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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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il Fatto Quotidiano 29-10-2013

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Quei tifosi juventini

che insultano se stessi

di MASSIMO CORCIONE (IL MATTINO 20-10-2013)

Siamo stanchi di essere insultati da un branco di incivili che popola le curve degli stadi di mezza Italia. Incivili e soprattutto ignoranti. Ignorano che proprio le squadre per le quali dicono di tifare - la Juventus, il Milan, l’Inter - hanno nel Sud roccheforti di passione con decine di migliaia di entusiasti proseliti, pronti a tradire la logica delle origini in nome della fede bianconera, rosso o nerazzurra.

In quelle stesse curve siedono meridionali purissimi che ogni settimana si sottopongono a massacranti trasferte per essere sulle gradinate di San Siro o del fantastico Stadium juventino. Manuela, per esempio: è una ragazzina modello, ha vent’anni e un curriculum universitario di prim’ordine, i suoi sabato sera non li passa in discoteca, ma stipata in un pullman che porta i tifosi juventini dovunque giochi la loro squadra. Sì, loro, perché il senso di appartenenza è radicato quanto lo è in chi risiede a Grugliasco o a Cuneo. Come deve sentirsi Manuela quando da quegli stessi settori che lei frequenta si levano gli insopportabili cori che invocano il risveglio del Vesuvio o rievocano l’epidemia di colera datata 1973, anno in cui la quasi totalità di quei barbari ragazzotti non era neppure nata?

Questa brutta storia è antica, riemerge ogni volta in cui il Napoli comincia a vincere. Succedeva ai tempi di Maradona, torna ora che l’azzurro è di nuovo un colore di moda, in Italia e in Europa. Venticinque anni fa ci fu un fantastico striscione (“Giulietta è ‘na z*****a”) in risposta alle malefiche invocazioni veronesi: l’ironia per spegnere l’odio. Ma non esiste una giustificazione che possa far classificare il fenomeno come “inevitabile risvolto della passione sportiva”. Di giustificabile in quelle manifestazioni di pura inciviltà non c’è nulla.

Un pensiero razionale vorrebbe che dietro i cori si nascondesse una vaga idea secessionistica del tifo: ognuno tenga alla propria squadra e nemici per sempre. Invece non può essere così: i grandi club hanno nel marketing l’unico sbocco per incrementare le proprie entrate. E la riduzione della base sarebbe una scelta suicida, alla quale nessuno ha mai pensato. Dei trenta milioni di sostenitori italiani che Juventus, Milan e Inter si dividono, una fetta cospicua alberga proprio nei luoghi che quegli incolti vorrebbero travolti da apocalittiche sciagure. Lì vengono piazzati abbonamenti, biglietti e maglie originali; si contano quei tifosi quando c’è da ribadire una supremazia di bacino che travolge i tradizionali confini geografici e distribuisce parte dei proventi televisivi. Insomma rappresentano una ricchezza che va tutelata come patrimonio irrinunciabile. Più che protestare per le sanzioni, più che discettare sugli aggettivi da usare per qualificare giuridicamente quei cori comunque ignobili, servirebbe una campagna di educazione. La Juventus è guidata da un leccese, Conte; il Milan ha il suo simbolo in Balotelli che giustamente s’incavola anche per un’occhiata che possa alludere al colore della sua pelle; l’Inter con Thoir nuovo proprietario partirà presto alla conquista di tifosi nel sud del mondo: tutti devono guardare al sud d’Italia. Serve rispetto, c’è scritto anche sulle maglie della Champions, il campionato d’Europa cui tutti tendono come obiettivo primario. Non c’entrano il Napoli che spopola, le vittorie che Benitez sta collezionando, il prestigio conquistato che diventa paura negli avversari; qui è solo questione di rispetto. Senza quello, c’è la barbarie.

«Questa regola non ha eliminato

ma intensificato il fenomeno»

Il giudice Morello duro con la Figc «Si è

piegata al ricatto degli ultrà e ora la sfida è aperta»

di DARIO SARNATARO (IL MATTINO 29-10-2013)

Tullio Morello è giudice della sezione Gip della Corte di appello di Napoli e appassionato tifoso della squadra azzurra.

Dottor Morello, il suo collega Tosel ha sanzionato la curva della Juve dopo i cori anti-Napoli con la nuova regola della curva chiusa con la condizionale: come la giudica?

«L'ordinamento sportivo è sempre più un ordinamento che cambia le regole a proprio piacimento e interesse. Non è serio cambiarle nel corso del campionato: per me era giusto chiudere le curve, non tutto lo stadio, per gli indegni cori discriminatori che colpiscono sempre più spesso i napoletani. Anche se si penalizzavano i veri tifosi, sarebbe stato interessante capire se questi pseudotifosi preferivano continuare a insultare piuttosto che godersi lo spettacolo della propria squadra del cuore dalla curva».

Nel contempo la curva interista non è stata punita perchè, evidentemente, ha intonato sia cori contro i napoletani che contro i milanesi...

«Purtroppo questa è la conseguenza del cambiamento delle regole. Il giudice si è evidentemente arrampicato sugli specchi: da collega lo capisco perchè a lui tocca solo applicare le norme, evidentemente sbagliate e prodotte solo per interessi di parte. In ogni caso mi sembra evidente che gli ultrà delle curve del nord abbiano ingaggiato una sfida contro la Federazione, che si è piegata alle minacce dei tifosi».

Lei dunque boccia senza riserve la soluzione?

«Questa vicenda non fa altro che allontanare sempre di più le famiglie dallo stadio. Il modello dei campionati esteri è quello da seguire: qui gli spettatori non possono sbagliare alcun comportamento, io seguo il Napoli in trasferta solo all'estero e mai in Italia».

I tifosi napoletani sono sempre più nel mirino?

«Innanzitutto mi dispiace che qualche nostro tifoso solidarizzi con gli ultrà del resto d'Italia su questo punto. Per me non è goliardia, per esempio, vedere i tifosi del Milan con le mascherine al volto. Bisogna tenere alta la guardia».

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THE TIMES 28-10-2013

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Fifa ‘very interested’ in Platini’s vision

by RORY SMITH (THE TIMES 29-10-2013)

Michel Platini’s suggestion that the World Cup be expanded from 32 to 40 teams has been greeted with cautious enthusiasm by Fifa’s executive committee, with the emphasis firmly on the cautious. Jim Boyce, the organisation’s vice-president, says he would be “very interested” to hear the Uefa president’s plans, but history will teach Platini that there is a long road ahead if his grand vision is to become reality.

In an exclusive interview with The Times yesterday, Platini revealed his proposal to invite an additional eight teams to the world’s most-watched sporting event. He will present the idea — which would allow two more nations from Asia, Africa and North America and one more from Oceania and Europe to take part — to Fifa’s Executive Committee when it meets in Salvador, Brazil, next month.

“I would be very interested to hear what he has to say,” Boyce told The Times yesterday. “It is not something I have heard mentioned but it is certainly something I would give my full consideration to, once I have the full details of Platini’s proposal.”

Platini’s logic is impossible to deny. Fifa has expanded exponentially in the last 40 years, with more than 60 associations from across the globe fleshing out the governing body’s numbers.

There is, though, a degree of scepticism about the Frenchman’s motives, both inside and outside Fifa. In Zurich, there is a belief that this plan is a rather transparent attempt to curry votes ahead of a potential election for president in 2015; outside, Platini’s suggestion has been greeted largely as a further example that Fifa’s primary concern is not the good of the game, but its own bottom line.

To give Platini his due, a desire to secure power is what has forged the World Cup in its present format. The competition has expanded twice in the modern era, 16 to 24 teams in 1982 and 24 to 32 in 1998, both of them driven by João Havelange, Sepp Blatter’s predecessor as president.

The Brazilian won power in 1974 by promising to expand the World Cup, and he was good to his word. In 1974, there were 14 spots available at the tournament, excluding West Germany and Brazil, who automatically qualified as hosts and holders respectively. Asia and Oceania had one spot between them. Havelange made it clear he would right that wrong.

His plans were met with deep-seated hostility in the game’s old world. Artemio Franchi, the former Uefa president, described his proposals as “typical South American ostentation”. Brian Glanville, the author and journalist, said Havelange was “selling the game down the river”.

Platini will have much to do to convince Boyce and his Executive Committee colleagues in Salvador next month; that is undeniable. It is unlikely that the plan will be voted through in Brazil; rather, fact-finding missions will be enacted, the gravy train will roll on to the tracks. He will find it even tougher selling his idea to the general public — he has his far less sensible expansion of the European Championship from 16 to 24 teams to thank for that — and convincing them it is about the game, and not about him, and not about money.

But the history of the World Cup is a history of expansion; in that sense, it mirrors the history of football. Asia and Africa, particularly, are under-represented at the tournament. Football’s world has changed in the last 40 years. Platini’s plan recognises that, just as Havelange’s did before him, whatever the reasons behind it.

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FRANCE football | MARDI 29 OCTOBRE 2013

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la Repubblica SERA 29-10-2013

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Italian hooligans jailed

for attack on Spurs fans

by JAMES BONE (THE TIMES 29-10-2013)

Stiff prison terms have been handed to the first two Italian football hooligans convicted of ambushing Tottenham Hotspur supporters in the historic centre of Rome last year.

The two Roma fans took part in a commando-style raid on the Drunken Ship pub in the picturesque Campo de’ Fiori square, where Tottenham supporters were drinking in November on the eve of a Europa League game against Lazio.

A dozen Spurs fans were injured in the attack as the pub was stormed by a gang of hooligans wearing motorcycle helmets and armed with knives, clubs and smoke grenades.

The most seriously injured Spurs fan, Ashley Mills, 25, a builder from Brentwood, Essex, spent a week in hospital with a life-threatening stab wound to the groin.

Luca Tescaroli, the prosecutor, called it a “wild aggression in one of the symbolic centres where people, particularly young people, meet.”

“The action took placed over ten to 15 minutes, according to a premeditated strategy in the style of urban guerrilla warfare — invading with smoke grenades and gas and attacking with knives, clubs, iron bars, bottles and broken chair legs — with unprecedented violence,” Mr Tescaroli said.

Mauro Pinnelli, 27, was sentenced to 5½ years for aggravated assault, and Francesco Ianari, 28, was handed a term of 4½ years.

Ianari was arrested on the night of the raid after an alert bus driver called police when he boarded his bus, bloodied and boasting: “Tomorrow you will see who I am.”

Pinnelli was apprehended after police discovered mobile phone text messages between him and Ianari both before and after the attack.

Nine other Italian supporters are under investigation in the attack, which appears to have brought together otherwise bitter rivals from the local clubs Roma and Lazio.

Tottenham supporters have faced repeated attacks during away fixtures in Europe, possibly because of the team’s historical association with the local Jewish community and their fans’ controversial practice of calling themselves “Yids”.

Three months after the attack in  Rome, Spurs fans were ambushed during a fixture in the French city of Lyons and three were taken to hospital.

There was speculation that the assault in  Rome had been motivated by anti-Semitism because of the Lazio crowd’s traditional ties to Fascists. At the Europa Cup game, Lazio supporters chanted “Juden Tottenham” and unfurled a provocative banner proclaiming “Free Palestine”.

However, the fact that Roma fans took part has cast doubt on the link to anti-Semitism. Lorenzo Contucci, Ianari’s lawyer, said that racism had played no part in the ambush and blamed it instead on simple footballing rivalry.

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PROVVEDIMENTO DEL QUESTORE DI LIVORNO, L’EX ARBITRO CARDONA

Daspo a 93 tifosi blucerchiati

stadio proibito per due anni

La polizia: «Senza tessera e minacciosi». Gli Ultras: «Solo falsità»

di DARIO FRECCERO (IL SECOLO XIX 29-10-2013)

Niente stadio per i prossimi due o tre anni. Una mazzata così pesante da non sembrare vera. Purtroppo è realtà. È quella che la Questura di Livorno, retta dall’ex arbitro internazionale Marcello Cardona, ha sferrato a quasi un centinaio di tifosi della Sampdoria che il 20 ottobre scorso avevano seguito la squadra in Toscana senza la Tessera del tifoso. Novantatrè di loro, appartenenti a vari gruppi della Gradinata Sud, erano stati identificati davanti allo stadio Picchi, rispediti a Genova senza poter assistere al match, e ieri sono stati tutti quanti “daspati” (il daspo è l’acronimo di “divieto di accedere alle manifestazioni sportive”). Significa che per un periodo variabile di due o tre anni non potranno tornare al Ferraris e in nessun altro impianto sportivo d’Italia. Un provvedimento severissimo che ieri ha lasciato di stucco non solo i diretti interessati, non solo tutti gli altri tifosi, ma persino la società Sampdoria che per bocca del direttore generale Rinaldo Sagramola ha chiesto tempo per verificare le motivazioni ma già parlato di provvedimento «all’apparenza abnorme».

La Questura livornese ieri ha giustificato i 93 daspo affidandosi ad un comunicato stampa che ha messo nel mirino i tifosi doriani non solo per essersi presentati senza tessera del tifoso ma con regolari biglietti per l’incontro acquistati on line, contraddizione che presuppone una falla del sistema della vendita dei tagliandi visto che senza gli estremi della contestatissima Tessera non si potrebbe poter comprare biglietti. Ma anche per essersi presentati in Toscana «con corpi contundenti e artifizi pirotecnici» (oggetti sequestrati quel giorno). E tenendo «atteggiamenti minacciosi, tentando più volte di turbare l’ordine pubblico». Disordini che, secondo la polizia, non sarebbero avvenuti solo perchè i tifosi sono stati “isolati” in una zona periferica della città. Sempre secondo la questura questi 93 tifosi avrebbero architettato la seguente strategia logistica per eludere i controlli ed entrare indisturbati allo stadio: «Arrivare a Livorno con auto private per poi servirsi di mezzi pubblici per raggiungere in massa lo stadio...» recita il comunicato. Da qui la decisione dell’arbitro, pardon del questore Cardona, di imporre a tutti quanti il divieto di assistere ai prossimi due o tre anni di partite. Esagerato? Secondo la questura, però, le misure più severe riguardano i tifosi con precedenti specifici.

«Non è esagerato, è pazzesco - tuona Enzo Tirotta, storico capo Ultras blucerchiato - non stiamo parlando solo di bugie ma di qualcosa di assurdo che non possiamo più tollerare. Non parlo solo da tifoso ma da cittadino e da padre. Io c’ero a Livorno e sono stato con i miei due figli di 10 e 12anni in mezzo a questi presunti tifosi “minacciosi”, con corpi contundenti, proprio durante i controlli. Ma scherziamo o cosa? Non hanno fatto nulla di male, letteralmente nulla. Mai vista un’ingiustizia così». «La questura tra l’altro dice cose non vere che si commentano da sole - prosegue Tirotta - se avessero avuto bastoni e corpi contundenti uniti ad un atteggiamento minatorio per creare disordini, ci sarebbero stati problemi e come minimo sarebbero stati arrestati. Come mai non è avvenuto? Questa è la goccia che ci deve scuotere tutti quanti. Io voglio fare un appello: serve mettere insieme una squadra di avvocati di fede sampdoriana che contestino questi provvedimenti punto per punto e inizino qui da Genova una battaglia legale per ristabilire la giustizia. Ripeto, stiamo parlando di ragazzi che non hanno fatto niente a cui ora una Questura dice “tu da domani non vai ad un evento sportivo per anni”. Ma scherziamo? E perché? E mi rivolgo anche ai nostri parlamentari: è inutile venirci a chiedere il voto solo sotto le elezioni, ora dovete dimostrarci voi che avete le palle e la volontà di garantire i diritti dei cittadini. Solo di abbonati i sampdoriani sono 20 mila, con le loro famiglie arriveranno a 100 mila persone minimo: adesso ci dovete dimostrare con i fatti che non siete in Parlamento a scaldare la poltrona. Non si può accettare un’ingiustizia così senza fiatare?».

Poco cambia ma per la cronaca va aggiunto che il questore di Livorno è lo stesso Cardona che era questore di Varese nel giugno 2012 quando la Sampdoria andò a giocarsi in Lombardia i playoff per la promozione in serie A. E in quell’occasione dirottò sul lungo lago tanti tifosi blucerchiati sprovvisti di biglietto temendo problemi di ordine pubblico nei pressi dello stadio.

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L'appello

Calciopoli: chiesti 3 anni

per Moggi e i designatori

di FULVIO BUFI (CorSera 30-10-2013)

Se dovesse passare la tesi esposta nell’arringa finale del processo d’appello su Calciopoli, tenuta ieri dal sostituto procuratore generale di Napoli Antonio Ricci, lo scenario della Cupola che — secondo la sentenza di primo grado — pilotò i risultati del campionato 2004-2005 in favore della Juventus, cambierebbe, anche se solo in parte. Di quella che è stata riconosciuta come una associazione a delinquere, Luciano Moggi è stato finora ritenuto non solo il capo indiscusso ma anche il promotore e organizzatore (insieme all’ex direttore generale bianconero Antonio Giraudo che ha scelto il rito abbreviato). Secondo la pubblica accusa del processo d’appello, invece, organizzatori della Cupola furono allo stesso modo gli ex designatori arbitrali Paolo Bergamo e Pier Luigi Pairetto e l’ex vicepresidente della Figc Innocenzo Mazzini. Il pg ha chiesto quindi tre anni di reclusione nei confronti di questi ultimi. E se per Bergamo ricalca grosso modo la condanna di primo grado (3 anni e otto mesi), per Pairetto e Mazzini è addirittura superiore: l’ex designatore fu infatti condannato a un anno e 11 mesi, e l’ex vicepresidente federale a due anni e due mesi. Per Moggi chiesti invece tre anni e un mese, a fronte dei 5 anni e quattro mesi del primo grado. Ma la riduzione è dovuta solo alla sopravvenuta prescrizione del reato di frode sportiva, per cui quindi non c’è alcuna richiesta. L’accusa di associazione per delinquere rimane invece tutta.

CALCIOPOLI - L’APPELLO

«L’associazione non era

solo Moggi. Condannateli»

L’accusa chiede tre anni e un mese per l’ex dg

e tre anni anche per Mazzini Bergamo e Pairetto

art.non firmato (CorSport 30-10-2013)

Quella di Calciopoli era «associazione a delinquere», della quale facevano parte non solo Moggi (riconosciuto in primo grado come unico promotore) ma anche gli ex designatori arbitrali Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto e l'ex vice presidente della Figc, Innocenzo Mazzini. Penultimo atto del processo d’appello a Calciopoli (rito ordinario). Adesso mancano solo le repliche delle difese (già programmate il 5 e il 12 novembre, se basteranno), poi arriverà la sentenza. Penultimo atto col botto, se è vero che la procura generale ha chiesto sì tre anni e un mese per Luciano Moggi (contro i cinque anni e quattro mesi del primo grado: sono cadute alcune accuse per reati nel frattempo prescritti), ma anche 3 anni per Mazzini, Bergamo e Pairetto. Per la Procura generale, sono tutti promotori di una associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva.

ACCOGLIMENTO - L'accusa, che ha accolto tutte le richieste di Appello della Procura, ha chiesto anche la condanna a 2 anni e 5 mesi di reclusione per gli ex arbitri Massimo De Santis e Paolo Bertini imputati di frode sportiva, avendo rinunciato alla prescrizione. Sempre per frode sportiva è stata chiesta la pena di 1 anno e 3 mesi per l'ex arbitro Antonio Dattilo. Per tutti gli altri imputati il pg ha chiesto il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. «Non era solo la Juve ad avere rapporti privilegiati con gli arbitri, più che favorire la Juventus si voleva favorire un sistema dove gli interessi dell'associazione andavano di pari passo con quelli personali dei singoli soggetti coinvolti »: Antonio Ricci, sostituto procuratore generale, inquadra così, nella sua requisitoria, Calciopoli. Conferma, l’accusa, l'esistenza di un'associazione finalizzata a truccare l'esito dei campionati di calcio in cui emerge il ruolo dell'ex dg della Juventus Luciano Moggi «come distributore di schede telefoniche straniere ad arbitri e dirigenti. Ci sono intercettazioni chiarissime di Moggi che rendono il quadro nitido. Tuttavia anche gli ex designatori Bergamo e Pairetto, e l'ex vicepresidente Figc Martini debbono considerarsi organizzatori e non meri partecipi dell'associazione».

PROCESSO D’APPELLO CALCIOPOLI

Richiesti tre anni per Moggi

come per Bergamo-Pairetto

«Non c’entrava solo la Juve»

art.non firmato (il Giornale 30-10-2013)

Luciano Moggi non era l’unico promotore dell’associazione che tra il 2004 e il 2006 avrebbe tentato di falsare i campionati di calcio. Della cosiddetta “cupola” di Calciopoli facevano parte con pari responsabilità, oltre all’ex direttore generale della Juventus, anche gli ex designatori arbitrali Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto, e l’ex vicepresidente della Figc, Innocenzo Mazzini. Queste le conclusioni alle quali è giunto il sostituito procuratore generale Antonio Ricci che, al termine della requisitoria del processo di appello a Napoli, ha chiesto 3 anni e un mese per Moggi e 3 anni per Pairetto, Bergamo e Mazzini. Per Luciano Moggi, condannato in primo grado a 5 anni e 4 mesi, lo sconto sulla pena richiesta è dovuto all’intervenuta prescrizione dei reati per frode sportiva: per lui rimane in piedi solo l’associazione a delinquere. Pairetto (1 anno e 11 mesi in primo grado), Bergamo (3 anni e 8 mesi) e Mazzini (2 anni e 2 mesi), riconosciuti in primo grado come semplici partecipi dell’associazione, vengono ora equiparati a Moggi nel ruolo di organizzatori.

Per tutti gli imputati di frode sportiva è intervenuta invece la prescrizione, con eccezione dei tre ex fischiettì che vi hanno rinunciato. Così, per gli internazionali Massimo De Santis (1 anno e 11 mesi in primo grado) e Paolo Bertini (1 anno e 5 mesi) il pg ha chiesto 2 anni e 5 mesi di reclusione. Un anno e 3 mesi la richiesta per un altro ex arbitro, Antonio Dattilo. Il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione è stato chiesto per il patron della Fiorentina Diego Della Valle e per suo fratello Andrea, per Lotito, Racalbuto, Meani e altri imputati.

Di fatto il pg ha equiparato le responsabilità di Moggi a quelle di Bergamo, Pairetto e Mazzini, ha replicato quelle che erano state le richieste del pm in primo grado, sovvertite poi dalla sentenza che individuò in Moggi l’unico promotore di quell’associazione. «Non era solo la Juve ad avere rapporti privilegiati con gli arbitri - ha sottolineato il pg Ricci -: più che favorire la Juventus si voleva favorire un sistema dove gli interessi dell’associazione andavano di pari passo con quelli personali dei singoli soggetti coinvolti che andavano dalla ascesa della propria carriera arbitrale alle lotte per il potere in Lega». Martedì prossimo si torna in aula: la sentenza il 27 novembre.

Calciopoli Nel processo d’appello a Napoli chiesto il proscioglimento di Della Valle e Lotito per prescrizione

«Tre anni e un mese a Moggi»

La richiesta formulata dalla Procura generale: c’era un sistema a quattro

Cupola L’ex dg Pairetto, Bergamo e Mazzini «promotori della frode sportiva»

di GIUSEPPE CRIMALDI (IL MATTINO 30-10-2013)

Una “cupola” per quattro. Più che il “sistema Moggi”, a condizionare le partite di calcio durante il campionato 2004-2005 fu un “sistema a quattro”. Nel giorno del processo di appello contro gli imputati di Calciopoli dedicato alla requisitoria dell'accusa è il sostituto procuratore generale Antonio Ricci a ridisegnare i contorni dell'inchiesta che ha scritto una pagina nera dello sport italiano. Non fu infatti - questo ha sostenuto il Pg - il solo Luciano Moggi ad ordire le trame di una ragnatela capace di condizionare le partite del massimo campionato di calcio; al vertice di quell'associazione per delinquere ci furono, insieme con l'ex direttore generale della Juventus, almeno altri tre sodali: gli ex designatori arbitrali Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto, con l'ex vicepresidente della Figc, Innocenzo Mazzini.

Processo d'appello, Palazzo di Giustizia di Napoli. Nell'aula non c'è più quella colorita “claque” di sostenitori di Moggi che aveva invece accompagnato tutte le puntate giudiziarie del primo grado. Sembra quasi sia passata un'eternità da quando le udienze si trasformavano in una torcida scatenata che osannava Lucianone. Anche la dialettica tra accusa e difese è decisamente più pacata rispetto ai toni del processo di primo grado. Ma quando il presidente della sesta sezione penale dà la parola al Pg Antonio Ricci arriva il colpo di scena. Le sue richieste di condanna mitigano solo parzialmente quelle pronunciate dai pm durante il processo di primo grado in Tribunale: ma nel sottolineare le singole responsabilità degli imputati Ricci usa parole chiare e forti per sottolineare come al vertice di quella cupola capace di montare e smontare a piacimento le griglie in occasione dei sorteggi arbitrali in funzione degli interessi della Juventus non c'era il solo Moggi, ma anche i due ex designatori dell'epoca (Bergamo e Pairetto) e Mazzini (vicepresidente Figc).

Ed ecco le richieste dell'accusa: tre anni e un mese per Moggi (condannato in primo grado a 5 anni e 4 mesi); tre anni per gli ex designatori arbitrali Paolo Bergamo (3 anni e otto mesi in primo grado) e Pierluigi Pairetto (un anno e 11 mesi) e per l'ex vice presidente della Figc Innocenzo Mazzini (due anni e due mesi). Due anni e cinque mesi chiesti invece per gli ex arbitri Massimo De Santis (un anno e 11 mesi) e Paolo Bertini (un anno e cinque mesi): entrambi avevano rinunciato alla prescrizione. Sempre per frode sportiva è stata chiesta la pena di un anno e tre mesi per l'ex arbitro Antonio Dattilo (un anno e cinque mesi la pena irrogatagli in primo grado). Per tutti gli altri imputati - da Della Valle a Lotito - il Pg ha chiesto il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.

Dunque, condanne da riscrivere, sostiene la Procura Generale di Napoli. Ricci fa riferimento ai famosi tabulati delle intercettazioni telefoniche che investirono rappresentanti di squadre di calcio di serie A, designatori e arbitri: «Una nebulosa arbitrale - la definisce - che fu capace di realizzare la frode sportiva, un reato a consumazione anticipata». Aggiunge il magistrato requirente, nel sottolineare la gravità delle condotte degli imputati, che «ormai intorno al calcio girano interessi di milioni e milioni di euro, e questo dovrebbe imporre pertanto ai protagonisti di questo sport quella massima lealtà che invece qui mancò». E conclude, non senza una punta di marcata amarezza: «Ma dove si era mai visto che un arbitro avesse decine e decine di contatti con uno dei contendenti sportivi? Avevamo sempre creduto che gli arbitri fossero altrove, magari in una torre d'avorio...».

La Ġazzetta dello Sport 30-10-2013

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CALCIOPOLI

Chiesti tre anni per Moggi

«Ma non agiva da solo»

Il procuratore: «Mazzini, Bergamo e Pairetto organizzatori nel sistema»

Prescrizione per molti Escono di scena invece Diego e Andrea Della Valle, Mencucci e Lotito

art.non firmato (Quotidiano Sportivo 30-10-2013)

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Tre anni e un mese di reclusione per l’ex direttore generale della Juventus Luciano Moggi e pena di 3 anni per gli ex designatori arbitrali Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto e per l’ex vice presidente della Figc, Innocenzo Mazzini. Sono le richieste del sostituto procuratore generale Antonio Ricci nell’appello a Calciopoli. Per il pg Moggi, Mazzini, Pairetto e Bergamo sono tutti promotori di una associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva. In primo grado tale ruolo era stato attribuito al solo Luciano Moggi.

L’accusa, che ha accolto tutte le richieste di Appello della Procura, ha chiesto anche la condanna a 2 anni e 5 mesi di reclusione per gli ex arbitri Massimo De Santis e Paolo Bertini imputati di frode sportiva, avendo rinunciato alla prescrizione. Sempre per frode sportiva è stata chiesta la pena di 1 anno e 3 mesi per l’ex arbitro Antonio Dattilo. Per tutti gli altri imputati, tra cui Diego e Andrea Della Valle, Sandro Mencucci e Claudio Lotito, il pg ha chiesto il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. «Non era solo la Juve ad avere rapporti privilegiati con gli arbitri, più che favorire la Juve si voleva favorire un sistema dove gli interessi dell’associazione andavano di pari passo con quelli personali dei singoli soggetti coinvolti». Così il sostituto procuratore nel corso della sua requisitoria al processo di appello a Calciopoli in corso a Napoli.

Il pg ha fatto proprio l’impianto accusatorio e le conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici di primo grado confermando l’esistenza di un’associazione finalizzata a truccare l’esito dei campionati di calcio in cui emerge il ruolo dell’ex dg della Juve Luciano Moggi «come distributore di schede telefoniche straniere ad arbitri e dirigenti». «Ci sono — ha detto il pg — intercettazioni chiarissime di Moggi che rendono il quadro nitido. Tuttavia — ha aggiunto — anche gli ex designatori Bergamo e Pairetto, e l’ex vicepresidente Figc Mazzini debbono considerarsi organizzatori e non meri partecipi dell’associazione». La sentenza di primo grado, invece, aveva individuato in Moggi, condannato a 5 anni e 4 mesi, l’unico promotore dell’associazione.

CALCIOPOLI

Il pg: «Non solo la Juve

parlava con gli arbitri»

di GUIDO VACIAGO (TUTTOSPORT 30-10-2013)

Cosa rimarrà di Calciopoli alla fine? Nel 2006 la cupola moggiana sembrava l’immensa opera di un mefistofelico Brunelleschi che stendeva la sua ombra maligna su tutto il calcio italiano. Dopo sette anni e tre processi penali (di cui uno in corso), la cupola assomiglia sempre più a un ombrelluccio malandato e l’associazione a delinquere perde pezzi ogni volta che qualcuno affronta seriamente l’inchiesta alla base dei processi (compresi quelli sportivi). Così, mentre via via che la Giustizia procede gli arbitri vengono assolti, indebolendo le fondamenta dell’accusa, succede che il procuratore generale Antonio Ricci spieghi, nella sua requisitoria, che «non era solo la Juve ad avere rapporti privilegiati con gli arbitri». Insomma, non esattamente quell’ormai famoso «piaccia o non piaccia, non ci sono telefonate di altri presidenti o dirigenti di altri club», con cui il pm aveva iniziato la sua requisitoria nel primo grado. E questo non è un dettaglio, perché proprio su quel rapporto di “esclusività”, disintegrato dai legali di Moggi che hanno scovato le telefonate dimenticate dagli inquirenti e nelle quali più di mezza Serie A chiamava designatori (e a volte pure gli stessi arbitri), si fonda uno dei cardini delle condanne sportive alla Juventus.

MOGGI: 3 ANNI E 2 MESI Certo, il pg non crede all’innocenza di Moggi, ma inquadra in modo differente tutta la vicenda, contestualizzandola in quel periodo: «Non era solo la Juve ad avere rapporti privilegiati con gli arbitri; più che favorire la Juventus, si voleva favorire un sistema dove gli interessi dell’associazione andavano di pari passo con quelli personali dei singoli soggetti coinvolti, che andavano dall’ascesa della propria carriera arbitrale alle lotte per il potere in Lega». Ragionamento che, applicato sul fronte sportivo, potrebbe essere importante e sembra una chiosa a quella parte di sentenza di primo grado (quella scritta dalla giudice Teresa Casoria) nella quale si diceva chiaramente che per il campionato 2004-05 (l’unico indagato) non c’erano «evidenze di alterazione». Insomma, in estrema sintesi: campionato regolare sul campo e Juventus non favorita. E non lo dicono gli avvocati, ma direttamente l’accusa. La stessa accusa che tuttavia ricalca le richieste di appello della Procura e indica l’ex dg bianconero Luciano Moggi come vertice dell’associazione e come distributore di schede telefoniche straniere ad arbitri e dirigenti: «Ci sono - ha detto il pg - intercettazioni chiarissime di Moggi che rendono nitido il quadro». E così le richieste sono quelle ampiamente prevedibili. Per Luciano Moggi, condannato in primo grado a 5 anni e 4 mesi, chiesti 3 anni e 2 mesi (lo sconto sulla pena richiesta è dovuto alla prescrizione della frode sportiva: rimane solo l’associazione). Per Pairetto (1 anno e 11 mesi in primo grado), Bergamo (3 anni e 8 mesi) e Mazzini (2 anni e 2 mesi), riconosciuti in primo grado come semplici partecipi dell’associazione, vengono nelle richieste del pg equiparati a Moggi, riconoscendo per loro il ruolo di organizzatori.

PER GIRAUDO: CUPOLA BIZZARRA Ma salta agli occhi il “non luogo a procedere” per l’ex arbitro Salvatore Racalbuto. La sua quasi certa assoluzione scardina l’unica frode riconosciuta a Giraudo nel 2° grado del rito abbreviato (Udinese-Juventus). Senza arbitro come si consuma la frode? Una domanda che toccherà ripetere parecchie volte alla fine del processo, nel quale gli arbitri hanno ottime possibilità di uscire con l’assoluzione (non a caso Bertini, De Santis e Dattilo hanno rinunciato alla prescrizione per essere assolti con formula piena). Rimarrà una cupola piuttosto bizzarra, che voleva alterare i risultati delle gare controllando gli arbitri, che però non si facevano controllare. E martedì si torna in aula.

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Il caso Dalla Svizzera smentiscono di aver dato l’incarico allo Zingaro

«Gegic come vice-allenatore?

A noi non risulta proprio...»

di GABRIELE MORONI (Quotidiano Sportivo 30-10-2013)

I dirigenti della squadra svizzera che dovrebbe allenare non ne sanno niente. In più Almir Gegic potrebbe avere violato il divieto di espatrio di cui si è liberato soltanto lunedì. Tempo fa, da latitante, aveva rischiato di provocare un incidente diplomatico attraversando in auto e con la famiglia appresso mezza Europa, dalla Serbia a Chiasso, per fare trasloco. Adesso ecco un curioso «giallo» calcistico-giudiziario per un personaggio considerato uno degli esponenti di punta degli “zingari nella vicenda del calcioscommesse. Lunedì Gegic ha ottenuto dal gip di Cremona, Guido Salvini, la revoca del divieto di espatrio. I difensori avevano presentato il contratto per un incarico di vice-allenatore del Rancate, Canton Ticino. Fin qui tutto bene, salvo un particolare: il club smentise di avere mai affidato il doppio incarico allo «zingaro», che rimane in forza da calciatore. «Gegic - dice il dg Marco D’Erchie - non fa parte dello staff tecnico». Secondo punto. Gegic si era già recato nel Canton Ticino, per allenarsi o per giocare, quando questo gli era ancora vietato? L’interrogativo viene (involontariamente) sollevato dal presidente del Rancate, Claudio Rinaldi, intervistato da Ticinonews. «Con Gegic abbiamo un ottimo rapporto, sia umano che calcistico, ma finisce lì. Lui resta un giocatore del Rancate e quest’anno ha accumulato 2-3 presenze». L’affermazione sulle «2-3 presenze» nella Confederazione è curiosa dal momento che Gegic era ancora vincolato dal divieto di espatrio.

Già l'articolo del CorSport di ieri subodorava un "tranello", oggi nuova e pesante conferma.

Magari Gegic è già scomparso dai radar… mah!

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Sconto a chi insulta i napoletani Arriva dal profondo Sud, in particolare da Lecce, una nuova manifestazione di intolleranza

Notizia del 30 Ottobre 2013 - 17:05 [libero.it]
Arriva dal profondo Sud, in particolare da Lecce, una nuova manifestazione di intolleranza nei confronti di Napoli e dei suoi cittadini, ormai bersaglio un po' ovunque.
Un locale del capoluogo salentino, tra l'altro la città di nascita del tecnico della Juventus, Antonio Conte, ha offerto una singolare promozione in occasione della gara con il Catania, trasmessa su maxi-schermo. "All'interno del locale sono graditi cori di discriminazione territoriale. Se fatti contro i napoletani, sconto di 1 euro sulla pizza", lo sconcertante annuncio fatto circolare.
Una quindicina di giorni fa era invece salito agli onori della cronaca, si fa per dire, un negozio di Marano, paesone in provincia di Napoli, che distribuiva scontrini con la scritta 'Odiamo la Juve'

Iniziativa di miei concittadini <<ca nu mme piace propriu>>

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LA PRIMA PARTITA DI CALCIO

A Sheffield, il giorno di Santo Stefano del 1860, succede qualcosa

che non era mai successo: due società di football si affrontano

sul campo. In 13 contro 14 - e con altre regole bizzarre

IL FOOTBALL AUSTRALIANO HA MANTENUTO ALCUNE REGOLE CHE ALL'INIZIO IL CALCIO SI ERA DATO

LA PRIMA CRONACA DI UNA PARTITA DI CALCIO APPARSA SU UN GIORNALE DESCRIVEVA UNA RISSA, CON CODA POLEMICA

DOPO AVER COMBATTUTO A LUNGO LA FA, NATHANIEL CRESWICK ABBANDONA LE SHEFFIELD RULES

di PIER DAMIANI (MONDO NUOVO | AGOSTO 2013)

Erano 13 contro 14. A distinguere una squadra dall'altra non era il colore delle maglie ma quello dei cappelli, di flanella rossa o blu scuro. La palla era una vescica di maiale gonfiata, ricoperta di tagli di pelle cuciti insieme, della forma di un uovo, e pesava all'incirca 400 grammi (un po' meno di quella attuale). Le porte erano due pali conficcati per terra e il terreno di gioco, per il quale non erano ancora state fissate misure regolamentari, era delimitato da bandierine, non da strisce di gesso. Le mani potevano essere usate per spintonare gli avversari e anche colpire o spingere il pallone, ma non trattenerlo, con una sola eccezione: sul rinvio degli avversari, ciò che dava diritto a un calcio libero (come succede nel football australiano), ma non a tirare in porta. Quella era anche l'unica occasione in cui la palla poteva volare per aria: tutti i passaggi dovevano avvenire rasoterra.

Forse non esattamente come quelle di oggi, ma era una partita di calcio. Di più: secondo la storia ufficiale del più popolare gioco del mondo, la prima partita di calcio. Addirittura un derby. Lo hanno giocato, il 26 dicembre 1860, un mercoledì, lo Sheffield Football Club e l'Hallam Football Club nello stadio di Sandygate Road, a Crosspool, un sobborgo di Sheffield, la più grande città dello Yorkshire, nel nord-est dell'Inghilterra. Nessun giornale ne ha riportato la cronaca (era presente un giornalista dello Sheffield Daily Telegraph, che tuttavia preferì non scrivere "perché sarebbe stato sgradevole sottolineare la prestazione di un particolare gentiluomo quando tutti hanno fatto bene"), ma si sa che il campo era coperto di neve, che il risultato finale è stato 2-0 per lo Sheffield e che un gol lo ha segnato Nathaniel Creswick (sul secondo non ci sono notizie).

All'epoca Creswick aveva 29 anni, faceva l'avvocato ed era Maggiore nel corpo volontario dei fucilieri dell'Hallamshire, che aveva contribuito a formare (si sarebbe congedato nel 1897 con il grado di Colonnello). Come ogni buon figlio della borghesia, la famiglia aveva un'azienda per la placcatura in argento dei metalli, tirava di scherma e giocava a cricket, uno sport estivo. D'inverno, lui e altri membri dello Sheffield Cricket Club, in cui era entrato nel 1855, giocavano informali partite di football.

Il gioco si era evoluto dai tempi in cui veniva giocato fra gli abitanti di un villaggio (vinceva chi "conquistava" la piazza centrale degli avversari). Veniva chiamato, allora "mob football" e accompagnava i giorni di festa, in particolare il Martedì Grasso. Non c'erano regole, il numero dei giocatori era illimitato e la pratica violenta, al punto che tutto era concesso salvo - secondo un'antica cronaca di Workington, nella contea nord-occidentale della Cumbria - "l'omicidio volontario e quello colposo" ed era normale registrare fratture a braccia e gambe, colli e schiene. Fra Cinque e Seicento, la regina Elisabetta I aveva disposto che chi fosse trovato a giocare a football venisse incarcerato per una settimana e dovesse passare la successiva a pentirsi pregando in chiesa.

Ma gli anatemi reali ("uno sport inutile e ozioso", "un passatempo demoniaco e sanguinario") non erano riusciti a diminuirne la popolarità. Con la prima rivoluzione industriale, molti dei suoi appassionati si sono trasferiti dalla campagna alla città, adattando il gioco a spazi più ristretti, come i parchi, rispetto ai campi aperti. Donald Walker scrive nel 1837 un manuale sportivo in cui descrive i campi di calcio come delimitati da "porte piazzate a una distanza di 80 o 100 yard, formate da due bastoni conficcati a terra e distanti fra loro due o tre piedi (60-90 cm)". Le partite si disputano negli stessi posti in cui si gioca a cricket e a volte perfino negli stadi di cricket, come annuncia una nota su un giornale di Leicester per il Venerdì Santo del 1838 fra "undici (in maggioranza tipografi) di Derby e altrettanti della nostra città. I vincitori sfideranno una qualsiasi squadra inglese per una borsa non superiore alle 25 sterline". Le partite erano spesso organizzate dai pub: nella zona di Holmfirth, Yorkshire, il signor Charles Whitehead, proprietario del Blue Cup Inn, raccoglie nel 1843 cinque sterline da sei giocatori del villaggio di Totties che sfidano quelli di Thurstone il giorno di Martedì Grasso al meglio di tre gol (e i signori di Thurstone sono pregati di depositare il denaro). Il numero dei giocatori varia, da un minimo di 3 a 6, 8, 12, 15, 20 o perfino 30. Si gioca per la borsa, ma anche per premi in natura: una "sostanziosa" cena, mezzo barile di gin Old Tom, 40 libbre (una ventina di chili) di formaggio; un "bel maiale"; o una cena e una bottiglia di vino a testa. Al di là di formule diverse (come quella usata dalle parrocchie di Enderby e Whetstone, Leicestershire, che nel 1852 si sfidano su due partite ed eventuale bella, ogni partita finisce appena un gol viene segnato), le partite durano in genere un'ora. Ma vicino a Ashton-under-Lyne, Lancashire, il giorno di Natale del 1846, otto di Charlestown e otto di Boston giocano dalle 11 alle 15: vince "chi segna più" e chi perde paga il conto del pranzo all'Old Ship pub.

Nel frattempo, i gestori accettano scommesse. Nel 1843 si sfidano due villaggi dalle parti di Rugby, 12 contro 12. Al mattino Grandborough è dato 100 a 1 contro Flecknoe, ma poco prima dell'inizio della partita la quota è scesa a 12. La gente accorre e per salutare i vincitori "i cappelli vengono lanciati in aria, sventolano i fazzoletti e alte sono le urla". Si fanno buoni affari, tanto che alcuni pub decidono di mettere in piedi le loro squadre di football: a Rochdale, che adesso è un sobborgo di Manchester, nel 1839 per una borsa di 20 sterline si affrontano il White Lion Inn e il Barley Mow, questa volta al meglio delle 11 partite, sempre con il criterio che una finisce appena si segna un gol.

Intanto, le public schools (i collegi privati in cui si è formata la classe dirigente dell'epoca vittoriana) hanno adottato e codificato variazioni sul tema. Secondo la tradizione, il 1823 è l'anno in cui William Webb Ellis, durante una partita alla scuola di Rugby, "con sublime disprezzo per le regole del football, prese la palla in mano e cominciò a correre".

È lì che, per la prima volta, comincia a delinearsi quello che diventerà il rugby, differenziandosi da quello che sarà il calcio, "un gioco di dribbling", secondo il regolamento della scuola di Rugby del 1845, "in cui si corre con la palla fra i piedi". Nello stesso anno, al college di Eton, si gioca per la prima volta 11 contro 11, quasi certamente perché da quel numero di giocatori è composta una squadra di cricket. Quelli di Eton stabiliscono che si può toccare la palla con le mani, ma non la si può passare o correre con essa. Due anni dopo introducono l'arbitro e i guardalinee (definiti umpires, altro riferimento al cricket). Le regole tuttavia valgono solo dentro le mura di una scuola, e ognuna ha le proprie. A Winchester il campo era stretto e non c'erano le porte, ma solo una linea; a Westminster e a Charterhouse si giocava solo sotto i chiostri; a Harrow veniva incoraggiato il gioco di dribbling.

Il primo tentativo di standardizzarle avviene a Cambridge, nel 1848, in un salone del Trinity College. Alla riunione partecipano anche rappresentanti di Eton, Harrow, Rugby, Winchester, Shrewsbury. Non è rimasta nessuna copia scritta del regolamento stilato in quell'occasione (esistono una versione del 1856 e una revisione del 1863), ma di sicuro si sa che non c'è stata unanimità. Soprattutto tre punti sono controversi: se si possa toccare il pallone con le mani e in quali circostanze, se sia possibile dare calci negli stinchi (a Eton e a Shrewsbury era stato proibito nel 1846) e sia lecito sgambettare gli avversari.

Non è vero, come generalmente si racconta, che le public schools abbiano "inventato" il calcio. Come s'è visto, l'aneddotica sulle radici operaie del football moderno è abbondante. Ma è indubbio che gli old boys, gli ex alunni, siano stati i protagonisti della spinta fondamentale verso un corpo di regole accettate per continuare a praticare gli sport dei giorni dell'università. Creswick aveva frequentato la Collegiate School di Sheffield, dove aveva preso la laurea in legge. Adesso si era iscritto al Cricket Club e giocava partite di football in cui, come avrebbe raccontato più tardi un altro socio, William Chesternam, "lo scopo principale era dimostrare 'la forza del toro': la palla se ne stava tranquilla in mezzo al campo e qualche metro più in là una mezza dozzina di gentiluomini caricavano a testa bassa un'altra mezza dozzina di gentiluomini, come degli arieti. L'idea era colpire l'avversario, andargli addosso sia che avesse la palla sia che non l'avesse. Non c'erano regole precise, ma siccome la grande maggioranza veniva dalle public schools, ognuno portava un pezzettino della sua esperienza: una regola che non durò molto fu quella per cui ogni giocatore doveva tenere nelle mani una moneta da mezza corona, così da non poter spingere con il palmo l'avversario".

A maggio 1857, Creswick comincia a discutere con William Prest, un altro socio e suo buon amico, della necessità di regolamentare in qualche modo il gioco. Scrivono alle principali public schools e alle università per sapere che cosa avessero fatto. "Ricordo una regola, credo venisse da Winchester", avrebbe detto in un discorso molti anni dopo. "Diceva che non si poteva trattenere un avversario e prenderlo ad accettate sulla schiena nello stesso momento [risa dalla platea]. Le partite duravano in genere finché c'era luce. Una volta, contro Norton, giocammo quattro contro sei per tre ore: alla fine diventò una lotta per la sopravvivenza [altre risa]." Finalmente, il 24 ottobre 1857, Creswick e Prest si riuniscono alla Parkfield House, una casetta al 118 di Alberson Road, appena girato l'angolo alla fine di Bramall Lane, dove c'è lo stadio del Cricket Club. E fondano lo Sheffield Football Club, la prima società calcistica del mondo.

Si mettono subito a lavorare sulle regole. La prima stesura, completata nella primavera del 1858, non prevede la possibilità di toccare la palla con le mani (a parte il rinvio degli avversari). Ma la versione definitiva, che viene data alle stampe, è meno restrittiva e consente di usarle per colpirla o spingerla. In tutto sono 11 disposizioni, nelle quali non c'è traccia delle dimensioni del terreno di gioco o della distanza fra i pali: in quest'ultimo caso si fanno decidere di comune accordo le squadre avversarie e la consuetudine sarà di piantarli nel terreno fra un minimo di 12 piedi (3,65 metri) e un massimo di 18 (5,48 m), mentre oggi si gioca con porte larghe 8 yard (7,32m).

Siccome lo Sheffield FC era l'unica società in circolazione, non si potevano organizzare incontri. Così i soci giocavano fra loro, dividendosi fra la prima parte dell'alfabeto (A-M) contro la seconda, professioni liberali contro manfatturieri e, naturalmente, scapoli-ammogliati. Le sfide erano in genere equilibrate, salvo che nel primo caso: per qualche ragione, i giocatori migliori erano tutti fra le lettere iniziali (con l'eccezione di Prest). Ma poi, nel 1860, è arrivato l'Hallam, dal desiderio di mettere insieme una società meno esclusiva di quella degli old boys.

A Sandygate Road, nella parte occidentale della città, c'era da inizio secolo un club di cricket, ospitato in una struttura costruita sui terreni del proprietario di un pub che affacciava sulla strada, il Plough Inn. Aveva avuto un certo successo (i soci erano 300) e la rivalità con "quelli del centro" era alta. È stato John Charles Shaw, che giocava anche a cricket, a mettere in piedi il football club, il 4 settembre 1860. Nasce così la sfida con Creswick. Shaw accetta quelle che sono passate alla storia come Sheffield Rules e viene fissato l'incontro per il giorno di San Silvestro.

Lo Sheffield FC concede la rivincita due anni dopo, il 29 dicembre 1862. Nel frattempo, qualche mese prima, Creswick e Prest hanno cambiato alcune regole. In particolare, non si può più spingere o colpire con la mano o il braccio la palla (sempre salva l'eccezione del calcio libero sul rinvio dell'avversario) e sono definite le dimensioni delle porte: non solo i pali sono fissati a una distanza di 12 piedi, ma sono tenuti insieme da una barra trasversale posta a 9 piedi da terra (2,74 m: adesso la traversa è a 2,44). Di più è stata introdotta una novità che il football australiano ha mantenuto: due bandiere laterali rispetto ai pali, a una distanza di 12 piedi; la squadra che fa attraversare alla palla quello spazio ottiene un rouge; i rouge vengono contati solo se nessuno segna un gol e, in questo caso, determinano il vincitore dell'incontro.

I proprietari dell'impianto di Bramall Lane cercano di cavalcare la crescente popolarità del calcio, soprattutto in una stagione impraticabile per il cricket, e decidono di organizzare un incontro il cui incasso verrà devoluto in beneficenza ai soldati che hanno combattuto la Guerra civile americana. Questa volta c'è un giornalista (dello Sheffield Independent) che decide di scrivere e sappiamo come è andata. Dopo l'intervallo a metà delle tre ore di gioco previste, Creswick vince un tackle con un giocatore dell'Hallam, William Waterfall, e nel farlo lo colpisce a una gamba. Secondo la cronaca, "tutti sono concordi nel ritenere il colpo involontario. Ma Waterfall corre verso il Maggiore con espressione furibonda e lo colpisce diverse volte. Si toglie la maglia e si mette in posa da pugile". Però Creswick "conserva il suo sangue freddo in modo ammirevole" e "non restituisce un singolo colpo". A quel punto i due sono circondati da tutti i giocatori in campo. Alla fine però, "la saggezza ha prevalso, il gioco è ripreso e si è conclusa alle 3 con un pareggio, non essendoci stato né un gol, né un rouge". Lo Sheffield Independent scrive che "la condotta di Waterfall è stata deplorata" e che diversi giocatori dell'Hallam "si sono dichiarati dispiaciuti". L'opinione generale era che "Waterfall dovesse essere espulso", ma non essendo stata presa questa "deicisione estrema" è stato "messo in porta" per il resto dell'incontro. Il giorno dopo quelli dell'Hallam non l'hanno presa bene. In un'indignata lettera al giornale, scrivono che "nella prima parte della partita, dopo uno spintone di Waterfall, Creswick gli aveva detto che lo avrebbe colpito se fosse successo di nuovo. Prima dell'incidente, mentre si aspettava una decisione degli arbitri, Creswick, molto poco sportivamente, ha preso la palla dalle mani di un nostro giocatore e ha cominciato a calciarla verso la porta, Waterfall lo ha spinto, Creswick gli ha tirato un pugno in faccia e Waterfall ha reagito".

Per il calcio, la notizia più importante del 1862 è l'applicazione ai palloni dell'India-rubber, che sostituì le vesciche di maiale e permise di avere una forma sferica, con l'esterno in cuocio cucito industrialmente. Ma è nondimeno curioso che la prima cronaca di una partita mai apparsa su un giornale sia il resoconto di una rissa con seguito di accuse incrociate, secondo un copione che nell'ultimo secolo e mezzo ha avuto grande successo ed è stato replicato un numero infinito di volte.

Lo spiacevole incidente di Bramall Lane ha forse avuto un peso sull'organizzazione successiva del "gioco di dribbling". Il 26 ottobre 1863 si riuniscono alla Freemasons' Tavern di Great Queen Street, Londra, 11 rappresentanti di squadre londinesi e di diverse parti dell'Inghilterra. Rispondono all'appello lanciato sul giornale Bell's Life, l'anno precedente, da Ebenezer Cobb Morley, che aveva appena fondato il Barnes (un sobborgo della capitale) FC. C'è anche Shaw, il fondatore e capitano dell'Hallam, ma non Creswick. Gli incontri vanno avanti per due mesi. Finalmente, l'8 dicembre, viene fondata la Football Association e ci si mette d'accordo su quelle che dovranno essere le "regole del gioco". Ma all'ultimo momento Francis Maule Campbell, un socio del Blackheat (altro sobborgo londinese) FC, prende cappello e se ne va. Non condivide che vengano abolite due regole sulle quali invece fino alla penultima riunione (la quinta) c'era stata l'unanimità: la prima, che si possa correre con la palla in mano; la seconda, che sia lecito fermare l'avversario con un calcio negli stinchi, uno sgambetto o la trattenuta per la maglia.

La separazione fra calcio e rugby è ormai sancita, anche se passeranno otto anni prima che "quelli che giocano con le mani" fondino una loro associazione. Tuttavia, le regole stabilite alla Freemasons' Tavern non sono applicate in giro per l'Inghilterra. Creswick fonda una associazione regionale basata sulle sue regole, riprese in buona parte del Paese, anche se ognuno lo fa in maniera indipendente. Nel 1866 propone una sfida tra lo Sheffield FC e una selezione della FA (che continua ad avere dieci iscritti). Accetta di giocarla con le regole dei "londinesi", che non hanno mai considerato i rouge e nel frattempo hanno eliminato il calcio libero e qualsiasi uso delle mani. Si mettono d'accordo per una novità: per la prima volta, il 31 marzo 1866, una partita dura 90 minuti, in due tempi di 45. È uno standard che Creswick adotta immediatamente, mentre la FA lo farà solo nel 1877.

Da quel punto in poi, il calcio dilaga, inarrestabile come una valanga. Nel 1867 viene giocato il primo torneo del mondo, la Youdan Cup, a Sheffield e con le regole di Sheffield. La sponsorizza il proprietario di un teatro locale che porta quel nome. Vince l'Hallam FC, davanti al Norfolk e al Mackenzie. All'ultima partita assistono tremila spettatori, record assoluto, che pagano tre pence per il biglietto d'ingresso. L'anno dopo viene organizzata la Cromwell Cup, aperta alle società che non sono state fondate da più di due anni. Vince lo Sheffield Wednesday, in una finale che per la prima volta vede l'introduzione dei tempi supplementari: quelli regolamentari erano finiti senza reti e si è andati avanti a giocare fino a quando qualcuno ha segnato.

Poi nel 1871, pochi mesi prima di aderire alla FA, Creswick emenda ancora una volta le regole originali, adeguandosi. Dà, come misure massime del campo, una lunghezza di 200 yard e una larghezza di 100. Elimina i rouge (anche se da ormai tre anni ci si giocava solo se una delle due squadre non eccepiva) e la possibilità di prendere con le mani il rinvio degli avversari per il calcio libero, stabilendo che toccare la palla con la mano o il braccio allontanati dal corpo è fallo. Punisce anche la spinta con le mani. Definisce in fuorigioco chiunque della squadra avversaria si posizioni fra il portiere e la porta (una delle differenze in qualche modo significative: la FA considera in fuorigioco chiunque non stia dietro la linea della palla). Dà la possibilità alle squadre di nominare ognuna un arbitro che vigilerà sull'applicazione delle regole nella metà campo di chi lo ha scelto.

Adesso, ormai, il calcio assomiglia molto di più a quello di oggi. Manca solo l'ultimo tocco, la prima partita internazionale. La giocano Scozia e Inghilterra il 30 novembre 1872, giorno di Sant'Andrea, sul campo di cricket di Hamilton Gardens, a Glasgow. Nessuno dei due Paesi ha ancora un campionato (e, se è per questo, gli Scozzesi neppure una federazione: sarà fondata tre mesi e mezzo dopo), la FA ha però appena concluso il torneo della sua prima coppa (vinta dai Wanderers). Già quattro incontri sono stati disputati nella capitale inglese, ma non vengono riconosciuti: la "Scozia" era una squadra organizzata dagli Inglesi, i quali sceglievano giocatori con più o meno lasche origini scozzesi, residenti a Londra.

Quel 30 novembre in campo ci sono veri Scozzesi, presi in blocco dal Queen's Park, la più forte squadra dell'epoca sopra il vallo di Adriano. Charles Alcock, il segretario della FA e capitano dei Wanderers, ha invece selezionato la sua formazione scegliendo da nove squadre diverse. Il terreno è pesantissimo, a Glasgow è piovuto per tre giorni di fila. Finisce 0-0, anche se a pochi minuti dalla fine un tiro dello scozzese Robert Leckie colpisce il nastro tirato fra i due pali al posto della traversa. Fino al 1970, fra Scozia (che nell'occasione gioca con la maglia blu dei Queen's Park, alla quale è stato aggiunto sul petto lo stemma di un leone crestato) e Inghilterra (in bianco con lo scudetto dei tre leoni) non ci sarà più un pareggio senza reti.

LA LUNGA MARCIA DENTRO LE REGOLE

Per nessuna ragione un gentiluomo commetterebbe un fallo intenzionale. È partendo da questo presupposto che all'inizio il football moderno non ha previsto né l'arbitro né il calcio di rigore. Entrambi sono stati introdotti a cavallo fra gli ultimi anni dell'Ottocento e i primi del Novecento. L'arbitro, in quanto figura terza, compare per la prima volta nel 1891 (prima ce n'erano due, indicati dalle squadre che giocavano la partita). Dello stesso anno è il calcio di rigore, che in un primo tempo veniva chiamato calcio della morte. A proporlo era stato, nel 1890, il portiere e uomo d'affari nord-irlandese William McCrum. Ma fino al 1912, quando è stato disegnato il dischetto a 12 yard (11 m) dalla linea di porta, in posizione centrale rispetto ai pali, poteva essere tirato da qualsiasi posizione nel raggio di 12 yard dal centro della porta. Assieme a questa regola è stata modificata quella che permetteva ai portieri di intervenire con le mani in tutta la loro metà campo. Da allora la loro libertà è stata costretta all'interno dell'area di rigore. Solo dal 1913 chi calcia un angolo è obbligato a scaricare la palla su qualcuno che gli è vicino o a lanciarla in mezzo all'area: prima si poteva partire in dribbling (con il vantaggio che l'avversario doveva restargli a non meno di sei yard di distanza) e cercare di andare in porta. L'ultima regola originale a cadere è stata quella che impediva di calciare direttamente in porta i calci di punizione. Lo si può fare solo dal 1927. Sempre intorno agli anni '90 dell'Ottocento è stata inventata la parola "soccer". Secondo la tradizione, la si deve a uno studente di Oxford, e in seguito calciatore di buona fama, Charles Wreford-Brown. È stato lui a storpiare le prime lettere di Association football in soccer. Era un vezzo di quegli anni in una delle più prestigiose università del mondo: breakfast era diventato brekker; football, footer; rugby, rugger; e association football, soccer. Nel 1893 la Western Gazette annunciò che "W.Nielson era stato eletto capitano di rugger e T.N. Partker di socker" (su suggerimento del lessicografo Henry Watson Fowler, un'autorità dell'epoca, perché quella grafia permetteva una pronuncia più corretta). Per uno strano gioco del destino, nessuno in Gran Bretagna usa più quella parola, che invece è adoperata dagli Americani per definire il calcio europeo.

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MATCH-FIXING TRIAL

Ding may be source quoted in article

Accused is behind information e-mailed to The New Paper

by WALTER SIM (The Straits Times 01-11-2013)

In 2011, accused match-fixer Eric Ding Si Yang promised The New Paper (TNP) a source who could shed light on the elusive alleged ringleader of a global match-fixing syndicate.

But it emerged in court yesterday that the 31-year-old Ding was likely the anonymous source who described Dan Tan Seet Eng as a “generous businessman” who “always has a soft spot for people who need his help” in the Dec 23, 2011 article.

Ding, a businessman, stands accused of bribing three Fifa-accredited Lebanese officials – referee Ali Sabbagh, 34, and linesmen Ali Eid, 33, and Abdallah Taleb, 37 – with prostitutes to induce them into fixing a match.

The officials, who have been deported after serving their jail terms, were arrested on the morning of an Asian Football Confederation Cup game between Singapore’s Tampines Rovers and India’s East Bengal, which they had been set to officiate.

Ding’s trial resumed for its third tranche yesterday, with Straits Times sub-editor Stanley Ho, who was previously with TNP, testifying against Ding.

The close friends first met 10 years ago, when they were colleagues at the Today newspaper.

Mr Ho said he was aware of his colleague’s interest in the match-fixing industry, and that Ding, in 2009, indicated an intention to write a book.

Ding also proved himself to be a reliable source of information for TNP after he provided a scoop on the arrest of Singaporean match-fixer Wilson Raj Perumal, 47, in Finland in February 2011.

In December 2011, Ding – then based in Thailand – called Mr Ho after a match-fixing article involving Tan was published, asking why Tan was not contacted for his view. Mr Ho told the court: “He said that he knows someone who is willing to... give Dan Tan’s side of the story.

“So I said, if you can, ask that person to e-mail me. I received an e-mail two hours later.”

The e-mail was sent from the account zenjames7ATgmail.com, which was later established to have been used by Ding to communicate with referee Sabbagh, who was jailed for six months, double that of his two colleagues.

Tan, 48, is one of 14 suspected international match-fixers arrested in September in an islandwide sting. He is currently detained without trial under the Criminal Law (Temporary Provisions) Act. His lawyer Hamidul Haq, who is also representing Ding, yesterday told The Straits Times that an independent advisory committee has been formed to review the detention order. But the review has been adjourned.

Earlier yesterday, TNP editor Dominic Nathan also took the stand. He rejected Mr Haq’s suggestion that Ding did “investigative journalism to gather information for his colleagues in the newspaper to develop stories”.

Instead, Ding was hired as a freelance writer with TNP from March 2006 to May last year, during which he published a weekly column titled From The Ground. Nicknamed the Lobang King – a colloquial term referring to someone in the know – he was also asked to join a panel of tipsters because he “was familiar with the game and familiar with betting odds”, said Mr Nathan.

But Ding was never asked to work on any stories about match-fixing, nor was he asked to gather fresh information, Mr Nathan added.

Only when news about Perumal’s arrest broke was he consulted as to whether he knew anything about match-fixing personalities, the court heard.

If convicted, Ding faces up to five years in jail, a fine of up to $100,000, or both.

The trial continues today.

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LA SCALATA AL CAMPIONATO

GALLIANI

a gamba tesa

Sui diritti televisivi si gioca una partita segreta miliardaria.

Le società si dividono. Ma l'ad del Milan vuole controllare

tutto fino al 2021. Con manager ex Fininvest e alleati misteriosi

PRESTO LA RESA DEI CONTI ALLA LEGA CALCIO. POSSIBILE UN ACCORDO

PER I PRIMI TRE ANNI. MA SUL DOPO È GUERRA APERTA TRA I CLUB

di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 7 novembre 2013)

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La scalata al campionato è fissata per il mese di novembre. In Lega calcio a Milano si voterà, a maggioranza qualificata di quattordici club su venti, se affidare le chiavi della serie A agli uomini di Infront Italy fino al 2021. È una partita complessa, dal risultato incerto. E anche sull'imparzialità dell'arbitraggio c'è qualche dubbio. Per cominciare, bisogna fare chiarezza sui ruoli in campo.

Dire che Infront è l'advisor della Lega per i diritti tv è come dire che Leo Messi ha una discreta confidenza con il gol. Nella sostanza, Infront è la società che garantisce la sopravvivenza del campionato italiano con 900 milioni di euro l'anno per il triennio 2016-2018 e 930 milioni per il triennio successivo. Di fatto, Infront è molto di più di un intermediario e qualcosa di meno di una banca visto che è disposta a mettere sul piatto una cifra gigantesca (5,5 miliardi per sei anni) prima ancora di averla negoziata con i network (Sky, Mediaset e Rai) candidati a trasmettere i gol dell'ex campionato più bello del mondo.

Per quanto riguarda il curriculum dei protagonisti, l'intero negoziato sui diritti televisivi, sia quelli venduti in Italia da Infront sia quelli venduti all'estero da Media partners&Silva, è in mano a un gruppo di manager formatisi nel vivaio Fininvest. A fianco di Marco Bogarelli, Andrea Locatelli e Riccardo Silva, c'è un extracomunitario che certe partite le vince da solo. Si chiama Philippe Blatter, è svizzero e presiede la capogruppo Infront Media & Sports di Zugo. Blatter è anche il nipote prediletto di Josef, ex ala destra del Neuchatel Xamax, colonnello dell'esercito elvetico e monarca della Fifa dal 1998. Infront Italia ha già conquistato il diritto a gestire i pacchetti di "corporate hospitality" per i Mondiali brasiliani del prossimo anno.

A scanso di equivoci, va detto che la scalata di Infront al campionato italiano è tutt'altro che ostile. I presidenti della A, tanto litigiosi quanto pragmatici, non aspettano altro. Nessuno sa meglio di loro che, senza i soldi dei diritti ossia senza i tre quarti del fatturato pallonaro, il campionato chiude in due mesi. Certo, c'è modo e modo di cedere al vil denaro.

Il primo modo, chiamiamolo Infront forever, raccoglie tredici squadre (o dodici, secondo gli estri del napoletano Aurelio De Laurentiis) intorno alla Trimurti formata dal milanista Adriano Galliani, regista titolare del sistema, il laziale Claudio Lotito, l'uomo incaricato dei contrasti a centrocampo, e il manager presidente Maurizio Beretta, vaso di coccio che molti si divertono a sballottare ma che nessuno vuole rompere.

Il secondo modo, chiamiamolo Infront cum grano salis (altri tre anni e non sei), appartiene alle cosiddette sette sorelle. In ordine alfabetico, sono Fiorentina, Inter, Juventus, Roma, Sampdoria, Sassuolo, Verona. Inferiori in numero, hanno un peso specifico evidente in termini di potere economico grazie a proprietari che si chiamano Andrea Agnelli, Diego Della Valle, Giorgio Squinzi, Edoardo Garrone, Massimo Moratti più i due gruppi stranieri che hanno investito in Italia: lo statunitense Jim Pallotta della Roma e l'indonesiano Erick Thohir, prossimo azionista di riferimento dell'Inter. Purtroppo per loro, in Lega vige il principio del voto capitario. Al momento di decidere, Juve e Inter valgono quanto Livorno e Chievo.

La logica degli schieramenti è complicata dal fatto che, da quando è entrata nel sistema calcio (gennaio 2009), Infront ha preso accordi commerciali e pubblicitari anche con club, come l'As Roma e la Juventus, contrari all'obiettivo 2021. In aggiunta, ha rilevato la gestione di alcuni archivi storici e ha esteso la sua attività al settore produzione.

Oltre alle affinità fininvestiane, l'espansione silenziosa di Infront si è rafforzata proprio grazie al difficile momento economico. Oggi il mercato degli abbonati al calcio televisivo conta circa 4,5 milioni di persone divise numericamente all'incirca a metà fra Mediaset e Sky, che però guadagna il triplo per abbonato.

Il parco tifosi da divano ha smesso di aumentare, anzi è in lieve calo e l'offerta di Infront suggerisce una crescita minima degli abbonati nazionali nel lungo periodo. Dalla parte delle sette sorelle si fa notare che una proiezione così in là nel tempo è arrischiata considerando i cicli dell'economia e il passo accelerato dell'evoluzione tecnologica. La verità è che nessuno crede più al cavaliere bianco capace, come ha fatto British Telecom in Inghilterra, di irrompere nell'asta con i suoi rilanci. Anche perché la nostra Telecom la stiamo vendendo agli spagnoli.

Così le sette sorelle hanno la forte tentazione di allinearsi alla maggioranza gallianista, schierata per i pochi (si fa per dire), maledetti e subito. In fondo, tutti e venti i club sono terrorizzati all'idea che il secondo investitore, cioè Mediaset Premium, si tiri indietro. La pay-tv berlusconiana in onda sul digitale terrestre ha pagato a caro prezzo il desiderio di fare concorrenza alla piattaforma satellitare di Sky. Secondo un calcolo prudenziale, il calcio costa al Biscione 60 milioni di euro di perdite all'anno e ha richiesto un totale di 1,7 miliardi di investimenti complessivi contro i 6,3 miliardi spesi da Sky in dieci anni. Sei mesi fa, come ha rivelato "l'Espresso", c'è anche stata una trattativa fra Rupert Murdoch e Fedele Confalonieri, che voleva mollare il pallone. Ma non si è raggiunto l'accordo sul prezzo di vendita e tutto è rimasto come prima. Almeno per adesso.

Nel frattempo, Infront si è cautelata con un finanziamento di tre banche estere che copre la quota Mediaset (articolo in questa pagina). Ma è una somma che basta appena per un anno. Ed è da escludere che Sky Italia, in caso rimanga sola, copra la differenza.

Così Infront ha tirato fuori dalle scuderie un vecchio cavallo di battaglia, il canale tematico della Lega. Per decantarne le virtù, si è portata ad esempio la tv dell'Eredivisie, la lega di serie A olandese, appena rilevata dalla Fox del gruppo Murdoch per 1 miliardo di euro insieme ad altri asset. Ma il precedente italiano non è altrettanto confortante. Si chiamava Gioco calcio e ha chiuso i battenti dieci anni fa dopo avere ballato una sola estate o poco più. È vero che in dieci anni è cambiato tutto nel mondo dei media, ma lo studio di fattibilità sulla tv della Lega è di là da venire. Al momento, sembra una soluzione di emergenza.

L'altra via per aumentare il bottino dei diritti è quella che porta all'estero. Qui entra in gioco la Media Partners & Silva, fondata come Media Partners da Marco Bogarelli e Andrea Locatelli, che sono anche passati dall'avventura Milan Channel, la tv tematica del club della Fininvest. Adesso Riccardo Silva guida sia Mp, sia Milan Channel che ha in ballo un progetto da 1 milione di euro per lo sviluppo di Milan channel.

Discendente di Ambrogio Silva, imprenditore brianzolo che un secolo fa ha portato in Italia l'industria dei prodotti detergenti, il manager quarantenne si è fatto carico dei diritti internazionali della serie A per poco più di 110 milioni di euro. Il suo contratto è "vuoto per pieno", nel senso che lui paga la Lega e poi piazza il prodotto. La differenza se la tiene. A quanto ammonti lo spread di Silva è difficile dire visto che Mp, così come il gruppo Infront, ha molto a che fare con società insediate nei paradisi offshore di mezzo mondo.

Come accadeva circa vent'anni fa ai diritti cinematografici della library Fininvest, un audit reale delle transazioni è alquanto complicato.

Ma si può dire che in termini di audience, secondo fonti interne alla Lega, il prodotto serie A vale la metà della Premier League. In termini di ricavi vale un ottavo.

Non è l'unico paradosso. Infront ha reso felici i presidenti di serie A con un ricavo per abbonato di 177 euro che è il più alto di Europa. Nello stesso tempo, ha reso infelici i network che, pur di farsi la guerra commerciale, hanno dovuto abbattere gli abbonamenti ai prezzi più bassi d'Europa.

L'altro paradosso è che i sogni di ridurre il gap complessivo con la Premiership inglese sono in qualche modo legati proprio alle frequentazioni vip di Silva. Oltre ai cocktail sul red carpet dei festival cinematografici con George Clooney, Silva vanta un'intesa di business con la forza emergente del calcio europeo, la famiglia regnante qatarita degli al Thani, grazie alla sua amicizia con Nasser al Khelaifi, amministratore di al Jazeera Sports e presidente del Paris Saint-Germain di Zlatan Ibrahimovic e Edinson Cavani.

L'arrivo salvifico dello sceicco vale più di uno scudetto nell'immaginario di un proprietario di serie A. Ma lo sbarco in Italia di al Jazeera non si può scontare in banca, a differenza dei 900-930 milioni promessi da Bogarelli-Blatter e soci.

Perciò il pronostico per la prossima riunione dei club a Milano lascia pochi margini di incertezza. Il primo triennio se lo prenderà Infront senza grosse difficoltà. Sul secondo c'è qualche ombra in più. Altri advisor (Img, PricewaterhouseCoopers, Wasserman, Kpmg) vorrebbero sostituire il duo Bogarelli-Blatter. E forse anche l'antitrust potrebbe voler dire la sua sulla durata di un contratto per un ruolo che, ormai, va ben oltre la consulenza. Ma i presidenti sanno che non è il momento di lanciarsi in proiezione offensiva. Alla fine, un accordo si troverà. Un accordo con Infront.

Agnelli leader dell'opposizione

Juventus e Milan è un amore contro natura. Eppure la logica del business ha fatto sì che i due club rivali in campo si trovassero più di una volta a condividere obiettivi imprenditoriali. Sulla vicenda dei diritti televisivi Andrea Agnelli e Adriano Galliani hanno posizioni finora contrapposte, con lo juventino che chiede un rinnovo breve a tre anni e preme per un avvicendamento al vertice della Lega, presieduta da Maurizio Beretta, considerato troppo vicino al manager milanista e agli uomini di Infront.

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Infront e la "rete" svizzera

Da una parte, il giro miliardario dei diritti televisivi e non solo del calcio ma anche dello sci, alpino e nordico, del motociclismo nelle versioni Motogp e Superbike.

Dall'altra, una struttura societaria e finanziaria labirintica.

Il gruppo Infront è questo. In cima alla piramide l'azionista di controllo è Bridgepoint capital, un fondo di private equity che garantisce ai suoi investitori l'anonimato totale.

Al piano intermedio ci sono le controllate svizzere con sede nel cantone di Zugo.

Alla base di questa struttura ci sono le Infront italiane, raccolte sotto l'ombrello di Infront Italy holding. A luglio Infront Sports & Media, guidata da Philippe Blatter, ha dato in pegno l'intero capitale di Infront Italy holding a garanzia di un finanziamento da 270 milioni di euro messo a disposizione da Goldman Sachs e dalle filiali londinesi di Ubs e Crédit Suisse. La cifra corrisponde quasi esattamente ai 268 milioni di euro della quota di Mediaset Premium per i diritti televisivi del campionato di serie A in corso (277 milioni nel 2014-2015).

L'aspetto bizzarro dell'operazione tra Infront e le tre banche internazionali è che il patrimonio di Infront Italy holding è negativo per 46 milioni di euro e che la società perde a rotta di collo: 30 milioni di euro di perdite consolidate aggregate nel triennio 2010-2012 e un totale di 60 milioni di euro di rosso portato a nuovo.

Eppure i ricavi consolidati della capogruppo italiana sfiorano i 230 milioni di euro, tra gli incassi della serie A, dello sci e del motociclismo, e le controllate sono in attivo.

Se la holding italiana di Infront perde, la colpa è della controllante svizzera. Infront Italy, infatti, paga a Infront Sports & Media, a Infront Operations Europe e a Infront Holding Ag, tutte con sede a Zugo circa 10 milioni di euro all'anno in oneri finanziari passivi. È il risultato di un finanziamento di 127 milioni concesso dai soci elvetici. In altre parole, mentre Infront svizzera prende i soldi sul mercato a un tasso del 4,5 percento, la controllata italiana non si affida al circuito bancario e preferisce prelevare il denaro dalle Infront svizzere con un tasso intergruppo che si aggira sull'8 percento. Cioè, quasi il doppio di quanto Infront Italy avrebbe speso se avesse impegnato le sue azioni direttamente presso Goldman, Ubs e Cs. In questo modo, una fetta consistente dei soldi guadagnati dai contratti italiani sui diritti televisivi prende la via del Gottardo. Trattamento signorile anche per i tre amministratori di Infront Italy Holding che si dividono compensi totali per 3,3 milioni di euro all'anno. I manager sono Bruno Josef Marty, ex McKinsey e già amministratore delegato della Federsci svizzera, Stephan Herth, responsabile Infront per la Bundesliga, e Giuseppe Ciocchetti, ex direttore finanziario della Sopaf.

Un'altro debito di Infront Italy Holding riguarda il saldo del pagamento di 11 milioni di euro per le azioni che il gruppo Flammini aveva in Infront Motor Sports, che organizza il campionato di Superbike e che è passata un anno fa sotto il controllo di Dorna-Bridgepoint capital. La famiglia Flammini, che aveva tentato di organizzare il Gp di Formula Uno per le strade di Roma, deve ricevere ancora 8,5 milioni di euro.

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Affari Una gestione difficile in Lega

I diritti televisivi da

partita a soap opera

di MASSIMO SIDERI (CorSera 01-11-2013)

Ormai la partita dei diritti tv della serie A è diventata la soap opera che tutti seguono. L’audience è tale che potrebbero trasmetterla in prima serata, magari sul famigerato canale tv del calcio, e guadagnarci. D’altra parte il montepremi è alto. Non c’è solo il miliarduccio che gira ogni anno sul mercato interno. E nemmeno il rinnovo del contratto per la gestione dei diritti futuri che serve a Infront, certo, ma anche al proprio azionista BridgePoint, un fondo di private equity che come tale starà pensando a come uscire dall’investimento nel medio periodo. In gioco ormai sembra esserci la sopravvivenza del modello pensato da Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan ed ex numero uno della Lega. Cambio di «governance» di questa industria o status quo, con concessioni a tutti (dove per tutti si intende Sky stufa di pagare sostanzialmente il doppio di Mediaset per avere le stesse partite, ma anche le principali squadre di serie A che a causa del meccanismo di voto si ritrovano in minoranza rispetto a una maggioranza di piccole capitanate però dal Milan)?

Non è un mistero che la «Troika» della serie A formata da Maurizio Beretta, Marco Bogarelli e Riccardo Silva deve qualcosa a Galliani. Bogarelli e Silva sono stati i manager del Milan Chanel e sostanzialmente da lì hanno iniziato la loro cavalcata sui diritti tv. Lunedì intanto per gli amanti del genere ci sarà un’altra puntata con l’incontro non definitivo sul rinnovo. Infront ha tentato la volata chiedendo un contratto sui sei anni, cioè per due trienni: 2015-2018 e 2019-2021. Grazie a una curiosa asimmetria nei contratti (quello da advisor finisce nel 2016) la Infront ha sempre un anno di vantaggio sugli altri. D’altra parte gli altri come Img e Wasserman non avrebbero ricevuto se non dei puri cenni di riscontro formale. Alla fine si andrà alla conta dei voti. Ma è difficile che le squadre minori possano opporsi, anche in virtù di una postilla che Infront ha messo saggiamente (dal proprio punto di vista) sui contratti individuali firmati con i club sulla gestione degli archivi: sono legati a quello principale con la Lega Calcio. Forse, anche qui, ci vorrebbe il voto segreto?

Diritti tv e Infront

Crescono i dubbi sulle garanzie

Riunione a Milano dei club dissidenti, guidati da Agnelli, in

preparazione dell’assemblea di Lega del 15. Perplessità relative

alle fideiussioni che servirebbero a coprire eventuali minori

introiti. Anche la proposta di realizzare la tv della Lega

non convince. E preoccupano le perdite a bilancio dell’advisor

di STEFANO SALANDIN (TUTTOSPORT 01-11-2013)

Più passa il tempo, più si avvicina la data del 15 novembre - quella in cui si terrà l’assemblea di Lega dedicata all’accordo per la commercializzazione dei diritti tv - e più tra le società che stanno “all’opposizione” in Lega aumentano i dubbi sulla proposta di Infront. Ancora ieri mattina, a Milano, i club all’opposizione (con Andrea Agnelli in prima fila accanto ai dirigenti di Fiorentina, Inter, Roma, Samp, Verona e Sassuolo) si sono ritrovati per approfondire la questione e per preparare le contromosse. Piccolo ripasso: Infront, l’attuale advisor, ha proposto un minimo garantito di 900 milioni a stagione per il triennio 2016-2018 e di 930 per quello successivo. E già sull’aspetto del “minimo garantito” emergono dubbi, visto che già nella prossima stagione la Serie A riuscirà a spuntare oltre un miliardo di euro in diritti. Meno, insomma, di quanto verrebbe garantito in prospettiva. Ma la perplessità maggiore riguarda proprio la... copertura sul “minimo garantito”, di cui dovrebbe appunto farsi carico Infront nel caso in cui gli introiti risultassero inferiori. Nelle audizioni delle scorse settimane, l’advisor ha spiegato che si “impegnerà” nei confronti di banche o altri istituti finanziari per ottenere l’emissione di garanzie fidejussorie a inizio stagione. Una terminologia, questa, ritenuta troppo generica perché possa cautelare da eventuali rischi futuri, soprattutto in presenza di un contratto così lungo e con una società il cui capitale sociale non sarebbe sufficiente in caso di controversia. A far drizzare ancor più le antenne ha contribuito anche un’inchiesta pubblicata da “l’Espresso”, in edicola oggi, in cui si riferisce di una perdita consolidata di 60 milioni da parte della holding italiana di Infront. Cossicché tra i “dissidenti” prende corpo l’idea di proporre, dopo il 2016 quando scadrà il contratto con Infront, la vendita diretta da parte della Lega sul mercato nazionale. La questione dei potenziali acquirenti (Sky e Mediaset) si incrocia con l’altra proposta avanzata da Infront: la realizzazione di una tv della Lega che possa procedere direttamente alla produzione e alla vendita delle gare agli abbonati. E in questo caso le perplessità sono ancora maggiori. A cominciare, banalmente, dalla difficoltà di mettere d’accordo 20 soci, i presidenti, che avrebbero ciascuno il 5 per cento del capitale. Senza contare che tre dei “soci” cambierebbero ogni anno in forza dei meccanismi di promozione e retrocessione. Non è un caso, del resto, che l’unica realtà del genere in Europa sia riferibile alla Erendivise, la Serie A olandese, perché ha ben altri numeri e implicazioni. E le indiscrezioni secondo cui questa nuova tv della Lega dovrebbe essere attivata sulla piattaforma digitale, quella più affine a Mediaset, ha fatto lampeggiare parecchie luci di allerta.

Modificato da Ghost Dog

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Gegic in campo quando

non poteva: ora rischia

Il gip al pm: «In Svizzera senza documenti»

Salta il contratto da tecnico col Rancate?

di FRANCESCO CENITI (GaSport 01-11-2013)

Rischia di complicarsi il ritorno alla normalità di Almir Gegic: potrebbe saltare il suo contratto da vice allenatore del Rancate (seconda Lega svizzera). Il gip Guido Salvini ha segnalato al pm Roberto di Martino una violazione dei provvedimenti ristrettivi a cui era tenuto dopo l’uscita dal carcere. Il serbo è indagato per associazione per delinquere trasnazionale finalizzata alla frode sportiva nell’inchiesta sul calcioscommesse condotta dalla Procura di Cremona (Gegig si era consegnato alle autorità italiane un anno fa).

Gare galeotte L’ex latitante a settembre aveva ancora il passaporto sequestrato e non poteva lasciare l’Italia, ma il giudice è venuto in possesso di carte che documentano la sua presenza in Svizzera per giocare delle gare ufficiali nel Rancate. Gegic, 34 anni, aveva chiuso la carriera di calciatore (una esperienza anche in Italia con il Vicenza) proprio nel club ticinese. Nonostante il divieto d’espatrio tra settembre e ottobre sarebbe sceso in campo almeno tre volte: ci sarebbe anche un filmato. Una vera leggerezza del serbo (che secondo il pm ha ammesso il minimo sindacale durante i suoi interrogatori, ma non ha collaborato come si sperava): i termini per riavere il passaporto erano prossimi. Gli avvocati avevano inserito nell’istanza presentata al gip anche una copia del contratto firmato da Gegic con il Rancate proprio per dimostrare come il loro assistito avesse una opportunità di lavoro. Il gip aveva accolto l’istanza, restituendo il passaporto a Gegic e obbligandolo a firmare ogni 15 giorni in questura a Cremona. Adesso, però, la partita si riapre. Spetterà al pm valutare il da farsi: potrebbe chiedere che siano riapplicate di nuovo misure restrittive nei confronti di Gegic con una decorrenza immediata e per la durata di un altro anno. Toccherà ai legali dimostrare che Gegic non è mai andato in Svizzera oppure far leva sulla buona fede.

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Non avrebbe pagato la giusta aliquota

Guai col fisco, Kaká indagato a Milano

La notifica subito dopo il ritorno in Italia: la procura gli

contesta una possibile elusione per gli anni 2008 e 2009

di FABRIZIO BIASIN & MARTINO CERVO (Libero 01-11-2013)

Kaká è indagato dalla procura di Milano. È il secondo infortunio occorso al campione brasiliano dal ritorno in maglia milanista, completato a inizio settembre e subito interrotto dal fastidio muscolare rimediato contro il Torino il 22 settembre. Dal quale si è ripreso con prestazioni maiuscole contro Barcellona e Lazio, appena due giorni fa. Il 10 ottobre, poco più di un mese dopo il clamoroso «rimpatrio» in Italia, a Ricardo Izecson dos Santos Leite è stata notificata la conclusione di indagine per elusione fiscale nata da un accertamento dell’Agenzia delle Entrate di qualche anno precedente.

Secondo le informazioni in possesso di Libero, la verifica non riguardava inizialmente in prima persona il calciatore (che in quegli anni era in forza al Real Madrid), ma una società interposta. È molto frequente che personalità celebri si affidino ad aziende di questo tipo per gestire gli ingenti redditi e le pendenze burocratiche e fiscali a essi collegati. L’accusa ritiene che tramite questa società Kaká abbia pagato le tasse con un’aliquota minore di quella prevista: una fattispecie di quel che la legge chiama abuso di diritto. Fatto sta che le indagini preliminari riguardano poi il fantasista, al quale come detto il 10 ottobre viene notificata la contestazione provvisoria di dichiarazione infedele. A seguire il «caso» è uno dei pm più noti della procura, da anni impegnato sui reati fiscali e finanziari: Francesco Greco.

Subito dopo la notifica, la difesa viene assegnata a un legale d’ufficio, l’avvocato Elena Patrucchi. Il campione però, una volta ricevuta la notizia, ritiene di passare la pratica al suo professionista di fiducia, nominando difensore l’avvocato Daniele Ripamonti, titolare di un importante studio di Milano. Malgrado il completo riserbo di quest’ultimo, che al telefono col cronista si limita a non smentire la notizia, Libero è in grado di anticipare alcuni dettagli relativi ai possibili sviluppi dell’inchiesta. Il contenzioso con l’Agenzia delle Entrate si sarebbe già concluso con un accordo tra le parti. La cosa in sé non libera automaticamente il 31enne fantasista dalla questione penale, che lo vede iscritto al registro degli indagati per dichiarazione infedele per gli anni 2008 e 2009 (al Milan aveva ingaggi di 9 milioni l’anno), gli ultimi trascorsi in Italia prima dei quattro a Madrid. La rilevanza penale dell’elusione è un tema giuridicamente molto dibattuto, ed è prevedibile che su questo snodo si concentrerà l’eventuale processo. Secondo quanto risulta a Libero, le cifre contestate all’asso brasiliano si aggirerebbero intorno ai 2 milioni di euro.

Come ha mostrato anche la prestazione di mercoledì, Kaká - che grazie alle nozze con la 26enne Caroline Celico è anche cittadino italiano - non ha affatto risentito sul piano personale della vicissitudine giudiziaria. Chi l’ha sentito in merito alla faccenda lo descrive «tranquillo» e «determinato a chiudere la pratica il prima possibile». Il Pallone d’oro 2007, noto anche per la sua fede cristiana evangelica, avrebbe spiegato la volontà di fugare ogni dubbio sulla correttezza della sua condotta. Di certo, la grana giudiziaria non semplifica la sua stagione, né quella fin qui molto stentata del Milan.

Spese pazze ma la carta

di credito è di Pandev

I voli di altri calciatori addebitati

sul conto dell’ex bomber laziale

È STATA INDAGATA LA DIPENDENTE DI UNA AGENZIA DI

VIAGGI: PAGAVA AEREI E TRENI ANCHE PER GLI AVVERSARI

di ANDREA OSSINO (Il Messaggero 01-11-2013)

I calciatori viaggiano e Goran Pandev paga. Non deve essere stata una bella sensazione per l'attuale attaccante del Napoli essersi accorto di aver pagato a sua insaputa migliaia di euro in biglietti aerei e ferroviari spesso usati da diversi avversari dello stesso calciatore e dalle loro famiglie. Per questa vicenda il sostituto procuratore capitolino Giorgio Orano ha appena firmato il decreto di conclusione delle indagini, atto che di solito precede una richiesta di rinvio a giudizio, iscrivendo nel registro degli indagati Marina Nardi, dipendente di un'agenzia che si occupa dei trasferimenti per giornalisti, tifosi, vip e giocatori. Secondo la procura la donna avrebbe utilizzato indebitamente la carta di credito di Goran Pandev per acquistare diversi biglietti aerei, molti dei quali intestati ad altri calciatori, per un totale di circa seimila e trecento euro.

I PAGAMENTI

Sono trascorsi tre anni da quando Goran Pandev, attuale attaccante del Napoli e capitano della nazionale macedone, vestiva la maglia della Lazio e viveva nella capitale. Comemolti vip e sportivi italiani, il calciatore, per i suoi viaggi personali, in quel periodo si serviva della stessa agenzia che si occupava delle trasferte sportive di diverse squadre di calcio. Per questo motivo, una dipendente dell'agenzia, Marina Nardi, era venuta a conoscenza dei codici della carta di credito di Goran Pandev e aveva utilizzato la carta per acquistare alcuni biglietti aerei e ferroviari intestati a diverse persone. «Sono cifre veramente basse - ha dichiarato Patrizio Rubechini, l'avvocato che difende la donna indagata - si è trattato di un equivoco che chiariremonon appena avremo a disposizione tutti gli atti. La mia assistita - ha continuato l'avvocato - non ha mai avuto alcun problema legale ed ha sempre svolto in maniera ineccepibile il suo lavoro».

GLI AVVERSARI

Ma oltre al danno economico, per Goran Pandev, vi è anche la beffa. Infatti tra le persone che hanno goduto delle vacanze a sue spese ci sono numerosi avversari calcistici come Giuseppe Vives, ex centrocampista del Lecce ed attuale calciatore del Torino. Sempre nel Torino giocano anche altri viaggiatori come Salvatore Masiello, coinvolto anche nell'inchiesta sul calcio scommesse, che con la moglie Maddalena Sever, i due figli, ed altri membri della famiglia hanno viaggiato da Catania a Torino passando per Napoli, sempre a spese dell'attaccante macedone. I giocatori non sono stati iscritti nel registro degli indagati in quanto non erano a conoscenza del fatto che l'ex laziale pagava i loro viaggi. Pandev ha anche offerto un viaggio da Napoli a Torino al calciatore del Lecce Dario D'Ambrosio. Al fratello gemello di D'Ambrosio, Danilo, ed alla sua compagna, la studentessa di economia Vincenza Cristofaro, l'ignaro attaccante del Napoli ha regalato un biglietto aereo che da Roma li ha portati fino ad Ibiza, in Spagna. Inoltre, con la carta di credito dell'ex laziale sono stati comprati biglietti per Parigi, Milano, Francoforte, Amsterdam e Glasgow, per un totale di circa seimila e trecento euro. Cifre da poco se paragonate allo stipendio del calciatore, ma che hanno comunque suscitato le perplessità della banca che ha emesso la carta di credito dell'attaccante partenopeo. A quel punto Goran Pandev ha quindi sporto denuncia facendo finire la vicenda sul tavolo del sostituto procuratore Giorgio Orano.

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Il no di Diego Costa

diventa affare di Stato

La federcalcio voleva ritirargli il passaporto

per aver scelto la Spagna: stop del governo

di COSIMO CITO (la Repubblica 01-11-2013)

Si è messo di spalle al sogno di milioni di brasiliani. Poi Diego Costa ha scelto. Per gratitudine: «È stata una decisione difficile, ma ho voluto la Spagna perché è il paese che mi ha dato tutto». Girato con una webcam, in una stanza buia e mandato su You-Tube, il filmato dell’attaccante dell’Atletico che annuncia il suo tradimento impazza da un paio di giorni sulle tv brasiliane e negli occhi di un popolo tradito alla vigilia della sua festa. Non si risparmiano i giornali brasiliani. O Globo spara a tutta pagina “Traiçoeiro”. Gratitudine, dice Costa, ma fino a che punto? La Cbf, per bocca del suo presidente Josè Maria Martin, ora parla di altro: «È stato sedotto dalla Spagna», in altri termini è stato comprato. Come se fosse un attaccante sul mercato, come se la Spagna fosse un club, e Costa, col suo doppio passaporto, quindi eleggibile da entrambe le nazionali, si sia venduto al miglior offerente.

Il caso è di portata enorme e inedita. Mai un brasiliano aveva rinunciato alla sua nazionale per un’altra. Thiago Motta e Amauri non rinunciarono al Brasile: semplicemente, nel Brasile difficilmente avrebbero trovato posto, e scelsero l’Italia. Diego Costa, che in verdeoro ha giocato due amichevoli, al Mondiale, invece, ci sarebbe andato, e sarebbe probabilmente stato titolare accanto a Neymar. Ora dovrà giocarsi il posto con Torres, Villa, Negredo, Pedro. Soprattutto, dovrà affrontare il suo popolo, quando metterà piede in campo. Al suo posto, per le due amichevoli novembrine con Honduras e Cile, Scolari ha richiamato il milanista Robinho, tornato in nazionale dopo due anni. E ha dovuto rispondere in conferenza stampa a una domanda pungente. Quando era ct del Portogallo Felipao spinse per la naturalizzazione di Deco e Pepe, brasiliani di nascita, lusitani per convenienza: «Ma non avevano mai giocato per la Seleção...» ha farfugliato. E Romario gli ha chiesto spiegazioni.

Diego Costa, 25 anni, capocannoniere della Liga, ex bidone esploso nelle mani di Simeone, non perderà comunque la cittadinanza brasiliana, come minacciato dalla Federcalcio, perché, come spiegano fonti del ministero della Giustizia di Brasilia, «la cittadinanza è un diritto inalienabile e non può essere tolta su richiesta di terzi». Ridacchiando sotto i baffi, Del Bosque ha parlato di “bella notizia”. È una storia figlia della globalizzazione, di un mondo in cui i confini scompaiono, e con essi, lentamente, anche il concetto di “nazionale”. Sarà, tra poco, anche il caso di Adnan Januzaj, il talento del Manchester United nato in Kosovo e ambito da ben cinque federazioni. È stato, pochi anni fa, il caso di Marcos Senna, brasiliano di Spagna anche lui, mediano della Roja campione d’Europa 2008. Cinque anni di soggiorno in Spagna, ora, hanno messo Diego Costa di fronte a un’alternativa. Lui si è messo di spalle a 200 milioni di connazionali. E ha deciso.

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Social change, not

sermons, changed football

Anti-racism campaigns will not stop the

abuse of black players we saw in Moscow

Attitudes have changed almost as much as players’ salaries

by MICK HUME (THE TIMES 31-10-2013)

The suggestion that one should “get back to Russia!” was once aimed at left-wing political activists. Now some would like to offer the same advice to right-wing football fans, with Russia branded the home ground of racism, not communism.

Uefa, the governing body of European football, yesterday ordered the partial closure of CSKA Moscow’s stadium for its next Champions League tie over allegations that fans had racially abused Manchester City’s Yaya Touré during a match. Touré had wanted the stadium closed for two or three years, and suggested that black footballers might boycott the 2018 World Cup in Russia.

All this coincided with a Mexican wave of praise for the British campaign against racism in football, Kick It Out, which has just celebrated its 20th anniversary. The implication is that Russia needs a sort of Kick It Out-KGB of its own. We really should not wish such a thing on our worst enemies.

However worthy the intentions of campaigners might have been 20 years ago, the lobby has become a sort of state-and-FA-backed re-education programme to impose a new etiquette on the uncouth masses, with damaging consequences for football and freedom of expression.

The strange thing is that, the less overt racism there is among football crowds and players, the more campaigns, regulations and laws are launched against it. When I first went to Manchester United in the 1970s, racial prejudice appeared to be not so much acceptable as obligatory. Those attitudes have changed almost as much as players’ hairstyles and salaries.

Sitting among opposition fans at an away game last year, I was surprised when the bloke behind me called United’s winger Nani a “f***ing n****r!” — but not as shocked as the bloke himself, who tried to swallow his own tongue by turning the N-word into a coughing fit, then sat shamefaced, looking as if he wanted to turn himself in to the nearest policeman.

The decline of racism around English football has not really been down to the sermonising of Kick It Out, which often seems more likely to raise supporters’ hackles than their “consciousness”. The fans themselves have changed their tune, especially the younger generations, reflecting big cultural shifts outside the stadium.

The official campaigns are now a phoney crusade against racism, with those leading it engaged in mission creep. They use the fact that nobody wants to be thought a racist as a moral stick with which to impose the etiquette of an FA committee meeting on to the raucous match atmosphere.

Barely a week seems to pass without another scare story concerning race and football. Most of these mini-morality plays focus on “offensive” words allegedly used by players or supporters. Crucially the FA and Kick it Out now insist that “the use of discriminatory language is unacceptable, regardless of context” — a voodoo notion that means that words can be deemed racist and evil, even if they were not intended to be.

Hence the furore over Tottenham supporters calling themselves the “Yid Army” as a badge of pride. In a shocking outburst of common sense, David Cameron insisted that it wasn’t hate speech if no hate was involved. It is coming to something when an Old Etonian Prime Minister has to stand up for the common man in the stand.

The language zealots now turn their attention to teaching naughty Russians how to speak properly. Nobody wants to hear black players abused abroad, but, at the risk of considering things in context, Moscow is not Middle England. Russia today is, as an East European friend puts it, “a place where everybody hates everybody else”, and where language is often less coded than might seem appropriate to delicate Western ears. That does not make Russian football “institutionally racist”. Nor can social problems be solved from outside by turning football into an, er, political football. Bans and boycotts would have even less effect on CSKA fans than they have down White Hart Lane.

When I was a lad (all right, a student), the fight over racism was about big issues of power in society — police brutality, inner-city riots. Now it has been trivialised into policing the words and thoughts of football fans. Football, long an arena where fans could let off steam in ways they wouldn’t dream of elsewhere, is being set up as a role model for teaching the world to sing in perfect harmony.

And still the mission creep continues. Lord Ouseley of Kick It Out wants an end not only to racism but to all “nastiness”, aka normal fan abuse. A hoarding at my local club, Leyton Orient, invites supporters to report anonymously any “unsociable behaviour”. Blimey. Cracking down on alleged antisocial behaviour is one thing, but if we are going to be reported for being “unsociable” to other fans in East London, they will need to turn the Olympic Stadium into a prison camp to hold all the bodies.

Punishing the rich does

nothing for the poor

Hollande’s football tax is just the politics

of envy and will lead to a player exodus

Punitive taxes are the last refuge of politicians who are out of ideas

by MATTHEW SYED (THE TIMES 01-11-2013)

It is difficult to understand why representatives of French football clubs bothered to meet President Hollande yesterday. It was pretty obvious that the French leader would not budge in his determination to impose a 75 per cent supertax on salaries above €1 million. Clubs will be particularly hard hit by the tax. They employ around 120 players earning more than the threshold, including Zlatan Ibrahimovic, the Sweden international.

Reaction in France has been broadly sympathetic to the President. Many are horrified that clubs, employing some of the highest-paid individuals in the country, are planning to cancel four days of matches at the end of next month in protest. At a time of austerity, with many people struggling to heat their homes, the gesture seems obscene. I disagree. I think the most effective way for François Hollande to end the impasse is to abolish the tax. It is punitive, juvenile and self-defeating.

I won’t bore you with the economic reasons why absurdly high levels of tax are cancerous. We all know that tax revenues soared in this country when Margaret Thatcher slashed rates from the highs of 83 per cent (98 per cent on dividend and interest income) that she inherited. The sheer relief that you could work harder and keep a fair share of your income was a spur to innovation. People wanted to work here, invest here and stay here.

When it comes to football, the arguments against punitive tax rises are even stronger. The tax was initially ruled unconstitutional by the French courts, but that did not stop Mr Hollande from implementing its spirit. Now it is companies that will have to pay. For clubs, many of them loss-making, the only option will be to attempt to cut gross incomes. The result, obvious to anyone familiar with the internationally mobile nature of high-level football, is that top players will leave France.

That is why chairmen of Premier League clubs in England are licking their lips in anticipation. By raising the effective cost of employing top players, the French Government has sharpened the competitive edge of clubs such as Arsenal, Manchester United and Real Madrid. These institutions will be the biggest beneficiaries of the tax; not the French treasury, not French social services, and certainly not the French poor. That much must be obvious even to Mr Hollande and his supporters.

But this raises the suspicion that the rationale of the tax, which will be enforced for two years, had nothing to do with fairness in the first place. In electoral terms, it was about neutering the challenge from the French communists, but in political terms it was about appeasing a sentiment that should never intrude into politics — envy. The idea that the rich should experience discomfort even when it confers no benefit to anyone else. The cultural damage of pandering to this is, in many ways, more troubling than any economic cost.

Envy is insidious. It is about looking at success not as something that can be learnt from, but as something to be bitter about. When footballers are dismissed as preening, overpaid prima donnas it is not the inaccuracy of the remark that should worry us so much as its laziness. It frees the accuser from any attempt to understand the processes through which skill was built, the years of effort and dedication, the heroism of the unpaid coaches and parents who made it possible. Football, we should remember, is a ferocious meritocracy with low entry costs and almost universal access. Its top players, often from poorer backgrounds, should be celebrated for their skill.

This essential laziness extends to wider political discourse. There is something spectacularly unimaginative about attempting to reduce the inequity of pre-tax incomes by equalising, as far as practicable, post-tax outcomes. It’s the solution you might expect if you floated the idea of social justice to a primary school classroom. The Left should be looking deeper, finding ways to raise money that does not tax effort and risk-taking, neutering the cosy networks and covert alliances that sustain privilege and exclude the disadvantaged, leveraging the findings of social psychology to transform education and challenge the root causes of lethargy. This is more demanding work — more taxing work, if you will — but infinitely more progressive.

Punitive marginal rates should be seen for what they are: the last refuge of politicians who have run out of ideas. They do not work, except as a dubious electoral tactic in strictly limited circumstances. With top rates at 45 per cent in the UK and Germany, Mr Hollande has betrayed the very people he was elected to help. Capital flight will mirror the exodus of top footballers. Jobs in football will be lost. Even Sweden’s marginal rate is 18 per cent lower than the one Mr Hollande plans to implement.

The Left should resist the temptation to retreat into its comfort zone. It is convenient to stoke up envy towards high earners, particularly in an age of austerity. But there is no socialist paradise to be found in punitive tax rates, only a disastrous own goal.

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Ricksen ha la SLA. Amoruso: "Choccato" L'ex Rangers lo ha annunciato in lacrime in una trasmissione tv.

Notizia del 01 Novembre 2013 - 18:37 [ da libero.it]
L'ex difensore olandese Fernando Ricksen, ritiratosi nel 2012, ha rivelato di avere la SLA, la Sclerosi Laterale Amiotrofica, la malattia che ha colpito negli anni molti ex sportivi, tra questi l'indimenticato Stefano Borgonovo, scomparso a giugno.
L'ex di Rangers e Zenit San Pietroburgo, 37 anni, lo ha annunciato in lacrime durante il programma televisivo olandese 'De Wereld Draait Door': "I medici hanno detto che potrei peggiorare rapidamente. Per il resto, non so nulla di più".
Sia i Rangers che i rivali del Celtic hanno espresso il proprio sostegno per lo sfortunato ex giocatore, che alcuni anni fa era stato ricoverato in clinica per abuso d'alcol.
L'ex capitano dei Gers Lorenzo Amoruso si è detto molto colpito dalla notizia: "Appena l'ho saputo sono rimasto choccato. Conosco Fernando, faceva tutto a 100 miglia all'ora. E' così strano e triste vederlo alle prese con questa malattia", ha dichiarato allo "Scotsman". "Io credo che tutti quelli che lo conoscono, ex compagni, tifosi, faranno di tutto per dargli una mano. Quando tu sei stato un Ranger, sarai sempre un Ranger. La squadra in cui ho fatto parte era unita dentro e fuori dal campo".
"Lui era un giocatore che non si arrendeva mai. Il grande giocatore e il grande uomo può affrontare questi problemi e superarli. Fernando può farcela, come ha superato le difficoltà che ha avuto in passato".
Modificato da totojuve

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Il vicepresidente è in cella

La Reggina paga per lui

GIANNI REMO COINVOLTO IN UN GIRO DI ESTORSIONI DI ’NDRANGHETA

LA SQUADRA RISCHIA DI PERDERE IL CERTIFICATO ANTIMAFIA

NIENTE STADIO Il futuro potrebbe essere a porte chiuse:

le società con soci incappati in problemi di mafia non

possono avere rapporti con la pubblica amministrazione

di LUCIO MUSOLINO (il Fatto Quotidiano 02-11-2013)

Dalla Serie A all’interdittiva antimafia passando per l’arresto del vicepresidente Gianni Remo. La Prefettura di Reggio Calabria potrebbe decidere nei prossimi giorni se revocare il certificato antimafia alla Reggina Calcio. La richiesta è sul tavolo del prefetto Vittorio Piscitelli che potrebbe portare la pratica già alla prossima riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. La notizia è stata resa nota ieri dal Quotidiano della Calabria.

La società di Lillo Foti, adesso, rischia di pagare un prezzo altissimo per via dell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia che ha portato, nel luglio scorso, all’arresto di Gianni Remo per estorsione aggravata dalle modalità mafiose. Per la Procura, l’imprenditore è accusato anche di associazione a delinquere di stampo mafioso in quanto avrebbe gestito attività economiche usufruendo della capacità di intimidazione della cosca Labate.

L’indagine, coordinata dal procuratore Federico Cafiero De Raho e dal sostituto Stefano Musolino, aveva fatto luce sui rapporti tra Remo e la cosca, considerata una delle famiglie di ’ndrangheta più pericolose della città dello Stretto, quella che gli inquirenti definiscono la “borghesia mafiosa” che decide tutto nella zona sud di Reggio, nei quartieri di Gebbione e Sbarre. In sostanza, se la prefettura dovesse decidere per l'interdizione antimafia, per legge il Comune di Reggio dovrebbe revocare alla Reggina, che non è assolutamente coinvolta nel-l’inchiesta, la concessione ventennale dello stadio “Oreste Granillo”. A quel punto si porrebbe il problema di dove fare giocare gli undici di Fabrizio Castori e che fine faranno gli accordi tra l’amministrazione comunale e la società calcistica che, in cambio dell’utilizzo dello stadio, si è fatta carico di una serie di opere migliorative del-l’impianto sportivo.

La Reggina Calcio dovrà fare i conti con le conseguenze alle quali vanno incontro tutte quelle società che hanno rapporti con la Pubblica amministrazione e in cui c’è almeno un socio incappato in problemi di mafia. Quello della Prefettura, infatti, è un atto dovuto. Dopo essere stato assolto nel 2009 nel processo “Gebbione”, Gianni Remo è stato arrestato assieme al fratello Pasquale e al cognato, il boss Michele Labate. Al centro del-l’inchiesta c’è il settore della commercializzazione delle carni nel quale la famiglia Remo ha grossi interessi che si intrecciano con quelli della cosca Labate, conosciuta in città con il soprannome dei “Ti Mangio”.

Ed è proprio avvalendosi della forza intimidatrice della ’ndrangheta che il numero 2 della Reggina avrebbe imposto le sue imprese sul mercato attraverso “estorsioni e attività di concorrenza sleale nei confronti degli altri imprenditori operanti nel settore della macellazione”.

Gli scagnozzi della cosca “minacciavano la clientela, affinché non si rifornisse più presso l’impresa di Umberto Remo”, lo zio con cui erano entrati in contrasto i due fratelli Gianni e Pasquale. Così facendo, la clientela veniva indirizzata verso le macellerie “riferibili alle comune cosca di ’ndrangheta ovvero ad imprese gestite da soggetti collusi o contigui”. Come se non bastasse, sempre grazie al sostegno dei Labate, i due imprenditori arrestati avrebbero costretto lo zio a cedere un capannone industriale a un prezzo inferiore a quello di mercato.

Tutto rientrava nella logica della cosca mafiosa che da decenni controlla ogni respiro del quartiere Gebbione dove ricade, ironia della sorte, anche lo stadio “Granillo”. I carabinieri sono riusciti a ricostruire tutti i passaggi grazie alle intercettazioni telefoniche e ambientali disposte per la cattura di Michele Labate che, tra l’altro, era latitante nel periodo in cui erano stati indagati i fratelli Remo. Conversazioni con le figlie, durante le quali Umberto Remo sosteneva di avere paura per la propria vita. Secondo gli investigatori, stava pagando l’alleanza criminale tra la cosca Labate e i nipoti.

Tornando all’interdittiva che potrebbe essere disposta dal prefetto Piscitelli, la revoca del certificato antimafia ha già colpito nelle settimane scorse la seconda squadra della città, l’Hinterreggio, impegnata nel campionato di Serie D. Prima dello scioglimento del Comune, la società aveva partecipato a un bando per la gestione di un impianto sportivo e nell’iter burocratico pare abbia subito l’ingerenza della criminalità organizzata. L’interdittiva antimafia è stata seguita, il 24 ottobre, dalla determina comunale che ha revocato la gestione della struttura. Risultato: domenica scorsa l’Hinterreggio ha giocato a porte chiuse. Destino che potrebbe accomunare la Reggina.

Brasile, la torcida

con la pistola in tasca

CALCIATORI E ARBITRI DECAPITATI, SCONTRI FRA GANG: IN QUESTO

CONTESTO IL PROSSIMO ANNO SI GIOCHERÀ LA COPPA DEL MONDO

NIENTE SAMBA Le favelas sono entrate nelle curve: prevalgono

gli aspetti paramilitari e le vendette anche a distanza di anni

I CLUB Le dirigenze sono accondiscendenti, temono di perdere

l’appoggio degli ultras: e qualche affiliato delle bande fa parte dei quadri

di GIUSEPPE BIZZARRI (il Fatto Quotidiano 02-11-2013)

Non è più il calcio di Pelé e tanto meno quello di Garrincha: il futebol, come i brasiliani chiamano la loro passione nazionale, ha seguito i cambiamenti del Brasile avuti negli ultimi dieci anni. Un paese forse oggi meno romantico, più globalizzato e con i sintomi di un crescente malessere sociale che dall’asfalto giunge negli stadi, dove esplode in una banale violenza tra normali cittadini. La violência do futebol brasileiro è un preoccupante fenomeno che dilaga nel gigante sudamericano, dove il prossimo anno si giocherà l’attesissima Coppa del mondo. L’ultimo episodio ha riguardato qualche giorno fa Joao Rodrigo Silva Santo; è stato decapitato e la sua testa, con gli occhi cavati e la lingua tagliata, è stata lasciata in uno zaino di fronte al giardino di casa. A fare la scoperta è stata la moglie, in forza alla polizia militare; le modalità dell’omicidio rimandano al mondo del narcotraffico. Joao Rodrigo Silva Santo, 35 anni, aveva un passato da calciatore professionista in Brasile (Botafogo), in Svezia e in Honduras.

Centro do Meio era fino a poco tempo fa una sconosciuta frazione rurale di Pio XII nel Maranhão, una delle cittadine del Nord brasiliano con pessimi indicatori sociali e stravolte socioeconomicamente dal consumismo taylorista dell’ex governo Lula. Un luogo dove vive gente semplice, tranquilla, ma capace anche di uccidere banalmente. In una domenica di luglio, durante una partita nella pelada, il campo del paesino dominato dalle famiglie oligarchiche del nord-est brasiliano, il calciatore Josenir Santos Abreu, trenta anni, è stato espulso dal campo. Il giovane insoddisfatto dalla scelta dell’arbitro, lo ha aggredito. Durante la colluttazione, il ventenne Otávio Jordão da Silva, il fischietto, ha estratto un coltello dalla cintura e ha ucciso il giocatore. Gli altri calciatori e i tifosi hanno linciato, lapidato Da Silva e, non soddisfatti, hanno squartato e decapitato il cadavere, la cui testa è stata conficcata su una picca.

“Il fatto che l’arbitro fosse entrato in campo con un coltello mostra che l’uomo era pronto a difendersi da qualcosa, ma anche l’attitudine maschilista di una persona che è pronta a proteggersi da sola. È il tipico aspetto di una cultura abituata a pensare in termini individuali, più che civili. Un atteggiamento culturale che non crede nello Stato ed è pronta a farsi giustizia con le proprie mani. È la stessa attitudine che porta i brasiliani a formare organizzazioni parallele, come milizie, gang e, appunto, il tifo organizzato”, spiega al Fatto Quotidiano, lo psicologo José Mauro Gonçalves Nunes, professore alla Fgv e vice direttore dell’Istituto Multidisciplinare di Formazione Umana in Tecnologia dell’Università Statale di Rio de Janeiro. L’esperto in comportamento umano accusa la torcida organizzata, ma anche i club calcistici di essere in parte responsabili della violenza che non si placa soprattutto nel nord e nord-est del paese, dove dall’inizio dell’anno sono morte 13 persone. “Le direzioni dei club sono accondiscendenti con la tifoseria – sostiene Nunes – perché hanno paura di perdere l’amministrazione quando i team non vanno bene in campo o temono la retrocessione. Tra l’altro, spesso, membri delle gang fanno parte del quadro dirigente dei club”.

La torcida organizzata preoccupa anche Itamaraty, il ministero degli Esteri brasiliano, il cui staff ha dovuto sudare a febbraio per tirare fuori dalle lugubri carceri boliviane di Oruro, membri della temibile tifoseria paulista Gaviões da Fiel, i quali sono stati accusati di avere ucciso con un segnalatore Kevin Douglas Beltrán Espada, il tifoso boliviano di quattordici anni del San José che riceveva in casa la squadra dei Corinthians di São Paulo. “Da chi sono formate le gang? Prevalentemente da cittadini di classe media e bassa. Sono persone insospettabili che portano con sé l’angoscia repressa del quotidiano. Lo sport è una catarsi della vita. Il tifoso, un uomo, nascondendosi nel gruppo, come disse Freud, è capace di compiere atti molto aggressivi che normalmente non farebbe mai”, afferma lo psicologo, il quale aggiunge che la carta vincente per eliminare la violenza è quella usata dal governo britannico contro gli hooligans, i quali sono stati dominati dopo che il loro anonimato è stato rotto. Gli stadi sono stati tappezzati di telecamere, mentre gli agenti hanno iniziato a identificare la tifoseria, registrando i loro nomi.

La violenza nel calcio brasiliano inizia durante e dopo le partite. La stampa locale non aiuta a placare gli animi, con la sua terminologia di guerra, usata per commentare le partite dei numerosi campionati e latinoamericani. La morte di Pamella Munike Volpato, 17 anni, uccisa con un colpo di pistola alla testa, è un caso molto ricordato in Goiânia; e non è stato scordato per un intero anno dalle gang della tifoseria che, dopo la morte di Munike, si sono fronteggiati con bastoni e catene nella sanguinosa faida goiânia, dove sono morte otto persone. La polizia dal canto suo è impegnata a mantenere il controllo del territorio, particolarmente nelle favelas, dove la violenza è affare quotidiano.

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Palazzo di Vetro di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 02-11-2013)

Aic movimentista tra vincolo e giustizia sportiva

Sempre in fin troppo paziente attesa che il rinnovo del contratto collettivo dei calciatori esca dalla palude delle prorogatio così care alla Lega di serie A, l’Associazione italiana calciatori di Tommasi, Grazioli e Calcagno ha ripreso a darsi molto da fare. Un modo per certificare la propria esistenza in vita in un momento non facile, stretto com’è tra una sensibile riduzione dell’area professionistica e una serie A sempre più straniera e, almeno apparentemente, distante dalle problematiche della base. All’ombra di queste premesse, ecco da una parte l’interessante e utile convegno sulle «prospettive di riforma della giustizia sportiva» tenutosi mercoledì a Firenze, e dall’altra l’attacco frontale (e a forte impatto mediatico) al «vincolo» dei calciatori dilettanti, fermo attualmente ai 25 anni.

A Firenze stuolo di professori relatori all’insegna del «giusto processo» e dei «diritti della difesa», declinati in lungo e in largo, con passione ed ovvia competenza. E tuttavia, fermo restando che in futuro sarà sempre più necessario coniugare i tempi giocoforza ristretti del processo sportivo con la certezza del diritto, si è ricavata l’impressione di una attenzione un po’ troppo unilateralmente rivolta verso i calciatori e i loro specifici interessi. Che la mission dell’Aic sia di tutelarli è perfino ovvio sottolinearlo, ma da un’associazione la cui storia, da Sergio Campana a Damiano Tommasi, è sempre andata molto al di là di questo, autentica stella polare d’una crescita anche etica del calcio italiano, ci si aspettava, anzi ci si aspetta, anche altro che non una difesa tout court della categoria. Altrimenti si corre il rischio, in nome dell’ipergarantismo, di finire col considerare, tra omertà o delazioni ben calibrate, un fenomeno come Scommessopoli una specie di allucinazione collettiva. A restituire al quadro d’insieme una cornice più realistica, al di là delle non infondate frecciate riservate alla Procura di Cremona, ha pensato il professor Piero Sandulli, membro della Corte di Giustizia federale. Un po’ indicando la strada (ri-separare Procura federale e Ufficio Indagini, eliminare la confusione tra i due organi Coni, Alta Corte e Tnas), un po’ ponendo delle provocazioni (il «ginepraio» dei cori territoriali, l’«aberrazione» della riforma Petrucci del febbraio 2012, poi messa in naftalina). «Va rivisto tutto. Ma se processualizziamo troppo il processo sportivo finiamo come a Napoli…» dove Calciopoli è in piedi da sette anni, ha concluso Sandulli. Aggiungiamo, ad uso Malagò/Abete che si prenderanno un «bravi» se per la riforma rispetteranno, come sembra, i tempi di fine anno solare: la giustizia sportiva del calcio, oggi superprocura, domani procura e ufficio indagini, deve poter lavorare a tempo pieno, la gestione dell’area professionistica non può più poggiare su passione e volontariato; i compensi delle corti non possono e non devono più essere macroscopicamente distanti fra loro, non si può passare dai 45 euro al giorno di Corte di Giustizia e Disciplinare ai 35mila euro delle sedute del Tnas. Altrimenti si pensa male, si fa peccato e magari ogni tanto ci si azzecca.

Sull’abolizione del vincolo la campagna Aic è massiccia e certo accattivante: «anche tu schiavo del vincolo?, non è questo il calcio che vogliamo», coi giovani calciatori in catene, la palla di piombo al piede al posto del pallone, è un messaggio che funziona. Non ditelo però a Carlo Tavecchio, presidente della Lega Dilettanti, di 15mila società, di 74mila squadre e di un movimento che produce costi da 1,5 miliardi di euro l’anno solo 25 milioni dei quali (le spese arbitrali) vengono coperti dalla Federazione. «Sciopero totale», per Tavecchio, se la campagna Aic prende troppo piede. Il vincolo una volta era a vita, poi, dal 2002 al luglio 2004, grazie all’Aic, si è passati ai 29,27 e infine 25 anni. Ne sono passati dieci, di anni, da allora. Forse i tempi sono maturi per un altro sconticino: i 23 anni, che piacciono tanto anche all’Unione Europea.

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MF MILANO FINANZA 02-11-2013

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L’inchiesta, le strategie

Gelo De Laurentiis,

serve la legge sugli stadi

No a Ponticelli, il patron attende le mosse

del governo sulla norma sblocca-cantieri

I tempi Apertura di Letta: esecutivo pronto a presentare il testo entro il 2013

di PINO TAORMINA (IL MATTINO 02-11-2013)

Aurelio De Laurentiis su quello che sarà il prossimo stadio del Napoli ha le idee chiare. Ma non da pochi mesi. Almeno dal 2007. Da quando la Figc bocciò il primo grande progetto per la realizzazione di uno stadio nuovo, da fare quella volta a Miano, indicando nel restyling dell’impianto di Fuorigrotta la via maestra. Il Napoli fu d’accordo. Ed è per questo che il club azzurro ha ribadito il suo no anche al progetto Ponticelli: lo stadio il Napoli se lo vuole fare. Tutto da solo. Senza partner.

La parola chiave è «complicità». Che è un qualcosa di più profondo della semplice concordia, o della comunione di intenti, o del sentirsi uniti su un fronte comune. Perché i presidenti di serie A, con De Laurentiis capofila e Lotito, Della Valle e tutti gli altri dietro, sono saldati da una santa allenza che negli ultimi mesi si è andata rafforzando, nella buona e nella cattiva sorte, e che si è cementata di recente, dopo l’apertura del presidente del Consiglio Enrico Letta: il Governo prima di fine anno è pronto a presentare il decreto legge sugli stadi, da convertire entro 60 giorni.

Sarebbe la svolta, attesissima da sei anni. De Laurentiis e tutti gli altri attendono impazienti. Niente passaggio attraverso le commissioni parlamentari, ma un iter più snello, e sicuro. La via che preferisce anche Giovanni Malagò, presidente del Coni. E su questo che punta il patron del Napoli. Ed è per questo che il club azzurro ha nel corso degli anni detto di no ad altri progetti alternativi.

Di una legge per la costruzione degli stadi si parla dal 2007, dopo la morte di Raciti a Catania, quando sembrava che a organizzare Euro 2012 sarebbe stata l’Italia (l’Uefa poi scelse Polonia e Ucraina). Il 6 aprile 2009, l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega allo sport, Rocco Crimi, aveva assicurato un’accelerazione nell’approvazione della legge sugli stadi, definita anche «salvacalcio». Il via libera del Senato è arrivato nell’ottobre 2009, ma tutto si è fermato alla Camera per le decine di emendamenti presentati.

Ma cosa dice questa legge che tutti i club, compreso il Napoli, attendono? La legge (che non prevede spese pubbliche) imporrebbe ai Comuni di dare il proprio parere sui progetti di costruzione degli impianti. Questo significa che diventerebbe possibile costruire, insieme allo stadio, anche l’area di competenza, per rendere compatibile l'investimento (centri commerciali, abitazioni, musei), perché si considera la costruzione del solo stadio troppo onerosa per chiunque. Il Napoli, come tutti gli altri club di serie A e serie B, con la vendita o il fitto delle costruzioni adiacenti si ripaga dello stadio e argina i debiti.

Non tutti sono stati d’accordo. E così la legge non è passata. Ma siamo vicini alla svolta. Al momento in serie A e B, c'è un solo stadio di proprietà: è quello che la Juve ha inaugurato nel settembre 2011, con risultati straordinari in tutti i sensi. La strategia del Napoli è quella del calcio italiano: tutto passa per la legge sugli stadi. Con la sua approvazione, i Comuni non avranno più quel peso vincolante nel dare il via libera ai restyling che hanno fino ad adesso.

Ed è per questo che il Napoli ha sempre mantenuto il punto: disse di no a Miano nel 2007, ha ribadito, con toni perentori a anche duri, il suo no a Ponticelli e al progetto di Marilù Faraone Mennella che guidava un consorzio per 16 progetti a Napoli est. Il Napoli lo stadio lo farà dopo che la legge andrà in porto.

Le norme

Gara e diritto di prelazione ai presidenti

La firma è quella di Dario Nardella, deputato e braccio destro di Matteo Renzi che ha presenta la nuova legge «per il rilancio dello sport italiano», nella sostanza si tratta della cosiddetta legge sugli stadi presentata tre settimane fa. La finalità resta la stessa: permettere la realizzazione in tempi brevi di nuovi impianti sportivi, inseriti in complessi multifunzionali, così da permettere alle società italiane di colmare il gap rispetto al resto d’Europa. Si tratta del Ddl Crimi riveduto e corretto. La discontinuità rispetto al passato è evidente in due punti: il primo è che il complesso multifunzionale potrà comprendere «ogni altro insediamento edilizio purché a destinazione non residenziale». In secondo luogo c’è l’introduzione della gara. Il vecchio Ddl prevedeva l’assegnazione diretta del terreno alla società proponente; adesso, invece, «l’esecuzione del progetto è affidata previo esperimento di gara comunitaria», in cui il promotore mantiene un «diritto di prelazione»: in caso non risulti vincitore, entro quindici giorni può diventare aggiudicatario impegnandosi a pareggiare, alle medesime condizioni, l’offerta vincitrice.

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Il mondo visto

da dietro una porta

IL REGNO DELLE CONTRADDIZIONI C’È CHI VA PER PASSIONE E CHI SOLO PER RABBIA, CHI HA BISOGNO DI UNA

BANDIERA IN CUI CREDERE E CHI VUOLE URLARE ODIO. C’È CHI ASPETTA SOLO IL MOMENTO DELLA RISSA E CHI

RACCOGLIE SOLDI PER I PIÙ SFORTUNATI E MAGARI C’È ANCHE CHI ALLO STADIO CI VA PER GUARDARE LA PARTITA

UNA PARETE DI PLEXIGLASS NEL NUOVO IMPIANTO BIANCONERO: DA UNA PARTE LA TRIBUNA DOVE NON

PUOI NEMMENO ALZARTI E FUMARE. DALL’ALTRA LA CURVA PRONTA A ESPLODERE PER LA PROSSIMA

BATTAGLIA CON IL NAPOLI. TUTTO MENTRE NELLA CAPITALE SI TORNA A PARLARE DI ESTREMA DESTRA

di PIERLUIGI G. CARDONE, ANDREA GIAMBARTOLOMEI, DAVIDE MILOSA & TOMMASO RODANO (il Fatto Quotidiano 04-11-2013)

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Si sopporta tutto, le violenze, il razzismo. Oppure si condanna in blocco, con sufficienza e snobismo. Tifosi o detrattori non conoscono mezze misure. Eppure il calcio è proprio un concentrato di contraddizioni. Questa è la sua grandezza e il suo male. E la curva è il simbolo, del pallone e di tutte le nostre passioni. Un luogo di cui tutti parliamo, ma che pochi conoscono davvero. Ecco allora il signor Rossi superare i tornelli per capire davvero cosa succede ai margini del campo. Perché il vero spettacolo – soprattutto in questi anni di crisi del gioco – è soprattutto laggiù: alle spalle della porta.

Lazio, la politica è sempre presente

“Il tramonto è rosso, l’Alba è dorata”. Lo striscione compare nelle prime file della Curva Nord all’intervallo. Ci sono i nomi di Yorgos e Manolis, i due “camerati” del partito nazista greco uccisi ad Atene il primo novembre. Hai voglia a dire che il settore storico degli ultrà della Lazio è cambiato e la “politica” è finita fuori dalla gradinata. Non è bastata la dissoluzione degli Irriducibili, il gruppo ultrà storicamente e orgogliosamente fascista e razzista, sciolto lo scorso anno. Gli stessi Irriducibili che nel 1992 accolsero l’olandese Aaron Winter, appena acquistato dall’Ajax, tappezzando il centro sportivo della Lazio di scritte che gli rinfacciavano l’inaccettabile provocazione di essere al contempo “negro” ed “ebreo”. Gli stessi Irriducibili del capo ultrà Fabrizio Piscitelli, in arte Diabolik, arrestato da latitante per traffico di droga, mentre guardava una partita europea della sua Lazio. Anche senza di loro lo stadio e l’area che lo circonda restano una zona franca. Bancarelle e venditori abusivi sono una fauna storica, intoccabile. I bagarini sono diminuiti, ma non li ha eliminati nemmeno l’introduzione del biglietto nominale. Anche perché il controllo dei documenti di chi si avvicina ai tornelli è una barzelletta e alla fine, con un po’ di lavoro di persuasione sugli steward, può entrare praticamente chiunque, in qualsiasi settore. Certo, la curva non è solo questo. Sono anche migliaia di persone che riempiono la gradinata e la colorano con orgoglio fino al fischio finale, quando parte la contestazione. Un settore intero che tira fuori le sciarpe e canta l’inno della Lazio nel momento peggiore, con i cugini primi in classifica e la propria squadra che affonda contro il modesto Genoa. La Curva Nord non sono solo le persone che tirano su col naso negli angoli nascosti delle latrine dell’Olimpico (e non certo per goderne della fragranza). È anche una gradinata piena di ragazzi e bambini piccoli. Una avrà al massimo due anni e un ciuffetto di capelli tenuti su da un minuscolo elastico blu. Osserva la curva dalle spalle del papà. Le toccherà ascoltare, in meno di due ore, gli ululati al genoano di colore Cofie e soprattutto all’ex laziale Matuzalem (che non è “negro”, ma è colpevole d’“infamia”). Le toccherà assistere a boschi di braccia tese, mentre parte un canto nostalgico: “Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”. Le toccherà sentire un coro creativo che tiene insieme Mario Balotelli e “i suoi fratelli”, che “non giocano a pallone”, ma “sudano in un campo di cotone”. E, poiché alla fantasia dell’ultras non c’è limite, ascolterà anche una dedica speciale al presidente della Lazio: “Mi diverto solo se muore Lotito. Dove muore non m’importa, lo vogliamo a Prima Porta”. Una minoranza, si dirà. La solita minoranza.

Juventus, il muro di Torino

Basta una parete di plexiglass a dividere due maniere di vivere lo Juventus Stadium. È mercoledì sera, si gioca la partita tra la squadra torinese e il Catania, l'ultima in casa prima dell'incontro col Napoli. La parete di plexiglass divide due stili accomunati solo dalla fede nei colori bianconeri. Da una parte, nella tribuna ovest, sembra proprio lo stadio “con le vetrine e i negozietti, solo famiglie e chierichetti”, come cantano i tifosi del Torino. I seggiolini di plastica sono ancora intonsi, senza una scritta. Le pareti sono pulite, le file ordinate. Stanno tutti composti a godersi la goleada juventina. Ci si alza in piedi solo nei momenti del gol sennò arrivano subito gli steward che tutelano il diritto di chi ha pagato quaranta euro (come minimo) per vedere l’incontro. Gli addetti alla sicurezza intervengono anche quando qualcuno si accende una sigaretta: bastano pochi tiri, una nuvoletta di fumo che si leva, e lo steward con la pettorina gialla invita a spegnere o a uscire. Invece dall'altra parte della barriera di plexiglass che divide la tribuna ovest dalla curva sud, c’è un gruppo di ragazzi in piedi che fuma. Per loro valgono regole diverse. Da quella parte è tutto un levarsi di nuvolette di fumo, di gente in piedi accalcata contro il parapetto, a cavalcioni della balaustra. È la curva sud, il regno degli ultras juventini, con gruppi politicamente di destra. Sopra, al secondo livello, è il “territorio” dei Drughi, gruppo tornato allo stadio nel 2005 dopo quasi dieci anni di assenza. Sotto invece, proprio dietro la porta, sono accalcati i rivali dei Drughi, gli ultras di Tradizione insieme a quelli Antichi valori, Fighters e Curva Sud Scirea. Cinque ragazzi in maglietta nera stanno in bilico su un muretto per coordinare i cori, controllati a distanza da un numero variabile di addetti alla sicurezza, tra i venti e i trenta. Ma in questa serata è tutto tranquillo e i cori sono contenuti. Suona strano se si pensa che questi gruppi, i più forti della curva, all’inizio di ottobre si erano uniti alla protesta degli ultras di Milan e Inter contro le sanzioni previste per i “cori espressivi di discriminazione territoriale”. A un ultras basta una frase per spiegare il motivo di questo comportamento: “La prossima partita in casa è contro il Napoli”. E quindi? “Se facciamo questi cori oggi rischiamo che la curva venga chiusa”. Ah, ecco. Dopo i canti contro i napoletani del 20 ottobre ne sono stati fatti altri domenica scorsa contro il Genoa, società gemellata a quella partenopea. Il giorno dopo il giudice sportivo ha deciso di sanzionare la società bianconera per canti come “Lavali con il fuoco, Vesuvio lavali con il fuoco”, interrotti solo dopo l'annuncio antiviolenza dello stadio: era la prima sanzione e quindi la pena minima, la chiusura della curva sud per una partita, è stata sospesa a condizione che i cori non vengano ripetuti. Mercoledì quindi nessun riferimento alla lava del Vesuvio, né a quella dell’Etna contro gli avversari del Catania. Per comprare un biglietto non c’è problema: i bagarini vendono la curva per cifre tra i 150 e i 200 euro.

Atalanta, botte e beneficenza

Alla partita mancano cinque ore. Le strade intorno allo stadio Azzurri d'Italia sono deserte. Eppure Anna è già lì, immobile davanti allo sportello-accrediti. Ombrello, maglia e cuore neroblu. Non alta, non magra, 30 anni o poco più, occhiali “a girella”. Parla da sola: “Forza Dea, forza Dea”. Non è training autogeno. A duecento metri, seduto ai tavolini del barstadio, Luca legge la Ġazzetta dello Sport. Pingue, sui vent'anni, guarda in cagnesco i passanti e ripete: “Col cuore, col cuore”. Sulle pareti foto e ricordi sbiaditi dell'Atalanta che fu. Anna e Luca sono nomi di fantasia, ma loro esistono davvero e accolgono chiunque capiti nella città orobica per Atalanta-Inter, anticipo della decima giornata di Serie A. É un derby: 50 chilometri dividono le città, anni luce le due tifoserie. La curva di casa, poi, è considerata una delle più calde d'Italia (93 persone sotto inchiesta per associazione a delinquere) e rappresenta una voce molto ascoltata negli ambienti ultras.

Il cielo è plumbeo. All'ingresso della Curva Pisani un cartello recita: “Vietato introdurre ombrelli e passeggini”. Per chi va in tribuna coperta il problema non si pone. Per i curvaioli neanche: la pioggia fa parte del rito. Ovunque scritte inneggianti la fede ultras, l'odio per la Digos, “Acab” in tutte le salse. Calma apparente. Poi all'imbocco della strada che conduce alla tribuna fa capolino un bus scuro. Anna lo vede e urla: “Ecco i nostri campioni, forza Dea!”. Il pullman, però, è quello dell'Inter. Anna, repentina, muta l'incitamento in invettiva: “Ṃerdeee ṃerdeee!”. Neanche dieci minuti ed è il turno del bus orobico. Questa volta Anna non sbaglia. Il fischio d'inizio si avvicina, dei sostenitori dell'Inter nessuna traccia: il loro arrivo a Bergamo è stato salutato da una sassaiola al casello. Vetri infranti, nessun ferito. Una volta allo stadio, i fans della Beneamata cercano di raggiungere i tifosi di casa per vendicarsi. Miccia spenta dai celerini prima di far deflagrare la violenza. Che c'è stata, ma lontano dall'ex Comunale. Dove, invece, si pensa ad altro. “Qui che ha?”. “Sigarette, fiammiferi e chiavi di casa”. “Ok, può andare”. Dopo i tornelli, la perquisizione in curva è una pratica soft: solo la certezza che non venga introdotto “materiale atto a offendere”. Sotto gli spalti della Pisani è tutto un lavorìo di schiene piegate: la preparazione degli striscioni deve essere certosina. Alla destra del chioschetto delle bibite (niente alcolici), due ragazze distribuiscono la fanzine. In cambio di “un contributo per ciò che facciamo”. Cosa fanno? Beneficenza e iniziative varie. L'ultima è aiutare il piccolo Nicola a rivendicare il diritto alla cura con il metodo Stamina. Di sassi e risse non parla nessuno. Eppure ci sono, come le buone azioni.

In men che non si dica la curva è piena zeppa. Sul campo le squadre hanno quasi ultimato il riscaldamento quando una trentina di ultras, con movimenti provati e riprovati, adagia alla base della curva un drappo lungo oltre cento metri. Conto alla rovescia, primi cori: “In-te-ris-ta ca-ne bas-tar-do” ripetuto a squarciagola.

I 22 entrano in campo, gli altoparlanti sparano turbofolk. Tutti in piedi. Venti secondi e la curva non c'è più: al suo posto un immenso telo nerazzurro ricopre l'intero settore. Sotto è festa. Salti, mani al cielo, urla, fumogeni. L'odore di spinello avvolge tutto. Una ragazza al fidanzato: “Piove, mi bagno. Andiamo via?”. E lui, come se non ci fosse domani: “In-te-ris-ta ca-ne bas-tar-do”. Evidentemente era un no. Nell'intervallo è corsa al bar, alle canne e ai bagni. Quello che la vulgata definisce come il luogo più pericoloso dello stadio, a Bergamo è una semplice latrina: serve a ciò che deve servire, altro che ricettacolo di criminali e loschi traffici. Dopo quindici minuti la festa riprende. L'Inter attacca, la curva orobica pure. Con uno striscione non oxfordiano: “Discriminarvi deve essere la normalità. Interista figlio bastardo di ogni città”. Il riferimento è alla vicenda delle curve chiuse (e poi riaperte) per gli insulti ai napoletani. La chiamano “discriminazione territoriale”, ma a Bergamo (roccaforte leghista) è più rivalità calcistica che altro. Certo, nella fauna assortita della curva i “terun” e i “neghèr” urlati contro gli avversari non si contano. Ma il senso è più quello del “pirla” alla milanese e del “trimone” alla barese: un insulto, quasi un intercalare, dettato dal timore dell’avversario. Il razzismo becero e politicizzato è un’altra cosa. L’arbitro fischia la fine: uno pari. E dopo novantacinque minuti di salti, cori e fumo passivo, si ha la sensazione di aver partecipato ad una festa, non alla sagra dell’odio.

A Fasano, è derby di paese

Non ci sono tornelli, non ci sono controlli, non ci sono curve e non c’è neanche il campo con l’erbetta. Lo stadio è tutto esaurito: 700 persone, tifosi di casa e ospiti (in larga maggioranza) tutti insieme appassionatamente nell’unica tribuna dell’impianto. In scena il derby di Prima Categoria pugliese tra Pezze di Greco e Fasano. La provincia è quella di Brindisi, Pezze di Greco è la frazione di Fasano. Non era mai accaduto prima che i due club si affrontassero in campionato. Gli ospiti, dopo anni in Serie C, sono sprofondati negli inferi del dilettantismo. La passione dei tifosi, però, è rimasta intatta. La trasferta, per loro, è una gita fuori porta: appena cinque i chilometri da percorrere con ogni mezzo possibile, biciclette comprese. Calcio pane e salame, insomma. Lontano dai riflettori, lontano dalla ribalta. Ma vicino, molto vicino alla gente. Perché a questi livelli non ci sono le tv e se si vuol seguire la propria squadra la soluzione è solo una: andare allo stadio. E i tifosi ci sono andati in massa. Servizio d’ordine minimo, di pericolo incidenti neanche l’ombra. Eppure c’è qualcuno che non dimenticherà l’esperienza: l’arbitro, forse non abituato a fischiare di fronte a tanta gente, va nel pallone, espelle tre giocatori del Fasano e per i frazionali la vittoria contro la città è una storia da raccontare ai nipotini. Capita, però, che ai tifosi ospiti la sconfitta non vada giù. La giacchetta nera diventa il bersaglio numero uno. Spogliatoio circondato: il signor Salanitro di Bari lascerà lo stadio all’imbrunire, senza conseguenze, ma scortato dalle forze dell’ordine e dopo due ore dal triplice fischio. Tra goliardia e rabbia di campanile, succede anche questo nel calcio dell’ultraperiferia.

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Diritti tv, il calcio si spacca

la Lega vaso di coccio

nella guerra Mediaset-Sky

LA PAY TV DI MURDOCH NON VUOLE CONTINUARE A VERSARE AI CLUB IL 70% DEGLI

INCASSI SENZA AVERE DELLE ESCLUSIVE MENTRE ORA SUBISCE LA CONCORRENZA

DEL BISCIONE CHE PERÒ PAGA LA METÀ E VORREBBE MANTENERE LE COSE COSÌ

di STEFANO CARLI (la Repubblica AFFARI&FINANZA 04-11-2013)

La conta è fissata per oggi, lunedì: nella sede milanese della Lega Calcio, la Confindustria della Serie A del pallone. Non è una riunione ufficiale, non si chiuderà con un voto ma servirà per vedere quanti tra manager e presidenti delle 20 squadre del nostro massimo campionato si presenteranno e quanti no. La posta in gioco è il pasticcio dei diritti tv, che stavolta non è solo una transazione commerciale ma è anche il palcoscenico dove si starebbe apparentemente consumando una inedita divergenza dentro la real casa di Arcore tra Adriano Galliani, ad del Milan e le esigenze di Mediaset.

L’appuntamento di oggi è uno snodo cruciale per capire se il tentativo di Infront Media di congelare lo status quo attuale fino al 2021, avrà avuto successo oppure no. La Infront Italia fa capo a Marco Bogarelli, manager con un passato vicino al mondo Fininvest e un presente in Infront Sports & Media di cui è uno dei 5 membri del board e tale è rimasto anche dopo che la holding svizzera è stata acquisita nel 2011 dal fondo di private equity britannico Bridgepoint che già controlla la Dorna, l’organizzatrice e detentrice dei diritti tv di MotoGp e Superbike. In Italia però Infront è un advisor particolare. Non si limita a preparare i pacchetti da offrire alle pay tv e a scrivere un bando di gara (attività che nel resto d’Europa comporta quclahe mese di lavoro un compenso da studio legale, di qualche milione al massimo) ma si è ritagliato un ruolo che accompagna tutta la durata del contratto e per cui riceve un compenso proporzionale agli introiti prodotti per la Lega e che in questi anni di contratto è oscillato tra i 30 e i 40 milioni l’anno. Prende cioè da sola più di una squadra minore della Serie A. In più si fa pagare da 18 squadre su 20 l’organizzazione delle riprese tv negli stadi (solo Juve e Napoli fanno da sole) e da 13 squadre su 20 la commercializzazione di altri diritti legati al marchio.

Nel 2008 la Lega Calcio preferì l’offerta di Infront Italia a quella di concorrenti di peso. Due big della consulenza come Kpmg e Price Waterhouse & Cooper, e un gruppo specializzato in diritti sportivi come l’americana Img. Infront venne preferita perché si era impegnata a garantire un minimo contrattuale annuo di 900 milioni per i diritti italiani, cosa che le altre società non ritennero di poter fare. Di fatto la scorsa estate si è scoperto che la garanzia presentata da Infront Italia altro non era che una lettera di patronage della sua capogruppo. Secondo la Infront un documento valido e bancabile: per ottenere anticipi, per esempio, visto che i club ottengono il controvalore dei diritti diluiti nel corso dell’anno mentre hanno bisogno di risorse a inizio campionato per le campagne acquisti. E di fatto nessuno ha mai messo alla prova il valore della garanzia di Infront perché quando alcuni club hanno effettivamente chiesto anticipi alle banche, hanno portato non il contratto con Infront ma quello con la Lega, che nessuno istituto si è sognato di mettere in dubbio.

Ma il vero capolavoro Infront l’ha messo in carniere quando è riuscita a ottenere dalla Lega, due anni fa, di farsi prolungare il contratto fino a tutto il 2016. Ciò vuol dire che non solo la prossima assegnazione triennale, che si terrà l’anno prossimo, ma anche il primo campionato dei tre che si terranno tra 2015 e il 2018 non potranno non essere di sua spettanza. Infront, non contenta, chiede di prolungare la sua esclusiva fino al 2021. Le pay tv vogliono muoversi su contratti pluriennali e quindi non si può certo spacchettare il triennio. Quindi, fino al 2018 Infront è sostanzialmente a posto perché la Lega si è praticamente legata le mani da sola. Ma allora, da cosa nasce il fermento di queste settimane? Dal timore dei sette club “ribelli” che la situazione resti bloccata per ben otto anni e che le cose non possano andare bene come fino ad oggi.

Gli interessi di Sky e Mediaset, tanto per cambiare, divergono anche qui. Zappia ha più volte dichiarato che non è disposto a pagare la stessa cifra in queste condizioni, ma ha fatto capire che potrebbe invece anche alzare la posta a patto di avere delle esclusive: un modello simile a quello inglese in cui non solo non si vendono tutte le partite di campionato, ma si creano pacchetti diversi. E ha fatto balenare ai club, affamati di soldi, che la attuale divisione per piattaforme separate, terrestre e satellite, non mette in competizione tra di loro i due unici offerenti (Sky e Mediaset, appunto). Una competizione che darebbe vantaggi sia al vincitore, che sarebbe l’unico ad offrire una determinata partita, sia alle squadre che massimizzerebbero gli introiti. Mediaset invece punta a mantenere le cose così come stanno. E si trova in singolare sintonia con Infront che ha chiesto il secondo prolungamento di contratto sempre su questa stessa base. Ma se il meccanismo dovesse restare così com’è, le uniche due voci che potrebbero aumentare sostanzialmente sono solo i diritti esteri e quelli sul digitale terrestre.

La Lega e il suo presidente Maurizio Beretta sono in difficoltà. Alle prime proteste di Sky ha minacciato di non vendere più i diritti ma di gestirli in proprio creando una pay tv tutta sua: d’altra parte le riprese le fa già la stessa Infront. Ma le riprese sono il meno: si tratta di scegliere un sistema di codifica, una piattaforma in grado di gestire il segnale verso reti diverse (satellite, terrestre, Internet, cellulari e tavolette), serve un sistema di billing e di gestione abbonati. E tante spese di marketing. Insomma, si può fare ma non è detto che sia redditiva. Se non altro, non certo nei primi anni. E infatti l’ipotesi sarebbe già tramontata. Tra dirigenti e manager dei club lo si dà per certo, come pure che lo stesso Galliani avrebbe frenato. Certo, per Mediaset poteva essere una buona soluzione: avrebbe potuto inserirla nel suo pacchetto pay Premium e sostenere così il numero degli abbonati. Con meno margini ma anche con meno costi, guadagnando così tempo in attesa di capire cosa fare dei suoi canali pay. Sarebbe anche stato un modo per uscire dalla competizione diretta con Sky a testa alta, senza dover affrontare lo scontro diretto in un’asta a due per i diritti. Ma evidentemente il prezzo di una soluzione del genere finirebbe per gravare sulla Lega stessa e quindi sulle squadre. E questo calcolo evidentemente gira. Al momento i sette “ribelli” sembrano compatti. Sono una minoranza, ma una minoranza “qualificata” (ci sono dentro Roma e Inter, i due club a proprietà straniera, più sensibile ai conti e meno alla politica, si suppone) e non aggirabile, visto che le altre 13 squadre non hanno i numeri per far passare delle decisioni (la maggioranza è di 14). Senza contare che Napoli, Chievo, Udinese, forse perfino il Torino di Urbano Cairo, fresco patron di La7, potrebbero ingrossare le fila della protesta.

DIRITTI TV

Lega, controproposta

di sette club a Infront

di PIETRO GUADAGNO (CorSport 05-11-2013)

Per venerdì 15 novembre, ovvero in occasione della prossima Assemblea di Lega, Infront si aspetta una risposta definitiva rispetto alla proposta di rinnovo fino al 2021, visto che non sono stati concessi margini per una scadenza più ravvicinata. Tuttavia, Juventus, Inter, Roma, Fiorentina, Verona, Sampdoria e Sassuolo, ovvero il solito club delle 7, stanno preparando una loro proposta, da illustrare davanti a tutte le altre società. Che esclude di legarsi all’attuale advisor per altri 6 anni, oltre la scadenza dell’attuale triennio. Il nuovo vincolo, infatti, dovrebbe durare solo fino al 2018 e, allo studio, ci sarebbero anche una serie di modifiche rispetto alle linee guida attualmente in vigore. Ad esempio, verrebbe presa in considerazione la vendita per prodotto e non solo per piattaforma (è una delle richieste di Sky), e inoltre sarebbe previsto che non tutte le gare vengano trasmesse in diretta. Al vaglio, infine, pure una serie di strumenti per ottenere più risorse dalla cessione dei diritti tv all’estero.

APPUNTAMENTO A VENERDI’ - Se il fronte delle 7 resterà compatto, sarà inutile anche solo votare in Assemblea la proposta di Infront, visto che non ci sarebbero i numeri. Peraltro, anche tra gli altri club ci sono posizioni discordanti. C’è chi sarebbe già pronto a dire sì all’advisor attuale, come il Parma. Ma anche chi, ad esempio il Torino, vorrebbe mettere in piedi la vendita dei diritti per un’unica stagione, vale a dire l’ultima prevista nel contratto in essere con Infront. Alla luce di uno scenario così frammentato, i club di serie A si ritroveranno per una riunione informale anche venerdì prossimo. La speranza, al momento piuttosto complicata, è quella di arrivare ad una posizione il più omogenea possibile, in modo tale da avere anche più forza davanti ad Infront.

DIRITTI TV CONTROPROPOSTA ALL’ADVISOR

Le 7 sorelle a Infront:

3 anni + 3 rinnovabili

e svolta sull’estero

Ancora riunioni in Lega: dubbi anche

tra la maggioranza, è il caso del Torino

di MARCO IARIA (GaSport 05-11-2013)

Più che un muro contro muro, si cerca un compromesso. E allora sta maturando all’interno della Lega, su input delle «sette sorelle», l’idea di formulare una controproposta all’advisor Infront, che ha fatto recapitare da giorni la sua offerta per il rinnovo del mandato fino al 2021.

Percorso Con la lettera di fine agosto le dissidenti (Fiorentina, Inter, Juventus, Roma, Sampdoria, Sassuolo, Verona) avevano già contestato il modus operandi sulla commercializzazione dei diritti televisivi. Insomma, le loro contrarietà erano già note. Le parole di Andrea Agnelli all’assemblea dei soci della Juventus («è verosimile che Infront continui fino al 2018 ma non penso ci si debba legare fino al 2021») avevano posto all’attenzione il tema della durata del contratto. Ieri le sette hanno lanciato un’idea: 3+3. Vale a dire, sì al prossimo triennio con un rinnovo automatico per altri tre anni al raggiungimento di determinati risultati economici, ancora da definire. Se la Sampdoria, tra i frondisti, è da considerarsi fuori dal coro, cioè pro Infront, nella maggioranza delle 13 le geometrie sono variabili e qualche dubbio comincia a serpeggiare. Il Napoli di De Laurentiis è sempre stato volubile, sorprende piuttosto la quasi bocciatura della proposta Infront da parte del Torino: ieri Urbano Cairo ha addirittura suggerito la vendita dei diritti per un solo anno.

Scenario La controproposta delle sette poggia su altri due punti. Calcolare la fideiussione sull’incassato e non sul venduto (per arginare casi Dahlia) e, soprattutto, separare i destini dei diritti domestici e internazionali, non solo prevedendo commissioni differenziate per l’advisor ma anche adottando modalità di vendita diverse, magari con una maggiore condivisione del rischio sull’estero. Ora bisognerà vedere come si concretizzerà questa controproposta. Venerdì il presidente Beretta ha convocato un’altra riunione informale, in vista dell’assemblea del 15: «Può darsi che individueremo una posizione comune, ma anche che ci sia ancora da lavorare».

RIUNIONE IN LEGA

Diritti tv: le proposte Juve

con al fianco le sei “sorelle”

L’eventuale nuovo contratto con Infront non deve superare il 2018.

Gli altri 13 club non sono più compatti. Il voto il 15 novembre

di STEFANO SCACCHI (TUTTOSPORT 05-11-2013)

In ordine sparso verso l’assemblea del 15 novembre, quella che dovrà pronunciarsi in maniera definitiva sulla proposta di Infront per la cessione dei diritti tv della Serie A nei prossimi anni. La riunione informale convocata ieri in Via Rosellini (presenti, tra gli altri, Andrea Agnelli , Angelomario Moratti , De Laurentiis , Lotito , Cairo , Ghirardi e Preziosi ) non è servita a molto. Non è questione di schieramenti tra maggioranza e opposizione. Le posizioni sono molto variegate. Sono pochi i club - tra questi Parma e Livorno - convinti che sia giusto accettare senza troppe sottigliezze la proposta di Infront che assicura 900 milioni di minimo a stagione fino al 2021. Non per una questione politica di vicinanza particolare all’attuale advisor, ma per un discorso puramente economico, basato sull’osservazione del mercato che difficilmente, secondo questa visione, permetterà di guadagnare di più in un futuro prossimo. Ma sono numerose le società che invece intendono modellare diversamente il piano illustrato da Infront. Sul tavolo ci sono l’entità del minimo garantito e delle commissioni, ma anche la durata del contratto (il gruppo guidato da Marco Bogarelli vuole arrivare fino al 2021: una durata che solleva qualche dubbio tra alcuni club per una possibile bocciatura successiva da parte dell’Antitrust). In particolare le “sette sorelle” - Inter, Juventus, Roma, Fiorentina, Sassuolo, Verona e Sampdoria - presenteranno in assemblea una piattaforma alternativa con alcuni punti fermi. Il primo è che il nuovo contratto con Infront non dovrà andare oltre il 2018, scadenza del prossimo triennio di vendita dei diritti tv per evitare altri sfasamenti come quello attuale (il termine dell’intesa con l’advisor nel 2016, dodici mesi dopo la fine del triennio 2012-’15). La seconda proposta delle “sette sorelle” è relativa alla modulazione dei pacchetti che dovranno prevedere maggiori possibilità di esclusiva, compresa la possibilità che non tutte le partite vengano trasmesse in diretta. Gli altri tredici club non sono più così compatti. Il Torino, ad esempio, vorrebbe vendere i diritti fino al 2016 in coincidenza con la scadenza del contratto con Infront e poi rinegoziare tutto. Se ne riparlerà venerdì in una nuova riunione informale, a una settimana esatta dall’assemblea nella quale si voterà (posticipata di due ore per evitare la concomitanza con l’assemblea dei soci dell’Inter). Solo la conta potrà riuscire a compattare schieramenti ora formati da posizioni molto variegate. Ma già l’opposizione del fronte con Inter e Juventus basterebbe a bloccare il nuovo affidamento dell’incarico a Infront. «Abbiamo capito meglio le aspettative dei club - spiega il presidente Maurizio Beretta - può darsi che individueremo una posizione comune, ma anche che ci sia ancora da lavorare». Per ora scivola in secondo piano il progetto di creare una tv della Lega.

Modificato da Ghost Dog

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Archivio qua la foto di Parma...

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IL CASO

L’ultimo "regalo" di Banti

Come se non bastasse la direzione di Torino-Roma, giallorossi multati di 5.000 euro per l’uso della ricetrasmittente tra Bompard e Garcia, nonostante la società l’avesse concordato, come nelle altre partite, con la Procura

di DANIELE GALLI (IL ROMANISTA 06-11-2013)

E poi parlano di sindrome da accerchiamento. Dopo la beffa del rigore non concesso a Pjanic, alla Roma, un rigore solare come la solare Torino, a Trigoria ieri hanno sgranato gli occhi. C’era il sequel. C’era una multa da cinquemila euro. Nel referto firmato dal signor (vabbé, si fa per dire, per consuetudine) Banti di Livorno veniva segnalato al giudice della Lega di Serie, Gianpaolo Tosel, che «un componente della panchina con funzioni di allenatore in seconda aveva fatto uso senza autorizzazione di una apparecchiatura rice-trasmittente». O meglio, questo è quello che c’è scritto sul comunicato della Lega. Perché le cose non stanno propriamente così.

I fatti. Il quarto uomo, o comunque uno dei componenti della squadra di arbitri guidata da Banti, nota al 3’ del secondo tempo di Torino- Roma che Frederic Bompard, il vice di Garcia, è in possesso di quella che verrà poi definita da Tosel «un’apparecchiatura rice-trasmittente». Ora, la regola 4 del Regolamento del Giuoco del Calcio recita testualmente: «L’uso di sistemi di radio comunicazione tra calciatori e/o lo staff tecnico non è consentito». L’uso, non il possesso. E nel caso di Bompard, a quanto risulta al "Romanista", Banti & Co. non denunciano l’uso di questa «rice-trasmittente », ma il semplice possesso. È come se dicessero al giudice sportivo: noi abbiamo notato che la aveva, quindi sicuramente la avrà utilizzata. Differenza sottile? Assolutamente no. La detenzione legale di un’arma non implica che io poi la voglia adoperare. Niente prova, niente infrazione, niente multa. Dovrebbe funzionare così, e invece così non è stato.

La Roma ricorrerà, ma probabilmente lo farà su basi diverse. La società spiegherà quello che finora non era noto. Questo. All’indomani di Livorno-Roma, dopo che Garcia era stato sorpreso a parlare al telefono con Bompard in tribuna, il club giallorosso fa istanza a tutti gli organi del calcio. Chiede delucidazioni, perché la materia è poco chiara. Anzi, non lo è proprio. Nessuno le risponde, quindi la Roma decide di imboccare un’altra strada. Parla con la Procura Federale e concorda un metodo. Una sorta di strategia. Una procedura, dicono a Trigoria. Ogni volta, prima della partita, viene comunicata all’arbitro l’adozione di questa tecnologia. Tanto che nelle nove gare successive a quella con il Livorno non accade nulla, nessuno dice nulla, nessuno scrive nulla e la Roma non viene mai multata. Fino a Torino. Fino a Banti. Che nel referto pare che non abbia fatto cenno ad alcuna procedura. Comunque è divertente. L’arbitro ha giudicato regolare l’intervento di Darmian su Pjanic ma ha fischiato fallo per la ricetrasmittente di Bompard. Beh, succede quando non si prende la palla.

Come Tafazzi...

Praticamente il quotidiano romanista ammette che la AS Roma sta usufruendo d'un trattamento di favore in deroga, almeno finché non ci sarà l'ovvio e sicuro intervento in corso d'opera.

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