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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Panorama | 23 ottobre 2013

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E adesso quell’arbitro vada

in curva a fare il razzista

Le calciatrici del Napoli insultate in campo: bisogna reagire con forza

di MAURIZIO DE GIOVANNI (IL MATTINO 20-10-2013)

Vorremmo non crederci, perché è proprio una brutta storia. Vorremmo che fosse un modo di coprire le colpe di una brutta sconfitta, una giustificazione per un cinque a zero subito in una Verona spesso fatale. Ma conosciamo le ragazze e i dirigenti del Napoli Calcio Femminile, e questa conoscenza non ci consente nemmeno di immaginare che le loro parole non siano sincere, e d’altronde c’è un esposto ufficiale della società agli organi federali che chiede risposte. I fatti: un’ora prima della partita, l’arbitro designato per Verona–Napoli viene sostituito. Il nuovo arbitro, Dall’Oco della sezione di Finale Emilia, si produce in una performance spettacolare; fin dall’inizio si mostra simpatico ed equanime, chiedendo alle giocatrici azzurre: ma che lingua parlate? Ma da dove venite, senza nemmeno i tabelloni per le sostituzioni? Ma non avete sentito che in campo si entra tutte insieme? Avete forse le orecchie sporche? Ma vi lavate?, e altre amenità del genere.

L’incontro culmina col suddetto figurativo risultato e cinque espulsioni (due giocatrici e tre dello staff tecnico) a carico della squadra napoletana. Le cronache riferiscono addirittura che il pubblico veronese, imbarazzato dalla conduzione arbitrale, verso la fine dell’incontro ha fischiato sonoramente Dall’Oco, evidentemente non apprezzato nemmeno in qualità di comico. Non crediamo che bastino l’indignazione, il disgusto e la riprovazione per questa triste dimostrazione di assenza di cultura. E cogliamo anzi la positività dell’atteggiamento di quella frangia di pubblico locale che ha rifiutato, coi fischi, un’ulteriore dimostrazione di ottusa stupidità discriminatoria. Sappiamo per diretta esperienza che molto nord è stanco e disgustato di un razzismo che non è nemmeno più ridicolo, ma stucchevole, inutile e perfino dannoso per chi ancora lo esprime: ci auguriamo e siamo certi che questa stanchezza si manifesti sempre più spesso, anche in cabina elettorale.

Quello che sorprende e amareggia è che ambiti che fino ad oggi sembravano esenti da questo squallore, come lo sport dilettantistico e quello femminile, siano intaccati dalla becera e imbecille discriminazione territoriale, soprattutto da chi, come un arbitro, dovrebbe sorvegliare la corretta applicazione dei valori sportivi prima ancora delle regole del gioco. Siamo certi che gli organi preposti accoglieranno il reclamo del Napoli Calcio Femminile, e che sia precluso all’ineffabile Dall’Oco l’accesso a qualsiasi campo in qualità di arbitro; perché se è vero quanto accaduto, e lo è certamente, quest’uomo non è in grado di arbitrare nemmeno se stesso. Speriamo che il calcio femminile resti quello che è: un’oasi di felice affermazione dello sport nell’accezione più pura e alta. Per tutelarlo, è necessario che si abbia la forza di sbattere fuori, senza alcun riguardo, certi idioti. Gli si liberi la domenica, affinché possano andare nelle curve del calcio maschile di serie A per fare, protetti dall’anonimato della massa, i loro vigliacchi, animaleschi versi selvaggi.

Adesso voglio sentire la nuova giustificazione di Nicchi dopo il caso-Iuliano...

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la Repubblica AFFARI&FINANZA 21-10-2013

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MARCA 21-10-2013

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22 OTT 2013 19:00
DIAVOLO DI UN CAV – MA QUALE MILAN! SE BERLUSCONI NON HA PRESO L’INTER È STATO SOLO PER I RIFIUTI DI FRAIZZOLI - IL MUNDIALITO DELLA P2
Dopo aver provato ad entrare nel Milan come socio di Colombo, nell’aprile del ’86 Berlusconi salva il club rossonero dal fallimento: il calcio gli serve per affermarsi come imprenditore di successo – Superate le antiche riserve scaturite da una seduta spiritica: alla parola Milan erano state predette lacrime e sangue….


Alfio Caruso - Estratto dal capitolo 14 "Un secolo azzurro" (ed. Longanesi)


In campionato ('78-'79) al Milan basta gestire il vantaggio accumulato alla fine del girone di andata. Gli resta in scia il Perugia, ma il sagace presidente degli umbri, Franco D'Attoma, è consapevole di non possedere i mezzi e le conoscenze per eccedere nei sogni. Il traguardo diventa allora chiudere imbattuti e entrare in tal modo nella storia calcistica. La sorpresa matura tra le squadre impegnate a evitare la retrocessione. Malgrado la riconferma di Rossi, il Vicenza non ripete l'exploit della stagione precedente.

A dieci giornate dalla fine veleggia a metà classifica. All'improvviso la situazione precipita. La squadra di Fabbri non riesce più a vincere: colleziona quattro sconfitte e cinque pareggi. All'ultima giornata va in casa dell'Atalanta anch'essa coinvolta nella lotta per la permanenza. La vittoria dei bergamaschi sancisce la condanna di entrambe: si salva il Bologna per la miglior differenza reti. Fondamentale lo 0-0 a San Siro contro il Milan troppo impegnato a festeggiare lo scudetto per ricordarsi di vincere.

Farina denuncia un complotto contro di lui. Ovviamente non ha prove, ancora non sono venuti di moda i <>, ai quali addossare qualsiasi responsabilità, quindi lascia intendere che sia stata la vendetta di Boniperti per lo sgarbo di avergli strappato Rossi alle buste. La retrocessione del Vicenza apre il problema di Paolino, che non vuol saperne di giocare in serie B. Per meno di 5 miliardi Farina non intende cederlo. A poterselo consentire sono pochissime società, ma nessuna pare intenzionata a un tale esborso.

L'unico disponibile è un imprenditore al di fuori del sistema, Silvio Berlusconi. Dall'edilizia è felicemente trasbordato all'emittenza televisiva, ha messo un piede nel Giornale e ora vorrebbe metterlo nel Milan, antico amore di gioventù. E' stato compagno di collegio con Colombo, un pomeriggio di maggio gli spaparanza sulla scrivania dell'ufficio di via Turati cinque libretti al portatore da un miliardo l'uno. Vai a comprare Rossi, gli dice con uno di quei sorrisi in panavision, che diventeranno il marchio del personaggio. In cambio, chiede di fare il socio di minoranza.

Memore della spregiudicatezza di Silvio già famosa ai tempi del collegio, Colombo respinge l'offerta. Non vuole esporsi alla sventagliata di polemiche, che accompagnerebbe una simile trattativa, non vuole mettersi alle costole un socio, che finirebbe con il mangiargli in testa.

...La sosta natalizia (1980) permette di accogliere l'invito dell'Uruguay: un torneo tra i vincitori del mondiale per festeggiare i cinquant'anni della edizione inaugurale organizzata a Montevideo. Si tratta di una manovra propagandistica della dittatura militare appena sconfitta, contro ogni previsione, nel referendum che avrebbe dovuto consolidarla.

Sull'esempio dell'Argentina i generali confidano nella forza dell'evento sportivo per ricevere una legittimazione internazionale, malgrado il regime sanguinario e le indiscriminate persecuzioni degli avversari politici. Accettano di partecipare Brasile, Argentina, Italia e Germania Ovest. Rifiuta l'Inghilterra per la forte opposizione dell'opinione pubblica. Al suo posto è invitata l'Olanda. I diritti televisivi vengono a sorpresa rilevati da una misteriosa società panamense, che li offre all'Eurovisione per un milione e mezzo di dollari. La controproposta è di 750 mila dollari. Nella trattativa s'inserisce Berlusconi, la cui Fininvest è proprietaria delle tre principali emittenti private, Canale 5, Italia 1, Retequattro.

Berlusconi è ai primi passi nella costruzione dell'impero mediatico, tuttavia è abissalmente avanti agli altri. Intuisce che il <>, così gli uruguaiani l'hanno chiamato, può offrire un'enorme cassa di risonanza al suo gruppo e favorire la raccolta pubblicitaria, della quale ha assoluto bisogno. Rilancia perciò fino a 900 mila dollari (circa due milioni e mezzo di euro) e in quarantott'ore mette a segno il gran colpo.

Berlusconi ha rotto lo strapotere della Rai allo stesso modo in cui la marcia dei quarantamila quadri e impiegati della Fiat ha rotto in ottobre a Torino lo strapotere dei sindacati e messo fine all'occupazione della fabbrica automobilistica. La Rai difende la propria scelta con il costo altissimo dell'evento: ognuna delle sette partite è stata pagata circa 130 mila dollari, 150 milioni di lire, mentre per il mondiale in Argentina ogni partita prezzava 20 milioni di lire. Il novello Signore delle Antenne ha però un problema: per trasmettere abbisogna del satellite, gestito in Italia da Telespazio.

Costei l'ha concesso alla tv di Stato con l'eccezione dell'emittente del Vaticano, Telepace, che lo utilizza la domenica per diffondere l'Angelus del Pontefice in Sud America. Berlusconi è già iscritto alla misteriosa loggia massonica P2, vanta amici potenti nei giornali e diversi onorevoli a libro paga. Sulla stampa si scatena la protesta contro la pretesa della Rai di non far vedere il <> agli italiani.

La Rai accetta di concedere l'uso del satellite, ma le partite potranno andare in diretta nella sola Lombardia; nel resto della Penisola dovranno accontentarsi della differita. In cambio la Rai ottiene l'esclusiva delle gare degli azzurri. A Berlusconi va già bene così: tutti hanno parlato di lui e delle sue televisioni, per di più ricava una montagna di soldi dalla pubblicità e dalla cessione dei diritti alle Nazioni interessate.

A carte scoperte, si può intravedere la tela di ragno stesa intorno alla manifestazione dalla P2 (Propaganda 2), la loggia massonica, più o meno coperta, risalente alla fine dell'Ottocento: già allora vi risultavano iscritti pezzi importanti del Regno. E pure nella sua filiazione gestita da Umberto Ortolani, la mente, e Licio Gelli, il braccio, abbondano burocrati altolocati, generali, ammiragli, ministri, politici, industriali, finanzieri, giornalisti, editori, spioni. Gelli possiede diverse proprietà in Uruguay e una villa nell'elitario quartiere di Carrasco.

Lui e Ortolani sono intrecciati in diversi affari sia con la dittatura uruguaiana, sia con quella argentina: uno dei suoi massimi esponenti, l'ammiraglio Emilio Eduardo Massera fa parte, assieme ad altri colleghi, della loggia segreta. Oltre Berlusconi alla P2 sono affiliati il direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella, il proprietario della casa editrice, Angelo Rizzoli, l'amministratore delegato, Bruno Tassan Din. Forse non è un caso se il grande giornale milanese non dà risalto al documento di protesta contro il regime di Montevideo firmato da quarantuno tecnici e giocatori.
Ci si ricorda, allora, degli articoli entusiastici apparsi nel Corriere durante il mondiale del '78 e si comprende perché un giornalista con la schiena dritta come Enzo Biagi avesse rifiutato di andare a Buenos Aires. A benedire il <> è anche Franchi. Ha fatto opera di persuasione con Sordillo e ottenuto per l'Italia un ingaggio di 130 milioni (poco meno di 300 mila euro). Fra qualche mese pure il nome di Franchi comparirà nelle liste degli appartenenti alla P2 e la sua smentita non convincerà.

... Nell'aprile '86 pure l'evento destinato a incidere sugli sviluppi del Paese è orientato da un tribunale, stavolta quello milanese. Riguarda il Milan e la perigliosa navigazione, cui l'ha sottoposto la presidenza di Farina. Giussy avrebbe anche buone idee, ma gli difettano i soldi e per tener dietro alle aspirazioni del tifo rossonero ne servono in discreta quantità. Sommerso dai debiti, circa 10 miliardi (11 milioni di euro), si è dovuto dimettere, poi è partito per il Sud America. A ventiquattr'ore dal fallimento l'intervento di Berlusconi risolve l'intricata successione, nella quale è rispuntato il petroliere Dino Armani, già interessatosi dieci anni prima. Il Milan costa a Berlusconi circa 15 miliardi, ma il vulcanico Silvio inquadra l'investimento nella creazione del personaggio carismatico, capace in seguito di trionfare in politica. La televisione gli serve per costruire il consenso, il calcio per affermarsi trasversalmente come dirigente e imprenditore di successo. Sono questi calcoli che gli fanno superare le antiche riserve scaturite da una seduta spiritica dedicata proprio alla società rossonera: alla parola Milan erano stati predetti lacrime e sangue.

Dopo sei anni di pene infinite, i sostenitori del Diavolo inneggiano al novello Messia. Neppure il crollo della squadra, un punto nelle ultime cinque giornate, e la conseguente esclusione dalle coppe scalfiscono l'enorme bagaglio di fiducia. E poco importa che nel '72 e nell'82 Berlusconi non sia diventato presidente dell'Inter soltanto per il rifiuto di Fraizzoli alle ricche offerte d'acquisto. Un po' meno euforici appaiono Sordillo e Carraro. Li preoccupa l'eccessiva vicinanza di Berlusconi a Craxi. I due hanno già dovuto fronteggiarlo quando aveva tentato di soffiare i diritti televisivi del calcio alla Rai, ora paventano nuovi attacchi alla diligenza. Neppure immaginano di quanto Berlusconi abbia alzato l'obiettivo delle proprie mire.

http://www.dagospia.com/rubrica-30/Sport/diavolo-di-un-cav-ma-quale-milan-se-berlusconi-non-ha-preso-linter-stato-65079.htm

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Match-fixing case:

4 held without trial

by WALTER SIM (The Straits Times 22-10-2013)

Four of the 14 suspected international match-fixers arrested last month in an islandwide sting are being detained without trial, Minister for Home Affairs Teo Chee Hean confirmed yesterday.

In a written reply to parliamentary questions, he explained that the Criminal Law (Temporary Provisions) Act (CLTPA) is used “as a last resort in cases where accomplices and witnesses dare not testify against criminals in court, for fear of reprisal”.

“Like drug trafficking and unlicensed money-lending, illegal soccer match-fixing activities are carried out by organised criminal syndicates with complex and layered structures motivated by financial gain,” wrote Mr Teo.

The nature of cross-border illegal activities also makes it more difficult to secure evidence and witnesses, he added.

One of the four detained is believed to be 48-year-old Tan Seet Eng – better known as Dan Tan, whom Interpol has labelled the “leader of the world’s most notorious match-fixing syndicate”.

Their cases will be reviewed by an independent advisory committee which will then submit its findings to the President, who can cancel, confirm or vary the orders, said Mr Teo.

He also revealed that steps to apprehend the 14 suspects started “well before the media reports in 2011”. Then, Tan’s name was linked to a major match-fixing scandal in Italy. But he explained progress was hampered as the alleged offences occurred overseas, and the information obtained was sketchy. In February, after the European Union’s Europol named Singapore as the base for some of the operations of an extensive match-fixing syndicate, the police and Corrupt Practices Investigation Bureau (CPIB) formed a team to work with Interpol.

This culminated in last month’s arrest of the 14 suspects. Nine have been released on police bail and one has been issued a police supervision order in lieu of prison detention.

Emphasising the “strict vigilance” against illegal football activities, Mr Teo said in the last decade, CPIB has probed 10 cases of football-related corruption, with six ending in court convictions and three in stern warnings.

Yesterday, the Home Affairs Ministry tabled a Bill to extend the CLTPA for another five years, starting Oct 21 next year.

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Beceri organizzati

però non bisogna

dargliela vinta

di DANIELE DALLERA (CorSera 22-10-2013)

Beceri e ripetitivi dal punto di vista letterario (cori razzisti o discriminatori territorialmente che siano sono sempre quelli: deprimenti) ma talentuosi, bisogna ammetterlo, nell’organizzarsi e distribuire il loro repertorio di nefandezze e nequizie su tutto il territorio italiano. Il passaparola dell’ultrà da stadio è evidente: offendiamo il prossimo, così a caso, quel tanto che basta per far chiudere prima le curve e poi gli stadi. La questione è maledettamente seria, e seria è la giustizia sportiva federale che, applicando la legge e facendo il suo dovere, li sbatte fuori (con la condizionale per ora) dallo stadio. Troppo tardi, forse, ma è giusto farlo, sapendo bene che andranno avanti, che continueranno, perché nel mirino, loro, i beceri, hanno messo le società di calcio. Che per troppo tempo hanno dialogato con gli ultrà. Ora, qualcosa bisognerà fare per tutelare le società e gli spettatori che amano lo sport. Certo, non arrendersi e non dargliela vinta.

ULTRÀ E INSULTI «TERRITORIALI»

LO STADIO NON È

UNA ZONA FRANCA

di DAVIDE FERRARIO (Corriere della Sera - Bergamo 22-10-2013)

Domenica allo stadio i tifosi della Curva Nord hanno distribuito un volantino. Il documento, fedele alla sua definizione, «vola» alto, partendo dalla vicenda delle sanzioni comminate dalla Figc per «discriminazione territoriale» per parlare di razzismo e business passando dalla tragedia di Lampedusa. Il concetto di fondo proposto dagli ultrà è più o meno questo: la rivalità tra campanili è vecchia di secoli, negli stadi prende le forme anche dell'ingiuria ed è dunque pura ipocrisia pensare di eliminarla, perché corrisponde a un bisogno storico del popolo.

Dico subito che l'analisi è condivisibile come pura analisi, cioè come presa d'atto di una situazione. Dopodiché, le situazioni si tende a cambiarle, possibilmente a migliorarle. Sarebbe come dire che siccome piove da sempre l'invenzione dell'ombrello è ipocrita. Spostato su un piano sociale, il punto è che se ci sono dei conflitti bisognerebbe lavorare per eliminarli, non per enfatizzarli. Quello che il volantino non dice, ma implica - forse inconsapevolmente - è che lo stadio (e i suoi dintorni) non sono da considerarsi parte del corpo sociale, ma una specie di zona franca dove le regole della convivenza civile non valgono. Cioè, nello stadio posso urlare a un mio concittadino italiano cose per le quali altrove finirei in tribunale; e, al limite, andare allo scontro fisico con lui come parte di un codice di comportamento esterno e parallelo alle leggi dello Stato. D'altra parte, l'etimologia stessa di «tifoso», tipicamente italiana, non suggerisce l'idea di un tipo tranquillo, ma quella di uno contagiato da un morbo violento.

La malattia del calcio italiano nasce dall'extrater- ritorialità di un luogo - fisico e mentale - che ha finito per essere, dopo la piazza, lo sfogo di molti irrisolti problemi culturali. Se, infatti, sembra un pò ardita la richiesta degli ultrà di essere «liberi di tifare, liberi di viaggiare» mettendosi in parallelo con i migranti di Lampedusa, non si può non essere d'accordo con loro che il business ha cambiato la faccia dell'intrattenimento più popolare del mondo. Davanti alla complessità del fenomeno le regole politicamente corrette suonano davvero insieme ipocrite e inefficaci. Mi ricordo bene un'Atalanta-Napoli in cui i nostri cominciarono a inveire contro i partenopei gridando «Come bresciani, voi siete come bresciani…», con un avvitamento di senso da tuffo carpiato con coefficiente massimo. Cos'era quella? Una discriminazione territoriale? E nei confronti di chi? Così come il famoso maialino sguinzagliato per il campo per irridere Mazzone era da considerare un reato o una goliardata? E il carro armato di inizio stagione?

Mettere regole e divieti (e poi contraddirsi mitigandoli o cambiandoli in corso d'opera) è sintomo evidente di un sistema debole e incapace di autogestirsi. Dove occorrerebbe senso comune arrivano i decreti, le imposizioni, le chiusure. D'altra parte non è che si può assistere inerti alla deriva dei cori razzisti, degli striscioni inneggianti a Hitler e a tutto il repertorio che ben conosciamo. Ancora una volta il calcio è lo specchio fedele di un Paese che va avanti così, di domenica in domenica, verso la fine di un campionato che, in realtà, non finisce mai.

TUTTOSPORT 22-10-2013

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LEGA IERI L’INCONTRO

Diritti tv, Infront

vuole la risposta

entro venti giorni

di MATTEO BREGA (GaSport 22-10-2013)

Si è tenuta ieri pomeriggio una riunione informale in Lega calcio tra i club di A (assenti solo Cagliari e Catania) e l’advisor Infront. Il tema dell’incontro verteva sui quesiti inviati dalle società a Infront per i chiarimenti sull’offerta presentata dall’advisor (prolungamento dell’accordo fino al 2021 con incassi garantiti dai diritti tv di 5,49 miliardi di euro). Si è trattato di un incontro nel quale l’advisor ha nuovamente chiesto una risposta ufficiale in tempi brevi (possibile già nella prossima assemblea, prima settimana di novembre) e nel quale qualche società ha chiesto di prolungare fino al 2018 e non fino al 2021. Domanda rimandata al mittente da Infront stesso.

Diritti tv: nel triennio 2015-18 garantiti 900

milioni a stagione subito "bancabili",

assemblea al voto il 4 novembre

di MARCO BELLINAZZO (Il Sole 24ORE.com - Calcio & business 22-10-2013)

Il presidente di Infront Italy Marco Bogarelli ha fornito ieri durante un incontro in Lega i chiarimenti sollecitati dalle società di Serie A sulla proposta avanzata all’assemblea del 7 ottobre scorso per il nuovo contratto di cessione dei diritti tv nel triennio 2015-18, nonché sul progetto del "Canale" autonomo della Lega. Il clima è parso più sereno rispetto alle ultime settimane e, in ogni caso, venerdì prossimo Infront depositerà la proposta definitiva sulla quale i 20 presidenti di A saranno chiamati a pronunciarsi nell'assemblea in programma venerdì 4 novembre.

Nel frattempo la Lega valuterà anche le manifestazioni di interesse fatte pervenire da altri soggetti, in particolare da Img.

Tornando all'incontro di ieri, poco è trapelato sui contenuti delle precisazioni esposte da Bogarelli. Sulla garanzia "bancabile” al centro della proposta fatta da Infront all’assemblea del 7 ottobre (900 milioni di euro a stagione per il triennio 2015-18 e 930 all'anno per quello successivo), Bogarelli avrebbe spiegato che si tratterà di una garanzia che permetterà ai club di rivolgersi a banche o società specializzate per farsi anticipare i crediti collegati ai diritti televisivi e che scatterà a coprire l'eventuale differenza tra quanto incassato effettivamente e il livello di introiti assicurato. Questo anche nel caso in cui si attivasse il Canale Serie A. Inoltre, il presidente di Infront Italy avrebbe chiarito che si tratterà di una garanzia proveniente da un soggetto terzo, quindi non dalla stessa Infront o dal fondo Bridgepoint che ne ha il controllo.

Per Bogarelli ha però ribadito la necessità di accelerare i tempi della procedura di vendita dei diritti tv e della conferma dell'incarico all'advisor, in modo che Infront possa predisporre, da un lato, ​i pacchetti da mettere a gara all'inizio del 2014 e, dall'altro, uno studio di fattibilità e un business plan relativo ad un “Canale Lega” da rendere operativo, in caso di offerte inferiori alle attese e in particolare al fatturato raggiunto nel mercato interno nella stagione in corso e in quella successiva, entro la primavera del 2015. Bogarelli avrebbe sottolineato inoltre come verrebbero individuati investitori terzi rispetto all’advisor e ai club per gestire distribuzione e commercializzazione del Canale, senza appesantire perciò i bilanci dei club di Serie A.

Sempre a proposito del Canale Lega Bogarelli avrebbe citato alcuni esempi tra cui i buoni risultati maturati da Eridivisie Live, la tv autonoma creata dalla Lega olandese nel 2008 e rivenduta quest'anno per il 51% a Fox, con una valutazione complessiva di circa 2 miliardi di euro.

Entro venerdì la proposta definitiva alla Lega per rimanere advisor per la serie A

Diritti tv calcio, Infront in campo

Pronta l’offerta migliorativa per il triennio 2018-21

di CLAUDIO PLAZZOTTA (ItaliaOggi 22-10-2013)

Infront presenterà entro venerdì 25 ottobre una proposta definitiva alla Lega calcio circa la possibilità di restare advisor per la vendita dei diritti audiovisivi della Serie A anche per il triennio 2018-2021. In questa proposta la società di Marco Bogarelli formalizzerà una offerta migliorativa rispetto agli attuali 905 milioni di euro all’anno (quelli per il triennio 2012-2015) che rappresentano la «garanzia di risultato» coperta da fideiussione. Perciò, nonostante i compratori del prodotto calcio italiano tendano a sminuire il valore della merce, l’asta per i diritti della Serie A, sia per il triennio 2015-2018 (ancora di competenza Infront) sia per gli anni successivi (per i quali la Lega deve ancora decidere l’advisor) partirà sempre da cifre vicine al miliardo di euro all’anno. E nel caso in cui da Sky o Mediaset non dovessero arrivare offerte soddisfacenti, si lavorerà per usare i broadcaster solo come carrier, cercando invece (anche se non sarà facile) altri licenziatari dei diritti.

La Lega calcio, alla fine dell’incontro di ieri con Infront, si è presa tempo fino al 4 novembre per sciogliere le sue riserve circa la scelta dell’advisor per il triennio 2018-2021. Per il momento l’unica proposta concreta è arrivata da Infront, mentre da Kpmg, PricewaterhouseCoopers, Img Media e Wasserman (advisor della Premier league inglese) sono solo giunte generiche manifestazioni di interesse, riassunte in poche righe.

In attesa delle decisioni della Lega, comunque, ormai è guerra aperta tra Infront e il Corriere della Sera. Secondo la società presieduta da Bogarelli, che se ne assume ovviamente la responsabilità, il quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli alimenta da mesi un continuo discredito nei confronti di Infront «al fine di porre in dubbio la legittimità e correttezza del ruolo della stessa, contestualmente presentando un operatore della pay tv (Sky, ndr) come unico competitor realmente attendibile e capace di creare valore nell’altrimenti asfittico mondo del calcio italiano». Stando alle accuse di Infront, da agosto sarebbe iniziata una serie di articoli, a firma del giornalista economico-finanziario Massimo Sideri, che ha diffuso notizie che «sono andate ben oltre i limiti di una accettabile polemica di stampa, sfociando in informazioni non rispondenti al vero e in gravi insinuazioni che ledono l’onorabilità e l’immagine di Infront Italy».

Per questi motivi Infront ha depositato una denuncia/querela nei confronti della testata: «Ciò che rende più grave l’operato del Corriere», spiegano dalla società, «è il fatto che gli articoli si inseriscano in un delicato momento di business, ovvero nel periodo in cui la Lega calcio discute della strategia di commercializzazione dei diritti audiovisivi per le prossime stagioni, ancora non coperte da alcun contratto».

Da un lato, va detto, la polemica giornalistica tra Corriere e Infront non sembra assumere i contorni della diffamazione. Anche se, senza dubbio, via Solferino ci va giù durissima, con un accanimento e una reiterazione che molti fanno fatica a spiegarsi, se non attingendo alle ipotesi di interessi comuni tra via Rizzoli e Sky (filiera tra Rcs, Fiat, che è maggiore azionista di Rcs, e Newscorp, azionista di controllo di Sky e nel cui cda siede John Elkann, presidente Fiat). Non sarebbe, secondo questa interpretazione, un caso né l’appoggio che la Juventus (ovvero Elkann, ovvero Fiat) sta dando a Sky nella gara per i diritti tv né la copertina di Sette (magazine del Corriere della Sera) concessa al presidente di Sky Italia James Murdoch poche settimane fa, con tanto di intervista ampia, molto amichevole e ulteriore servizio di due pagine sui successi di Sky rispetto a Rai e Mediaset, né l’intervento di Jacques Raynaud, executive vice president Sky sports, pubblicato dal Corriere del 4 ottobre scorso, in cui il manager spiegava il punto di vista Sky sull’asta per i diritti tv della Serie A senza alcun contraddittorio.

Dall’altro lato, la querela di Infront potrebbe apparire anche come un segno di debolezza: Sideri sferra una serie magari pure fastidiosa di calci negli stinchi a Infront, e Bogarelli casca nel trappolone, gli saltano i nervi e querela.

Certo è che i bilanci di Infront Italy srl (del gruppo Infront sports & media Ag, con sede a Zug, in Svizzera) fanno invidia a molti: nel 2012 ha chiuso l’esercizio con valore della produzione a 204,6 milioni di euro (+8,5% sul 2011), mol a 20,5 mln (13,4 mln nel 2011), un patrimonio netto di 33,6 mln (21 mln nel 2011) e utili a quota 12,6 milioni (6,3 mln l’anno prima). Nel 2013 ci saranno certamente utili e, a oggi, già l’85% delle properties rappresentate da Infront Italy è stato venduto. Manca un 15% che determinerà se i conti saranno migliori o in linea rispetto allo scorso esercizio.

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Luciano Moggi alla Corte europea

"Calciopoli per favorire l'Inter"

L'Espresso ha letto il ricorso integrale dell'ex direttore generale della Juventus ai

giudici di Strasburgo. Quindici pagine in cui attacca la sentenza della Cassazione,

"una decisione pilatesca", e ricostruisce il suo "calvario": "Io, vittima di un complotto"

di DOMENICO LUSI (l'Espresso.it 23-10-2013)

La radiazione di Luciano Moggi, decisa dalla Figc in seguito allo scandalo di “Calciopoli”, non aveva come solo obiettivo «quello previsto nei regolamenti sportivi, ma piuttosto quello di penalizzarlo allo scopo occulto di favorire altre concorrenti società sportive, prima fra tutte l'Inter, che è risultata la vera beneficiaria di tutta la vicenda, ottenendo a tavolino ciò che non aveva ottenuto sul campo: il titolo di campione d'Italia». A mettere nero su bianco la pesante accusa è lo stesso ex direttore generale della Juventus, nel ricorso alla Corte europea per i diritti dell'uomo che L'Espresso ha potuto visionare.

Moggi lamenta numerose violazioni dei suoi diritti e interessi, tra cui quello «di frequentare l'ambiente nel quale ha svolto per decenni l'attività professionale», e chiede ai giudici di Strasburgo di condannare l'Italia a risarcirgli i danni e ad adottare tutte le iniziative necessarie a rimuovere gli effetti delle condanne sportive e delle pronunce sfavorevoli arrivate sia in sede amministrativa che davanti alla Cassazione.

«Questa è una vera e propria sentenza politica, andrò alla Corte per i diritti dell’uomo e vediamo cosa succede», aveva promesso Moggi lo scorso agosto, dopo che anche la Cassazione gli aveva dato torto, dichiarando inammissibile il ricorso con cui chiedeva di sapere quale fosse il giudice competente a decidere sulla legittimità delle sanzioni irrogate dalla Figc dopo che il Consiglio di Stato si era dichiarato non competente. Detto, fatto.

Da ieri la nuova impugnazione è sul tavolo dei giudici di Strasburgo. Il pool di avvocati che assiste l'ex dg bianconero, coordinato dal professor Federico Tedeschini, ha incentrato la causa contro l'Italia su due tipi di argomentazioni. Una, di tipo sostanziale, in base alla quale Moggi sarebbe vittima di una sorta di complotto finalizzato ad avvantaggiare l'Inter ai danni della Juventus. Nel 2006, scrivono i legali, quando venne nominato commissario straordinario della Figc, Guido Rossi assunse un «atteggiamento che apparì subito come un avallo alla fantasiosa “ipotesi di lavoro”, fondata essenzialmente su “brogliacci” di intercettazioni telefoniche trasmesse alla Figc da alcune procure penali (in particolare Torino e Napoli) e illecitamente utilizzate dalla stessa Federazione per colpire» Moggi, secondo la quale l'ex dg della Juve «sarebbe stato uno dei fautori e “gestori” della “cupola”, unitamente ad arbitri, dirigenti federali (compreso il presidente della Figc), altri dirigenti di società».

I difensori di Moggi ricordano che fu proprio Rossi a nominare i nuovi membri della Commissione d'appello federale (Caf) che il 14 luglio 2006 condannarono l'ex dirigente bianconero all'inibizione per cinque anni con proposta di radiazione, accolta definitivamente nel 2012. La condanna, si legge nel ricorso, fu confermata dalla Corte federale della Figc il 25 luglio 2006 e il giorno dopo il Consiglio federale assegnò il titolo di campione d'Italia 2005/2006 all'Inter, «società della quale, qualche tempo prima, lo stesso commissario straordinario Rossi era stato consigliere di amministrazione». Secondo i legali di Moggi questo dimostrerebbe «il difetto di terzietà» di Rossi, vale a dire colui che «rinnovò i collegi di giustizia sportiva» che poi condannarono l'ex dg della Juve.

L'altra argomentazione punta sulla violazione del diritto di Moggi a un equo processo. Questo perché «l'ordinamento processuale italiano non prevede alcun effettivo rimedio interno» per il cittadino che intenda impugnare le sanzioni irrogate dalla Figc e dal Coni ai tesserati. «Il Calvario di Moggi», si legge nel ricorso, «è iniziato a metà del 2006 e non si è ancora concluso perché dapprima i giudici sportivi hanno respinto le impugnazioni attivate secondo le regole di giustizia domestica dettate dalla Figc e dal Coni, e poi il giudice amministrativo competente ha respinto (in primo grado) il ricorso contro le decisioni sportive e ha declinato (in secondo grado) la propria giurisdizione, senza che il giudice competente (la Cassazione) ritenesse di dover indicare quale magistratura avrebbe dovuto controllare l'operato degli organi sportivi».

La Cassazione dichiarò inammissibile il ricorso di Moggi perché mancava «una esposizione sommaria dei fatti». Una vera e propria «beffa», secondo i legali dell'ex dirigente juventino: per loro «al ricorso era allegata documentazione più che sufficiente» e quella della Suprema Corte fu una «decisione pilatesca». La palla passa adesso ai giudici di Strasburgo. Spetterà a loro sancire il definitivo addio di Moggi al mondo del calcio oppure aprire la strada al suo clamoroso ritorno. Per “Calciopoli” l'ex dirigente della Juve è stato condannato in primo grado a Napoli a cinque anni e quattro mesi di reclusione. Il processo d'appello è ancora in corso.

Per avere giustizia mi devo

affidare alla Corte Europea

di LUCIANO MOGGI (Libero 24-10-2013)

Di fronte a una giustizia sportiva gretta, miope e parziale, e dopo che nel processo penale è stato acclarato che nessun risultato in serie A è stato alterato, ho deciso di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per far valere le mie ragioni. Se qualcuno si fosse perso qualche passaggio, i 5 anni e 4 mesi di reclusione e la multa di 50 mila euro decisi dal Tribunale di Napoli in primo grado e la radiazione ricevuta nel processo sportivo, minano i fondamenti di un’equità sempre assente nel corso di questi procedimenti.

Amici, non voglio dilungarmi con l’elenco delle violazioni perpetrate ai miei danni, ma mi sembra legittimo rimarcare come i giudici di questi processi si siano divertiti nell’accanirsi contro il sottoscritto: della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sono stati calpestati gli articoli 6 (diritto a un equo processo), 13 (diritto a un ricorso effettivo), 14 (divieto di discriminazione), 17 (divieto dell’abuso del diritto) e 18 (limite all’applicazione della restrizione dei diritti).

Vogliamo parlare della farsa che chiamano “Calciopoli”? Una vera e propria esecuzione scatenata ai miei danni. La Figc mi ha radiato, e perché? Perché volevano penalizzarmi per favorire altre società sportive, prima tra tutte l’Inter, che solo in quella maniera ha potuto vincere il titolo di campione d’Italia. Un titolo consegnato da Guido Rossi, ex membro del Cda nerazzurro, che basò la sua indagine su pure fantasie, con il solo e unico obiettivo di colpire il sottoscritto. E fu proprio lo stesso Rossi a nominare i nuovi membri della Commissione d’appello federale. Dov’è finito il principio di terzietà che dovrebbe essere il cardine della giustizia? Non solo. Dopo le condanne ricevute, i giudici sportivi e non hanno respinto qualsiasi impugnazione.

Sarà Strasburgo, spero, a restituirmi quello che in Italia mi è stato tolto, in primis il diritto di essere trattato alla pari di qualsiasi altro cittadino. Non ci sto a passare per il capro espiatorio di un’indagine pasticciata, dove il gioco al massacro nei miei confronti è stato chiaro sin da subito, togliendo ogni possibilità di difendermi come le leggi dovrebbero permettere in questo Paese.

il Fatto Quotidiano 24-10-2013

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Considerato che il rispetto dell'uomo da parte degli animali è legato al rispetto degli animali fra loro,

Paolo Ziliani è una ɱerda

Modificato da Ghost Dog

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Atalanta-Juventus Sono 50 bianconeri e 18 nerazzurri per la partita di maggio quando venne ferita anche una donna. Verranno sottoposti a Daspo

Scontri allo stadio, denunciati 68 ultrà

Il piano L’attacco degli ultrà bianconeri a quelli nerazzurri è stato premeditato

Sul campo La partita era stata sospesa nove minuti e Conte aveva invitato alla calma i suoi tifosi

di MADDALENA BERBENNI (Corriere della Sera - Bergamo 24-10-2013)

Otto maggio 2013. Ultima giornata di campionato. A Bergamo c'è la Juve, ma dell'1-0 che i bianconeri strappano, alla fine, quasi quasi non si accorge nessuno. Prima durante e dopo il match sono gli scontri tra le due tifoserie a tenere banco. Per strada, sugli spalti e nelle telecronache sportive.

Ora, a cinque mesi di distanza, salgono a 68 gli ultrà denunciati a piede libero per reati di vario tipo: dalla resistenza e violenza a pubblico ufficiale al danneggiamento, dalle lesioni alla gamma dei cosiddetti reati da stadio, come il possesso e lancio di artifizi pirotecnici. Vedi la sequenza di fumogeni catapultati in campo. Dopo i 18 atalantini identificati nel giro di un mese, è stata la volta di 50 juventini, per risalire ai quali è stato necessario un minuzioso lavoro di analisi e confronto dei filmati. Oltre al sistema di videosorveglianza dell'Azzurri d'Italia, fondamentali sono state le immagini riprese dalle telecamere mobili messe a disposizione dalla polizia scientifica che con la Digos di Bergamo è arrivata a dare un volto ai presunti responsabili dei disordini e a ricostruire le tappe di quel mercoledì sera di violenza.

Le parole di Giorgio Grasso, comandante della Digos e dirigente della Squadra mobile, lasciano pochi dubbi sul fatto che siano stati gli ospiti a dare il via alle danze. Un attacco pianificato per provocare la reazione dei padroni di casa, che, in effetti, non si è fatta attendere, ma il numero «fisiologico», lo definisce Grasso, dei denunciati atalantini, 18 rispetto ai 50 degli avversari, e il particolare che quasi nessuno di loro fosse travisato, mentre i bianconeri erano quasi tutti a volto coperto, farebbe pensare a «una reazione d'impulso», spiega il comandante. «Non per questo giustificata — precisa —. Sono stati commessi reati da parte di entrambe le tifoserie e tutti i denunciati saranno sottoposti a Daspo». Ovvero gradinate vietate da 1 a 5 anni a seconda dei casi.

Fra i 68, tra l'altro, risulta che 40 siano già stati colpiti dal provvedimento. Gli episodi incriminati sono stati raggruppati in due fasi. La prima avvenuta all'arrivo dei pullman da Torino e quando gli ultrà erano in attesa di entrare allo stadio. I bianconeri si sono presentati su otto pullman grandi e quattro minivan, oltre a chi ha raggiunto Bergamo con mezzi privati. All'altezza di piazza Oberdan, la carovana si è arrestata. «Si sono fermati nonostante fossero scortati — spiega il capo della Digos — e dai primi due pullman, a bordo dei quali si trovava il gruppo dei "drughi", sono scesi circa cinquanta tifosi che hanno tentato di infrangere il cordone delle forze dell'ordine per caricare gli atalantini». Che, a loro volta, da piazzale Giulio Cesare dove si trova il distributore della Erg, «vedendo invaso il loro territorio», hanno risposto cercando lo scontro. Alla sassaiola in strada, è seguita quella all'interno dello stadio. Ma prima, all'ingresso del settore ospiti, gli juventini (75 dei quali, tra l'altro, con tessere del tifoso prestate e quindi «clandestini»), hanno tentato di uscire dall'area a loro riservata e di aggredire gli aggredire gli avversari. Ci sono riusciti con un tifoso nerazzurro. Sugli spalti, è stato anche peggio. Dal settore dei bianconeri si sono alternati lanci singoli a veri e propri assalti di gruppo, con tutto quello che capitava e in particolare con i pezzi di sanitari e piastrelle dei 14 bagni devastati. Tra gli oggetti impugnati anche attrezzi lancia razzi. Sette i feriti. Nove i minuti di sospensione della partita con l'allenatore della Juve Antonio Conte sotto la curva a calmare i suoi supporter.

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Il vertice Riunione in via Verdi. Al tavolo invitato anche il club di De

Laurentiis. Difficile l’affidamento diretto, non c’è alternativa alla gara

Il San Paolo al Napoli, la strada resta in salita

La commissione sport: è «bene pubblico»

di PAOLO CUOZZO (Corriere del Mezzogiorno - Napoli 24-10-2013)

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La commissione sport del Comune di Napoli si riunisce per avviare la discussione sul futuro del San Paolo. In ballo, c'è l'affidamento dello stadio al Calcio Napoli (invitato al tavolo stamattina). Ma, soprattutto, comincia la discussione politica sulle modalità per arrivare ad un'intesa col club di Aurelio de Laurentiis. E i nodi da sciogliere sono molti. Perciò la storia rischia di complicarsi. Perché rispetto ai tempi annunciati dal sindaco de Magistris e dal patron azzurro per l'affidamento della struttura di Fuorigrotta «in esclusiva» al club, rischiano di essere molo più lunghi in quanto qualunque sarà la possibile intesa, a qualunque cifra stabilita, tutto potrà passare solo da una gara pubblica. Sia che si tratti di concessione pluriennale, sia che si parli di vendita dell'immobile, sia che si discuta di cessione del diritto di superficie. E per arrivare ad un gara pubblica per l'affidamento dello stadio, i tempi non sono certo brevi. In più, il presidente della Commissione Sport, Gennaro Esposito, ricorda che «che la convenzione attualmente vigente, che scadrà a giugno 2014, fu stipulata quando il Napoli era in serie C. Per questo motivo, il Consiglio comunale ritenne opportuno favorire in ogni modo la nuova società limitando al minimo i propri diritti economici». «Oggi — ricorda —, la situazione è invece profondamente modificata e, credo, si debba puntare a una gestione dell'infrastruttura che tuteli tutti gli interessi in gioco, valorizzando l'enorme potenzialità dell'impianto, soddisfacendo le legittime esigenze del Napoli, garantendo la remuneratività del bene pubblico, favorendo la promozione dello sport in quanto tale. Anche perché nel San Paolo vivono importanti realtà sportive diverse dal calcio, che svolgono una funzione socio-culturale vitale per molti ragazzi napoletani». Uno stadio aperto a tutti, insomma. Non solo al Napoli. E la cosa, si sa, ad Aurelio De Laruentiis — che ancora pochi giorni fa ha ripetuto su Twitter che se il Comune non gli darà lo stadio lui ne costruirà uno nuovo a Caserta — l'ipotesi non piace. Dal canto suo, il sindaco intende fortemente utilizzare lo stadio anche per i grandi concerti, come accade in molte città italiane, anche perché a Napoli non esiste un sito alternativo e che quando si usa piazza Plebiscito si scatenano un mare di polemiche. Argomenti che il presidente del Napoli pare non voglia sentire. Per questo la strada per arrivare ad una soluzione appare ancora lunghissima.

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Il nostro calcio

"A porte chiuse"

La denuncia di due tifosi che amano visceralmente l’esperienza dello stadio è

diventata un bellissimo libro. Contucci: «Spalti vuoti non per colpa delle curve,

ma di prezzi alti, notturne, difficoltà nell’acquisto dei biglietti e impianti pessimi»

di LORENZO CONTUCCI & GIOVANNI FRANCESIO (IL ROMANISTA 24-10-2013)

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Volevano cacciare i violenti dagli stadi. Hanno cacciato tutti tranne i violenti.

Gli stadi italiani, negli ultimi anni, hanno definitivamente smesso di essere un luogo di aggregazione. Hanno smesso di essere un deposito, uno dei pochi rimasti, di cultura popolare, di esperienza di vita collettiva vera, non mediata.

Sono diventati luoghi tristi, grigi, vuoti. Si riempiono in poche occasioni, solo quando le squadre che vi giocano abitualmente offrono un rendimento elevato e quando ci sono incontri particolarmente importanti, le cosiddette "partite di cartello": in questi casi, sì, la gente va allo stadio, ma non ci va più per il semplice piacere di andarci, per la passione sportiva, per il gusto di stare insieme agli altri. Ci va per sentirsi parte del grande evento mediatico e "vippistico", per poter dire: "Io c’ero".

Gli appassionati veri, i dipendenti da odore di stadio, da prepartita con gli amici, da match vissuto e sofferto, contro qualsiasi squadra, in qualsiasi posizione di classifica o categoria, e con qualsiasi clima, sono inesorabilmente sempre di meno, e diventano sempre più vecchi. Per non parlare delle trasferte, ormai divenute quasi impraticabili per le assurde limitazioni imposte al diritto dei cittadini di andare dove gli pare.

Colpa della violenza, dei delinquenti travestiti da tifosi, degli ultras. Così hanno detto e continuano a dire i padroni del vapore, dalle società ai funzionari di lega e federazioni, dai giornalisti ai tutori dell’ordine pubblico, in altre parole i veri responsabili di questo scempio. Ma non è così. La violenza non c’entra niente. È uno spauracchio mediatico sventolato per coprire l’insipienza e l’incapacità degli organi che dovrebbero organizzare lo "spettacolo" calcistico. Vent’anni fa, numeri e dati alla mano, gli stadi italiani erano infinitamente più pericolosi di oggi. Ed erano infinitamente più pieni di gente rispetto a oggi.

Colpa delle televisioni, dicono invece i nostalgici e gli ultras (che spesso sono la stessa cosa), ma nemmeno questo è del tutto vero. Il resto d’Europa ce lo dimostra ogni settimana. La copertura televisiva è più o meno equivalente in ogni Paese europeo, ma le immagini che arrivano da Inghilterra, Spagna, Germania, e persino dalla Francia e dalla Turchia, sono inequivocabili e, a confronto con quelle italiane, impietose.

Perché, in Italia, andare allo stadio è diventato così brutto?

Perché per molti, troppi anni, nella gestione del calcio, quello vero, quello dal vivo, si è andati avanti a tentoni, con soluzioni pasticciate, applicate sempre in circostanze di emergenza e basate sui più grotteschi luoghi comuni, evitando con cura di analizzare approfonditamente il fenomeno e senza mai prendere in considerazione l’ipotesi di un sensato piano di ristrutturazione di tutto il sistema e di un ragionevole investimento. Il problema è tutto qui.

Nessuno vuole pagare. Nessuno ha mai voluto pagare.

Per prime le società, che non si sono mai poste il problema degli stadi, ancora oggi tutti di proprietà pubblica, cosa in tutta evidenza priva di senso. Risultato: impianti vecchi e invecchiati male. Sporchi, scomodi, lontani.

E i pochissimi casi di ristrutturazione o di nuove strutture che abbiamo visto in questi anni, con la sola eccezione, a oggi, del nuovo stadio della Juventus, sono stati effettuati senza alcuna visione strategica, senza la minima idea di come va organizzato uno stadio di calcio. Praticamente in ogni parte del mondo sono stati realizzati settori per chi vuole vivere la partita in modo "passionale" ("il diritto a stare scomodi", rivendicavano anni fa i tifosi inglesi). In Germania - che è senza dubbio l’avanguardia europea per quanto riguarda l’organizzazione del calcio e degli stadi - oltre ai prezzi veramente popolari in ogni impianto esistono settori per chi vuole tifare, vedere la partita in piedi, portare la bandiera; negli Stati Uniti esistono i settori per i tifosi più accesi; e proprio in questi mesi anche nella stessa Inghilterra, dove pure gli "stadi-teatri" sono riusciti a farli funzionare, stanno ripensando all’organizzazione degli impianti, proprio per salvare il colore e il calore degli stadi.

Dappertutto, dove si ragiona e si lavora, si arriva alle stesse conclusioni: ossia che la partecipazione popolare alle partite, a qualsiasi evento sportivo, è fondamentale, imprescindibile. Dappertutto, tranne che in Italia, dove si è deciso che fosse molto più comodo impedire ai tifosi di andare allo stadio, piuttosto che doversi dare da fare per organizzare gli eventi sportivi.

Sul fronte dell’ordine pubblico, nel frattempo, l’unica soluzione praticata è stata quella di militarizzare l’ambito della partita, dal momento che ciò garantiva la possibilità di scaricare i costi sulla collettività, con reparti di celere sempre più malinconicamente duri e ultras sempre più esacerbati e incattiviti, anche per la direzione inutilmente repressiva (e in parte persecutoria) che la situazione ha imboccato sul piano legislativo.

Dopo l’annus horribilis 2007, segnato da due morti tragiche, prima quella dell’ispettore Filippo Raciti a Catania, e poi quella del tifoso Gabriele Sandri, ucciso da un poliziotto dopo un tafferuglio in un autogrill della A1 - eventi tragici che ebbero in più l’effetto di portare la tensione tra ultras e forze dell’ordine e istituzioni a livelli mai visti prima -, finalmente ci si è resi conto che la situazione era divenuta insostenibile.

Ma ancora una volta si è deciso di proseguire in maniera incongrua, cercando in modo patetico di mettere in sicurezza gli stadi con tornelli improvvisati e reti da pollaio, instaurando la consuetudine del divieto di trasferta e la delirante prassi della vendita dei biglietti ai soli residenti nel luogo in cui si gioca la partita (pratica che non viene attuata in nessun Paese al mondo, per nessuna manifestazione). Repressione, vincoli, limitazioni, e nessuna, dicasi nessuna strategia di marketing, nessuna iniziativa vera per portare la gente allo stadio: anzi, biglietti sempre più cari, per assistere a spettacoli sempre più brutti in stadi sempre più squallidi.

Infine, e anche questa è una particolarità tutta italiana, nel 2010 si è arrivati alla ormai famigerata "Tessera del tifoso": un obbrobrio giuridico, una speculazione economica e una schedatura di massa che provoca già oggi, e provocherà sempre più in futuro, conseguenze negative per il calcio italiano. In primo luogo quella di aver dato - checché ne dicano le fonti "ufficiali" - un colpo durissimo, l’ennesimo, forse quello definitivo, alla partecipazione del pubblico dal vivo all’evento calcistico.

Grandissima, e gravissima, in questo quadro, la responsabilità dell’informazione italiana, che si è spudoratamente e incomprensibilmente appiattita sulle verità ufficiali, alimentando una distorsione sistematica della realtà, lasciando la briglia sciolta ai peggiori distributori di luoghi comuni, gonfiando smodatamente episodi insignificanti, trasmettendo in modo sistematico una visione della realtà completamente falsa, con l’apologia dei bei tempi andati, riferendosi agli anni Settanta e Ottanta, quando, secondo i nostri giornali, "si andava allo stadio con il fiasco di vino e la pagnottella", mentre chiunque gli stadi li abbia frequentati davvero sa che la violenza allora era enormemente maggiore rispetto a quella dell’ultimo decennio. Recentemente si sono toccati livelli di distorsione della realtà da informazione da regime totalitario, raggiungendo in alcuni casi dimensioni ai limiti del surreale, come nella incredibile "ricostruzione" della trasferta dei napoletani a Roma dell’agosto 2008…

Così la gente, il pubblico, a poco a poco se ne è andato.

A forza di blaterare che bisognava riportare le famiglie negli stadi, le famiglie, che prima allo stadio ci andavano eccome, hanno smesso di andarci. Ma tanto era colpa degli ultras, lo dicevano tutti. Ogni giorno, ogni domenica che trascorreva dimostrava che non era così, ma era una buona formuletta di comodo, e tanto bastava. E, ancora oggi, tanto basta.

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Libia, è tornato il calcio. Armato

La sfida fra Tripoli e Misurata finisce con gli spari al mister

Il caos del Paese testimoniato anche dal barbaro episodio, vittima e

sopravvissuto il tecnico dell’Al-Ahly. Il torneo era appena ricominciato

di UMBERTO DE GIOVANNANGELI (l'Unità 24-10-2013)

I CAMPI DI CALCIO TRASFORMATI IN CAMPI DI BATTAGLIA. LE CONTESTAZIONI SI TRASFORMANO IN PALLOTTOLE. IL CAOS LIBICO IRROMPE ANCHE NELLO SPORT. Un caos armato. La cronaca racconta che l’allenatore egiziano Hossam El-Badry, attualmente alla guida del club della massima serie libica Al Ahly di Tripoli, è sfuggito, nei giorni scorsi, a un attentato mentre stava rientrando nella capitale dopo un incontro di campionato disputato a Misurata. Il fatto, reso noto dalla polizia locale, è avvenuto qualche ora dopo la fine della partita del campionato libico che l'Al-Ahli aveva pareggiato per 1-1 contro l'Al Sowaihili. «Il nostro allenatore è salvo ma sotto choc per quanto è avvenuto. Sull'accaduto è già stata aperta un’inchiesta», ha precisato un portavoce delle forze dell'ordine.

Il 53enne Al Badri ha portato l'Al-Ahli egiziano, squadra della capitale Il Cairo, alla conquista della Champions League africana nel novembre dell'anno scorso, poi ha lasciato il club a maggio di quest'anno per andare in Libia. L'attentato rende più difficile il progetto della Libia di ospitare la Coppa d'Africa del 2017. Secondo il sito dell'Al-Ahly, tre persone hanno aperto il fuoco contro la sua auto. L'allenatore è riuscito a raggiungere un vicino posto di polizia. Salvo per miracolo, dunque. Ma quelle pallottole lasciano il segno. E danno conto di un Paese che non riesce a ritrovare una parvenza di normalità neanche nell’ambito di quello che resta lo sport più seguito in Libia. Quello tra Tripoli e Misurata è più di un derby calcistico. È una prova di forza che va ben oltre la rivalità sportiva. Tra gli ultras dell’Al-Sowaihili vi sono miliziani che hanno partecipato attivamente alla rivolta armata contro il regime di Muammar Gheddafi. Così come sono in molti a ricordare che il Colonnello e i suoi figli erano sostenitori, e finanziatori, dell’Al-Ahli.

D’altro canto, fin dagli anni pre-rivoluzionari, le formazioni più forti del campionato libico furono le squadre tripoline Al-Ahli e Al-Ittihad, rispettivamente Nazionale e L’Unione, intervallate dalle rivali squadre di Bengasi. Anche sul calcio, infatti, si riversavano le tensioni tra le due principali regioni libiche, la Tripolitania e la Cirenaica, la prima tendenzialmente favorevole a Gheddafi, la seconda da sempre terra fedele al deposto Re Idris al Senussi. Ma alla fine, anche il calcio libico si è ribellato al Colonnello. Diciassette personaggi di primo piano del calcio libico, tra cui alcuni esponenti di primo piano della Nazionale, si sono infatti uniti alla rivolta contro Gheddafi. Era il 25 giugno 2011. La defezione dei calciatori è solo l'ultima a colpire le file del regime del colonnello Gheddafi, già abbandonato da ministri, diplomatici, alti ranghi militari. Tra i calciatori che defezionano, ci sono quattro nazionali, uno dei quali è il portiere Juma Gtat, oltre all'allenatore dell’Al-Ahli, Adel Bin Issa. «Chiedo al colonnello Gheddafi di lasciarci in pace e permetterci di costruire una Libia libera», le parole di Gtat, mentre Bin Issa spera di svegliarsi «una mattina e scoprire che Gheddafi non c'è più». I due si sono uniti ai ribelli delle Montagne Nafusa. Per vent'anni, Saadi Gheddafi, il figlio del Rais ha controllato col pugno di ferro la nazionale libica. Autoproclamatosi capitano della squadra, maglia numero 11, dittatore dello spogliatoio, Saadi decideva le formazioni, gli schemi da adottare, le sostituzioni, i castighi e le epurazioni. «Se un compagno gli mancava di rispetto - ricorda l'ex portiere Samir Abud - gli faceva pagare l'affronto a caro prezzo». «Era piuttosto scarso coi piedi», rammenta l’ex compagno Abud. «Ma sul campo era un megalomane: si presentava agli allenamenti sotto scorta, convoglio blindato e guardie del corpo che circondavano lo stadio». Nessuno doveva giocare meglio di lui, nessuno doveva metterlo nell’ombra. Anche questo era il calcio in Libia. Blindato. Armato. Oggi come ieri.

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Uefa must finally make

a stand against bigots

by TONY EVANS (THE TIMES 24-10-2013)

There is never a good time to be racially abused. That much was clear from the reaction of Yaya Touré during and after the match against CSKA Moscow. He attempted to draw the attention of the referee to the monkey chants and gestures directed towards him by a section of the crowd during the game and railed at racist behaviour in the subsequent press conference.

The timing, though, may be fortuitous. This, after all, is Uefa’s Football Against Racism in Europe Action Week. Touré, like every captain in Continental competition, took to the pitch wearing an antidiscrimination armband. “No to racism,” it said. The message was not absorbed in the Khimki Arena.

Uefa is good at superficial gestures. The players passed around a pennant with an inclusive message. It provided a touchy-feely image for the cameras, but it wasn’t action. Banners hung around stadiums give the illusion that European football’s ruling body is at the forefront of the struggle against prejudice. It is not.

Last night showed action week for the joke it is. The Uefa Congress adopted an 11-point anti-racism resolution in May and has made smug videos to illustrate how hard it is working, but no one fears Uefa sanctions because time and time again racist incidents have been ignored and downplayed.

Only yesterday, Uefa downgraded a punishment against Lazio handed down after incidents in the Europa League against Legia Warsaw last month. Originally, the Italian side were ordered to play Apollon Limassol behind closed doors because fans displayed offensive banners and chanted racist songs.

Yesterday, Uefa backtracked. Only one section of their stadium will be closed. It was a strange message to send out during action week, especially as it involves Lazio fans who have taken a scattergun approach to discrimination over the years. Black players, Jews, Slavs have all been targets. Perhaps Uefa has decided that Lazio are equal opportunity bigots.

In Eastern Europe, black players frequently run the gauntlet of hate. Russia, which hosts the World Cup in five years’ time, has seen repeated incidents of racial abuse over the years. It appears not to bother Fifa. The question is: will it trouble Uefa?

This is an opportunity for Michel Platini to provide real leadership. Instead of worthless edicts and PR-friendly videos, Uefa needs to show real resolution and hand out punishments that encourage clubs to take responsibility for their fans’ behaviour. Paltry fines and partclosures of stadiums are not enough to discourage the morons.

Last night should be a tipping point. For action weeks to mean anything, there needs to be action. How Uefa deals with the Touré incident will tell us just how much it cares about stopping racism.

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Sui Mondiali l'incubo

TERRORISMO

È la minaccia della più feroce gang di narcos di San Paolo. Che

ha già organizzato un attentato contro il governatore della città

IL LEADER SI VANTA DI AVER LETTO 3 MILA LIBRI IN CARCERE.

E RACCOMANDA AI SUOI UOMINI "IL PRINCIPE" DI MACHIAVELLI

di ANGELA NOCIONI (l'Espresso | 31 ottobre 2013)

Vai ser a Copa do mundo do terror. Sarà la coppa del mondo del terrore. Il tono è beffardo, ma la minaccia è serissima. La pronunciano in una concitata conversazione telefonica due capi di medio livello del Primeiro comando da capital (Pcc), la principale organizzazione di narcotrafficanti del Brasile con 11 mila uomini disponibili, 7 mila dei quali su piazza a San Paolo, oltre ai 130 mila affiliati detenuti. Il gruppo è noto per possedere un arsenale fornitissimo di armi da guerra tecnologiche, della cui potenza ogni tanto dà spettacolari saggi con l'abbattimento di elicotteri colpiti in volo durante battaglie con i gruppi di élite dell'esercito, il famoso Bope (il battaglione delle operazioni speciali).

I due narcos intercettati mentre parlano da un cellulare all'altro dalle celle del carcere Presidente Venceslau, a ovest di San Paolo, svelano i dettagli di un piano di attacco militare allo Stato durante i Campionati del mondo di calcio dell'anno prossimo. L'informazione è confermata da altri dialoghi ascoltati negli ultimi mesi dall'intelligence della polizia paulista. «Stanno trasmettendo ordini espliciti al cellulare perché vogliono che si sappia», dice uno dei 23 investigatori del Grupos de Atuação Especial e Repressão ao Crime Organizado che ha diretto l'inchiesta.

Da stralci di intercettazioni pubblicate dal quotidiano "Estado do Sao Paulo", si deduce che la minaccia ha lo scopo di ricattare le autorità e impedire il trasferimento della cupola del Pcc dalle prigioni normali al Regime Disciplinar Diferenciado, corrispondente del nostro carcere duro previsto dall'articolo 41bis.

La strategia per il Mondiale prevede una escalation. Prima una protesta di massa nelle carceri non appena la cupola del Pcc dovesse essere trasferita a condizioni detentive più dure. Poi, in caso di conferma della misura, attacchi militari nelle grandi città e guerra aperta a esercito e polizia. Il Pcc conosce bene le carceri, è nato come organizzazione criminale nella Casa di custodia di Taubatè, la grande prigione di San Paolo e si è scelto, come evento fondativo l'uccisione di 111 detenuti il 2 ottobre del 1992 nel carcere di Carandirù durante un intervento della polizia. Da lì, la costruzione mitica dell'obiettivo sociale della narcobanda che si spaccia nell'immaginario suburbano come una rete di "Robin Hood" votata a combattere la respressione nelle carceri, quando è in realtà una potente e feroce organizzazione per far quattrini con varie attività illegali. E le riesce bene. Solo con la vendita delle droghe a San Paolo guadagna più di 5 milioni di dollari al mese. Poi c'è il settore immobiliare e la grande impresa, nemmeno tanto sotterranea, dei trasporti informali. La maggior parte dei piccoli pullmini che vanno zigzagando per le metropoli brasiliane sono controllati dal Pcc (che offre anche un innegabile servizio perché i mini van collegano al centro città 24 ore su 24 zone non sempre servite dal trasporto pubblico dove vivono milioni di persone). Primeiro comando negli ultimi cinque anni ha guadagnato grandi fette di mercato a discapito del vecchio gruppo narco di Rio de Janeiro, il Comando Vermelho (comando rosso) grazie al cambiamento delle rotte del narcotraffico: San Paolo con i suoi 11 milioni di abitanti è diventato il principale mercato di droga del Brasile.

La diffusione del contenuto delle intercettazioni telefoniche sta creando grande tensione nei preparativi, già caotici, della gestione dell'ordine pubblico durante i Mondiali. Dopo la relazione sui risultati dell'inchiesta, il comandante generale della polizia militare, colonnello Benedito Roberto Meira, ha messo in stato d'allerta tutti i battaglioni. «Temiamo la guerra aperta», dice un ufficiale del distretto centrale di polizia di Rio de Janeiro. Non si possono garantire contemporaneamente la libera circolazione e la sicurezza, quando c'è una ondata di attacchi in corso. C'è bisogno di isolare zone, di chiudere strade. E come si fa durante la Coppa del mondo? Sarà come durante il Carnevale di Rio. Cosa facciamo, la guerra metropolitana con il Carnevale in corso?».

Il potere di ricatto di una organizzazione in grado di mettere in scacco l'esercito, anche se per un breve periodo, nei giorni del Mondiale è enorme. Una recente prova della capacità di fuoco del Pcc la si è avuta l'anno scorso quando San Paolo è stata teatro di attacchi mirati alla polizia militare: 106 agenti uccisi. Uno dei sostenitori del carcere duro per i capi narcos è attualmente il governatore di San Paolo, Geraldo Alckmin, che ha scelto come cavallo di battaglia della sua politica di sicurezza la tolleranza zero ai privilegi concessi ai detenuti ricchi nelle carceri, cominciando dalla necessità di impedire loro di entrare in possesso dei telefoni con i quali continuare a governare l'organizzazione dentro e fuori dalle prigioni. La polizia sostiene di aver sventato un attentato contro di lui preparato dal Pcc la settimana scorsa.

Le intercettazioni disegnano una relazione fitta di collaborazione e ricatto reciproco costante tra i detenuti del Pcc e molti poliziotti. Risulta diffusa la pratica di sequestri lampo in caserma di persone legate ai narcos, fermate con qualsiasi scusa e trattenute finché la negoziazione con i capibanda chiamati a pagare un riscatto non si è conclusa. In alcune telefonate si ascoltano anche agenti della Deic, la Delegacia Estadual de Investigações Criminais, offrire a membri del Pcc archivi di computer e pen-drive requisiti durante operazioni.Tra gli intercettati c'è anche Marco Williams Herbas Camacho, che in Brasile tutti conoscono come "Marcola" o come "Playboy", il capo del Pcc. In una sua conversazione registrata qualche mese fa si vanta di aver ripulito le carceri di San Paolo dal crack. «È merito mio se quella M***A non gira più in cella», dice. Marcola, 45 anni, nato nella periferia di San Paolo, ha passato la metà della sua vita in carcere. Ha cominciato come scippatore in un sobborgo paulista. Ha studiato in carcere dove si vanta di aver letto 3 mila libri. Recita a memoria passaggi dell' "Arte della guerra" del cinese Sun Tzu. Ogni tanto cita Trotsky e Lenin. Raccomanda ai suoi uomini di leggere "il Principe" di Machiavelli. Durante l'ultimo Mondiale ha fatto spedire nel carcere di Avaré, nell'estrema periferia di San Paolo, 60 televisori giganti perché i detenuti potessero seguire le partite. "Paga o Pcc", era il tam tam di cella in cella.

È diventato il capo nel 2002. La mossa vincente per lui è stata quella di capire che il traffico di droga era miglior affare dei sequestri di persona. Ma quando si è aperta la guerra per il controllo del mercato si è imposto per le sue qualità politiche, prima che per le sue doti militari. Ha saputo far trattare la pace tra diversi gruppi rivali. E grazie a questa capacità di mediazione ha consacrato il suo ruolo di leader.

Il Pcc ha una organizzazione che prevede addirittura tribunali interni oltre a una direzione centrale (che si chiama Sintonia Final Geral), ma rimane l'insieme di tanti piccoli venditori al dettaglio armati. Una nebulosa che, all'occorrenza, sa muoversi come un esercito. Non è facile da combattere se dichiara guerra.

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il Giornale 25-10-2013

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Stadi italiani?

Steward pagati poco

e tanti Daspo fantasma

A Napoli guadagnano 15 euro, alla Lazio lavorano gratis

Così il biglietto nominativo non funziona, come le diffide...

di ALESSANDRO CATAPANO & MARCO IARIA (GaSport 25-10-2013)

Alla signora Paola, che ha avuto il coraggio, per qualcuno addirittura l’incoscienza, di portare la figlia sedicenne a vedere il Milan nel settore ospiti dello Juventus Stadium, poteva anche andare peggio. Non è un tentativo di minimizzare quanto le è accaduto, è solo una triste constatazione della realtà degli stadi italiani. Paola, ad esempio, non sa cosa è capitato agli steward in servizio nel settore ospiti dell’Olimpico durante l’ultimo Roma-Napoli: schierati lungo la barriera che divideva le due tifoserie, i malcapitati si sono beccati gli insulti, le cinghiate e, pensate un po’, gli sono piovute addosso buste piene di urine ed escrementi. Le avevano confezionate gli ultrà del Napoli ed erano indirizzate ai «colleghi » romanisti, ma il lancio non ha superato le barriere e le buste si sono infrante sugli steward.

Steward L’episodio ci deve stupire? Scandalizzare? Oppure ci lascia indifferenti? Ci si stupisce del fatto che nessuno nelle curve rispetti il posto che gli è stato assegnato e, giustamente, ci si chiede a che serva allora il biglietto nominativo, introdotto nel 2005. Due anni più tardi la normativa ha introdotto anche la figura degli steward. Toccherebbe a loro far rispettare la legge nelle curve, ma non hanno né la voglia né la forza per farlo. Spesso sono dei disgraziati che lavorano (e che lavoro!) otto ore per pochi euro: 15 lordi a Napoli, dai 25 a 35 alla Roma, zero alla Lazio. Lotito in cambio gli concede di vedere la partita (e non potrebbero nemmeno farlo). Guarda caso, solo dove sono pagati decentemente gli steward riescono ad avere voce in capitolo nelle curve. Quelli dell’Inter, per esempio, li gestisce una società privata e guadagnano anche 180 euro a partita. La signora Paola ha denunciato cose che molti di noi conoscevano già. Non sono fatti che producono sempre violenza (tanto che i cosiddetti «reati da stadio» dentro gli impianti sono diminuiti: ora si picchiano e si accoltellano fuori), ma non possiamo definirli civili.

Rapporti ambigui Né possiamo pensare di civilizzare le curve se i club non taglieranno una volta per tutte i ponti con i violenti. Fabio Capello qualche anno fa disse: «Le società di calcio sono in mano agli ultrà». A Roma, una volta Cragnotti regalava 800 biglietti a partita agli Irriducibili, il gruppo che guida la curva Nord. Claudio Lotito è sotto scorta per avergli chiuso i rubinetti. In curva Sud, tempio del tifo romanista, fino a qualche mese fa si poteva entrare anche senza biglietto, o con un tagliando vecchio: bastava trovare la complicità di uno steward o la disattenzione di un poliziotto. I dirigenti del Milan, dopo le minacce subite in passato, hanno riavviato i contatti con gli ultrà rossoneri. Il parcheggio di San Siro per le partite dell’Inter è stato gestito a lungo da Franco Caravita, fondatore dei Boys, incriminato anche per tentato omicidio. A Bergamo, storicamente, società e ultrà fanno fronte unico. A Napoli assicurano che i biglietti per le trasferte europee finiscano sempre agli stessi gruppi. E la curva A del San Paolo è governata dalla malavita organizzata, libera di fare i propri affari, dal bagarinaggio in su.

Daspo e dintorni Così i biglietti finiscono, in certi casi, anche a chi in uno stadio non può metterci piede, perché vittima di un Daspo (Divieto di accedere alle manifestazioni sportive), misura introdotta nel 1989, poi modificata dal decreto Amato del 2007. Come è possibile? Le vittime di Daspo in Italia sono decine di migliaia ma per le solite lungaggini burocratiche il Centro elaborazione dati della Polizia riesce a registrarne solo una piccola percentuale. Col risultato che tutti gli altri «diffidati», se volessero, potrebbero presentarsi in qualsiasi ricevitoria, richiedere la Tessera del tifoso e sottoscrivere un abbonamento o andare in trasferta. In quanti lo avranno fatto? Anche questo è normale o ci si può indignare un po’?

ALL’ESTERO SETTORI PER TUTTE LE TASCHE E CONTROLLI EFFICACI

Standing area in Germania e tecnologie inglesi

di ALESSANDRO CATAPANO & MARCO IARIA (GaSport 25-10-2013)

Altrove sanno bene come trattare i tifosi da stadio reale. Perché sono coscienti che non bastano i soldi dello stadio virtuale per tenere in piedi il sistema. La Germania, che non ci stancheremo mai di prendere ad esempio, ha trasformato i suoi impianti col Mondiale 2006 immaginandoli come un contenitore buono per tutte le tasche e tutte le esigenze.

Trasformazione Così sono state concepite le cosiddette «standing area», settori dello stadio con posti in piedi, spartani, economicissimi. Il costo è di 78 euro a partita, l’atmosfera è caldissima, per qualcuno la sicurezza non è il massimo, a ogni modo questi settori rappresentano una valvola di sfogo per chi vuole vivere la partita in certe condizioni. Il trucco è prevedere servizi ad hoc, equiparati alle tariffe. In Germania si pensa a ogni categoria di sostenitori: ci sono i settori per le famiglie, dove si respira aria di festa e si può stare davvero tranquilli; ci sono le poltroncine extra-lusso per i tifosi più abbienti che non vogliono rinunciare al massimo delle comodità.

Oltremanica In Inghilterra, all’interno degli impianti, regnano ordine e disciplina. Provvedimenti figli del Taylor Act che hanno cancellato l’hooliganismo trasferendo però le botte fuori dagli stadi: perché il calcio resta pur sempre un pretesto per fare a cazzotti e scatenare le tensioni. Oltremanica la figura dello steward è diversa rispetto all’Italia. Gli addetti alla sicurezza pagati dalle società inglesi hanno maggiori poteri e mettono davvero paura anche ai più scalmanati. Un efficace sistema di controllo e di identificazione, attraverso le tecnologie, fa poi il resto. Il risultato è che dentro uno stadio inglese non vola una mosca e non esistono zone franche. Si sarà un po’ persa la magia di un calcio «casereccio», ma almeno gli spettatori non devono temere il peggio.

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Quei campioni messi sotto tutela

Da Vieri a Piqué, club ossessionati. Rivera: “E in campo chi controlla?”

Pedinamenti e telefonate anonime. In Israele una agenzia conserva 50mila dossier

di ENRICO SISTI (la Repubblica 25-10-2013)

Basler stava facendo ammattire Trapattoni. Sempre più spesso l’uomo scombinato prevaleva sul calciatore talentuoso. Giocava partite spettrali. Mario venne messo al guinzaglio: un professionista selezionato dal Bayern ebbe l’incarico di capire quanto tempo e quanta testa il giocatore dedicasse alle sue beghe private, con ampia dispersione di energie mentali ed emotive. Lui se ne accorse: porca miseria, ma c’è qualcuno che mi sta seguendo! Pensò alla fidanzata gelosa, a un paparazzo, a un errore di persona, a un matto. Si racconta che fosse una pratica insolita ma a volte necessaria: «Riceviamo spesso telefonate anonime che segnalano comportamenti poco seri da parte dei giocatori, ma per metterli di fronte al fatto compiuto ci servono delle prove», disse Uli Hoeness. Le prove non arrivarono. Trapattoni confermò il clima di sospetti e prima di trasferirsi alla Fiorentina allargò addirittura i confini: «In passato, nelle società che ho allenato in Italia (Milan, Juventus, Cagliari e Inter fino a quel momento, ndr), non era prassi inusuale tenere sotto controllo gli elementi più birichini. A essere investito dell’incarico era spesso un dirigente».

«Se ne parlava», ammette Gianni Rivera, «che ci fosse qualcuno dello staff che controllava l’esistenza di noi calciatori fuori dal campo e poi riferiva: per me sono rimaste fandonie, roba per incuterci timore». Però continua a succedere: «Balotelli? Non lo conosco personalmente», prosegue Rivera, «ma mi chiedo: e in campo quale tutor lo controlla?». Almeno qui l’affido è conclamato. Non c’è uno spione nascosto dietro la siepe con barba posticcia, naso di gomma occhiali di plastica e cane finto, bensì un ex-poliziotto (Filippo Ferri) su cui pesa una condanna per il G8 di Genova, il figlio dell’ex ministro dei 110 all’ora, un “private eyes” chiamato a un compito abbastanza imprecisato: Ferri deve impedire a Balotelli di fare cosa quando come perché quanto dove? Chi decide?

Deve farlo mangiare? Deve ordinargli di lavarsi i denti, non usare il telefono quando guida, stare attento a dove butta l’immondizia? Gli paga le multe? E poi: è sorveglianza solo fuori dal campo? E dove finirebbe il campo? Per esempio: che potere avrebbe avuto il “tutor” quando Mario, dalla sua stanza, nel centro tecnico del Manchester City, cominciò «per noia» a lanciare freccette dalla finestra contro i ragazzi delle giovanili del club? Confini e limiti d’intervento misteriosi. La paura di non controllare è spesso peggiore del danno che un calciatore rischia di procurare al suo club con un mojito di troppo. Un indefinibile terrore dell’ignoto spinse Moratti e Tronchetti Provera a piazzare su Christian Vieri una lente d’ingrandimento grande poco meno di Milano (Tavaroli) e poi li costrinse a risarcire il giocatore, caduto anche per altri motivi in uno stato di prostrazione. Guardiola si sporcò l’immagine quando si seppe che l’agenzia “Metodo 3” aveva ricevuto da lui l’incarico di pedinare Piqué durante i primi abboccamenti con Shakira (chissà perché tutti pensavano che lo avrebbe condotto rapidamente all’inferno...) e forse anche Messi: come se marcare stretto Messi fosse facile. Da ct della nazionale inglese, Fabio Capello ebbe la tentazione di limitare drasticamente certe libertà “social” dei suoi prima dei Mondiali in Sudafrica: salvo poi scoprire che qualcuno spiava tutti loro dentro un hotel dell’Hertfordshire. «Per noi il caso non esiste», precisa Lotito, «noi della Lazio facciamo selezioni preventive sulla base di qualità tecniche e morali». Quindi la Lazio li spia prima? In ogni caso chi volesse il Philip Marlowe del pallone sappia che esiste l’agenzia perfetta. È nascosta in una palazzina anonima di Raman Gat, un quartiere nord di Tel Aviv: si chiama Im-Scouting. Lo considerano il Mossad del calcio. Nei suoi archivi ci sarebbero 50 mila schede di calciatori provenienti da 45 campionati nazionali. Seguire un terzino costa dai 15 ai 24 mila euro. E aspettano sempre che sia lui a commettere fallo.

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Il controllo di Balotelli

di STEFANO OLIVARI (blog.guerinsportivo.it 25-10-2013)

‘Realtà romanzesca’ è un’espressione da rotocalchi di una volta, ma andrebbe benissimo per la vicenda del cosiddetto ‘tutor’ che il Milan ha assegnato a Mario Balotelli. Che così non potrà più macchiarsi di crimini gravi come giocare mezzora da infortunato contro il Barcellona o dimenticarsi di indossare la giacca sociale all’uscita. Il tutor provvisorio, in attesa di quello definitivo che sarà nominato fra poco, si chiama Filippo Ferri: ex capo della Squadra Mobile di Firenze e da qualche tempo responsabile della sicurezza del Milan. Ma chi è questo Ferri? Figlio dell’ex ministro socialdemocratico Enrico, nella storia per il limite dei 110 chilometri orari in autostrada (1988), ma soprattutto condannato (Filippo, non Enrico) a 3 anni e 8 mesi di carcere per le violenze della Diaz (G8 2001 a Genova, chi se lo ricorda?) oltre che a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici. Ecco, in un mondo normale il tutor di Ferri dovrebbe essere Balotelli e non il contrario. E siamo ancora in attesa di conoscere il nome del tutor ‘definitivo’. Ma c’è di peggio: la società rossonera sta pensando di affiancare a SuperMario anche un mental coach (e perché non anche un esorcista?). Chissà cos’altro lo aspetta negli otto mesi che ancora lo dividono da Chelsea o Real Madrid.

A partire dal luglio 2015 la Juventus diventerà una squadra Adidas (adesso lo sponsor tecnico è Nike), con accordo che durerà fino al 2021 e porterà nelle casse bianconere quasi 32 milioni a stagione. Il doppio rispetto alla situazione attuale, ma soprattutto una cifra simile a quella che prende Il Manchester United dalla Nike. A seconda dei rilevatori lo United è primo, secondo o terzo nelle classifiche di notorietà mondiale di brand calcistici (a rotazione con Real Madrid e Barcellona), ma non c’è dubbio che sia la squadra più famosa del campionato più seguito del mondo. E i suoi tifosi, come di solito accade nei paesi civili, tendono a comprare merchandising ufficiale. Cosa vogliamo dire? Che la percezione del calcio italiano all’estero non deve essere poi così schifosa se si investe così tanto in un mercato ad alto rischio di contraffazione. Per questo il rapporto di 9 a 1, per la vendita dei diritti televisivi all’estero dei rispettivi campionati, è un insulto all’intelligenza. E per questo Agnelli se l’è presa non poco, pur non potendo dire chiaramente chi fosse l’obbiettivo dei suoi strali. Un altro club Adidas?

La percezione del razzismo cambia a seconda delle zone, anche all’interno dell’Europa. Per questo motivo Yaya Touré è rimasto sorpreso per i cori, ma più che altro per gli ululati e le banane esibite, del pubblico del Cska Mosca durante la recente partita contro il suo Manchester City. Volendo generalizzare e quindi facendo a nostra volta del razzismo, si può dire che nell’Europa dell’Est la sensibilità al problema è inferiore. Romania compresa, visto che l’arbitro Hatagan nemmeno si è reso conto della situazione (ma va detto che allo stadio funziona diversamente che davanti alla tivù e molte cose sfuggono). Le condizione economiche delle popolazioni di mezza Europa portano alla facile previsione che andrà sempre peggio, con la chiusura di curve e stadi che come al solito penalizzerà la parte migliore del pubblico. Se ne uscirà solo quando il calcio perderà questo alone di sacralità, che fa sembrare ogni evento da stadio qualcosa di memorabile e degno di commento. In quel momento i cretini andranno ad esibire la loro cretinaggine altrove, ma non è detto che questo scenario sia un bene per la società nella sua interezza e in fondo nemmeno per il calcio, che rende tollerabili certe partite solo grazie al nostro bisogno di ‘esserci’.

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Se l’arbitro del divorzio

di Cavani si arrabbia...

di SEBASTIANO VERNAZZA (SPORTWEEK 26-10-2013)

Al tribunale di Napoli è in corso la causa di separazione tra Edinson Cavani e la moglie Maria Soledad. Passaggio delicato e doloroso, l’ex coppia ha due figli. Il giudice chiamato a dipanare la questione è Teresa Casoria. Rinfrescata alla memoria: Casoria ha presieduto la corte del processo penale di primo grado ai protagonisti del cosiddetto scandalo di Calciopoli, dibattimento che ha portato alla condanna di Luciano Moggi e altri imputati (l’appello è in corso). La presidente Casoria non è tipo facile, ha un certo carattere. I pm di Calciopoli tentarono di ricusarla, ma l’istanza venne respinta. Quel processo le costò però una censura della Cassazione per aver maltrattato alcuni colleghi: «Mancanza di controllo, aggressività verbale e impiego di espressioni particolarmente offensive», si legge nella sentenza della Suprema Corte, aprile 2012. In particolare destò scalpore una sua intemerata verso un giudice a latere: «Ma tu che ca... vuoi? Che ca... devi leggere? Vuoi fare le cose alla perfezione? Tanto qui finisce sempre tutto con dichiarazioni di prescrizione! Mi avete abboffato le palle!». Difficile prevedere come finirà con Cavani. Può darsi che la giudice Casoria ritenga eccessive le esigenze di Maria Soledad: pare che gli avvocati abbiano chiesto per la loro assistita e per i figli un assegno mensile da 180 mila euro. Può essere però che scatti una sorta di solidarietà femminile per i tradimenti subiti da Maria Soledad, nel qual caso sarà l’attaccante del Psg a ritrovarsi con le “palle abboffate”.

Che teneri ricordi.

Piuttosto che analizzare lo strano caso della tripla ricusazione del collegio giudicante la si butta in caciara. #AbboffamentoVirtuoso

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Le sette sorelle contro l’asse Milan-Lazio

Caccia ad alleati: sguardo a De Laurentiis

di MARCO IARIA (GaSport 26-10-2013)

Dietro l’ultima puntata del suo tenace quanto vano j’accuse nei confronti del calcio italiano e di chi lo governa, c’è uno strano senso di impotenza. Sì, Andrea Agnelli si sente impotente. Sotto la sua gestione il fatturato del club bianconero è schizzato da 156 a 275 milioni, il nuovo stadio ha fatto triplicare le entrate ed è appena stato firmato un sontuoso contratto con Adidas. Eppure Agnelli non può fare a meno di notare che se adesso la Juve è nella top ten mondiale dei ricavi, «il record precedente la poneva tra le prime tre società al mondo». Nell’ultimo decennio l’Italia è stata declassata e se ha ragione Adriano Galliani quando rammenta il valore universale della Premier e il tessuto industriale a supporto della Bundesliga, è pur vero che una buona dose di colpe ce l’ha il sistema stesso. La Figc, prigioniera di veti e particolarismi, ha le sue responsabilità. Agnelli vorrebbe che quantomeno a livello di leghe ci fosse una coesione di intenti. Ma il bersaglio principale è la Lega di Serie A.

Beretta Quando il massimo dirigente della Juve dà il benservito a Maurizio Beretta, sotto accusa non è la persona ma il modello di gestione che la sua presidenza rappresenta. In questi anni le società di A, anziché fare un passo indietro, hanno accentuato l’invadenza nella sfera collettiva, incapaci di capire che solo delegando alcune materie a un soggetto terzo e autorevole si può creare plusvalore. Lo hanno fatto in Inghilterra e Germania dove gli amministratori delegati Scudamore (Premier) e Seifert (Bundesliga) sono liberi di agire e rispondono al board dei risultati raggiunti, come in qualsiasi azienda che si rispetti. La necessità di cambiare la governance della Lega è il collante delle sette sorelle (Fiorentina, Inter, Juve, Roma, Sampdoria, Sassuolo, Verona), che continuano a vedersi. Sono consapevoli tuttavia che la maggioranza costruita sull’asse MilanLazio resta granitica, anche se in passato Aurelio De Laurentiis ha prospettato la presidenza a turno per i club e un manager forte, lo stesso schema evocato da Agnelli. Le dissidenti sperano in un cambio di passo in Lega. Anche per evitare piccoli incidenti diplomatici come quello di ieri: nella proposta di rinnovo del mandato di Infront (che, a proposito del canale Lega, ha precisato come il vincolo sia solo a fare uno studio di fattibilità) si faceva riferimento all’assemblea del 4 novembre, non ancora convocata da Beretta.

Certo, un piccolo incidente: si saranno dimenticati di telefonare a Beretta.

#DimmiAdriano #DimmiClaudio #DimmiMarco

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laProposta

POSTI IN PIEDI LOW COST ALLO STADIO

PERCHÉ ALMENO NON CI PENSIAMO?

di GIANFRANCO TEOTINO (GaSport 27-10-2013)

Posti in piedi. Nostalgia di un calcio che non c’è più. Solo a pensarlo si rischia per passare non tanto per ingenui, quanto proprio per ridicoli. Con la situazione attuale degli stadi italiani ci mancherebbe solo questo. Non c’è già abbastanza casino nelle curve? Non è già così difficile mantenere il controllo nonostante la norma dei biglietti nominativi? Cerchiamo di essere realisti, suvvia...

Eppure, leggendo la lettera che la signora Paola ha mandato l’altro giorno sulla sua domenica allo stadio e poi la bella pagina di approfondimento sulla Ġazzetta di giovedì, la pazza idea si fa strada. Pura utopia? Anche no. In fondo, abbiamo appurato che le curve, nonostante tutti gli accorgimenti legislativi restrittivi degli ultimi anni, restano terra di nessuno. O che i posti seduti e numerati spesso non sono di chi ne ha diritto,madi chi li occupa abusivamente. In più sappiamo tutti benissimo che in curva a vedere le partite seduti ci si sta pochino. E allora perché non provare a fare di necessità virtù?

In Germania, si sa, i posti in piedi ci sono eccome. Lo stadio del Borussia Dortmund ne ha addirittura 27.023 (tutti coperti) su 80.645. Anche l’Allianz Arena del Bayern ne ha 13.500 su quasi 70.000. Per le partite di campionato soltanto, perché l’Uefa li vieta. Quando furono fatti i lavori di costruzione di nuovi impianti e di ristrutturazione dei vecchi in vista del Mondiale 2006, si era deciso di farne a meno. Ma la mobilitazione delle tifoserie, pacifica, non ricattatoria come si usa dalle nostre parti, convinse club e federazione a fare marcia indietro. Naturalmente i prezzi sono popolari, spesso sotto i 10 euro. Biglietti sempre tutti esauriti.

Persino in Inghilterra dove l’abolizione delle standing area fu una delle prime e principali misure adottate in conseguenza del Taylor Act che dichiarò guerra (vinta) agli hooligans, ora c’è chi ci sta ripensando. La scorsa settimana l’Independent ha rivelato che il Manchester United sta lavorando sotto traccia nei confronti di governo, Parlamento e altri club di Premier per ritornare al passato. Certo, avanzare di questi tempi una proposta del genere in Italia può sembrare poco più di una provocazione. Ma, almeno, riflettiamoci. Ad esempio: nel progetto di segmentazione della curva cui sta meritoriamente pensando Galliani per il Milan, accanto magari a un’area riservata alle famiglie, a un’altra, perché no?, alle scuole e agli studenti, perché non riservare anche uno spazio ai posti in piedi? In fondo, non è detto che il coraggio non paghi. La dimostrazione l’abbiamo avuta domenica scorsa a Firenze: stadio in buona parte senza barriere, visita degli ultra rivali della Juventus e giornata molto più tranquilla che in tanti altri stadi considerati meno a rischio.

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Racists should be hit harder

by HUGH McILVANNEY (THE SUNDAY TIMES 27-10-2013)

For far too long the international governors of football behaved as if believing they could tap racism on the shoulder and ask it to go away. Sepp Blatter, the eternally outrageous president of Fifa, once suggested that racist incidents on the field were trivial enough to be resolved with a handshake. Year after year Uefa imposed paltry fines on clubs whose crowds produced vile abuse of black players. And even now that the continental ruling body is reinforcing financial punishment in extreme cases with the partial or complete closure of stadiums to spectators, there is a clear sense of insufficient willingness to reach for the swingeing measures needed.

That certainly is the conviction of the victims, who don’t doubt that the only hope of an adequate response to their maltreatment lies in channelling righteous anger into practical pressure on Uefa and Fifa. Those organisations, and many of their constituent associations, have remained conspicuously un-galvanised by the vicious conduct of the offenders but their tepid policies will be harder to sustain if the men suffering the cruelty begin to express their resentment and disgust with actions as well as words.

When Yaya Toure talked last week about the possibility of a black boycott of the 2018 World Cup finals in Russia, his words would have been widely regarded as nothing more than a far-fetched threat from somebody infuriated by the racist chants directed at him during Manchester City’s Champions League defeat of CSKA inMoscow on Wednesday night. Marshalling a unified protest on such a scale among modern footballers of any colour would be desperately difficult.

Yet it might be a serious error to belittle the cohering effect of the depth of feeling that is gathering in the ranks of black professionals as the campaign against racism continues to rely too heavily on rhetoric and gesture, on banners and armbands and placards held up by players before kick-off. Perhaps it is rash to dismiss Toure’s suggestion that a crisis could be looming and that Russia’s record of race problems makes it a likely setting.

No country has a right to be smug about the capacity of its football followers to inflict sickening racist insults. Thankfully, a number of nations (including, it may be said with cautions against complacency, Britain) can claim impressive progress in countering the malevolence. But across Europe examples still erupt with depressing frequency and there’s no unfairness in pointing out that just as in the west Portugal and Spain have at times earned particular notoriety, so in the east the plague seems disturbingly persistent in some parts of the former Soviet Union, not least Russia itself.

Such behaviour becomes even more egregious if the clubs associated with it choose to be in denial over the facts. We need look no further than recent experiences of Manchester City to find confirmation of that. When Toure and, more extensively, his then teammate Mario Balotelli were subjected to monkey chants while playing in a Europa League fixture at Porto’s stadium early last year, the Portuguese club insisted that what they had heard was the Porto supporters chanting “Hulk, Hulk”, the adopted name of the Brazilian striker who was a local favourite. CSKA had to be suspected of similar effrontery in midweek.

They dismissed Toure’s complaints of monkey-chant abuse, virtually accusing him of imagining his grievance. It was an account of events that couldn’t be reconciled with the spontaneity and vigour of the objections he conveyed on the field to the Romanian referee, Ovidiu Hategan. Initially the Moscow club’s version appeared to receive key endorsement from one of their players, Seydou Doumbia, who has played alongside Toure for Ivory Coast and was therefore considered an influential witness when quoted on CSKA’s official website as saying he heard nothing offensive from fans and that his countryman had “overreacted”. But the credibility of those remarks was apparently crumbling on Friday when a seemingly genuine entry on Doumbia’s Facebook fan page declared he hadn’t spoken to any journalist about the matter, let alone said Toure was exaggerating.

Uefa’s disciplinary proceedings against CSKA on the basis of the “racist behaviour of their fans“, scheduled to be conducted on Wednesday, will involve seeking an explanation of why Mr Hategan did not implement the three- step protocol established for referees dealing with crowd racism. First there should be a warning over the public address system. Then, if the offences continue, a suspension of play and, should the culprits still prove defiant, abandonment of the game. Whatever their pleas, CSKA will probably be punished with some level of stadium closure.

Maybe playing a match or two behind closed doors is sufficient sanction for an isolated offence. But, where there is recurrent racism, bans from competitions would be more appropriately drastic. That degree of severity might properly stimulate the essential enthusiasm for selfpolicing among the fans, an eagerness on the part of a club’s majority of decent supporters to limit deprivation of their enjoyment by effectively discouraging the thuggish bigots in their midst.

Such neanderthals have already caused two celebrated instances of players storming off the field (Kevin PrinceBoateng in Italy and Roberto Carlos in Russia). Surely they can be denied the slightest prospect of precipitating a mass shunning of a World Cup.

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Miccoli: mi fa male se mi urlano mafioso

ROMA – "Mi fa male quando mi urlano mafioso dagli spalti". Fabrizio Miccoli torna a parlare dopo la bufera scatenatasi lo scorso giugno per una sua frase su Giovanni Falcone. "Giustifico i tifosi – dice l’ex attaccante del Palermo in un’intervista a 'Lucignolo 2.0', l’approfondimento Videonews di Italia 1 i onda domenica e di cui sono stati anticipati alcuni stralci – dicendo a me stesso che lo fanno perchè vogliono innervosirmi. Io ho sempre sognato di fare il calciatore, non il mafioso".

Poi precisa: "Non ho mai sentito la sorella di Falcone. Ho provato a rintracciarla insieme con i miei avvocati e il mio procuratore, ho provato a sentire il figlio, ma mi fu detto che era presto e rispetto i loro tempi. Oggi sono pronto a fare qualsiasi cosa per dimostrarle che quella frase che ho detto non la pensavo". Una frase "detta alle cinque del mattino", "no pensata": "ero in macchina con un amico. Una frase involontaria, detta così", "ancora oggi non mi spiego come sia possibile che sia successo che questa storia sia venuta fuori". "Andare via da Palermo – dice – mi ha fatto male. Nella vita tutti sbagliano. Ma sono riuscito a mettere questa situazione da parte, a ripartire". Poi promette: "Vorrei organizzare partite benefiche per raccogliere fondi, qualunque cosa. Se la sorella di Falcone volesse, io ci sono. Questa situazione è la cosa più brutta che mi sia capitata nella mia carriera".

Nell’intervista parla anche della sua ammirazione per Maradona: "Ho tatuato Che Guevara perchè lo avevo visto su Maradona, ma non sapevo chi fosse Che Guevara. A casa ho conservato il suo orecchino che ho comprato all’asta. Spero che Equitalia non venga a prenderlo, mi manca solo quello. Non parlerò mai male di lui, sia come calciatore che come persona. Lui dice le cose in faccia. Non si tira mai indietro. Siamo simili, siamo veri e sinceri. Il gesto dell’ombrello in Rai? Quello è il vero Maradona. Un gesto da ridere. Diego è una persona squisita e disponibile. Mio figlio, non a caso, l’ho chiamato Diego". "Spero di tornare con il Lecce nel calcio che conta – conclude -. Insigne del Napoli mi somiglia".

http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/sport/miccoli-mi-fa-male-se-mi-urlano-mafioso-no664500

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I cinque scudetti consecutivi di Juventus, Torino e Inter

http://www.ju29ro.com/tutto-juve/5257-i-cinque-scudetti-consecutivi-di-juventus-torino-e-inter.html

:interxxx::sventola::interxxx::sventola2:

Modificato da CRAZEOLOGY

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Calcioscommesse Analisi su 200 tra pc e iPhone

Sì alla maxi perizia

per scovare le chat

C’è Doni nel mirino

Il sospetto: frodi concordate online

di ARMANDO DI LANDRO (Corriere della Sera - Bergamo 29-10-2013)

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«Dai, cambia la passwordina...». Nell'autunno del 2011 Cristiano Doni, già indagato, invitava l'amico Nicola Santoni, ex portiere del Palermo e allora preparatore atletico del Ravenna, a modificare il codice d'accesso al suo iPhone. E fu quell'episodio, considerato un tentativo di inquinamento delle prove, a spedire in carcere per cinque giorni l'ex capitano dell'Atalanta. Ma ora gli inquirenti di Cremona, che coordinano da oltre due anni l'inchiesta Last Bet sul grande scandalo del calcioscommesse, vogliono vederci ancora più chiaro, e hanno ottenuto un importante via libera dal tribunale.

Il giudice delle indagini preliminari Guido Salvini ha infatti accolto la richiesta di un maxi incidente probatorio su tutto il materiale informatico sequestrato finora agli indagati, che sono 160. Complessivamente si tratta di 200 «pezzi», tra personal computer e smartphone, buona parte dei quali sono prodotti della Apple. C'è anche il computer che Cristiano Doni teneva sotto braccio all'alba del 19 dicembre, quando vide la polizia percorrere il vialetto della sua abitazione di Torre Boldone, abbozzando una fuga verso il garage, dettata dalla paura del momento. C'è il famoso iPhone di Santoni e non mancano all'appello un telefonino e un computer di Beppe Signori, di Alzano Lombardo, l'ex bomber della Lazio, del Bologna e della Nazionale che fu arrestato all'inizio dell'inchiesta, a giugno di due anni fa. Ma c'è materiale anche su tutti gli ex calciatori dell'AlbinoLeffe coinvolti. Il 10 dicembre il gip conferirà l'incarico a quattro esperti di Brescia, già informati ufficiosamente del lavoro che dovranno portare a termine.

La procura di Cremona è convinta che l'ex capitano dell'Atalanta e altri indagati si accordassero sui risultati e le puntate di denaro grazie a Internet, in particolare tramite il noto programma Skype. Non a caso, secondo l'ordinanza del gip di Cremona, la telefonata del 15 novembre 2011 con l'invito a cambiare «la passwordina», dimostrava che l'ex calciatore nerazzurro e l'amico Santoni erano «in fibrillazione», perché forse c'era materiale da nascondere. Adesso l'obiettivo dell'accusa, anche sulla base di una serie di informative della polizia postale, è scovare e quindi portare all'eventuale processo, le più interessanti conversazioni telematiche tra Cristiano Doni e gli amici del lido di Cervia «I figli del sole», del quale l'allora capitano era socio con Antonio Benfenati, anche lui indagato e protagonista di una telefonata dall'autogrill di Osio Sopra, il 19 marzo del 2011, poco prima di Atalanta-Piacenza. Benfenati chiamava Gianfranco Parlato, ex allenatore del Viareggio, al quale spiegava che «lui» (Doni, secondo i magistrati) era d'accordo «sul 3». E la partita finì 3-0.

Sono molti, però, anche gli episodi che riguardano il gruppo dei bolognesi, di Signori, e i calciatori dell'AlbinoLeffe: due realtà distinte che, secondo l'accusa, diedero un grande impulso alle combine. In particolare, per la squadra seriana, si punterà a svelare il più possibile sulla stagione 2008-2009, quando la squadra guidata da Armando Madonna era ancora in odore di promozione ma fu azzoppata da almeno sei partite combinate.

Si cercano, in generale, alcune conferme, su scommesse illegali al momento solo presunte. Ma gli inquirenti non escludono che da uno screening completo di molti account di posta elettronica, dei profili di Skype e di Facebook, possano emergere altre novità, dando nuova linfa ad un'inchiesta già molto ampia. Lo stesso procuratore Di Martino, in un momento di «scoramento», aveva parlato della necessità di «un'amnistia per il calcio italiano, perché la questione che si pone a questo punto è più politica che giudiziaria», visti i 160 indagati.

DALLE SCOMMESSE ALLA PANCHINA

Gegic, la mente degli «Zingari»

farà l’allenatore in Svizzera

di FURIO ZARA (CorSport 29-10-2013)

Non ci avrebbe scommesso nessuno. Nemmeno lui, che un po’ se ne intende. Almir Gegic farà l’aiuto allenatore nel Rancate Football Club, Canton Ticino, Svizzera, paese neutrale e impermeabile all’indignazione di chi pensa che l’universo-calcio ha perso un’altra occasione per dimostrarsi migliore di quello che è. Almir Gegic è quello che nelle foto degli ultimi due anni compare sempre tra due carabinieri mentre o esce o entra dalla Procura di Cremona, occhi di ghiaccio e sguardo strafottente di chi sa che la farà franca a prescindere. L’uomo è noto alle nostre cronache pallonare e giudiziarie per essere stato più volte individuato come personaggio-chiave di quella che in gergo veniva definita la «banda degli zingari». Sì, stiamo parlando dell’inchiesta calcioscommesse dell’estate 2011. Accusato di aver combinato più di quaranta partite, a lungo latitante e perciò ricercato; il serbo Gegic - ex giocatore del Chiasso - si è consegnato dopo lunga trattativa alla giustizia nel novembre del 2012. Non risulta si sia pentito. Nomi ne ha fatti pochi.

Dell’organizzazione di cui faceva parte, o forse era la mente, ha preferito tacere. Come un pentito reticente, ha ammesso ciò che doveva ammettere, e poco altro. I magistrati che l’hanno interrogato il più delle volte non l’hanno ritenuto credibile. Il Gip di Cremona, Salvini, in virtù del nuovo incarico, gli ha revocato il diritto di espatrio e quindi l’obbligo di presentarsi in questura due volte alla settimana. Salvini ha spiegato che negli ultimi interrogatori: «Gegic ha fatto qualche passo in avanti. Seppur con espressioni volutamente prudenti ha confermato alcuni dei più importanti incontri svoltisi nella primavera del 2011 all'albergo Una Tocq di Milano fornendo conferma alle dichiarazioni rese da Gervasoni e Tisci (coinvolti pure loro, ndr)». Un dirigente del Rancate, club di seconda lega regionale, il ds Marco D’Erchie, ha smentito la notizia. Cioè: Gegic resta un tesserato, ma non allenerà la squadra. Nei documenti del Tribunale di Cremona - però - una proposta di lavoro c’è. E’ un bel mistero. Resta una domanda. Cos’ha da insegnare un truffatore ai giocatori che allena? Bravi. A non truffare più. (Però se ridete la risposta non si capisce).

Per Gegic lo Zingaro

la palla rimbalza ancora

Calcioscommesse Ha ottenuto la quasi libertà e

un lavoro: il vice allenatore del Rancate, Svizzera

I colloqui col giudice Con molta fatica ha ammesso che

ai vertici della cupola c’era il famoso Dan di Singapore

di GABRIELE MORONI (Quotidiano Sportivo 29-10-2013)

Le sue ultime ammissioni, per quanto timorose e preoccupate, sono state significative. In più, detto alla napoletana, Almir Gegic «tiene famiglia». Per questo l’ex calciatore serbo, ritenuto un esponente di punta del gruppo degli «zingari» nella storiaccia del calcioscommesse, ha riacquistato la libertà quasi completa. I difensori Roberto Brunelli e Ugo Carminati avevano chiesto la revoca del divieto di espatrio e dell’obbligo di firma tre giorni la settimana in questura a Cremona. Il gip Guido Salvini ha accolto la prima istanza e ha ridotto a una volta ogni due settimane l’obbligo di presentarsi in questura.

Almir Gegic potrà fare ritorno nel mondo del pallone: allenatore in seconda e consulente tecnico del Rancate, piccola squadra del Canton Ticino, nella zona di Mendrisio, dove militava da calciatore prima che deflagrasse l’inchiesta di Cremona sulle combine nel calcio. La difesa aveva fatto presente che Gegic non è più in grado di provvedere alla moglie e ai due figli (la seconda bambina è nata a Cremona lo scorso maggio) e di pagare l’affitto dell’appartamento che occupa nella città del Torrazzo. L’incarico di quaranta ore settimanali che gli è stato proposto dal Rancate Football Club,risolverebbe il problema abitativo e quello ancora più serio del sostentamento della famiglia. «Mantenere - annota il gip Salvini nella sua ordinanza - il divieto di espatrio e il divieto per Gegic di recarsi pochi chilometri oltre il confine, perdendo così l’offerta di lavoro, risulterebbe ingiustamente e inutilmente afflittivo».Gegic prudente e circospetto negli interrogatori cremonesi, preoccupato di ritorsioni dell’organizzazione su di sé e sulla sua famiglia. «Sofferta e faticosa» (la definisce il gip) anche la deposizione del 19 ottobre. Gegic ha riferito solo una parte delle vicende che lo vedono protagonista, in particolare per la manipolazione delle partite di B, e ammesso circostanze già ampiamente accertate. Ha però fatto «qualche passo avanti». Seppure con «espressioni volutamente “prudenti”», ha confermato alcuni degli incontri svolti in un hotel in zona corso Como a Milano, supportando le dichiarazioni del «pentito» Carlo Gervasoni e quelle, successive, di Ivan Tisci. Stavolta, però, ha fatto di più. «Con molta fatica e in forma talvolta indiretta» Gegic ha puntualizzato chi c’era al vertice della «cupola»: non il suo vecchio amico e sodale, il macedone Hristiyan Ilievski, ma «un “capo” in Asia, verosimilmente a Singapore, che dettava le regole, come ad esempio la priorità di contatti diretti coi giocatori da corrompere prima di pagare compensi e definire accordi».

Un ritratto che si attaglia a Tan Seet Eng detto Dan, il «signore» delle scommesse, di recente blindato dalla polizia di Singapore. Un’ammissione faticosa, frenata da timori colti da Salvini. «Assai probabile, e lo stesso Gegic lo ha riconosciuto, che egli non abbia potuto andare oltre anche per il timore di azioni di “disturbo” cui potrebbe essere esposto non solo lui ma soprattutto la sua famiglia, attualmente in Serbia».

Modificato da Ghost Dog

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