedendo come sei e come potresti essere, persino peggio di ora,

ti vengono mille domande senza risposte. Parliamo di gente che non ha

respirato amianto o fumi in miniera. Ha inseguito una sfera e muore

nell’indifferenza in una guerra non dichiarata. Non sono un dottore, ma non

può non esserci una relazione tra le mie malattie e quelle di altri calciatori.

Prova rancore?

A volte li sogno. Con i loro sorrisi falsi. Le loro bugie. Vorrei

cancellarli. Non ci riesco.

Lei fu tra i protagonisti del primo calcioscommesse, quello della

primavera 1980.

E oggi succede la stessa cosa. Partite combinate, risultati compromessi, soldi

gestiti dalla camorra, dalla mafia, dalla ‘ndrangheta.

La ‘ndrangheta forse uccise Bergamini. Lei ci scrisse un libro.

Che è servito per riaprire l’inchiesta, dopo più di 20 anni. Bergamini era

l’ingenuo, il ragazzo pulito, smarrito in una vicenda più grande di lui. La

scoprì, provò a uscirne e lo fecero fuori. Dentro la sua squadra, il Cosenza,

c’era chi organizzava traffici di droga. Bergamini era l’anello debole e fu

suicidato.

Nel suo libro lei ha intervistato anche il compagno di stanza di

Bergamini, Michele Padovano, appena condannato per traffico di

stupefacenti. Il padre del calciatore Mark Iuliano lo ha chiamato in

causa.

La sua condanna non mi stupisce. A fine intervista, Padovano si alzò

di scatto, mi mandò a fare in ċulo e provò a distruggere la

registrazione. Sono sicuro che lui sappia tutto della morte di Denis.

Tutto. Bergamini ne subiva l’ascendente. Del padre di Iuliano non so

cosa dire, su Mark si raccontavano tante cose, non solo sulla sua

presunta tossicodipendenza. Si raccontava che mandasse baci alla

panchina rivolti a Montero, un’ipotetica‘ p rova ’ della sua

omosessualità.

Dica la verità. Lei ce l’ha con la Juve, fin dal 1980.

Al contrario. La salvai. Nell’80 giocavo con il Bologna. Bettega

chiamò a casa di Savoldi e ci propose l’accordo. Tutto lo spogliatoio

del Bologna, tranne Sali e Castronaro, scommise 50 milioni sul

pareggio. Prima della partita, nel sottopassaggio, chiesi a Trapattoni

e Causio di rispettare i patti: ‘Stai tranquillo, Pedro, calmati’, mi

risposero.

Tutta la Juve sapeva?

Certo. Rivedetevi le immagini, sono su Youtube . Finì 1-1. Errore del

nostro portiere, Zinetti e autogol di Brio. Bettega ce lo diceva,

durante la partita: ‘State calmi, vi faccio pareggiare io’. La gente

ci fischiava e tirava le palle di neve. Una farsa. Quando lo scandalo

esplose, Boniperti e Chiusano mi dissero di scovare Cruciani e

convincerlo a non testimoniare contro la Juve: se li avessi aiutati,

loro avrebbero aiutato me. Fui di parola, incontrai Cruciani al

cancello 5 di San Siro, ero mascherato. Una scena surreale. Lui

accettò e la Juve si salvò dalla retrocessione. Ma alla fine pagai

soltanto io.

Le è rimasta la possibilità di raccontare.

Neanche quella. Ho dato fastidio a gente potente. Mi hanno minacciato

di morte e poi coperto con gli insulti. Per i Savoldi e i Dossena ero

un bugiardo, per Rivera un pornografo. Se l’era presa perché lo

descrivevo per quello che era, una fighetta. I miserabili sono loro.

Mi impedirono di andare persino a parlare nelle scuole. Zitto dovevo

stare, ma non ci sono riusciti.

E la scrittura?

Mi è rimasta solo quella. Il nuovo libro, Lucianone da Monticiano, è

ancora su Moggi. Il mio compaesano. Uno che pur squalificato continua

a ricattare e a fare il mercato di mezza Serie A. Ma non sarà l’ultimo.

Perché?

Mi dedicherò a ricordare mio figlio Diego. Morì a 19 anni di tumore,

mentre chiedeva di vedermi e io ero in Francia, in fuga dai creditori.

Non me lo sono mai perdonato. Gli farò un regalo. Proverò a sentirmi

vivo. Sono distrutto e sofferente, ma non mollo. Vivere, ancora, mi

piace.

Ci sarà tempo?

Non è detto. Penso sempre al giorno in cui ci sarà giustizia. Aspetto

ma non viene mai.

ma non è querelabile?

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Joined: 23-Jun-2006
1495 messaggi

ma non è querelabile?

o almeno eco-compatibile ?? sefz

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Joined: 01-Feb-2007
2391 messaggi

E' veramente inqualificabile. Da anni, per evitare querele, dice di essere malato terminale. Ormai non ci crede più nessuno: il più longevo terminale di tutti i tempi. E già ha in programma altri 2 libri di cui uno, quello su Moggi evidentemente dettato da Franco Baldini. Sottolineo la porcata scritta a proposito di Iuliano e Montero :

1)quando mai questi è stato in panchina

2) ma ve l'immaginate la scena che descrive Petrini in uno stadio con la telecamera addosso?

3) ma non sono loro che in altri tempi furono addirittura accusati di frequentare prostitute donne in un centro benessere di Torino?

Comunque è uno che parla per sentito dire in almeno il 90% delle cose che dice. Sulla partita con il Bologna, che è poi l'unico motivo che ha indotto il milanista Andrea Scanzi e il romanista Malcom Pagani, figlio di Barbara Alberti, ad intervistarlo, dovrebbero partire le querele degli interessati fregandosene altamente che sia o no terminale... da almeno 6 anni.

Petrini a (s)parlare nelle scuole. Una cosa rivoltante.

Modificato da karel

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Joined: 14-Jun-2008
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Meno male che la settimana scorsa non ho

postato l'intervista allo stesso Petrini de l'Unità.

Petrini non è querelato anche perché gli si

darebbe troppa importanza.

Ma nel caso della famigerata combine con il Bologna e delle

dettagliate informazioni sulle somministrazioni mediche

dell'epoca non credo che le spari grosse.

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Joined: 14-Jun-2008
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E' veramente inqualificabile. Da anni, per evitare querele, dice di essere malato terminale. Ormai non ci crede più nessuno: il più longevo terminale di tutti i tempi. E già ha in programma altri 2 libri di cui uno, quello su Moggi evidentemente dettato da Franco Baldini. Sottolineo la porcata scritta a proposito di Iuliano e Montero :

1)quando mai questi è stato in panchina

2) ma ve l'immaginate la scena che descrive Petrini in uno stadio con la telecamera addosso?

3) ma non sono loro che in altri tempi furono addirittura accusati di frequentare prostitute donne in un centro benessere di Torino?

Comunque è uno che parla per sentito dire in almeno il 90% delle cose che dice. Sulla partita con il Bologna, che è poi l'unico motivo che ha indotto il milanista Andrea Scanzi e il romanista Malcom Pagani, figlio di Barbara Alberti, ad intervistarlo, dovrebbero partire le querele degli interessati fregandosene altamente che sia o no terminale... da almeno 6 anni.

Petrini a (s)parlare nelle scuole. Una cosa rivoltante.

karel, va bene tutto ma non mi toccare(-te) il "canaro" Scanzi, cinofilo ed affettuoso papà di due femmine nere di labrador.

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Joined: 10-Sep-2006
5193 messaggi

Mi ricordo della presunta combine tra Juve e Bologna.

L'ufficio inchieste della Figc indagò e parecchio. E voi pensate che con tutto l'odio antijuventino non avrebbero agito nei confronti della Juve?

Allora si discusse molto non sull'autogol di Brio, ma su una frase che Causio disse a Trapattoni dopo il gol della Juve: "e ora che facciamo?"

Certo che questo Petrini spara a destra e a sinistra.

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Joined: 10-Sep-2006
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Roma, 28 dic. (Adnkronos) - ''Questo e' un processo mediatico, non e' un processo normale. Nel nostro Paese gli interrogatori sembrano basati sulle indiscrezioni e poi finiscono in televisione. I calciatori coinvolti? Sono quattro sfigati e quando mi hanno detto del match Palermo Bari mi sono messo a ridere, non era certo una partita in cui si poteva modificare. Lasciamo finire le indagini, perche' da quando le scommesse ci sono i giocatori hanno sempre scommesso''. E' quanto affermato in diretta telefonica a Tgcom24 dal presidente del Palermo Calcio, Maurizio Zamparini.

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Un Teppista che si fa leggere

di MATTEO MARANI dal blog "IL CORSIVO" (Guerin Sportivo.it 28-12-2011)

Nino Ciccarelli, storico capo dei Viking interisti, non è un nome qualsiasi

nell’universo delle curve. È un cattivo, un duro, un capo, uno che si è fatto

dodici anni di galera, tra risse nei parcheggi e successive rapine a mano

armata. La decisione di raccontare la sua vita, le sue imprese di ras, a un

giornalista della Ģazzetta dello Sport, Giorgio Specchia, fondatore dello

stesso gruppo della Nord e amico da sempre, ha permesso di svelare uno

spaccato interessante.

Ecco: dico interessante. Così ho trovato “Il teppista” (Indiscreto editore),

che mi sono letto di un fiato nel pomeriggio di Santo Stefano. So che a Milano,

tra i ragazzi della metropoli, il libro sta avendo un grande successo. E non

potrebbe essere altrimenti, perché è un testo generazionale, che racconta –

partendo dal calcio – i ragazzi nati negli Anni 60. La droga, la politica, le

catture ai primini al liceo, la Milano dei paninari e dei punk.

Per età, ho vissuto anch’io quella stagione, più nella seconda parte degli

Anni 80 che non nella prima. E ricordo, in un’altra curva, con altri colori e

con diverso orientamento, personaggi assurdi, stravaganti, violenti. C’era di

tutto. L’Occhiolino di cui scrive Ciccarelli, pardon Specchia, drop-out che

vive alla Stazione di Milano, è appartenuto a tantissime curve. E così i

Lamieroni, che altrove si chiamavano carro-bestiame. I treni, le notti in

viaggio per andare a vedere la propria squadra perdere, Ascoli dove si finiva

sempre sotto la sassaiola dei tifosi di casa e che nell’89 vide la tragedia di

Nazzareno Filippini. È stato un tempo, un’esperienza comune per molti.

Nelle curve c’era di tutto. Forse più di oggi, anche se non ci metto piede da

troppi tempo per fare dichiarazioni. Disperati e universitari, tossici e

futuri architetti. Un collage sociale che i giornali non hanno mai capito,

nemmeno le generazioni più giovani. E su questo la penso esattamente come

Specchia, pardon Ciccarelli. Luoghi comuni, ghettizzazione, semplificazioni

che finiscono sempre per fare il gioco dei violenti, di chi vuole estremizzare

lo scontro con il resto del mondo.

Nino Ciccarelli confessa anche di giocatori interisti trovati nei privèe

strafatti e strabevuti, con mignotte al loro fianco. Brasiliani che

festeggiano fino all’alba, prima di una partita di campionato, con tanto di

trans. Se lo avesse scritto un qualunque altro personaggio, per esempio un

giornalista, si sarebbe beccato la reazione stizzita della società. Magari una

querela. Invece tutti tacciono. Non possono certo accusare Ciccarelli di

avercela con l’Inter.

Modificato da Ghost Dog

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Un Teppista che si fa leggere

di MATTEO MARANI dal blog "IL CORSIVO" (Guerin Sportivo.it 28-12-2011)

Nino Ciccarelli, storico capo dei Viking interisti, non è un nome qualsiasi

nell’universo delle curve. È un cattivo, un duro, un capo, uno che si è fatto

dodici anni di galera, tra risse nei parcheggi e successive rapine a mano

armata. La decisione di raccontare la sua vita, le sue imprese di ras, a un

giornalista della Ģazzetta dello Sport, Giorgio Specchia, fondatore dello

stesso gruppo della Nord e amico da sempre, ha permesso di svelare uno

spaccato interessante.

Dopo quest'ulteriore perla di affiliati con la Gazza io non ho più parole.

Solo Moggi e Giraudo restano marci a prescindere per i candidi.

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Joined: 10-Dec-2011
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Dopo quest'ulteriore perla di affiliati con la Gazza io non ho più parole.

Solo Moggi e Giraudo restano marci a prescindere per i candidi.

già in questo caso uno che ha fatto 12 anno è un dio.pazzesco

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moggi farebbe il mercato di mezza serie a??ci devo credere?e come?

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Joined: 30-Aug-2006
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NAZIONE INFETTA, CALCIO CORROTTO – DUE LE PARTITE DELLA LAZIO PRESUNTE TAROCCATE - GERVASONI, EX DIFENSORE DEL PIACENZA, HA RACCONTATO LA STRATEGIA DEGLI “ZINGARI” DELL'EST EUROPEO CHE ERANO CONSIDERATI IL BRACCIO ARMATO DEL GRUPPO DI SINGAPORE: “VOLEVANO COMPRARE INTERE SQUADRE” - SPUNTA UNA TALPA NELLA LEGA CALCIO CHE AVREBBE INFORMATO DELLO STATO DELL’INCHIESTA DONI E BETTARINI. È PROPRIO L’EX GANZO DELLA VENTURA A PARLARNE IN UNA INTERCETTAZIONE TELEFONICA REGISTRATA DALLA POLIZIA…

1- GARE SOSPETTE, C'E' ANCHE LA LAZIO

di Cristiana Mangani e Massimo Martinelli per Il Messaggero

L'onda lunga dello scandalo era gonfia di fango fino a pochi mesi fa, a maggio 2011. E avrebbe sporcato anche la Capitale, almeno a sentire il più loquace degli indagati interrogati finora, Carlo Gervasoni, ex difensore del Piacenza. E' stato lui a consegnare nelle mani del gip Guido Salvini e del pm Roberto Di Martino, il tabellino di due partite della Lazio, all'Olimpico con il Genoa e con il Lecce in trasferta, (entrambe vinte dai biancoazzurri per 4 a 2) indicandole come truccate. E poi un'altra, Palermo-Bari, finita 2 a 1, anch'essa - a suo dire - taroccata.

E poi i nomi, circa una ventina. Tre dei quali di rilievo, inediti, sui quali la procura di Cremona deve ancora terminare le verifiche: due di loro hanno addirittura vestito la maglia azzurra nel recente passato. Il più in vista è un centrocampista della Lazio Calcio e anche della Nazionale, che ha superato da poco la trentina.

Secondo Gervasoni sarebbe l'infiltrato degli Zingari nello spogliatoio di Formello, quello che di volta in volta valutava la disponibilità di compagni di squadra e avversari per addomesticare i risultati. Per gli inquirenti, invece, è proprio l'uomo sul quale occorre essere il più cauti possibile, perché la sua posizione deve essere ancora verificata.

Secca la smentita della società, a parlare è Stefano De Martino il portavoce: «La Lazio è totalmente estranea a qualsiasi indagine sul calcioscommesse. Come sono estranei i suoi dirigenti e i suoi calciatori».

Tuttavia un primo riscontro ai tentativi di «combine» sulle partite della Lazio è arrivato nella serata di ieri anche dal difensore Alessandro Zamperini (l'uomo che provò a offrire duecentomila euro a Simone Farina del Gubbio), che è stato ascoltato dagli inquirenti subito dopo Gervasoni.

Zamperini, già squalificato da mesi e poi arrestato nella maxi retata del 19 dicembre scorso, avrebbe confermato di aver provato a influenzare il risultato di quel Lecce-Lazio del 22 maggio scorso, senza però riuscirci. I magistrati gli hanno contestato che nei giorni del match, in un albergo pugliese era alloggiato uno dei sodali dell'organizzazione, Hristian Ilievski, che difficilmente si sarebbe mosso per una partita sulla quale non c'era un accordo sicuro.

Ma il suo legale, Roberto Ruggiero, avrebbe fatto presente che tutti gli accertamenti bancari sul suo cliente avrebbero escluso passaggi di denaro sospetti, che invece sarebbero risultati nel caso di una sua partecipazione attiva al sodalizio criminale.

Ci sono poi altri due giocatori di serie A, citati da Gervasoni. Il primo è un ex attaccante che ha militato in nazionale under 21 e nella nazionale maggiore dopo aver esordito in serie A a soli 15 anni: secondo Gervasoni avrebbe contribuito a truccare almeno un Chievo-Novara di Coppa Italia finito tre a zero.

L'altro è un difensore che oggi è in forza al Bologna, ma che avrebbe avuto contatti con l'organizzazione criminale quando era suo compagno di squadra nelle file del Piacenza. Secondo Gervasoni avrebbe contribuito a influenzare il risultato di Atalanta-Piacenza del 19 marzo scorso, quando un rigore fu provocato proprio da plateale colpo d'anca dello stesso Gervasoni.

Nel suo verbale ci sono poi le conferme al lavoro degli inquirenti, con l'indicazione dei calciatori che gravitavano nell'ambiente del Grosseto Calcio e che avrebbero contribuito in maniera diversa alla realizzazione di combine: da Paolo Acerbis a Matteo Gritti, da Josè Ignacio Joelson a Kawelly Conteh, a Riccardo Fissore, Marco Turati, Mario Cassano, Alessandro Pellicori fino a Cristian Bertani. Per ognuno di loro, Gervasoni avrebbe raccontato un dettaglio imbarazzante, che gli investigatori si stanno preoccupando di verificare.

Ma oltre a nomi, date, incontri, Gervasoni ha raccontato anche la strategia dei predoni del calcio italiani, cioè del vertice del gruppo degli «zingari» dell'Est europeo, che erano considerati il braccio armato del gruppo di Singapore, al quale fa capo il sistema delle scommesse messo a fuoco dall'inchiesta della procura di Cremona: «Volevano comprare intere squadre», avrebbe rivelato il calciatore agli inquirenti.

Sarebbe stato questo il perfezionamento di un sistema che già lo scorso anno consentiva di scommettere anche sei milioni e mezzo sulle partite di serie B. Non ci riuscirono, ha precisato Gervasoni. Se ce l'avessero fatta, se avessero avuto la certezza matematica di scommettere sul sicuro, probabilmente, il volume delle giocate sarebbe diventato elevatissimo. Tale da imporre alla banda l'organizzazione di un sistema di raccolta delle scommesse alternativo a quello ufficiale per evitare ogni controllo

2- LA SEGRETARIA DEL GIUDICE SPORTIVO LA TALPA CHE INFORMAVA I GIOCATORI

C.Man. e M.Mart. per Il Messaggero

Spunta una talpa nella Lega Calcio che avrebbe informato dello stato dell'inchiesta Cristiano Doni e Stefano Bettarini. È proprio Bettarini a parlarne in una intercettazione telefonica registrata dalla polizia nello stesso giorno in cui l'ex calciatore è stato sentito dalla giustizia sportiva.

Subito dopo l'incontro, l'ex marito di Simona Ventura ha chiamato Stefania Ginesio, segretaria del Giudice sportivo, dalla quale, secondo le indagini, lui e altri calciatori raccoglievano informazioni sulle inchieste, e le ha detto: «Li ho spiazzati», ammettendo di scommettere ogni tanto e ammettendo di essere stato tesserato dal Chievo «per pubblicità».

La telefonata viene fatta il 7 luglio. Bettarini dice: «Sono andato, mi hanno chiesto: "Ma lei scommette?" E io: "Certo! Ogni tanto scommettevo". Una volta che ho letto le intercettazioni ho capito che nascondere era una cagata micidiale». E Ginesio risponde: «Esatto. Quindi li hai spiazzati». «E li ho spiazzati - insiste l'ex calciatore - però, quello che ti voglio dire è che loro... Io volevo evitare di dirlo, perché per non andare incontro alla sanzione, capito? Che però, secondo me, se capiscono che io non ero un atleta tesserato, ma solo tesserato per pubblicità, eh».

«No - replica la donna - sei fuori comunque... ma sicuramente non possono farti niente, se non giocavi, non hai mai scommesso sul Chievo, cioè non c'entri un c... col Chievo, quindi. Non possono darti la squalifica per te che non giocavi più, capito? Perché tu non stavi più giocando».

Bettarini: «No, a me più che la squalifica, mi preoccupa la multa». Ginesio: «Beh chiaro... Ma no, secondo me tu... non ti daranno neanche la multa vedrai».

La presenza di una talpa viene confermata anche dall'ex idolo dei tifosi atalantini Cristiano Doni che, in fibrillazione prima di comparire davanti al procuratore sportivo Stefano Palazzi, non ha esitato a cercare l'aggancio in Lega calcio a Milano, con il suo collega Thomas Manfredini e con Bettarini.

Nelle migliaia di atti depositati nell'inchiesta, infatti, si legge che da Stefania Ginesio i calciatori ricevevano «particolari dell'inchiesta diversamente a loro sconosciuti» e ricevevano «preziosi consigli sulla strategia da riferire ai propri legali per contrastare le accuse del procuratore federale».

In alcune conversazioni, annotano gli agenti della polizia di Stato, la donna «non nasconde di poter arrivare facilmente a raggiungere gli appartenenti alla Commissione per indirizzare la sentenza in favore dei calciatori, anche se poi non emerge alcun elemento che possa avvalorare questa sua possibilità».

«È comunque indubbio - concludono gli investigatori - che la stessa, appartenendo comunque all'organo federale della Lega Calcio, possa di conseguenza facilmente riconoscere alcuni membri della Commissione giudicante».

Stando a quanto raccontato da Doni nell'interrogatorio, poi, la manipolazione della partita che più l'ha inguaiato, Atalanta-Piacenza, del 19 marzo 2001, serviva proprio a far ottenere alla squadra la serie A. «Io per l'Atalanta ho sempre giocato con il massimo impegno - ha spiegato al Gip Guido Salvini e al procuratore della Repubblica Roberto Di Martino nell'interrogatorio di garanzia - e non ho guadagnato nulla dai fatti che ho raccontato».

Fu avvicinato per Ascoli-Atalanta, sempre dello scorso campionato, ma ha raccontato di non avere voluto incontrare l'ascolano Micolucci, coinvolto nella combine, e ha aggiunto di non avere avuto la sensazione di una particolare arrendevolezza da parte dell'Ascoli nel corso della partita durante la quale, tra l'altro, era in panchina».

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Joined: 14-Jun-2008
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I MAGISTRATI E L’ICEBERG

CALCIOPOLI È LONTANA

di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 29-12-2011)

Guardare gli iceberg dal di sotto è uno dei compiti, anzi dei doveri della

magistratura. Ed è giusto, giustissimo indagare in modo prudente ma fermo sul

nuovo versante delle scommesse: perché tutti vogliamo sapere quanto ghiaccio

ci sia sotto la superficie dell’immane vergogna, un ghiaccio capace purtroppo

di gelare passioni e illusioni. Però è altrettanto giusto sapere, meglio

presto che tardi, se una parte di quel ghiaccio non sia soltanto un riflesso

nell’acqua, insomma una specie di illusione ottica.

Perché, a cominciare dal battesimo scelto dagli inquirenti, “Calciopoli bis”,

i toni di questa vicenda appaiono un po’ eccessivi, forse sovradimensionati.

Infatti Calciopoli, la prima e ineguagliabile (diffidare dalle imitazioni),

mise in luce un apparato delinquenziale parallelo, capace di controllare le

designazioni arbitrali e falsare l’esito sportivo dei campionati. Al momento,

questa viscida evoluzione della specie rimane semmai un bieco sottobosco di

millantatori, truccatori da strapazzo e mezze tacche. Personaggi da commedia

all’italiana si muovono come in un film di terz’ordine, parlano come mangiano,

cioè male e impiastricciandosi tutti col sugo. Se da un lato l’inchiesta

mostrerebbe scenari internazionali e un modello deviante globalizzato,

dall’altro siamo rimasti ai rubagalline, a quelli che assicurano di conoscere

Tizio e Caio senza averli magari mai visti. Per dirla tutta, una massa di

sfigati, però pericolosi.

I protagonisti delle intercettazioni, a parte il fantozziano Doni i cui gesti

si commentano da soli, fanno rabbia e mettono tristezza. Raffigurano il

calciatore che non è mai stato nessuno. Non accettano la fine di una carriera

in fondo mai davvero esistita, trovano gloria malata e luce tardiva, sinistra,

giocando la partita del malaffare. Quanti altri rappresentano? Quanto marciume

esiste, a parte quello ascoltato nei telefonini? (E c’è ancora qualcuno, in

questo bizzarro Paese, che se la prende con le intercettazioni).

E’ una faccenda tutta da svelare, e saranno grossi problemi anche per la

giustizia sportiva che promette tempi rapidi man mano che arrivano le carte,

ma per forza di cose sarà giustizia sommaria a processo penale in corso: un

film già visto, di nuovo. Infine, si deve capire se nel ghiaccio sotto

l’iceberg ci sono anche i campioni, i nomi grossi tirati in ballo e già

smentiti da legali e magistrati. Il calcio marcio ci ha abituati a tutto, però

attenzione alle sentenze prima del tempo, alle false testimonianze e ai

bugiardi. Perché con la giustizia non si scherza, ma con le persone ancora

meno.

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I MAGISTRATI E L’ICEBERG

CALCIOPOLI È LONTANA

di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 29-12-2011)

quante cavolate che scrivono questi prezzolati da 4 soldi (spesi male)

una partita falsata è certamente falsata se si accerta che ad indirizzare il risultato siano i giocatori stessi, più falsata di così... cosa vuoi di più...

in calciopoli c'erano solo chiacchere e distintivo (cit.)

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ANSA) - ROMA, 28 DIC - Cinque giocatori, sette presidenti e dieci club deferiti alla Disciplinare dal procuratore federale Stefano Palazzi per l'inchiesta 'Premiopoli', sull'attivita' di intermediazione svolta da Fabrizio Ferrari in favore di societa' dilettantistiche e professionistiche per il pagamento dei premi di preparazione e alla carriera. Tra i giocatori deferiti, Simone Pesce e Francesco Millesi. Tra i club, per responsabilita' oggettiva, Ascoli, Catania, Frosinone e Paganese.

TRA I GIOCATORI PESCE E MILLESI

Premiopoli, ecco i deferimenti

Ci sono anche Catania e Ascoli

di SIMONE DI STEFANO (Tuttosport 29-12-2011)

ROMA. Sembrava quasi esser diventata l’inchiesta di Pulcinella, una specie di

Odissea senza fine. Con due proroghe, altrettante dimissioni sospette e

faldoni spariti all’improvviso dagli uffici della Procura federale la scorsa

estate. Ieri, dopo mille peripezie, il procuratore federale Stefano Palazzi ha

emesso i deferimenti di “Premiopoli”, l’indagine incentrata sull’attività di

«intermediazione e consulenza svolta da Fabrizio Ferrari in favore di società

dilettantistiche e professionistiche, in ordine al pagamento di premi di

preparazione ed alla carriera», un sistema che però veniva spesso raggirato

con false autocertificazioni. Per questo (e altri per non essersi presentati a

deporre in procura) sono stati deferiti alla Disciplinare cinque giocatori,

sette presidenti e dieci club. Palazzi ha deferito tutti per violazione

dell’articolo 1 (lealtà e probità sportiva), oltre a Ferrari cinque calciatori

tra cui Simone Pesce, al tempo dei fatti tesserato per l’Ascoli e ora al

Novara; e Francesco Millesi, ai tempi del Catania e ora all’Avellino; per

responsabilità oggettiva, tra gli altri, il Frosinone, l’Ascoli, la Paganese e

il Catania. In una nota separata inoltre, Palazzi comunica che «è stata

sottoposta al presidente federale, per quanto di sua eventuale competenza ai

sensi degli art. 10 e 36 Noif, la posizione di una persona che, all’epoca dei

fatti, era collaboratore della Federazione». Si tratterebbe di Amerigo Pichi,

ex professore di matematica in ottimi rapporti personali con Abete e

considerato l’uomo chiave di questa storia, quello che in Figc avevano

soprannominato «semaforo» in quanto era lui a decidere se accogliere o meno le

richieste, e che nell’agosto 2010 si dimisse all’improvviso dopo alcune

deposizioni sul suo conto.

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I MAGISTRATI E L’ICEBERG

CALCIOPOLI È LONTANA

di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 29-12-2011)

....

stanno scoperchiando un'organizzazione malavitosa ramificata e questo ha il coraggio di fare paragoni con calciopoli. il magistrato riceve lettere minatorie con proiettili e questo parla di paparesta chiuso negli spogliatoi e del processo di biscardi .oddio

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Il destino

di Enke

di JUAN VILLORO* (Internazionale 930 | 30 dicembre 2011)

Il 10 novembre 2009 Robert Enke, il portiere della nazionale tedesca, è sceso

in campo per l’ultima volta. Ha detto a sua moglie che andava ad allenarsi, è

salito sulla sua Mercedes 4x4 e si è diretto verso un piccolo paese con un

nome che forse gli sarà sembrato significativo: Himmelreich, regno del cielo.

Lì vicino c’è un campo dove passa la ferrovia. Il portiere ha lasciato il

portafoglio e le chiavi sul sedile della macchina, e non si è neanche preso la

briga di chiudere lo sportello. Ha camminato sotto la pioggia, come aveva

fatto molte altre volte per difendere la porta del Carl Zeiss Jena, del

Borussia Mönchengladbach, del Benica, del Barcellona, del Fenerbahçe, del

Tenerife o dell’Hannover 96. A duecento metri, cioè a circa due campi da

calcio di distanza, era seppellita sua figlia Lara, morta all’età di due anni.

Un portiere esemplare, Albert Camus, lasciò i campi polverosi dell’Algeria per

dedicarsi alla letteratura. Abituato a essere fucilato ai rigori, scrisse un

saggio acceso contro la pena di morte. La sua prima lezione morale la imparò

giocando a calcio. Anni dopo avrebbe scritto: “Non c’è che un problema

filosofico realmente serio: il suicidio”. Morire a rate è la specialità del

portiere. Eppure in pochi passano dalla morte simbolica di un gol

all’annientamento della loro stessa vita. Enke si è spinto oltre la maggior

parte dei suoi colleghi. La sua morte, di per sé dolorosa, si trascina un

altro enigma: era all’apice della carriera e avrebbe potuto difendere la porta

del suo paese ai Mondiali del Sudafrica.

Di solito il numero 1 della Germania esercita una leadership inflessibile.

Sepp Maier, Toni Schumacher, Oliver Kahn e Jens Lehmann si piazzavano tra i

pali con la sicurezza dei custodi veterani. I portieri tedeschi invecchiano

come se la pensione non esistesse e gli anni dessero più energie. Enke aveva

32 anni, attraversava un buon momento sportivo, ma gli mancava un tratto

fondamentale dei grandi portieri tedeschi: era un uomo della retroguardia che

non amava la notorietà, parlava poco di se stesso e serbava segreti di cui

quasi nessuno era a conoscenza.

Forse il successo ha contribuito alla sua tensione nervosa. Il ruolo da

titolare in nazionale sembrava essere a portata di mano e avrebbe comportato

nuove sfide. Nella strana roulette interna che Enke s’imponeva sarebbe stato

meglio un fallimento. Odiava la pressione, ma dall’età di 8 anni, quando entrò

nei pulcini del Carl Zeiss Jena, pensava solo a intercettare palloni. I

bambini vogliono fare quasi sempre gli attaccanti. Solo i grassi, quelli molto

alti, i lenti o gli strani si rassegnano a ricoprire il ruolo che li obbliga a

lanciarsi per terra e a sporcare i vestiti nel cortile della scuola. Il numero

1 è l’ultimo della squadra. È l’ultima risorsa.

Solo dove si dà molto valore alla resistenza il portiere diventa un beniamino.

In Germania anche gli intellettuali hanno le loro ferite. Max Weber sfoggiava

con orgoglio la cicatrice che gli aveva lasciato un duello con un componente

di una (con)fraternita studentesca nemica. Il bambino che sceglie di fare il

portiere ha le ginocchia sbucciate e si sporca con il fango del sacrificio.

Nel paese dove Sepp Maier fabbricava guanti bianchi per affrontare un destino

oscuro, Enke scelse di fare il portiere.

Il calcio professionistico può invadere un organismo e prenderne possesso.

Per chi cresce in quest’ambiente, la realtà è fatta di tragitti in pullman tra

una partita e l’altra. Nella sua mente ci sono solo il prato, il pallone e i

passaggi veloci. C’è un aspetto decisivo a cui si dà poco peso: il modo in cui

una persona si svuota di tutto il resto per diventare un calciatore al 100 per

cento. Il paradosso è che i giocatori più completi sono quelli che conservano

altre passioni, che siano le tagliatelle della mamma, i numeri privati delle

top model o l’amore per il rock o la samba.

Enke era un fondamentalista del calcio, un puritano che non pensava a

nient’altro e che preferiva vestirsi di nero come i portieri di un tempo, che

ogni domenica emulavano i sacerdoti. Difendere il destino della Germania ai

Mondiali del 2010 poteva portarlo alla gloria. Senza quell’opportunità

decisiva, Enke sarebbe stato più sereno.

I suoi veri problemi professionali risalivano a un po’ di tempo prima. Enke

debuttò con il Carl Zeiss Jena nel 1995, ma rimase nella squadra solo una

stagione. Dopo vari anni passati nel Borussia Mönchengladbach riuscì a fare il

salto in una grande squadra europea, la squadra portoghese del Benfica. I

tifosi lo amavano, ma la squadra attraversava un periodo difficile. In un anno

si erano alternati tre allenatori e allora Enke decise di accettare un posto

più allettante, senza sapere che sarebbe stato il peggiore della sua vita.

“Nessun ruolo nel calcio ti mette alla prova come essere il portiere del

Barcellona”, disse in seguito. Nella sofferta era del dispotico Louis van Gaal,

Enke è stato il fragile difensore della porta del Barcellona. Gli danno

ancora la colpa dell’eliminazione dalla Coppa del Re contro una squadra di

terza divisione.

Il Barcellona ti consacra o ti annienta. Al Barcellona Maradona si è dato alla

cocaina e Ronaldinho ha trionfato e ha provato a superare la pressione del

successo con la variante brasiliana della psicoanalisi: le discoteche. E al

Barcellona Enke ha sofferto i suoi momenti di depressione più forte. Con

rassegnazione, l’emigrato tedesco ha accettato di difendere la porta del

Fenerbahçe, in Turchia, e da lì è passato a una piccola isola europea: è stato

portiere del Tenerife, in seconda divisione. Quando nella sua biograia

abbozzata si profilava un fallimento, ha avuto l’opportunità di tornare in

Germania con l’Hannover 96. L’esperienza è la grande alleata dei portieri e

Robert Enke ha dimostrato di meritare una seconda opportunità. La rivista

Kicker l’ha nominato miglior portiere tedesco. Alcuni giocatori non sono fatti

per uscire dal proprio paese, ma se ne rendono conto solo quando si ritrovano

sotto i piedi un campo da calcio straniero. Enke aveva bisogno della terra

tedesca. Tornato nel suo ambiente, ha recuperato la regolarità e la forza. A

quel punto la vita privata lo ha messo davanti a delle sfide terribili: sua

figlia di due anni, Lara, è morta per un’insufficienza cardiaca. Lui e la

moglie hanno adottato un’altra bambina, Leila. Il portiere si sentiva più

sicuro di sé, ma la sua paranoia ha trovato un’altra via di fuga: temeva che

si scoprisse la sua depressione e aveva paura di perdere la custodia della

figlia. Ovviamente era una fantasia di autodistruzione.

Il numero 1 soffriva spesso di depressione, anche se il sostegno non gli

mancava. Sua moglie era diventata un misto tra un’infermiera e una consulente

sentimentale, e suo padre, Dirk Enke, fa lo psicoterapeuta. Il dottor Enke ha

cercato di sminuire l’importanza che il figlio dava al calcio. Gli mandava dei

messaggi per chiedergli come stava, ripetendogli che il benessere personale è

più importante dei trionfi sportivi. Ma ormai era tardi per la pedagogia:

Robert Enke aveva ricevuto la sua vera educazione in campo. Il calcio di alto

livello richiede prestazioni estreme. In quell’ambiente, quando qualcuno si

sente male, si dice che non potrà giocare perché è stato colpito da un

“virus”. Non c’è spazio per i problemi personali: solo i deboli ne hanno.

Forse la Germania ha inventato l’aspirina come un paradosso per ricordare che

niente è più importante della sopportazione del dolore. Nella mia scuola

tedesca avevo un maestro che dal dentista si faceva curare senza anestesia. Ce

lo raccontava come se fosse un trionfo morale.

A sette partite dal ritiro Toni Schumacher, ex portiere della nazionale

tedesca con un’aria da moschettiere, diventato tristemente famoso per aver

privato di alcuni denti il francese Battiston ai Mondiali di Spagna, concesse

un’intervista ad André Müller per il settimanale Die Zeit. Il risultato fu una

confessione degna di un monologo teatrale. In quel momento il portiere giocava

in Turchia ed era stato espulso dalla nazionale per le sue dichiarazioni sulla

corruzione e sull’uso di droghe nella Bundesliga. Nel suo ultimo lamento da

portiere disse: “La gente crede che io sia freddo perché sopporto il dolore.

Una volta ho chiesto a mia moglie di spegnermi una sigaretta sul braccio e ho

sofferto come avrebbe fatto chiunque. Ho ancora la cicatrice. Volevo

dimostrare che è possibile sopportare quello che si vuole. Non sono un pezzo

di ghiaccio. Sono vulnerabile come chiunque altro. Sono solo brutale con me

stesso. Non sono un genio come Beckenbauer. Non ho ereditato niente. Siamo nel

purgatorio. Quando non sentirò più dolore, sarò morto”. L’area piccola della

Germania è un purgatorio all’aria aperta.

Nel 1897 Émile Durkheim pubblicò la sua monumentale ricerca sociologica Il

suicidio. In quell’opera associò la tendenza di alcune persone a volersi

togliere la vita all’anomia sofferta da tutta la società. Il malessere

collettivo influisce in modo diffuso, ma decisivo, nella ripetizione delle

tragedie dei singoli. In altre parole: le cause del suicidio sono sempre

individuali, ma alla fine dell’anno la quota stabilita dalla società è

inevitabilmente raggiunta. Quale paese manifesta le tendenze suicide più

forti? “Di tutti i popoli germanici ce n’è uno particolarmente incline al

suicidio: i tedeschi”, sostiene Durkheim.

Sarebbe semplicistico pensare a Enke come l’espressione di una tendenza

nazionale, ma senza dubbio ha vissuto in un ambiente estremamente esigente

dove non c’era spazio per le scuse. Non ha rispettato un codice di onore

samurai riconoscibile dai suoi pari. Nella cerimonia di addio che si è tenuta

nello stadio dell’Hannover 96, la sofferenza ha investito tutto il calcio

tedesco e probabilmente è diventata uno stimolo per futuri trionfi.

Trasformare il calvario in un successo è stata una specialità tedesca ai

Mondiali.

Portento di dedizione e disciplina, la nazione che ha conquistato tre volte

la coppa del mondo ed è stata quattro volte vicecampione, è composta per lo

più da nevrotici che non si parlano negli spogliatoi, ma in campo diventano

alleati indistruttibili. “Il portiere della nazionale è un simbolo di forza

fisica”, ha scritto Der Spiegel su Enke. “Dev’essere irreprensibile.

Controllato. Sicuro di sé. Non c’è ruolo più difficile nel calcio, ed Enke

l’aveva ottenuto”. Gli amici e i familiari che gli erano più vicini

conoscevano la severità con cui si giudicava e la sua fragilità. “Non si

godeva niente”, ha detto il padre, il terapeuta Enke.

Non è possibile curare l’anima di un portiere. Non basta sapere di star bene:

la sconfitta decisiva può arrivare la domenica successiva.

Quando l’ultimo uomo della squadra perde la concentrazione, il suo destino è

segnato. Moacir Barbosa fu il primo portiere nero della nazionale brasiliana

ed ebbe una carriera di tutto rispetto, ma molti lo ricorderanno per l’errore

nella finale al Maracanã, nel 1950, che impedì al Brasile di vincere i

mondiali. La responsabilità del portiere è assoluta. Ci sono attaccanti che

hanno bisogno di dieci opportunità per fare centro ed escono orgogliosi dal

campo. Invece l’uomo dei guanti non può distrarsi. Il suo ruolo è definito

sulla base dei possibili sbagli. “Vorrei essere una macchina”, ha detto una

volta Schumacher. “Mi odio quando commetto degli errori. Come potrei

combattere se non m’importasse niente del risultato? La nostra è un’enorme

fabbrica. Quando non funzioni, sei rimpiazzato dal primo che aspetta in fila.

Forse solo la morte cura la depressione”. Era un presagio dell’esigente

destino che, quasi vent’anni dopo, è toccato in sorte a uno dei suoi

successori.

Il portiere è il giocatore che ha più tempo per riflettere. Non per niente è

una persona molto preoccupata. Alcuni portieri cercano di tenere a bada i

nervi con la superstizione (sputano sulla linea di porta, sistemano una

mascotte portafortuna accanto alla rete, pregano in ginocchio, indossano i

guanti logori regalati da una fidanzata che non hanno voluto sposare ma gli ha

portato bene). Altri cercano di vincere la preoccupazione con la superbia,

considerando che un gol contro non vale nulla. Ma è raro che non abbiano

un’anima tormentata. Schumacher trasformava questa tensione in drammaturgia:

“A volte mi concentro con l’odio e provoco il pubblico. Non gioco solo contro

gli altri undici uomini. Sono più forte quando sono circondato dai nemici.

Quando la mėrda mi ricopre so che posso comunque resistere. Un atleta non

diventa creativo con l’amore, ma con l’odio”. Enke non ha mai avuto la

lucidità di trasformare in forza le emozioni negative, ma aveva ereditato la

porta di Schumacher e le sue reti tese dalla furia.

Nel calcio ogni ruolo corrisponde a un profilo psicologico. Il portiere è un

uomo minacciato. In nessun altro mestiere la paranoia torna così utile. Il

numero 1 è un professionista del sospetto e della sfiducia: in qualsiasi

momento la palla può avanzare contro di lui. Il grande paradosso di

quest’atleta, che vive in continua tensione, è che deve tranquillizzare gli

altri. Nel libro Una vida entre tres palos y tres líneas Andoni Zubizarreta ha

scritto: “Quando mi domandano qual è la virtù più importante del portiere,

rispondo senza esitare che è quella di dare fiducia agli altri giocatori”. La

squadra deve lanciarsi in avanti senza pensare a chi le copre le spalle. “È

chiaro che per non trasmettere dubbi è fondamentale non averne”, aggiunge

Zubizarreta. “Il portiere non può essere insicuro”. Il portiere, inquilino

dello sconcerto, vive per mascherare il suo stato d’animo. È il parafulmini,

il fusibile che salta per impedire danni più gravi.

Peter Handke ha raccontato la trama di un’esistenza con un titolo che allude

all’uomo fucilato: Prima del calcio di rigore. Il romanzo non parla del calcio,

ma delle vicissitudini di un uomo che è stato in porta. La situazione limite

del portiere è il rigore. In questo senso la paura del rigore di cui parla

Handke è vera. Ma la vera angoscia dell’ultimo uomo non è quella. Il tiro da

undici metri di distanza è una fucilazione che offre scarse probabilità di

sopravvivenza. Il portiere che impedisce un gol fa un miracolo. Schumacher è

d’accordo: “Da un rigore posso solo uscire vincente. È chi tira ad avere

paura. Ogni rigore è un gol al cento per cento. Matematicamente il portiere

non ha nessuna possibilità. Se il pallone entra in rete non ho niente da

rimproverarmi. Se lo paro, sono il re”. Alcuni portieri sono stati

meravigliosamente irresponsabili, buffoni in grado di trasformare il pericolo

in uno strano piacere. L’argentino Hugo Orlando Gatti e il colombiano René

Higuita hanno trasformato la loro imprudenza in divertimento. A entrambi

piaceva uscire dall’area e affrontare gli avversari in un confronto solitario.

Gatti non era mai così felice come quando faceva “il Cristo” davanti a un

attaccante che cercava di schivarlo. Higuita ebbe il coraggio di rinviare la

palla sulla linea di porta usando i suoi piedi come il pungiglione di uno

scorpione. Quella piroetta della fantasia non avvenne in allenamento ma a

Wembley, il santuario del calcio.

I portieri tedeschi non sono così. Sono uomini che si concedono di essere

eccentrici solo quando sono completamente pazzi, ma analizzano il campo come

la Critica della ragion pura. Questo non li porta alla sobrietà, ma al

sacrificio. Il romanticismo tedesco non consiste in una dichiarazione d’amore

ma nell’avvelenarsi con l’arsenico per amore. Ancora Schumacher: “Quando mi

lancio ai piedi di chi corre nella mia direzione non penso che potrebbe darmi

un calcio in un occhio. Ho giocato con le dita rotte, il naso rotto, le

costole rotte e le reni a pezzi. Ho i legamenti strappati. Mi hanno tolto i

menischi. Ho un’artrosi terribile. Vado a dormire pieno di dolori e mi sveglio

pieno di dolori”. È una lamentela? Ovviamente no. Con la stessa felicità con

cui Heinrich von Kleist condivise il patto suicida con la sua amata e si fece

saltare il cervello dopo averle sparato al cuore, Schumacher spiega che ne è

valsa la pena: “Per arrivare in cima bisogna essere fanatici. La tortura forse

serve a distrarmi. Per non preoccuparmi vado in palestra e tiro pugni contro

un sacco di sabbia fino a quando non mi sanguinano le mani”.

Robert Enke aveva una strana sete di serenità. Non voleva essere un artista

del dolore come l’inimitabile Schumacher. Ma come spiega lucidamente suo padre,

Enke “non è stato abbastanza forte per accettare le sue debolezze”. Ha

preferito nascondersi e negare la sua sofferenza, come uno studente che ha

paura di essere punito.

Durante i suoi anni a Cambridge, Vladimir Nabokov si conquistò una certa fama

come portiere. Oltre al piacere d’intercettare la palla, approfittava del

prestigio da don Giovanni che il ruolo da portiere garantisce tra i latini e

gli slavi. In alcuni paesi il numero 1 è un simbolo dell’estetica sul campo e

ha più fortuna in amore dei centrocampisti o degli attaccanti.

Lev Jašin, il Ragno nero, era l’emblema perfetto del portiere russo: elegante,

con una sicurezza quasi mistica, insondabile come un agente segreto o un pope

della chiesa ortodossa. I suoi equivalenti latini potrebbero essere Dino Zoff

o Gianluigi Buffon, atleti che si muovono poco ma esercitano una vigilanza

efficace da boss mafiosi, controllando il duro lavoro degli altri e

limitandosi a proteggere quel varco fondamentale. All’archetipo latino

appartiene anche il portiere che appare splendido quando subisce un gol. Il

portoghese Vítor Baía ha perfezionato l’arte della caduta carismatica.

Il portiere tedesco è un comandante in capo della difesa. “Grido senza mai

fermarmi”, ha detto Schumacher. “Gridare è il mio modo per dare il cento per

cento in una partita. Devo mantenermi in tensione. All’inizio me lo imponevo.

Pensavo: ‘Devo gridare, devo fare qualcosa per non addormentarmi’. Ora mi è

entrato nel sangue. Per farlo ti puoi allenare come ti alleni per un tiro

difficile”. Il controllato Sepp Maier aveva l’abitudine di fissarsi le mani

durante le chiacchiere negli spogliatoi, come se volesse perfezionare i guanti

che vendeva in tutto il mondo. Ma nei rari momenti in cui alzava gli occhi era

l’unico in grado di opporsi al leader Franz Beckenbauer.

La tendenza all’isolamento dei portieri ha reso Jens Lehmann un eremita. Il

portiere tedesco vive in un paesino e ogni giorno, per andare ad allenarsi,

prendeva l’elicottero. Era più facile che si facesse male per una turbolenza

in volo che per un fallo subìto in campo. Oliver Kahn apriva la bocca solo per

parlare bene di se stesso e usava le orecchie solo per ascoltare musica hard

rock. Toni Schumacher è stato “l’eroe della ritirata”, la definizione che Hans

Magnus Enzensberger dà dei leader che esitano e disfano tutto quello che hanno

fatto: nel suo libro Anpfiff (fischio d’inizio), Schumacher ha denunciato una

serie di problemi del calcio ed è stato espulso dalla nazionale. Non ci sono

persone comuni nella porta della Germania. Eppure questi strani personaggi

condividono un credo: non possono sbagliare. Sono stati allenati per una

resistenza che non ammette scuse. “Se mi ricoverassi in una clinica

psichiatrica dovrei abbandonare il calcio”, disse Enke pochi giorni prima di

togliersi la vita. La tristezza non può dire il suo nome in uno stadio.

In La gabbia della malinconia Roger Bartra spiega che per secoli la

malinconia è stata considerata un dolore ebraico, “un male di frontiera, di

popoli sfollati, di migranti, associata alla vita fragile di persone che hanno

subìto conversioni forzate e hanno affrontato la minaccia di grandi riforme e

cambiamenti dei loro princìpi guida religiosi e morali”.

In termini calcistici, il portiere è l’uomo alla frontiera, condannato a una

situazione ai limiti, che non deve abbandonare l’area. È quel personaggio

strano che usa le mani. Se il dio del calcio è il pallone, il portiere è

l’apostata che cerca di fermarlo.

Il quadro più famoso dell’arte tedesca è il ritratto segreto di un portiere

sconfitto. In Melencolia I Dürer disegna un angelo che medita sotto l’influsso

nefasto di Saturno. Dopo un gol, ogni portiere è un angelo della melanconia.

Seduto sul prato, con le mani sulle ginocchia o la testa appoggiata sui pugni

chiusi, il cerbero vinto rappresenta la fine dei tempi, l’irragionevolezza, il

puro niente.

Cosa fanno i tedeschi davanti alla depressione? “Le donne cercano aiuto, gli

uomini muoiono”, risponde Georg Fiedler, che dirige il Centro terapeutico per

le tendenze suicide della clinica universitaria di Eppendorf, ad Amburgo.

Secondo lui Enke è l’esempio di una chiara tendenza sociale. Anche se la

diagnosi di depressione è due volte più alta per le donne, il tasso di suicidi

è tre volte più alto negli uomini.

La prova più difficile che Enke affrontò fu la morte della figlia Lara. Il

portiere dormiva accanto a lei in ospedale. Dopo l’allenamento era così stanco

che mentre le infermiere lottavano per mantenere in vita la bambina lui

continuò a dormire. Enke non si perdonò mai che la figlia fosse morta mentre

lui dormiva. Non avrebbe potuto fare niente, ma da portiere era nato per la

responsabilità e la colpa. Sei giorni dopo, Enke ha difeso la porta della sua

squadra. “La Germania ha ammirato quel Robert Enke”, ha scritto Der Spiegel.

“Ha ammirato la sua calma. La chiarezza delle sue parole e ancora di più la

chiarezza dei suoi atti. Era infallibile”. L’obbligo di agire senza sbagliare

è stato la croce e la delizia del bizzarro Enke. Non poteva abbandonare quella

cosa che esercitava una tirannia su di lui. Indubbiamente questo ha a che

vedere con una disciplina che privilegia il raggiungimento dei risultati sul

piacere di ottenerli, e che è incapace di offrire una formazione integrale, al

di là dei doveri in campo.

Il mondo del calcio sembra essere troppo importante e potente per lasciare

spazio ai destini individuali. Il giovane Werther si uccise per una delusione

d’amore così come il poeta Kleist si uccise per il compimento del suo amore.

Enke ha offerto un’altra morte esemplare nella tormentata Germania. Se ogni

portiere è un suicida timido che affronta i colpi di mitraglia lanciandosi in

aria, lui ha fatto un passo in più.

Il 10 novembre 2009 Robert Enke ha camminato nell’erba alta, sotto un cielo

cupo. Nella sua classificazione dei suicidi Durkheim dimenticò di annoverare

quelli che si lanciavano sotto un treno. È stata la fine riservata ad Anna

Karenina e al portiere tedesco. Alle sei e diciassette minuti del pomeriggio

l’espresso 4427, che copriva il tragitto Hannover-Brema, è passato puntuale

come sempre. Il tormentato Enke si è lanciato davanti alla locomotiva con la

certezza di chi, per la prima volta, non avrebbe dovuto fermare niente.

*JUAN VILLORO è uno scrittore messicano nato nel 1956. Ha diretto il

supplemento letterario del quotidiano La Jornada. Collabora con il quotidiano

Reforma. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il libro selvaggio (Salani

2010). Quest’articolo è uscito sul mensile peruviano Etiqueta Negra con il

titolo Enke. El último hombre muere primero. La traduzione dallo spagnolo è di

Sara Bani.

Modificato da Ghost Dog

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ESCLUSIVA TJ - CHRISTIAN ROCCA: "1° posto inatteso, bravo Conte. Mercato? Ecco cosa serve. Calciopoli? Da quando c'è Andrea Agnelli mi sono potuto permettere di andare in pensione"

29.12.2011 09:30 di Redazione TuttoJuve

La redazione di Tuttojuve.com ha interpellato in esclusiva Christian Rocca, inviato per il Il Sole 24 Ore e una delle firme del giornalismo italiano maggiormente apprezzate dai tifosi bianconeri e non solo, autore del seguitissimo blog "Camillo".

Buongiorno Christian e grazie per aver accettato il nostro invito per una chiaccherata in questi giorni di festa.

Partiamo dal primo posto alla pari del Milan, te lo saresti aspettato dopo la campagna acquisti estiva? "No, non me lo sarei aspettato dopo due settimi posti consecutivi. Mi aspettavo un campionato-passeggiata per il Milan, però. Chi ha Ibra vince facile".

Di chi i meriti? Conte, Dirigenti, Giocatori?

"Di Conte, soprattutto. Ha dato gioca, forza, convinzione alla squadra. Ha cambiato idea, ha sperimentato, si è inventato una squadra dal nulla, costruita con le ali e poi messa in campo intorno agli interni. Davvero bravo. Bene anche i giocatori, naturalmente. I dirigenti hanno fatto bene in entrata, anche se non sono riusciti a prendere un campione vero davanti. Non capisco alcune operazioni come quella di Motta e non essere riusciti a vendere i tre esuberi in attacco".

Cosa ti aspetti dal mercato: meglio un difensore o un attaccante?

"Forse più di tutti serve un centrocampista. Abbiamo tre titolari in una squadra che avrebbe dovuto giocare con due interni. Pazienza e Marrone sono buoni, ma non sono all'altezza di Marchisio, Vidal e Pirlo. Serve un centrocampista capace di fare sia la fase difensiva che gli inserimenti in quella offensiva. Non ci sono alternative a Vidal e Marchisio, se non con un cambio di modulo o con l'adattamento degli ottimi Pepe (come a Napoli) e Giaccherini (come col Cesena). Le poche volte che ho visto Guarin del Porto mi è sembrato eccezionale, ma qui mi fido di Conte. Caceres mi piace, è uno giovane, corre, lotta. Può giocare a destra e al centro, e si adatta anche a sinistra. Ottimo rincalzo, di pari livello dei titolari. Io però penso che per fare il salto di qualità serva un campione davanti".

Cosa pensi del possibile arrivo di Borriello in bianconero? Non sarebbe più utile e forse decisivo uno come Tevez?

"Preferisco Alessandro Matri, ma probabilmente nel modulo a una sola punta (come a Udine o con la Roma), Borriello è più adatto di Matri. Va bene, se lo vuole Conte. Anche se spero che torni all'unica punta in casi rarissimi. Tevez non l'ho mai capito bene, però è certo che il giocatore che ci potrebbe fare vincere lo scudetto è o una seconda o terza punta alla Del Piero con dieci anni in meno o una prima punta devastante alla Ibra. Spero che uno dei due arrivi il prossimo anno, rinsaldare l'attacco con calciatori dello stesso livello di quelli che abbiamo già non è detto che migliori la squadra e tra un po' ci ritroveremo con altri casi Amauri, Iaquinta, Toni".

Con Tevez al Milan, possiamo scordarci lo scudetto? O credi che Conte possa riuscire comunque nell'impresa di riportare il tricolore a Torino? "Chissà magari Tevez porta maretta in casa Milan, si prende a botte con Ibra e rovina una squadra che altrimenti andrebbe dritta verso lo scudetto. Conte intanto ha fatto vedere il miglior gioco del campionato e ha costruito la più divertente Juve dai tempi di Zidane. Se non arrivano infortuni e azzecchiamo qualcosa a gennaio non è detto Ibra vinca anche quest'anno".

Sta per chiudersi l'avventura bianconera di Milos Krasic. E' proprio irrecuperabile?

"Non è in grado di giocare come chiede Conte, non è disciplinato, non difende, non sa attaccare a difesa schierata. È un otitmo contropiedista in un 4-4-2, non ce ne facciamo niente. La Juve di Conte tiene palla. Lui non è in grado".

Un altro esterno che sta profondamente deludendo è Eljero Elia. Che idea ti sei fatto su questo giocatore?

"Nessuna, in realtà. Se non lo fanno giocare, una ragione ci sarà, ma a questo punto perché lo teniamo? A Roma ha fatto un paio di cose non male, compreso un assist a Quagliarella. Temo che con il nuovo modulo senza ali non vedrà il campo nemmeno lui, se non nei finali di partita per dare una scossa finale (cosa che Conte prova sempre). Forse potrebbe essere utile come terzo avanti, come vice Vucinic, con Pepe e il centravanti. Ma lì non è mai stato messo, quindi probabilmente mi sbaglio".

Passiamo a cose più serie. Avrai certamente letto l'intervista pubblicata dal Corriere dello Sport in questi giorni a un investigatore che racconta la sua versione sull'indagine di Calciopoli. Come pensi sia possibile che fino ad ora sia stato tutto nascosto?

"Non l'ho letta, ma ne ho sentito parlare. Non l'ho letta perché a me non svela nulla. Calciopoli è la più grande s******a mai orchestrata dai giornali. Una porcata, anzi".

Credi che queste rivelazioni possano pesare nel processo d'appello?

"Guarda, ero certo che il processo di Napoli si concludesse con l'assoluzione. La tesi accusatoria è stata disintegrata in dibattimento e i pm dopo aver sperato nella prescrizione sono scappati per evitare la figuraccia. È finita diversamente e dobbiamo ancora leggere le motivazioni".

Un giudizio sul tavolo della pace mancata....

"Sanno tutti che abbiamo ragione noi, lo sa anche il presidente petroliere, prima o poi lo riconosceranno anche le istituzioni. Il tavolo della pace sarebbe stato ottimo e avrebbe potuto sortire qualcosa se fossimo arrivati lì con la sentenza di Napoli di assoluzione".

Della Valle è pronto a denunciare l'ex commissario Figc Guido Rossi. Il presidente Agnelli ha trovato un forte alleato?

"Della Valle fa i suoi interessi, ovviamente. Ma certo, sì. Della Valle poi conta nei giornali che contano.

Il 2011 sta volgendo al termine ed è tempo di bilanci. Calcio e Calciopoli: come valuti complessivamente la gestione Agnelli?

"Da quando c'è Andrea Agnelli alla Juventus mi sono potuto permettere di andare in pensione sul fronte calciopoli. Ormai c'è lui a occuparsene, non più Cobolli Gigli. Sta facendo tutto bene, con determinazione ed eleganza. Non credevo avesse la forza di arrivare a chiedere il risarcimento, invece l'ha fatto. Chapeau. Bravo. Gli scudetti sono 29 e non ce li toglie nessuno. Il prossimo sarà quello della terza stella, l'unica cosa che davvero possiamo avere a parziale risarcimento è il pagamento dei danni. Forza Andrea e forza Juve".

Modificato da huskylover

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IL PREZZO DELLA VITTORIA

di EMILIO RONCORONI (la Voce 29-12-2011)

Le squadre di calcio sono imprese e perciò dovrebbero ispirarsi ai generali

principi di sana gestione economica. Ma osservando un campione di società di

calcio, i principi generali che guidano le scelte economiche sembrano altri.

Se misuriamo il costo di ciascun punto in classifica negli ultimi campionati,

scopriamo che per vincere lo scudetto Inter ha speso cinque milioni, mentre

alla Roma il secondo posto è costato solo due milioni. Come i modelli di

business influenzano le performance economiche.

Le squadre di calcio sono imprese e, in quanto tali, dovrebbero seguire

condotte ispirate ai generali principi di sana gestione economica, con

controllo sulle dinamiche dei costi e crescita dei ricavi. Ma analizzando un

campione di società di calcio italiano, i principi generali che guidano le

scelte economiche sembrano altri.

I BILANCI DI SEI SQUADRE

Sono state analizzate sei società, quattro appartenenti al gruppo dei grandi

club e due a quello dei medi: Inter, Milan, Juventus, Roma, Udinese e

Atalanta. (1)

I bilanci analizzati hanno riguardato il triennio 2008–2010, con chiusura

dell’esercizio al 30 giugno in corrispondenza con il termine della stagione

calcistica, salvo per Milan che ha adottato come data di chiusura il 31

dicembre.

I grandi club hanno accumulato nel triennio perdite di dimensione assai

variabile: Inter 371 milioni di euro, Milan 150, Juventus 25, Roma solo 5

milioni di euro, mentre Udinese e Atalanta sono riuscite a ottenere, come

somma algebrica, un risultato positivo. Udinese di quasi 8 milioni e Atalanta

di soli 250mila euro. Forti perdite d’esercizio hanno richiesto ripianamenti e

talvolta contestuali nuovi versamenti per ricostituire il capitale sociale.

Gli azionisti di Inter hanno versato nel triennio nuove risorse finanziarie

per 196 milioni, mentre l’azionista Fininvest ha versato nelle casse del Milan

161 milioni.

Le altre squadre invece avevano creato riserve in grado di coprire le perdite

future. Per Roma provengono da una cessione realizzata nel 2007 riguardante il

ramo d’azienda dedicato alle attività di marketing e merchandising, per un

importo di 125 milioni, che è confluito in una speciale riserva di patrimonio

per 123 milioni (al netto delle passività di tale ramo). Nel caso di Juventus

il patrimonio netto della società è stato rafforzato in sede di aumento di

capitale con sovrapprezzo, dando luogo a una riserva utile a coprire le

perdite future. Udinese, grazie ai risultati sovente positivi, dispone di un

patrimonio netto robusto (38 milioni al 30 giugno 2010) e inoltre ha

distribuito un dividendo di 4 milioni nel 2008 a fronte di un utile di

esercizio di 7,7 milioni di euro. Atalanta ha riaggiustato il patrimonio con

un nuovo aumento di 17 milioni effettuato nel 2010, un esercizio

contraddistinto da perdite per oltre 6 milioni di euro, dalla retrocessione in

serie B e dal cambio di proprietà effettuato nel gennaio 2010.

UN CONFRONTO FRA COSTI E RICAVI

Il business delle squadre di calcio si articola sostanzialmente su due macro

aree: la prima e più importante è quella sportiva alimentata da diverse

tipologie di ricavi (biglietti, diritti televisivi, eccetera) e che genera

costi operativi formati soprattutto da quelli del personale; la seconda è

rappresentata da eventi straordinari, ancorché ripetuti, ed è formata dalla

cessione dei diritti di alcuni calciatori. È importante separare le due

attività in quanto la prima si fonda sul core business mentre la seconda ha

parecchi elementi di variabilità, a partire dai valori attribuibili in sede di

cessione ai diversi calciatori. Nei bilanci di parecchie società i ricavi

d’esercizio comprendono anche le plusvalenze da cessione, generando un

artificioso incremento dei ricavi.

Per evidenziare l’importanza delle due aree sono stati calcolati il margine

operativo lordo (Mol) e il reddito operativo, per poi confrontarli con le

plusvalenze da cessione dei diritti. I dati riportati nella tabella sono medie

semplici dei valori triennali delle diverse grandezze economiche analizzate.

Tabella%201.png

La lettura dei dati riportati nella tabella 1 suggerisce alcune valutazioni:

- la gestione operativa comprensiva degli ammortamenti è costantemente in

perdita;

- le plusvalenze sono sempre determinanti e in alcuni casi, come Udinese,

garantiscono un reddito positivo;

- le perdite operative sono indotte da alti costi del personale. Secondo il

fair play finanziario, ovvero l’insieme di regole contabili il cui rispetto

aprirebbe l’accesso ai campionati internazionali, una delle voci da rispettare

riguarda il rapporto costo personale su fatturato che non dovrebbe superare il

70 per cento.

Il costo del personale è composto quasi esclusivamente dal costo del lavoro

dei tesserati (calciatori e tecnici) il cui numero è in aumento, soprattutto

per quanto concerne i tecnici. Nel 2010 il numero dei calciatori si collocava

tra un minimo di 35 di Atalanta a un massimo di 58 di Milan, seguito da Inter

con 55. L’occupazione totale dei tesserati varia da 57 (Udinese) a 139 per le

due squadre milanesi.

MODELLI DI BUSINESS E PERFORMANCE ECONOMICHE

Udinese ha un modello di business incentrato sulla valorizzazione di

calciatori acquistati a prezzi contenuti e rivenduti a quotazione alte. Ed è

riscontrato da un importo delle plusvalenze non lontano da quelle registrate

da grandi club come Milan e Inter. Il “modello Udinese” richiede uno staff

tecnico con una presenza capillare in diverse parti del mondo calcistico per

individuare i futuri campioni. Per garantirsi questa presenza Udinese ha speso,

nel 2010, 13 milioni di euro, più di Milan e Inter, che vi hanno dedicato

circa 9 milioni a testa.

Tre delle quattro squadre appartenenti ai grandi club hanno assunto modelli

di business più tradizionali con forti investimenti per costruire squadre con

talenti. Juventus ha perseguito almeno fino al campionato 2009–2010 una

strategia di controllo dei costi dei calciatori con incidenze sui ricavi

abbastanza in linea con Atalanta e Udinese.

Tabella%202.png

SI VINCE SOLO SE SI SPENDE TANTO?

Nella tabella 2 si è voluto creare un indice rozzo che misuri il rapporto tra

costi e risultati sportivi. Il primo fattore sono i costi operativi, che

indicano il complesso di risorse messe a disposizione della singola squadra;

il secondo, espresso dal punteggio nella classifica finale di ciascun

campionato, misura le performance sportive. Il rapporto costi operativi per

punto di classifica (espresso in migliaia di euro) sintetizza i due

contributi. È interessante porre a confronto i due campionati (2007–2008 e

2009–2010) dove in entrambi Inter ha vinto lo scudetto e Roma è arrivata

seconda a pochi punti (3 nel primo e 2 nel secondo), tuttavia per vincere il

campionato 2009–2010 Inter ha speso circa 5 milioni di euro per ogni punto di

classifica, mentre Roma solo 2 milioni.

(1) Delle quattro grandi squadre due (Juventus e Roma) sono società quotate

alla borsa di Milano. Per i confronti adottati in questa sede la quotazione è

neutra in quanto i criteri contabili sono i medesimi sia per le imprese

quotate sia per quelle non quotate. Udinese è stata inserita nel campione

perché ha un modello di business proprio, le cui caratteristiche saranno

precisate nel proseguo dell’articolo, mentre Atalanta è entrata nel gruppo per

due ragioni: da un lato quale rappresentante delle altre società calcistiche

con storie sportive altalenanti e dall’altro perché dotata di un vivaio che

rappresenta un fattore distintivo.

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Te Deum laudamus

«AUGURI ANCHE A CHI MI HA FATTO DEL MALE»

«Perché neanche le ingiustizie

mi fanno paura se Tu sei con me».

di LUCIANO MOGGI (Tempi | 11 GENNAIO 2012)

Se fossimo alla fine del 2005 ringrazierei per: 7 scudetti, 1 Coppa Italia, 4

Supercoppe italiane, 1 Champions League, 1 Coppa intercontinentale, 1

Supercoppa Uefa ed 1 Coppa Intertoto vinti negli ultimi anni con la Juventus.

Ma siamo nel 2011 e, ahimé, ho sei anni di più. Non posso lamentarmi della

condizione fisica: mi mantengo ancora bene e lo spirito battagliero è sempre

lo stesso.

Purtroppo non posso far finta che non sia accaduto niente da quell’11 maggio

2006, giorno in cui mi dimisi da direttore generale della Juventus. Da quel

momento la mia vita è cambiata, non è più la stessa e ogni mio sforzo è volto

alla difesa della mia dignità contro i continui tentativi di mettermi al

centro di una “cupola” che nei fatti non è mai esistita. Siamo ancora nel

mezzo della battaglia, attendo il processo d’appello nella speranza che la

corte prenda piena conoscenza dei fatti.

Ma non è questo il punto. La legge seguirà il suo percorso, la difesa farà il

suo lavoro; nel contempo sono cosciente che la giustizia umana è parziale e

quindi limitata come lo è il soggetto che la esercita: l’uomo. C’è un unico

punto che nessuno può toccare, un valore che è contemporaneamente dentro e al

di sopra del contesto umano, un qualcosa che vale per me come per tutti coloro

che calpestano il suolo di questo pianeta: nessuno può permettersi di

togliermi la dignità, il mio vissuto, il mio essere padre e marito, nessuno

può cancellare ciò che di buono ho fatto nella vita. È un dato inesauribile e

inalienabile dell’esperienza, non è cancellabile da nessuno, forse perché, per

me che sono credente, l’origine di questo dato è divina. Ci ha fatto «a Sua

immagine e somiglianza», mi hanno insegnato da piccolo. In questo turbine di

fatti, paradossalmente ciò che mi fa sobbalzare in modo più prepotente è tutto

il positivo che ho ricevuto.

31 dicembre 2011. Rendo grazie per: la forza che Dio mi ha dato per superare

i momenti critici a protezione della mia famiglia, dei miei figli e le loro

famiglie, degli amici che mi sono sempre stati vicini anche nei momenti più

bui. Ho pregato tanto per tutti. Una sacra canzone che cantavo fin da bambino

mi ha accompagnato sempre lungo tutti questi anni: «Io non ho paura se Tu sei

con me». Sono state proprio le parole di questo inno religioso che mi hanno

dato la forza di reagire, certo che Dio non mi ha abbandonato né mai mi

abbandonerà. Buon anno a tutti, anche a quelli che mi hanno fatto del male.

E Signore, se ti avanza del tempo, apri il fascicolo Moggi depositato nella

procura di Napoli e dacci un’occhiata.

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Joined: 10-Dec-2011
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Te Deum laudamus

«AUGURI ANCHE A CHI MI HA FATTO DEL MALE»

«Perché neanche le ingiustizie

mi fanno paura se Tu sei con me».

di LUCIANO MOGGI (Tempi | 11 GENNAIO 2012)

Se fossimo alla fine del 2005 ringrazierei per: 7 scudetti, 1 Coppa Italia, 4

Supercoppe italiane, 1 Champions League, 1 Coppa intercontinentale, 1

Supercoppa Uefa ed 1 Coppa Intertoto vinti negli ultimi anni con la Juventus.

Ma siamo nel 2011 e, ahimé, ho sei anni di più. Non posso lamentarmi della

condizione fisica: mi mantengo ancora bene e lo spirito battagliero è sempre

lo stesso.

Purtroppo non posso far finta che non sia accaduto niente da quell’11 maggio

2006, giorno in cui mi dimisi da direttore generale della Juventus. Da quel

momento la mia vita è cambiata, non è più la stessa e ogni mio sforzo è volto

alla difesa della mia dignità contro i continui tentativi di mettermi al

centro di una “cupola” che nei fatti non è mai esistita. Siamo ancora nel

mezzo della battaglia, attendo il processo d’appello nella speranza che la

corte prenda piena conoscenza dei fatti.

Ma non è questo il punto. La legge seguirà il suo percorso, la difesa farà il

suo lavoro; nel contempo sono cosciente che la giustizia umana è parziale e

quindi limitata come lo è il soggetto che la esercita: l’uomo. C’è un unico

punto che nessuno può toccare, un valore che è contemporaneamente dentro e al

di sopra del contesto umano, un qualcosa che vale per me come per tutti coloro

che calpestano il suolo di questo pianeta: nessuno può permettersi di

togliermi la dignità, il mio vissuto, il mio essere padre e marito, nessuno

può cancellare ciò che di buono ho fatto nella vita. È un dato inesauribile e

inalienabile dell’esperienza, non è cancellabile da nessuno, forse perché, per

me che sono credente, l’origine di questo dato è divina. Ci ha fatto «a Sua

immagine e somiglianza», mi hanno insegnato da piccolo. In questo turbine di

fatti, paradossalmente ciò che mi fa sobbalzare in modo più prepotente è tutto

il positivo che ho ricevuto.

31 dicembre 2011. Rendo grazie per: la forza che Dio mi ha dato per superare

i momenti critici a protezione della mia famiglia, dei miei figli e le loro

famiglie, degli amici che mi sono sempre stati vicini anche nei momenti più

bui. Ho pregato tanto per tutti. Una sacra canzone che cantavo fin da bambino

mi ha accompagnato sempre lungo tutti questi anni: «Io non ho paura se Tu sei

con me». Sono state proprio le parole di questo inno religioso che mi hanno

dato la forza di reagire, certo che Dio non mi ha abbandonato né mai mi

abbandonerà. Buon anno a tutti, anche a quelli che mi hanno fatto del male.

E Signore, se ti avanza del tempo, apri il fascicolo Moggi depositato nella

procura di Napoli e dacci un’occhiata.

bello

ma la data???? 11 gennaio 2012???

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Ginevra, 21:44

CALCIO, SION DEPOSITA DENUNCIA PENALE CONTRO LA FIFA

della redazione (Repubblica Sport NEWS 29-12-2011)

Il Sion, escluso dall'Europa League per non aver rispettato il divieto di

acquistare giocatori, ha depositato una denuncia penale a Zurigo contro la

Fifa che a sua volta minaccia di sospendere la federcalcio svizzera (Asf) dal

14 gennaio, se quest'ultima non sanzionerà il club in questione. Il Sion fa

sapere dalle pagine del suo sito internet d'aver depositato una denuncia

penale al tribunale di Zurigo contro i membri della Fifa in seguito alle

minacce dell'organo che governa il calcio mondiale di escludere l'Asf e i suoi

club, se il Sion non sarà sanzionato entro il 13 gennaio 2012. Per il club

svizzero la Fifa esercita "un ricatto inaccettabile" volendo obbligare l'Asf

ad agire contro i suoi stessi regolamenti e contro il diritto svizzero. Il

comitato esecutivo della Fifa riunitosi a metà dicembre a Tokyo, ha ordinato

all'Asf di fare applicare da qui al 13 gennaio 2012 le decisioni relative al

non rispetto da parte del Sion del divieto di operare sul mercato, pena la

sospensione della federazione stessa. L'altro ieri il Sion ha scritto all'Asf

per chiedere di "ricorrere contro la decisione della Fifa" considerando che

"questo ultimatum non rispetta nè gli statuti nè i regolamenti Fifa, nè la

legge svizzera". Il 17 dicembre l'Asf aveva annunciato la sua intenzione di

contestare davanti al Tribunale arbitrale dello sport (Tas) la minaccia di

sospensione da parte della Fifa se non avesse sanzionato il Sion. E si è

riunita a porte chiuse, il 22 dicembre, con i rappresentanti della Fifa. La

Fifa aveva intimato l'ordine all'Asf d'agire contro il Sion dopo la decisione

del Tas di dare ragione all'UEFA per aver escluso il Sion dalla Europa League.

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ma la data???? 11 gennaio 2012???

E' proprio l'edizione del settimanale: in questo caso copre un arco di tempo di due settimane.

Tempi%2011%20Gennaio%202012.png

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Ginevra, 21:44

CALCIO, SION DEPOSITA DENUNCIA PENALE CONTRO LA FIFA

della redazione (Repubblica Sport NEWS 29-12-2011)

Il Sion, escluso dall'Europa League per non aver rispettato il divieto di

acquistare giocatori, ha depositato una denuncia penale a Zurigo contro la

Fifa che a sua volta minaccia di sospendere la federcalcio svizzera (Asf) dal

14 gennaio, se quest'ultima non sanzionerà il club in questione. Il Sion fa

sapere dalle pagine del suo sito internet d'aver depositato una denuncia

penale al tribunale di Zurigo contro i membri della Fifa in seguito alle

minacce dell'organo che governa il calcio mondiale di escludere l'Asf e i suoi

club, se il Sion non sarà sanzionato entro il 13 gennaio 2012. Per il club

svizzero la Fifa esercita "un ricatto inaccettabile" volendo obbligare l'Asf

ad agire contro i suoi stessi regolamenti e contro il diritto svizzero. Il

comitato esecutivo della Fifa riunitosi a metà dicembre a Tokyo, ha ordinato

all'Asf di fare applicare da qui al 13 gennaio 2012 le decisioni relative al

non rispetto da parte del Sion del divieto di operare sul mercato, pena la

sospensione della federazione stessa. L'altro ieri il Sion ha scritto all'Asf

per chiedere di "ricorrere contro la decisione della Fifa" considerando che

"questo ultimatum non rispetta nè gli statuti nè i regolamenti Fifa, nè la

legge svizzera". Il 17 dicembre l'Asf aveva annunciato la sua intenzione di

contestare davanti al Tribunale arbitrale dello sport (Tas) la minaccia di

sospensione da parte della Fifa se non avesse sanzionato il Sion. E si è

riunita a porte chiuse, il 22 dicembre, con i rappresentanti della Fifa. La

Fifa aveva intimato l'ordine all'Asf d'agire contro il Sion dopo la decisione

del Tas di dare ragione all'UEFA per aver escluso il Sion dalla Europa League.

più o meno quello che ha fatto verso di noi nel 2006

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Joined: 24-Oct-2006
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Confermo che Moggi è parecchio credente.

Da molti anni, molto prima di calciopoli, va a Lourdes una volta all'anno.

Questo vuol dire tutto e vuol dire niente, ovvio, ma era giusto per precisare...

Modificato da CRAZEOLOGY

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