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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Il caso Dopo l’esposto di un gruppo di tifosi nei confronti del giornalista Amandola per il servizio prima di Juve-Napoli
«Odore di napoletani»: per il

pm di Torino non c’è razzismo
«Servizio denigratorio», ma per la Procura sono parole generiche
L’analisi «Vicenda in cui si è prestato il fianco alla peggiore tifoseria juventina»
di LEANDRO DEL GAUDIO (IL MATTINO 19-06-2013)

Non c’è diffamazione, né odio razziale se è impossibile individuare il destinatario di parole offensive. Un principio che vale per una intervista giornalistica, ma anche per i cori da stadio scanditi dalle curve durante un incontro di calcio, almeno secondo quanto sostenuto dal pm di Torino Paolo Borgna. Una vicenda per molti versi nota, che riguarda un servizio firmato da un giornalista della sede Rai di Torino, in occasione del match di andata dello scorso anno tra Juventus e Napoli. Un servizio ritenuto offensivo da alcuni cittadini napoletani, che si affidano al penalista Giuseppe De Gregorio per sporgere querela. Un esposto per molti versi condiviso dal pm di Torino che però non si spinge oltre una dettagliata richiesta di archiviazione nei confronti dell’autore del servizio - il giornalista Gian Piero Amandola -, in cui vengono ripercorsi i punti di alcune interviste incriminate, trasmesse dalla Rai poche ore prima del fischio di inizio. Ma ecco il ragionamento che sta a monte della richiesta di archiviazione: «L’aver confezionato un servizio giornalistico dando spazio alle voci della peggior tifoseria bianconera, prima dell’incontro Juventus-Napoli costituisce senza dubbio operazione di pessimo gusto sotto il profilo giornalistico - ed ingiustamente denigratoria della tradizione e della cultura partenopee -, ma non pare che ciò possa essere seriamente considerato integrare il reato di diffamazione aggravata dalla diffusione di idee fondate sull’odio razziale». In fondo - scrive il pm -, la domanda «distinguete i napoletani dalla puzza, con grande signorilità» pare doversi interpretare come una irrisione delle considerazioni espresse da uno dei tifosi juventini intervistati, per il quale «i napoletani sono come i cinesi».

Si tratta, stando al ragionamento del pm, di affermazioni offensive e gratuite ma con un destinatario generico, lì dove «occorre che sia possibile individuare il destinatario di tali offese». Ma ce n’è anche per un altro argomento, a proposito di quei cori che inneggiano al Vesuvio («lavali col fuoco») nel corso della trasferta del club azzurro a Torino. Qui il pm si affida alle indagini della Digos di Torino, che dopo aver esaminato i filmati non ha attribuito ipotesi di reato a carico dei singoli soggetti. Spiega comunque il pm: «Cori che oltraggiano, insieme al popolo napoletano, la tradizione di civiltà di Torino e gli storici rapporti di fratellanza tra le due città, risalenti all’accoglienza degli esuli napoletani negli anni del primo Risorgimento».

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CONFEDERATION CUP Critiche da Romario e Zico

Fuori i «mercanti»

dai templi del calcio

di CARLO MARIA MIELE (ilmanifesto 19-06-2013)

Qualcuno lo chiama «modello inglese». Altri parlano di gentrification, cioè il processo di espulsione dei poveri dai centri urbani avvenuto nelle città globali degli ultimi decenni. Il risultato è sempre lo stesso: i ricchi entrano negli stadi, chi non ha i soldi resta fuori.

Anche nelle arene del Brasile, la nazione più calciofila del mondo, si sta ripetendo quanto avvenuto in tante parti d’Europa, e in particolare in Inghilterra con i suoi stadi-gioiello inaccessibili a chi a stento ha il denaro per arrivare a fine mese. Un processo inarrestabile, che con l’avvicinarsi dei Mondiali del prossimo anno ha subìto un’accelerazione decisiva. Solo nel 2005 il biglietto più economico per accedere al leggendario Maracana costava poco più di un euro. Oggi la capienza è ridotta a «soli» 79mila posti, e di euro per entrare ne servono almeno 30. Tantissimo se si tiene presente che per buona parte dei brasiliani lo stipendio è ben al di sotto dei 250 euro.

Per il Brasile gli effetti del cambiamento sono di portata enorme, anche in termini sociali. Nella patria adottiva del pallone gli stadi hanno rappresentato da sempre, e più che altrove, un potente strumento identitario, capace di coinvolgere l’intera società brasiliana e ricomporne i contrasti. Durante l’ultima stagione, invece, la media di spettatori è stata di 13mila unità, inferiore persino a quella della Major League of Soccer, il massimo campionato Usa. Poco più di un mese fa il viceministro dello Sport Luis Fernandes ha ammesso che, in qualche modo, la situazione sta sfuggendo di mano: «Il governo è molto preoccupato di quanto sta accadendo e affronterà il problema molto seriamente. Avere stadi socialmente esclusivi come risultato degli investimenti per la Coppa del Mondo non è l’eredità che vogliamo».

Visto così, lo scoppio delle proteste a San Paolo e nelle altre città brasiliane proprio in occasione della Confederation Cup (antipasto del Mondiale che verrà) non può essere motivato solo con l’opportunità di avere una vetrina internazionale da sfruttare. A essere messa in discussione è infatti la stessa Coppa del mondo con i suoi sprechi e la sua concezione elitaria dello sport. A fronte di un’economia che non tira più come qualche anno fa, e di un’inflazione in costante crescita, capace di erodere il potere di acquisto dei ceti meno abbienti, l’enorme spesa sostenuta in opere sportive (in tutto oltre 2,5 miliardi di euro, versati quasi totalmente dagli Stati federali) appare intollerabile.

Al Ronaldo che si fa sponsor e testimonial Fifa rispondono altre vecchie glorie del calcio brasiliano, che sembrano raccogliere l’appello dei contestatori. Secondo Zico, star della nazionale verde-oro degli anni ’80, «la gente appare distante dalla Coppa del Mondo, perché si rende conto della corruzione, degli sprechi compiuti e della mancanza di trasparenza». Così Romario, campione del mondo nel ’94 e attualmente deputato del Partito socialista (Psb). «La Fifa - ha dichiarato qualche tempo fa - viene qui, mette in piedi uno Stato nello Stato, e poi se ne va con 2 o 3 miliardi di dollari tra le grinfie. E poi? Lo stesso denaro poteva essere speso nell’istruzione, nella sanità, cose molto più importanti per il nostro paese». Le stesse preoccupazioni le condividono le centinaia di migliaia di brasiliani che manifestano in queste ore. A Brasilia la ristrutturazione dello stadio Mane Garrincha è costata circa 450 milioni di euro e ha richiesto la cancellazione del museo indigeno, di una scuola e di diversi impianti sportivi minori. A San Paolo, sulla base di uno studio citato dal quotidiano Folha, circa 100mila persone sono state sfrattate dalle loro case a causa dei lavori della Coppa del mondo.

E che ne sarà di queste cattedrali a Mondiali finiti? Dove ci sono più prospettive di «sfruttamento» entreranno in gioco i privati. Il Maracana, ad esempio, a Mondiali finiti passerà per 35 anni dallo Stato di Rio de Janeiro a un consorzio multinazionale, di cui fa parte anche la Aeg di Los Angeles, azienda leader per l’organizzazione di manifestazioni sportive e di intrattenimento. Altri stadi, invece, sono stati costruiti in città in cui nemmeno esiste una squadra di prima fascia, come l’arena Amazonia a Manaus e l’arena Pantanal a Cuiaba, e con ogni probabilità resteranno sul groppone dei governi federali. Uno slogan che gira in queste ore sintetizza il tutto: «Adesso abbiamo stadi da primo mondo. Non ci resta che costruirci un paese attorno».

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FRANCE football | MARDI 18 JUIN 2013

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Napalissiano: se non è pronta, è valida quella dello scorso anno


Il caso Oggi la società avrebbe dovuto presentare alla Federcalcio il documento per il prossimo campionato
San Paolo, niente agibilità.

Il Comune: vale quella del passato
L’assessore Tommasielli: «Arriverà il nuovo certificato, qui anche la Champions»
I lavori L’intervento anticipato dal Napoli che assicura: gli interventi finiranno il 30 giugno
di DARIO SARNATARO (IL MATTINO 20-06-2013)

Il caso, o caos, San Paolo continua. Da un lato c'è il Napoli, che non sa quale stadio indicare alla Federcalcio per il prossimo campionato. Dall'altro c'è il Comune che ritiene valido, ai fini del campionato italiano, il vecchio certificato di agibilità che vale sino al 30 giugno del prossimo anno e che copirirebbe anche la prima scadenza di oggi.

È quasi certo che il nuovo documento non arriverà in giornata. Il Napoli, che sino a ieri sera non sapeva ancora quale stadio indicare, si è rassegnato a operare in regime di deroga. Entro stasera, infatti, il Napoli deve inoltrare alla Figc l'istanza di licenza d'uso di uno stadio per le gare interne del prossimo campionato: allo stato, se non dovesse arrivare il nuovo certificato, stasera il club indicherebbe nel «Renzo Barbera» di Palermo, ovvero l'impianto già indicato ad aprile per accogliere le gare di Champions, ufficiosamente come "riserva" del San Paolo, ma formalmente come primo stadio.

Solo in un secondo momento, a nuova agibilità ottenuta, il club chiederebbe alla Federcalcio di tornare al San Paolo. Al di là della burocrazia, il nuovo certificato occorre per ottenere la licenza Uefa per ospitare le gare di Champions da settembre in poi, così come serve per il prossimo campionato. I delegati Uefa, dopo la fine dei lavori prescritti da mesi, hanno bisogno di verificare i documenti che certificano il buon esito dei nuovi collaudi di idoneità statica, elettrica e di sicurezza.

Ieri l'assessore allo sport, Pina Tommasielli, si è mostrata fiduciosa: «Il Comune già da tempo ha fatto un intervento organico sulle tre agibilità e sta andando avanti per assicurare la prosecuzione dell’agibilità con dei dati e delle prove tecniche di maggiore consistenza. Intanto c'è il vecchio certificato che vale sino al 30 giugno, poi ci siamo già attivati per ottenere sin dal 1 luglio l'ulteriore agibilità. Il campionato si giocherà al San Paolo. Stiamo lavorando per scongiurare l’ipotesi Palermo per la Champions».

Oltre ai lavori di spicconatura, di rifacimento degli intonaci, dei bagni e delle fluviali, si sta procedendo anche al potenziamento dell'impianto di illuminazione, oltre al completo rifacimento del manto erboso e del substrato, secondo le indicazioni dell'agronomo Castelli della Lega Calcio. Opere la cui spesa, 800mila euro circa, è stata anticipata dal Napoli (che dovrebbe poi scontarla del pagamento del fitto dell'impianto), che segue anche l’avanzamento dei lavori stessi. Il Calcio Napoli è certo che la fine dei lavori avverrà, come prescritto dall'Uefa, entro il 30 giugno.

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Col p o r c o in bocca

Fabrizio Biasin - Libero - 21-06-2013

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Ct e panchina nel mirino per bestemmie e risate

STS - Tuttosport -21-06-2013

SALVADOR. In quel delirio che è stata Italia-Giappone. anche la panchina azzurra ha avuto modo di rendersi protagonista in maniera non proprio edificante. E dei due episodi il meno grave è sicuramente la presunta bestemmia che Prandelli avrebbe pronunciato dopo 11 .01 di De Rossi. Il ct. inquadrato dalle telecamere. ha sfogato la tensione con qualcosa di simile a una bestemmia. Questa la sua spiegazione a fine gara: .Non ricordo cosa ho detto, avrò solo esultato. Di sicuro non ho pronunciato la parola Dio. non lo faccio mai. In quei casi al massimo dico zio...-. Riguardando le immagini la sensazione è quella. Non per presunte parolacce. ma per gli atteggiamenti sono finiti sotto accusa alcuni giocatori della panchina. Quando, al 33', gli azzurri hanno subito il 2 gol le telecamere. in panchina si nota la reazione di 4 giocatori (Diamanti, Astori. Marchetti e Bonucci) che se la ridevano di gusto. La spiegazione ufficiale è riferita al fatto che la rabbia di Marchetti stava tacendo ribaltare la panchina e ha scatenato l'ilarità dei compagni.

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Strage di Port Said,
ingiustizia di Stato

Le famiglie dei condannati a morte piangono i

loro figli come fossero martiri della rivoluzione
Non solo tifo, ma Divide et impera: per controllare

la società egiziana lo stato punta sulle rivalità
di GIUSEPPE ACCONCIA (ilmanifesto 21-06-2013)

Lo stadio di Port Said è coperto di graffiti. Verdi, colorati, semi-cancellati o semplici sfregi inneggiano agli ultras dell’Al-Masry (Green Eagles) o sfidano la polizia, come Acab (acronimo di All cops are bastards) che appare ovunque. Più avanti si vedono le sagome di scheletri e pagliacci. Questi cancelli chiusi sono testimoni di due massacri: il primo all’inizio del febbraio 2012, costato la vita a 74 persone, soprattutto tifosi dell’Al-Ahly; il secondo, un anno dopo, per la sentenza che ha condannato 21 uomini alla pena di morte.Ma nessuno crede che i veri responsabili del massacro siano in prigione. «Sono stati prelevati senza motivo, la sera stessa o due giorni dopo la partita, solo perché erano presenti nello stadio o si trovavano nei pressi», ci spiega Mohammedmentre attraversa le strade del quartiere popolare di Al-Arab dove vivono molte delle famiglie dei condannati.

Ragaa Bardari, 27 anni, è rinchiuso nel carcere di Ismailia in attesa della sentenza di appello o dell’esecuzione della pena capitale. «Vogliamo sapere chi è stato, ma non può pagare Ragaa al posto di piccoli criminali o uomini del vecchio regime», ci racconta Sayed Al-Barey, 50 anni, padre del detenuto. Maall’improvviso, in questa minuscola casa in cui si vedono ancora i segni di vetri rotti e sfregi alle mura, risalenti al giorno in cui il giovane è stato prelevato dalla polizia, arriva l’inattesa telefonata del ragazzo nel braccio della morte. Questa famiglia ha connessioni sufficienti per avere contatti quotidiani con Ragaa. La sua giovane moglie scoppia in lacrime. «Odiamo i tifosi dell’Al- Ahly come odiamo il governo», continua Shayma, 22 anni, di cui si vedono solo gli occhi lucenti che emergono dal velo nerissimo. E qui e là gironzolano la madre e la sorella del condannato che mostrano orgogliose le “splendide” foto del loro congiunto. «Siamo stati al funerale delle vittime delle proteste contro la sentenza (del 26 gennaio 2013, ndr)», ci confidano. «Ma quando hanno iniziato a sparare siamo scappate via». Tutta la famiglia continua a giurare l’innocenza di Ragaa. «(Gli inquirenti, ndr) si sono attenuti alla testimonianza di un ufficiale dell’esercito che ha visto mio figlio mostrare uno striscione, ma so che non è mai salito sugli spalti dello stadio dove si è consumato effettivamente il massacro», spiega commossa la madre del condannato.

La rivalità regionale si manifesta nel tifo calcistico con slogan ingiuriosi verso l’avversario come «la città dei vestiti di seconda mano (Port Said ha un fiorente mercato di roba usata, ndr) è priva di uomini». Ma più passano iminuti, più le accuse si fanno concitate e arrivano a toccare anche i Fratelli musulmani, responsabili secondo questa famiglia di avere le prove fotografiche che scagionerebbero il figlio, ma di tenerle nascoste. «È un’ingiustizia: hanno fabbricato delle prove false e tutti conoscevano il verdetto in anticipo, mentre noi eravamo pronti a festeggiare il suo rilascio». Shayma è un fiume in piena, racconta che il suo compagno si è sempre occupato del lavaggio dei corpi dei defunti prima della sepoltura, come una prova inconfutabile di integrità morale.

A due passi da lì, tra i lotti di queste case di pescatori e marittimi, Nasra Fahmi ha preparato un pannello con le foto dei suoi due figli Youssef e Mohammed, di 25 e 30 anni. Sembrano dei martiri della rivoluzione ma in realtà sono solo due fratelli in prigione: uno condannato alla pena di morte, l’altro ai lavori forzati per 25 anni. Il calendario in questa casa poverissima è fermo al 12 febbraio 2012, pochi giorni dopo il massacro, quando questa donna ha visto sparire la ragione della sua vita. Youssef lavorava comemozzo nella nave di un vicino di casa e viaggiava spesso verso il Sudan. «Era in ospedale perché ha problemi al ginocchio, il fratello è andato a prenderlo e si sono recati allo stadio, da quel momento non sono più con me», dice tra singhiozzi la donna. Mostra le foto dei suoi figli da piccoli e racconta delle sue visite in carcere. Come le famiglie di Ragaa e Youssef, ci sono migliaia di persone a dubitare della sentenza che in fretta e furia ha tentato di mettere una pietra sopra la vicenda più sanguinosa delle rivolte in Egitto: gli stessi che hanno manifestato per tre giorni consecutivi, che hanno sfidato costantemente il coprifuoco e che ancora sono pronti a scendere in piazza perché si faccia luce sulle responsabilità dell’assenza dello stato, di polizia e militari.

Per le strade di Port Said, tra magnifici palazzi in stile coloniale dalle verande lignee, circolano indisturbati anche sei evasi. Non si sono fatti trovare in casa al momento dell’arresto e sono stati condannati in contumacia. Tutti sanno dove sono ma nessuno va a prelevarli. «Non c’è legge né autorità, le persone che sono in carcere non dovrebbero essere lì perché non hanno prove nei loro confronti», rivela il giovane che preferisce non rivelare la sua identità. È uno degli evasi costretti a vivere in clandestinità. In merito alle motivazioni che hanno portato a questo stato di cose non ha dubbi: «Hanno sacrificato un piccolo gruppo di tifosi (dell’Al-Masry, ndr) per vendicarsi su un gruppo ben più largo (Al-Ahly, ndr)». E la sua vita non è la stessa dall’inizio del processo. «Sono costretto a fare piccoli movimenti e a passare la giornata con i miei amici più stretti, sento i miei familiari solo al telefono », aggiunge con rassegnazione.

Un muro di gomma e 20 capri espiatori
Il tifo a Port Said è la vita per migliaia di persone. I supporter dell’antica squadra locale si dividono in tre gruppi: i Super Green sono soprattutto giovani di classe media. Il secondo è composto da Green Eagles: studenti che vivono in aree popolari, spesso si tratta di piccoli criminali che girano armati di coltelli. Infine ci sono iMasrawy: il resto del tifo, incluse famiglie e comuni spettatori che prendono parte regolarmente alle partite della squadra di Port Said.Midu, 27 anni, è un capo-ultras del quartiere popolare Ard el-Hazab. «Quel giorno era tutto iniziato come sempre, cantavamo i nostri slogan consueti che ricordano i tifosi dell’Al-Masry del 1952 e il loro ruolo nella resistenza contro gli inglesi: ‘Mio fratello è morto e il suo sogno era di liberare Port Said’, dice uno degli slogan». Secondo molti ultras la maggior parte delle morti sono state causate da soffocamento. Al momento degli scontri il servizio di sicurezza autogestito dai tifosi è risultato inefficace e l’assenza di polizia ha fatto il resto, ma sono tutti pronti a giurare che non si è trattato di un’azione premeditata dei tifosi dell’Al-Masry.

Ines del Centro Mousawa per i diritti umani ha seguito con servizi legali la battaglia dei familiari dei condannati amorte. «Il primo grande elemento di sospetto, che da solo dovrebbe rendere nulla la sentenza di primo grado, riguarda l’assoluzione per insufficienza di prove dei poliziotti che erano presenti nello stadio». Ines ricorda con precisione il giorno del verdetto. «I familiari dei condannati si erano riuniti alle porte della caffetteria Bahreia a 500 metri dalla prigione di Port Said. Nelmomento in cui il giudice ha pronunciato la condanna, due motociclette guidate da poliziotti sono apparse e hanno lanciato una raffica di colpi in aria e sulla folla innescando lo scontro con imanifestanti. A quel punto molte donne sono scappate via, colpite dai gas lacrimogeni», racconta istante per istante Ines. Negli scontri del giorno della sentenza e ai funerali delle vittime sono morte oltre sessanta persone, quasi mille sono stati i feriti. «Molti dei condannati per il massacro del 2012 hanno degli alibi di ferro: Manadil era stato ferito e si trovava in ospedale il giorno del match. La maggior parte dei deceduti ha riportato la rottura del collo, i loro cadaveri erano cianotici, o è stata recisa l’arteria femorale: si tratta di killer professionisti che hanno ucciso a raffica. Molti dei condannati poi hanno 16 anni e non avrebbero potuto commettere un omicidio del genere», aggiunge il legale.

Ines punta anche il dito contro la stigmatizzazione dei tifosi. «Non si diventa killer all’improvviso, se ci fosse stato un solo morto si sarebbero fermati. La massima provocazione che fino a quel giorno avevano perpetrato gli ultras poteva essere di rubare la maglietta dell’avversario non certo di uccidere », continua l’avvocato. La notte del massacro ha segnato tutti a Port Said, ma Ines annovera le incongruenze della vicenda. «La squadra dell’Al-Masry stranamente stava vincendo contro il team più forte del campionato: un evento per la città. Già prima degli scontri una quantità di ambulanze si è diretta verso lo stadio. Poco dopo è andata via la luce, i tifosi hanno preso il microfono tra le mani, i Masrawy hanno issato lo striscione contro gli avversari. Da lontano si vedevano fuochi d’artificio mentre le porte dello stadio venivano irreparabilmente bloccate. La polizia è sparita, a quel punto il caos. Nessuno sa dove siano finiti tutti i corpi dei morti, non ne abbiamo potuti visionare che alcuni». I responsabili del massacro per Ines sono il ministero degli Interni e la giunta militare che ha usato criminali e disattivato la polizia per vendicarsi dei rivali politici: i tifosi dell’Al-Ahly. Secondo Ines, tutto questo è avvenuto proprio a Port Said, al confine con Israele, luogo strategico, dove nessuno sarebbe stato pronto ad accettare l’instabilità di un vuoto di potere se la giuntamilitare avesse immediatamente lasciato governare un esecutivo “rivoluzionario”. L’assenza di sicurezza avrebbe messo a repentaglio gli ingenti interessi economici dei paesi vicini. «E così anche l’approvazione di una legge per il libero scambio nel Sinai sarebbe stata messa in discussione. Ma i militari hanno riaffermato la necessità del loro governo richiamando l’utilità del ritorno alla stabilità», conclude l’avvocato.

Lo scontro tra stato e società
Il massacro di Port Said non è frutto di semplice rivalità calcistica. Un giocatore dell’Al- Ahly ha scagionato un tifoso dell’Al-Masry tra i condannati a morte perché lo ha visto salvare la vita ad alcune persone sul campo da gioco. «Sono uomini vicini al Partito nazionale democratico (Pnd) e poliziotti ad aver sparato», ammettono Ahmed Mohsen e Mohammed Al-Agheiry, attivisti di Tamarrod (Ribelli), che raccolgono firme per le dimissioni del presidente MohammedMorsi. Appare chiaro a questi attivisti illuminati come l’esercito e gli islamisti abbiano usato le differenze religiose, tra cristiani e musulmani o sufi e salafiti, le rivalità regionali e calcistiche, tra città e zone rurali per rendere necessario il ritorno all’autoritarismo di regime. Ahmed e Mohammed ci mostrano un video sconcertante in cui due uomini in borghese sparano alla rinfusa dai tetti di un palazzo del centro contro chiunque passi di là il giorno dei funerali delle vittime. «Tre ragazzi sono morti mentre tentavano di spostare un disabile dalla strada. Ma nonostante l’imposizione di un coprifuoco notturno, le persone sono scese ancora più numerose, qui nessuno sente la presenza dello stato », spiegano. Gli ultras hanno giocato un ruolo centrale nelle proteste del 2011, soprattutto i tifosi dell’Al-Ahly, una delle più antiche squadre in Egitto con una lunga storia di tifo. E così molti hanno sostenuto l’ipotesi di una generica vendetta politica, perpetrata dall’esercito, contro i sostenitori dell’Al-Ahly, usando poliziotti e tifosi dell’Al- Masry come meri esecutori durante l’incontro di calcio tra le due squadre nel febbraio 2012. Nel 2011 in piazza Tahrir si trovavano vari attivisti: giovani, donne cristiane e musulmane, migranti, poveri, lavoratori e gli ultras dell’Al-Ahly. Il Consiglio delle forze armate e i Fratelli musulmani hanno monopolizzato e manipolato questi network alternativi. Il controllo dello stato sulla società è stato riprodotto permettendo un costante ma irrilevante dissenso. Il modo in cui i network alternativi sono stati disattivati dimostra come la distinzione tra stato e società è usata in Medio oriente per produrre e riprodurre il potere del primo. In particolare, questa pratica genera lo sfruttamento del dissenso politico e la diffusione del controllo politico sulla società.

Da Port Said al Sud America
Ma Port Said non accetterà tanto facilmente condanne amorte ingiuste. E neppure le liberalizzazioni imposte dai Fratelli musulmani. Sin dai tempi di Gamal Abdel Nasser, questa è terra di scioperi e movimenti sindacali. I politici islamisti vogliono fare del Sinai una zona di libero scambio dove le leggi egiziane possono essere bypassate per favorire gli investitori stranieri. Questo viene visto dai giovani attivisti che hanno impedito di parlare al ministro degli Investimenti, come l’ennesima ritrazione dello stato che lascerà questa terra priva di finanziamenti pubblici, di scuole e ospedali.

Le verande dell’antica Port Said rivelano i segni del passaggio dei colonizzatori. Anche lungo i moli di Port Said, i giovani guardano alle centinaia di navi che partono ogni giorno. Ma da qui si può solo raggiungere Port Fuad a bordo di un vecchio traghetto verde. Mentre i pescatori si fermano in via Saad Zaghloul, dove nei vicoli, salano le alici. La linea marittima Pan su via Gomorreya promette un imbarco per il Sud America. Nella caffetteria Kalitro, Ahmed Reda, direttore logistico della Cma ci informa che ci sono navi da Damietta agli Stati uniti, mentre la rotta per il Sud America fa scalo a Malta e Rotterdam. Su via 23 luglio ci imbattiamo in una scritta in italiano: «In questa casa d’Italia vive e viene perpetrato lo spirito millenario della patria»: l’iscrizione in marmo glorifica l’epoca sabauda e fascista. Port Said non smette di sorprendere e i suoi abitanti cercano un altrove che l’Egitto del post-Mubarak allontana.

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Il mio regno per
UN PALLONE

Antonio Rosati si muove tra politica e industria. Ma il
suo pallino è il calcio. E dopo il Varese punta sul Genoa

GRAZIE ALLA RIBALTA DELLA SERIE A POTRÀ SFRUTTARE

L’ASCENSORE SOCIALE PIÙ RAPIDO PER RELAZIONI IMPORTANTI
di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 27 giugno 2013)

Calcio, politica e industria metalmeccanica non sono sport per signorine. Antonio Rosati, 44 anni, lo sa per esperienza diretta e da prima di diventare il nuovo vicepresidente esecutivo della squadra più antica d'Italia, il Genoa cricket and football club di Enrico Preziosi.

Con il "Prez", proprietario del Grifone genoano, Rosati ha molto in comune. Lavoratori, ambiziosi e campani, entrambi hanno fatto strada al Nord. Preziosi a Cogliate Milanese con i giocattoli. Rosati fra Cinisello Balsamo, Peschiera Borromeo e Voghera con attività che vanno dai carrelli elevatori alla nautica di lusso (yacht Queens), dal lavoro interinale all'alta moda con il marchio Lorenzo Riva, dalla logistica per la grande distribuzione al business delle pulizie.

Nella partita genoana per adesso non c'è giro di soldi. Nel calciomercato come nelle spa del football va di moda una strana forma di "future": mi impegno oggi, pago domani. Forse. In ogni caso, per evitare problemi di conflitto di interessi, Rosati ha ceduto il Varese al suo sponsor principale, Nicola Laurenza, trentaseienne proprietario di Oro in Euro, catena di 200 compratori d'oro che vale 100 milioni all'anno.

Mentre decide se rilevare quote del Genoa, Rosati non si sbilancia. A chi chiede particolari ripete il suo mantra: «Bisogna lavorare, c'è da lavorare, la mia trattativa con Preziosi è basata sul lavoro». Intanto, a lavorare sul dossier c'è un professionista di fiducia del Prez. È il commercialista ticinese Luido Bernasconi, noto per le sue disavventure con il fisco svizzero, per avere presieduto il Football club Lugano di Preziosi e per essere il sindaco del paesello di fronte a Lugano (Vico Morcote) che ha concesso la residenza a Lele Mora.

Preziosi si dice stanco della routine e dà segni di nervosismo. Un paio di settimane fa, all'uscita da un pranzo con Rosati, il presidente dei rossoblù ha aggredito una troupe giornalistica distruggendo una videocamera. Dal prossimo campionato dovrebbe fare un passo indietro per dedicarsi ai suoi Gormiti in difficoltà e ai suoi debiti lasciando la ribalta ai toni pacati del nuovo dirigente genoano.

Grazie alla ribalta impareggiabile della serie A, Rosati potrà sfruttare l'ascensore sociale più rapido d'Italia verso le relazioni importanti dopo sei anni trascorsi a individuare il veicolo più adatto senza pregiudiziali di tifo.

A imitazione del multiproprietario Preziosi, Rosati ha incominciato con una breve apparizione nella Pro Vercelli. In seguito, è stato vicino ad acquistare Spezia, Novara e una partecipazione nella Sampdoria della famiglia Garrone. Fra una trattativa e l'altra, ha trovato il tempo di prendere il Varese in C2 nell'estate del 2008, quattro anni dopo il fallimento, e di portarlo a un passo dalla serie A.

Eppure il caprese nato a Santa Margherita Ligure ed emigrato a Milano a vent'anni non ce l'ha fatta a commuovere il capoluogo della Lega. A febbraio, quando già si vedeva al Pirellone insieme al suo capolista, Roberto Maroni, Rosati ha dovuto fare i conti con la miseria di 1.341 voti di preferenza, oltre 600 meno del meglio piazzato, ed eletto, Luca Ferrazzi. Non è servito portarsi in ritiro il deputato-ultras leghista Giancarlo Giorgetti, né farsi le foto con Bobo, né appiccicare manifesti elettorali a ogni angolo della città e neppure offrire l'aperitivo con la squadra nel foyer dello storico cinema Vittoria dieci giorni prima del voto. Troppo meridionale, il Rosati. E a Varese conta più il basket. Vero che Rosati ha un piede anche nella pallacanestro, ma lì è uno fra tanti da quando la proprietà della squadra è passata dai fratelli Castiglioni a un consorzio (Varese nel cuore) di 77 imprese creato nel 2010.

Per l'imprenditore campano, che si proclama apartitico, la bocciatura alle regionali è stata una delusione paragonabile alla finale per la promozione in A persa nel 2012 dal Varese proprio contro la Sampdoria dei fratelli Edoardo e Vittorio Garrone, petrolieri della Erg e buoni conoscenti di Rosati. È bastato che si sapesse del rapporto di amicizia perché a Genova scoppiasse il panico. Rosati è un doriano en travesti?

I tifosi genoani possono stare tranquilli. Il loro neovicepresidente conosce i Garrone attraverso sua moglie Eleonora Baraggia. È lei, monzese e rotariana di primo piano, l'azionista di maggioranza della Holding Del Conte (Hdc), capogruppo della famiglia con ricavi per 60 milioni di euro, più o meno il prezzo di mercato di Cavani.

Ed è sempre la signora Rosati ad avere buoni rapporti con i Garrone grazie alla onlus internazionale Mus-e, fondata dal violinista Yehudi Menuhin e rappresentata in Italia da Riccardo Garrone, il padre di Edoardo e Vittorio scomparso nel gennaio di quest'anno.

Rosati, che si professa agnostico con i cronisti locali, è di fede interista e ha trattato lo Spezia, ex club satellite dei nerazzurri, direttamente con Massimo Moratti. Proprio sulle gradinate di San Siro si è concretizzata l'avventura nel calcio di Rosati e del suo uomo di fiducia, il barese Enzo Montemurro. Fra un gol e l'altro, Rosati ha conosciuto Ilaria Sogliano, figlia di Riccardo, ex calciatore di Varese e Milan negli anni 70, nonché dirigente sportivo di lungo corso.

In quel momento, Sogliano aveva da poco rilevato il Varese post fallimento insieme al figlio Sean con l'intenzione di costruire un nuovo stadio al posto del vecchio Ossola. Il problema di Sogliano era Agostino Abate, pm varesino che lo ha messo sotto inchiesta per una frode fiscale da 200 milioni di euro realizzata, secondo l'accusa, attraverso alcune cooperative di lavoro interinale.

Anche la Holding Del Conte aveva un'agenzia di lavoro in Friuli, la Alma. Come usa nel calcio, c'è stata una cessione a pacchetto che ha visto finire sotto la Hdc sia i clienti delle cooperative di Sogliano sia la squadra di calcio e, per finire, lo stesso Sean Sogliano, con l'incarico di direttore sportivo dei biancorossi.

L'avventura di Rosati al Varese sembrava incominciata male, con l'esonero dell'allenatore Pietro Carmignani, ex vice di Arrigo Sacchi. Ma il nuovo mister, Giuseppe Sannino da Ottaviano (Napoli), ha ottenuto due promozioni dalla C2 alla serie B.

Alla gloria sportiva è seguita una buona progressione negli affari, con la Hdc passata da 49 a 62 milioni di ricavi in un anno. Il Varese è stato un biglietto da visita per le altre società del gruppo. La squadra, in sé, ha portato pochi soldi e molte spese non sempre onorate, tanto che l'ex sponsor tecnico (Joma) è arrivato a pignorare l'incasso di un match di B con la Reggina (18.849 euro per 2.128 paganti). Si aggiungano le contestazioni della curva contro il centravanti Giulio Ebagua, italiano di origine nigeriana, e si capisce perché Rosati abbia colto l'occasione offerta da Preziosi.

Il contatto è avvenuto attraverso i Sogliano. Riccardo ha lavorato per il Genoa e conosce l'ambiente. Suo figlio Sean, dopo il Varese, è stato al Palermo di Maurizio Zamparini da giugno a novembre 2011. A febbraio 2012 ha firmato un triennale per fare il direttore sportivo del Grifone. Ma quattro mesi dopo ha perso il posto a favore di Pietro Lo Monaco, ex Catania cacciato da Preziosi in meno di due settimane e assunto da Zamparini.

Il rischio con i presidenti è proprio questo: non durare. Resisterà Rosati in Riviera?

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SONO UNA VENTINA I NOMI DI GIOCATORI E NON SOLO CHE STANNO PER ESSERE

ISCRITTI NEL REGISTRO DEGLI INDAGATI DELLA PROCURA CREMONESE
GERVASONI E CAROBBIO PATTEGGIANO
Il 26 giugno davanti al giudice Sora:

per il primo un anno e 10 mesi, pena inferiore per l’altro
Interrogatori Il giorno 27 il pm Di Martino sentirà Cristian Stellini, l’ex collaboratore di Conte
di GABRIELE MORONI (Quotidiano Sportivo 21-06-2013)

ESCONO DI SCENA due protagonisti della vicenda infinita del calcioscommesse. Carlo Gervasoni e Flippo Carobbio hano scelto la strada del patteggiamento che si concluderà il 26 giugno in tribunale a Cremona davanti al giudice Sora. Dovrebbe trattarsi di un anno e 10 mesi per Gervasoni, l’ex difensore di AlbinoLeffe, Mantova, Cremonese e Piacenza che con le sue fluviali cantate, nel dicembre del 2011 e nel marzo successivo, ha fatto tremare la serie A e la B. Di qualche mese inferiore sarà la condanna che patteggerà l’altro «pentito», Filippo Carobbio, alle spalle un passato di centrocampista che lo ha visto militare, fra le altre squadre, in AlbinoLeffe, Bari, Grosseto, Siena, Spezia. Saranno le prime sentenze uscite da Cremona, da quando, all’inizio di giugno di due anni fa, ha iniziato a rotolare la slavina del calcio malato.

IL 27 GIUGNO il procuratore Roberto di Martino interrogherà Cristian Stellini, collaboratore tecnico di Antonio Conte in Bari, Siena, Juventus, prima di rassegnare le sue dimissioni, il 6 agosto 2012, con una lettera al presidente Andrea Agnelli, quando il suo nome era affiorato nella vicenda del calcioscommesse. Stellini verrà ascoltato su Ascoli-Siena del 13 maggio e Albinoleffe-Siena del 29 maggio 2011.

Ancora Siena il 3 luglio, quando il procuratore di Martino avrà di fronte Ferdinando Coppola, portiere della squadra toscana nel campionato 2010-2011. La partita nel mirino è Siena-Varese del 21 maggio 2011. A coinvolgerlo era stato Filippo Carobbio che aveva dichiarato che poco prima dell’inizio della partita Coppola era comparso, visibilmente sconvolto. Aveva raccontato di essere stato appena avvicinato, nei pressi dello spogliatoio, da una persona di cui non ricordava il nome ma vicina al presidente del Siena Mezzaroma. Gli aveva chiesto se ci fosse la possibilità di perdere l’incontro. Questo perché il presidente aveva scommesso o intendeva scommettere sulla sconfitta della sua squadra. I giocatori si erano rifiutati. La stessa proposta sarebbe stata avanzata anche allo staff tecnico.

SONO UNA VENTINA i nomi di giocatori e non solo che stanno per essere iscritti nel registro degli indagati della Procura cremonese. Sono nomi che galleggiano in una informativa di 400 pagine trasmessa dallo Sco, il Servizio centrale operativo della polizia. Si parla estesamente di Mister X, il faccendiere dedito alla manipolazione di partite, e dei suoi complici. I loro movimenti sono stati ricostruiti, così come i contatti con tesserati. In una serie di scottanti intercettazioni telefonici alcuni calciatori parlano apertamente di gare da combinare.


La Ġazzetta dello Sport

21-06-2013

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Potrebbero anche assegnarla direttamente alla Lazio ed organizzare un concerto per quell'occasione

Il retroscena

Supercoppa: decide il Consiglio
sulla divisione dei soldi. E Agnelli?

di MARCO IARIA (GaSport 21-06-2013)

La Supercoppa, caso tutto italiano, rischia di riservare altre polemiche. L’indizio sta nella convocazione del Consiglio di Lega per il 27. La Supercoppa sta lì dentro e non nell’ordine del giorno dell’assemblea, che si svolgerà a seguire. Dettaglio? Non proprio. Il Consiglio è diventato il fortino di Lotito, dopo le elezioni di gennaio: la Juve è fuori. Ora il nodo non è più la sede (out Pechino, quasi sicuramente si gioca a Roma) né la data (18 agosto) ma il giro d’affari. La Lazio vuole il milione e mezzo che avrebbe preso in Cina. Per averlo, viste le stime sull’Olimpico (2-2,5 milioni le più ottimistiche, pubblicità inclusa), non basta dividere i soldi in parti uguali (45% alle squadre, 10% alla Lega). E chi decide sulla spartizione? L’art. 30 comma 1 dello statuto dice il Consiglio, che però si è sempre pronunciato prima che si conoscessero le finaliste. Potrebbe pure esserci un patto tra gentiluomini, ma ormai Lotito e Agnelli nemmeno si parlano...

Modificato da Ghost Dog

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E Miccoli disse: “Quella feccia di Falcone”
L’ex capitano del Palermo indagato per estorsione.
“Commissionò al figlio del boss un recupero crediti”

Le frasi shock spuntate in una intercettazione della Dia a Mauro Lauricella
di SALVO PALAZZOLO (la Repubblica 22-06-2013)

PALERMO — Alle partite del cuore non mancava mai e dedicava i suoi gol ai giudici Falcone e Borsellino. Fuori dal campo, invece, il capitano del Palermo Fabrizio Miccoli faceva i cori con il figlio di un boss latitante: «Quel fango di Falcone », canticchiavano i due amici su un Suv mentre sfrecciavano per le vie di Palermo. E al telefono davano appuntamento a un altro amico in modo davvero singolare: «Vediamoci davanti all’albero di quel fango di Falcone». Fango, feccia. Sono dei dialoghi shock quelli che emergono da un’indagine della Procura e della Dia di Palermo: due anni fa sono rimasti impressi in alcune intercettazioni, perché quel telefonino dell’amico di Miccoli, Mauro Lauricella, era tenuto sotto controllo dagli investigatori, nella speranza di arrivare al re della Kalsa, Antonino Lauricella detto Scintilluni.

In quei dialoghi intercettati c’è anche dell’altro e ieri la Dia ha notificato a Miccoli un avviso di garanzia firmato dal procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Agueci e dai sostituti Francesca Mazzocco e Maurizio Bonaccorso. L’accusa contestata a Miccoli è pesante: estorsione. Il capitano rosanero avrebbe commissionato al suo amico Lauricella junior il recupero di alcune somme. E i modi del giovane rampollo della Kalsa non sarebbero stati proprio gentili.

L’avviso di garanzia inviato dalla Procura di Palermo contesta al bomber rosanero anche un altro reato: quello di accesso abusivo a un sistema informatico, perché avrebbe convinto il gestore di un centro Tim a fornirgli quattro schede telefoniche intestate a suoi clienti. Una di queste schede fu prestata a Lauricella, proprio nel periodo in cui il padre restò latitante, fino al settembre 2011.

Ma sono ancora le intercettazioni a fare discutere. Il capitano del Palermo è stato ascoltato al telefono anche con il nipote dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra, il boss trapanese Matteo Messina Denaro. Una mattina, Miccoli telefonò a Francesco Guttadauro, e lo avvertì: «Non venire agli allenamenti, ci sono gli sbirri nuovi ». Anche questa frase è finita nel rapporto del centro operativo Dia di Palermo diretto dal colonnello Giuseppe D’Agata. Francesco Guttadauro così come Lauricella junior non ha mai avuto guai con la giustizia, ma lui non vanta solo uno zio eccellente, ha anche un padre che contava molto in Cosa nostra, si chiama Filippo, era il messaggero dei pizzini fra il boss Bernardo Provenzano e Messina Denaro.

Due anni fa, Guttadauro junior trascorse anche qualche giorno di vacanza a casa Miccoli, in provincia di Lecce. E qualche tempo dopo, il capitano rosanero fece persino capolino nelle indagini dei carabinieri del Ros che cercavano una buona pista per arrivare all’imprendibile Messina Denaro, ormai latitante da vent’anni. Quel giorno, Miccoli era ancora in gita con il nipote di Matteo Messina Denaro, ma questa volta nella provincia trapanese: insieme si ritrovarono nel grande distributore di benzina gestito da uno dei favoreggiatori storici del latitante, Paolo Forte, anche lui con una grande passione per il calcio tanto da essere il carismatico leader della Folgore, squadra simbolo di Castelvetrano, il paese natale di Messina Denaro. Un video del Ros ha immortalato l’ultima gita di Miccoli nel regno di Matteo Messina Denaro. E pure questo documento è finito agli atti di un’altra inchiesta.

Il capitano rosanero non si scompone più di tanto per le polemiche sulle sue frequentazioni. E anzi rivendica le amicizie fatte in Sicilia. Ma qualche giorno fa, il presidente del Palermo Maurizio Zamparini lo ha scaricato, annunciando che non rinnoverà il contratto. E adesso Miccoli è alla ricerca di altre collocazioni, forse anche all’estero, magari per cercare di fare dimenticare le sue sconvenienti amicizie palermitane.

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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA IL GIUDICE RESPINGE COSÌ LA RICHIESTA DANNI: «AZIONE AUTONOMA DI PIRELLI»
«Non fu l’Inter a commissionare il dossier sull’arbitro De Santis»
di MARCO IARIA (GaSport 22-06-2013)

Lo spionaggio illegale ai danni di Massimo De Santis è «incontestabile», ma manca la prova che a commissionarlo e utilizzarlo fosse stata l’Inter. Con queste motivazioni il giudice della prima sezione civile del Tribunale di Milano, Loretta Dorigo, ha respinto il ricorso dell’ex arbitro che chiedeva i danni al club nerazzurro per violazione della privacy. La vicenda è quella del dossier «Operazione Ladroni», confezionato tra il 2002 e il 2003 dalla security di Telecom-Pirelli dopo le rivelazioni di Nucini sulla cosiddetta «combriccola romana» e le presunte frodi a favore della Juventus.

Genesi Il giudice ricorda l’incontro tra Tavaroli, Moratti e Facchetti in cui questi ultimi due chiesero un consiglio al responsabile della sicurezza di Telecom-Pirelli su cosa fare delle rivelazioni di Nucini. Tavaroli propose di presentare un esposto alla procura di Milano o di far fare a Facchetti la fonte confidenziale delle forze dell’ordine. «L’Inter - si legge nel dispositivo - scelse la prima delle opzioni inoltrando all’autorità giudiziaria un esposto, successivamente archiviato, non avendo Nucini confermato, o comunque accettato, di deporre sul punto». La giudice non ritiene attendibile Tavaroli quando dice, deponendo al processo Telecom: «L’Operazione Ladroni mi fu commissionata da Moratti, poi io la gestii con Facchetti». È vero che Tavaroli riferì di un secondo incontro con Facchetti in cui gli venne chiesto di indagare su De Santis, ma mancava «il legale rappresentante e azionista di riferimento Moratti» e, soprattutto, non è stato possibile confrontare la sua versione con quella dell’ex dirigente nerazzurro, nel frattempo deceduto.

Pagamento Allora chi ha commissionato il dossier? Secondo Loretta Dorigo la pistola fumante sono le fatture che la Wcs dell’investigatore Cipriani intestò direttamente a Pirelli, unite alle parole dell’ex manager Telecom Fabio Ghioni sul fatto che l’Inter veniva considerata «un’azienda del gruppo». Insomma, era Pirelli ad avere «un interesse economico funzionale proprio e autonomo» dal dossieraggio su De Santis, visto che era «azionista di rilievo nonché sponsor dell’Inter». De Santis impugnerà la sentenza. «Per la prima volta - spiega l’avvocato Paolo Gallinelli - un giudice afferma che l’Inter presentò un esposto contro un arbitro in attività violando la clausola compromissoria. Ma la sentenza è monca perché non ci è stato possibile visionare il contenuto di quella denuncia» .


CORRIERE DELLA SERA 22-06-2013

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Boh... ve lo linko qua, caso mai vi dovesse interessare. .boh

Ricetta estiva: Fegato alla milanese

http://www.ju29ro.com/terzo-anello/4987-ricetta-estiva-fegato-alla-milanese.html

.arg.arg.arg

:rosicone2::rosicone2::rosicone2:

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DARWIN SBANDA IN CURVA
Hai voglia a studiare il tifo con parametri scientifici. E’ più un fatto religioso che ormonale
Simons ha tentato di spiegare i meccanismi che scattano nella testa e nelle vene dei tifosi con un misto di sinapsi e testosterone
Nel tifoso c’è il rito silenzioso, il gesto libero fatto nel segreto, c’è la capacità di astrazione che non si riduce al sistema endocrino
Bisogna salvare il calcio dai big data, dalla valanga di numeri che cercano di spiegare tutto e non provano alcunché
Le statistiche ci raccontano un sacco di cose giuste ma soffrono di un peccato originale: sono applicate a un oggetto inadeguato

di JACK O’MALLEY (IL FOGLIO 29-06-2013)

Eric Simons è attratto dai fenomeni curiosi del mondo naturale, tipo il sistema di comunicazione dei delfini, la vita sessuale dei coralli e altre cose imprescindibili che finiscono rubricate di rigore nel genere “forse non tutti sanno che”. Ha scritto un libro sulle esplorazioni di Charles Darwin, viaggi avventurosi che assomigliano a quelli che il giovane divulgatore americano intraprende in solitaria per esercitare l’occhio da naturalista ottocentesco e produce podcast a raffica su ambiente e dintorni.

Capita però che l’altra grande passione di Simons sia lo sport. Non gli si può fare una colpa se ad avvincerlo sono giochi coloniali con i nomi sbagliati o orde di pattinatori con disco e mazza, ma ciò che lo accomuna a tutti gli altri, a noi, è il modo di concepire il tifo. Come noi si raduna con amici fidati e un ettolitro di birra davanti allo schermo, come noi segue liturgie e rituali stratificati nel tempo, litiga con i colleghi sull’arbitro e come noi quando il lunedì mattina va al lavoro ha un angolo della mente già occupato dalla partita che verrà. Disgraziatamente Simons ha deciso però di fondere le sue due passioni. Anzi, di tentare di spiegarne una usando gli strumenti dell’altra. No, non ha cercato di giustificare la rotazione terrestre con lo schema dei Boston Bruins durante il power play, ma ha tentato di spiegare i meccanismi che scattano nella testa e nelle vene dei tifosi con un misto di ormoni, enzimi, sinapsi e terminazioni nervose, questioni di corteccia cerebrale e testosterone che possono essere opportunamente isolate e misurate. Come un qualsiasi altro fenomeno naturale. Il pregio del suo ultimo libro, “The Secret Lives of Sports Fans”, è che l’autore c’è dentro fino al collo. La cronaca dei dieci secondi in cui la squadra della University of California perde tutto contro gli illustri brocchi dell’Oregon State, buttando al vento l’occasione di rifarsi dopo decenni di digiuni, sofferenze, sconfitte all’ultimo minuto, preghiere, crisi di nervi e quant’altro è un manifesto immortale per la tifoseria di ogni fede e campo. Qualunque tifoso legga quell’incipit sa esattamente ciò di cui Simons sta parlando. Anche gli aneddoti delle partite degli San Jose Sharks sono altrettanto efficaci, tanto che per un attimo sembrano azzerati gli anni luce che separano qualitativamente l’hockey dal calcio e il lettore si ritrova immerso nelle proprie deliziose paranoie.

Il problema è che lo scienziato cerca di uscire da se stesso e di guardarsi da fuori come un animale nel suo habitat. Ne sarebbe venuto fuori un bel centone aneddotico se soltanto il ricercatore zelante non si fosse fatto la tragica domanda: “E se le forze maligne che ci possiedono durante la partita fossero in realtà soltanto il sistema endocrino?”. Così si conclude la fase umanistica e attacca la retorica scientista. Improvvisamente Simons stesso, i suoi amici e poi una marea di sconosciuti passati e presenti si trasformano da tifosi in topi da laboratorio, costretti a sputazzare dentro provette prima, durante e dopo la partita in modo da valutare la fluttuazione del testosterone e così afferrare il segreto che “priva il tifoso del libero arbitrio”. Si scopre che nella storia della scienza sono stati fatti decine di tentativi sperimentali per agguantare le reazioni chimiche che avvengono nel corpo del tifoso, questa strana specie che non è in via d’estinzione e che partecipa agli eventi sul campo in modo indiretto. La prima scoperta è che il tifoso partecipa fisicamente all’evento sportivo anche dal salotto di casa sua, e questo lo sa benissimo chiunque abbia urlato, lanciato oggetti, bestemmiato, cantato e si sia rotolato per terra davanti a uno schermo. Chi almeno una volta si è trovato in piedi sul divano sa che a giocare non sono soltanto i ventidue in campo ma anche i milioni che là fuori spingono fisicamente la squadra e ne condividono gioia e disperazione. Non proprio una grande novità. La seconda scoperta è che tutto questo tormento dell’anima e del corpo può essere spiegato sputando in una provetta. Non male, no? Tutto sta nel capire i flussi di testosterone, quando aumentano, quando diminuiscono e perché. Qualche tempo fa Rui Oliveira, psicologo applicato (qualunque cosa voglia dire), ha creato un ring sottomarino, ci ha messo dentro un paio di tilapie del Mozambico – pesci cattivissimi che aggrediscono qualunque cosa, specie i propri simili – e con una trovata ingegnosa ha fatto in modo di far assistere allo scontro un terzo esemplare. Lui poteva vedere i combattenti, ma loro non vedevano lui, e durante il combattimento esaminava le urine alla tilapia spettatrice. Oliveira “ha provato esattamente ciò che aveva previsto: un aumento del testosterone nel pesce spettatore”. Insomma, siamo tutti tilapie del Mozambico. Produciamo ormoni analoghi di fronte allo spettacolo dei nostri simili che si sfidano per il potere, la gloria, il riconoscimento sociale, la difesa del territorio e altre cose ascrivibili ai bisogni primari di tutti gli animali. Perché in fondo, dice il Darwin della curva, “lo sport non è altro che una competizione per il dominio: due animali, o due squadre di animali, combattono per importanti benefici dell’evoluzione”. E noi ci godiamo lo spettacolo come tilapie traboccanti di testosterone. Avete mai spiegato a qualcuno che la vostra passione per una squadra ricorda più la messa in Requiem di Mozart che un vassoio di pasticcini? Che è un fatto religioso più che ormonale? Che è avvolto nel mistero di una liturgia laica irriducibile alla chimica? Scordatevelo, vi eravate confusi, il cervello aveva frainteso i segnali del sistema endocrino, e ora che la neuroendocrinologia fa passi da gigante possiamo colmare il gap. Simons spiega così anche perché il tifo è un fatto prevalentemente maschile. Durante le elezioni americane del 2008 sono stati analizzati campioni dei sostenitori di Barack Obama e John McCain, sempre con il solito metodo dello sputazzamento in provetta e dell’analisi del testosterone. I supporter di McCain erano a terra per la sconfitta, gli uomini quanto le donne; lo stesso, ma al contrario, valeva per gli estasiati sostenitori di Obama. Le donne avevano gli stessi picchi di cortisone dei maschi ma per quanto riguarda il testosterone non c’era storia: l’eccitazione da tifo è roba maschile. E il maschio che guarda la partita con gli ettolitri di birra e di testosterone che gli spettano (a proposito: l’alcol inibisce il testosterone, quindi Simons ha fatto anche esperimenti su partite astemie, sai che palle) è unito in un grande abbraccio endocrinologico a tutto il regno animale maschile che combatte per sopravvivere, moltiplicarsi, evolvere e gareggiare nella spietata lotta per l’affermazione sull’altro. Dispiace frustrare le ambizioni scientiste del giovane divulgatore, ma c’è molto di più del testosterone nel tifoso: c’è l’atto libero e votivo, il rito silenzioso, il gesto libero fatto nel segreto, c’è la capacità di astrazione che non si può ricondurre al sistema endocrino. Ditelo a chi la prossima volta vi servirà la solita brodaglia femminile del “non capisco cosa ci trovino in ventidue scemi in mutande che corrono dietro a un pallone”, che poi non è altro che la versione senza testosterone dell’antropologia darwinista del tifoso fatta da Simons.

Dopo avere salvato i tifosi da Darwin, occorrerà però anche salvare il calcio dai big data per fermare la terribile reductio in atto. Non sono bastati 150 anni, agli americani, per capire il calcio. E dire che ci abbiamo provato: i vecchi campioni europei mandati lì a svernare, i Mondiali del 1994, Beckham. Niente da fare. Oggi si ritrovano con una Nazionale che potrebbe sostituire Tahiti alla prossima Confederations Cup e il soccer – come lo chiamano volgarmente loro – è praticato principalmente dalle donne, che è tutto dire. Non si rassegnano, però, e per cercare di capire uno sport refrattario agli algoritmi e alla matematica, ci provano con i big data. Leggevo qualche tempo fa su Forbes il lamento di un giornalista che scrive di statistica: erano i giorni in cui al Massachusets Institute of technology si teneva la conferenza sulle statistiche applicate agli sport, o qualcosa del genere. Il simpatico commentatore si lamentava del fatto che nei paesi in cui il calcio è un gioco popolare a nessuno frega più di tanto delle statistiche applicate allo sport, mentre nei paesi in cui le statistiche applicate allo sport sono popolari a nessuno frega più di tanto del calcio. Peccato che invece di trarre le debite conclusioni, l’articolo invitava ad approfondire di più l’argomento, con il nemmeno troppo nascosto obiettivo di ridurre il calcio a qualcosa di noioso e già scritto come la quasi totalità degli sport americani, là dove l’evento più imprevedibile è la quantità di senape che i venditori ambulanti spalmano sugli hot dog.

Si badi, questo non vuole essere un inno al calcio tè e biscotti (l’equivalente britannico del vostro pane e salame), ma un invito alla prudenza. Sappiamo che la tattica nel calcio sta diventando sempre più importante, per dirla in modo originale, che anche nella patria natìa di questo sport, l’Inghilterra, da almeno una decina di anni sempre maggiore attenzione è stata data all’analisi statistica e che da qualche tempo in ogni club di Premier League lavorano team di esperti che analizzano nel dettaglio filmati e dati dei giocatori della squadra e degli avversari. Quando allenava il Bolton, Sam Allardyce (lo racconta il calciatore misterioso autore della fortunata rubrica sul Guardian “The secret footballer” e dell’omonimo libro) studiò centinaia di calci d’angolo della Premier League per capire dove in media cadesse il pallone rinviato di testa dalla difesa. Individuata la zona di campo, piazzò un uomo nel punto esatto in cui la palla statisticamente toccava terra, e ridusse in maniera sensibile i gol subiti dalla sua squadra nella seconda fase delle azioni. L’analisi dei dati statistici ci ha insegnato anche che se sui calci d’angolo la palla viene spedita nella zona della linea dell’area piccola, è più facile per chi attacca fare gol. Per questo è meglio mettere un giocatore a difendere in quella zona invece che metterlo sul palo, come ci insegnavano alla scuola calcio da bambini. Il gol con cui Drogba ha pareggiato a tre minuti dal termine la finale di Champions League contro il Bayern nel 2012 è figlio di queste statistiche: palla al limite dell’area piccola e stacco vincente dell’ivoriano, che in quanto a numeri sui gol segnati di testa è secondo a pochi. Con uno schema più complesso ma analogo il Manchester City ha vinto la Premier League un anno fa battendo lo United nel derby decisivo della stagione. Lo stesso dicasi per gli schemi dello Stoke City, là dove prevedono il lancio lungo del terzino per la sponda del gigante Peter Crouch, che sistematicamente la appoggia in mezzo all’area dove centrocampisti e attaccanti dello Stoke conoscono i movimenti a memoria e colpiscono al volo il pallone, spesso segnando. Talvolta questi studi hanno risvolti tanto interessanti quanto lapalissiani: al Mit quest’anno è stato presentato uno studio per dirci che Frank Lampard è un centrocampista niente male. Dopo avere analizzato 1.279 partite di 118 diversi giocatori del campionato inglese, gli esperti hanno scoperto che i centrocampisti più forti sono quelli che si guardano attorno prima di ricevere il pallone: nella maggior parte dei casi faranno il passaggio giusto prima che gli avversari possano porvi rimedio. Applicazione: insegnare ai giovani centrocampisti a muovere di più la testa e, se si è degli agenti in cerca di nuove promesse, portarsi dietro una telecamera da tenere fissa sul volto del ragazzo che ci interessa, per poi vedere a fine partita se e quante volte si guarda attorno. Ergo, se supera un certo numero di occhiate dietro di sé, acquistarlo. Ne sono certo: il giorno in cui la mia squadra comprerà un centrocampista perché ha una media di passaggi completati altissima io smetterò di seguire il calcio. In Inghilterra c’è un club in particolare che si è affidato alle statistiche negli ultimi anni per fare i suoi acquisti e le sue cessioni, il Liverpool. Il fatto che non vinca qualcosa di serio dal 2006 la dice lunga.

Le statistiche ci raccontano un sacco di cose buone e giuste, ma soffrono di un peccato originale irredimibile: sono applicate a un oggetto inadeguato. Mille statistiche su mille giocatori di baseball diranno la verità su 999 di loro, consentendo alle squadre che praticano quella parodia del cricket di ottenere i risultati che avevano pensato a tavolino con mesi di anticipo. Mille statistiche su mille calciatori diranno tutto di quello che hanno fatto, ma poco di quello che faranno. Il calcio è un enorme cimitero delle promesse fallite, nel baseball chi manca le aspettative viene fermato prima o più semplicemente è l’eccezione che conferma la regola. In quella finale di Champions League, dopo avere assecondato le statistiche segnando il gol del pareggio, Drogba fece una cosa che nessun analista avrebbe potuto immaginare: nei tempi supplementari provocò un rigore con uno stupido fallo su un avversario toccandolo goffamente nella propria area. Sul dischetto per il Bayern andò Robben, che le statistiche descrivevano freddo e chirurgico sui rigori. Robben sbagliò, e lo stesso fece un altro rigorista alla fine, Schweinsteiger. Così la Coppa andò al Chelsea, la squadra che statisticamente aveva creato meno occasioni, giocato meno palloni e tirato meno in porta in quella finale. Per non parlare dell’intera competizione.

Ci sono manager che assieme ai loro collaboratori passano ore ad analizzare i dati che le canottiere da migliaia di sterline o le suole di scarpe speciali indossate dai calciatori durante gli allenamenti trasmettono loro, e creano di conseguenza allenamenti personalizzati per i singoli giocatori. Certamente molto meglio dei gradoni da salire a balzi di zemaniana memoria, ma chi si illude che la somma dei dati raccolti porti matematicamente al successo farebbe meglio a darsi al football americano o al baseball. “Il calcio non è fatto di un lanciatore che cerca di sconfiggere in arguzia un battitore – scrive il calciatore misterioso nel suo libro – E’ un gioco di squadra e nessuna statistica farà andare d’accordo due giocatori che non riescono a stare nella stessa stanza, non importa quanti ingressi nella trequarti avversaria abbiano realizzato nelle ultime due stagioni”. Mai come in questo sport gli elementi esterni sono decisivi, mai come in questo sport una stagione è diversa dall’altra, una partita è opposta all’altra. Guardate le statistiche di Nocerino due stagioni fa e confrontatele con quelle di quest’anno. O quelle di Fernando Torres quando dal Liverpool passò al Chelsea e impiegò più di un anno a ritornare un giocatore accettabile. Provate a spulciare i dati che riguardano Shevchenko, e controllate se qualcuno aveva previsto una moglie scontenta di stare a Milano e desiderosa di trasferirsi a Londra. Le statistiche diranno che Balotelli è un bomber implacabile, ma non potranno mai prevedere i suoi colpi di testa (nemmeno quelle sul numero di cartellini rossi). Il calcio è gioco di squadra ed esaltazione del singolo insieme, ma del singolo libero di provare la rovesciata della vita, il tiro al volo impossibile, il retropassaggio che colpirà una zolla mettendo in difficoltà il proprio portiere o l’assist corto e prevedibile anziché l’apertura geniale e stupefacente. Il calcio è figlio del paese in cui si gioca: in Inghilterra ci si esalta per un tackle, in Brasile per un tunnel, in Italia per tre passaggi in fila di prima. Quando il potere delle analisi statistiche verrà a spiegarci che con i tunnel non si vincono le partite e imporrà per decreto di giocare tutti come il Bayern Monaco, potremo accomodarci in pantofole sul divano e guardare le repliche di “Beautiful” in televisione, sarà più divertente. I sacerdoti dei big data forse un giorno riusciranno a spiegare buona parte del mondo grazie alle loro ricerche statistiche, a prevedere cosa mangeremo a pranzo, dove andremo in vacanza, quanti anni ci restano da vivere dato il nostro tenore di vita, la musica che ascolteremo e se il battitore della nostra squadra del cuore (sto parlando di baseball) farà un certo numero di fuoricampo. Poche cose riusciranno a sfuggire. Il calcio sarà una di quelle e se non sfuggirà non sarà più calcio. Probabilmente lo chiameranno soccer.

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Calcio: tanta commozione per l'ultimo saluto a Borgonovo






(ASCA) - Roma, 1 lug - Grande commozione a Giussano per il funerale di Stefano Borgonovo. L'ingresso del feretro e' stato salutato dal coro ''Borgo gol, Borgo gol', scandito dalle circa 3000 persone che si sono raccolte nella chiesa Santi Filippo e Giacomo per stringersi attorno alla moglie Chantal e ai quattro figli dell'ex attaccante di Milan, Fiorentina, Como, Pescara e della Nazionale. Al centro della piazza, i tifosi del Como hanno disteso uno striscione con la foto del giovane Borgonovo in maglia lariana e la scritta ''Stefano sempre presente''. Sul sagrato sono state invece adagiate diverse corone di fiori, fra cui quelle inviate dalla Federcalcio, dal presidente della Uefa Michel Platini e dalla Fifa. Tanti anche i personaggi del mondo del calcio che non sono voluti mancare all'ultimo saluto a Borgonovo, da Roberto Baggio a Franco Baresi, da Arrigo Sacchi a Paolo Maldini. Tra i presenti il vicepresidente vicario della Figc Carlo Tavecchio, a Giussano anche in rappresentanza del presidente Giancarlo Abete, di ritorno nel pomeriggio dal Brasile con l'aereo che riportera' in Italia la Nazionale di Cesare Prandelli. Un prolungato applauso ha salutato l'uscita dalla chiesa del feretro, che sara' sepolto nel cimitero di Giussano. ''Spero che il sacrificio di Stefano - ha dichiarato l'ex Ct della Nazionale e attuale coordinatore della nazionali giovanili Arrigo Sacchi - possa dare risultati alla ricerca e che in futuro ci siano investimenti maggiori da parte dell'industria farmaceutica contro la Sla, una malattia che non coinvolge tante persone ma e' terribile e porta alla morte peggiore. Stefano voleva vivere nonostante il suo handicap - ha ricordato Sacchi, che ha allenato Borgonovo al Milan - e credo che in questo sia stata fondamentale la sua famiglia''. ''Sono sempre stato ammirato per quello che ha trasmesso dopo la sua malattia - ha sottolineato il suo ex capitano Franco Baresi - rimarra' con noi con la sua fondazione e dobbiamo ricordare chi e' stato colpito dalla Sla''. ''Era un ragazzo d'oro - ha ribadito un altro suo ex compagno ai tempi del Milan come Paolo Maldini - che ha combattuto nella giusta maniera. Le iniziative che ha promosso nel tempo andranno avanti, e' una malattia della quale occorre parlare sempre di piu'''.




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I tifosi del Napoli contro il giornalista Alciato Lunedì 01 Luglio 2013
De Laurentiis:" persona sgradita"
"Abbiamo subito protestato con Sky e detto che questo Alciato è persona sgradita perché molto scorretta". E' la risposta di Aurelio De Laurentiis a uno dei tantissimi tifosi che hanno scritto al presidente del club partenopeo il proprio dissenso per le domande poste da Alessandro Alciato, giornalista di Sky Sport, a Edinson Cavani, sul suo futuro. Da ore il popolo partenopeo su Twitter sta prendendo di mira il giornalista, oltre alla redazione di Sky, chiedendo le scuse.
"Mi sembra evidente, la tua avventura a Napoli è finita quindi la domanda devo farla. Più Chelsea o Real Madrid?", le frasi che hanno fatto infuriare i sostenitori azzurri

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Il Giornale 4-07-2013

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«Venditti verme», striscione sotto casa
Monta la polemica sull'inno della Roma
ROMA - «Nel 2001 c'hai magnato, nel 2013 c'hai sputato, Venditti verme». È la scritta che compariva su uno striscione lasciato nella notte sotto casa di Antonello Venditti, in via del Porto, a Trastevere.

Parole scritte probabilmente da alcuni tifosi della Roma, amareggiati dopo le dichiarazioni del noto cantautore romano che nei giorni scorsi, sull'inno Roma Roma, aveva detto: «Spero che lo tolgano, non è più identificativo di questa Roma».

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Arbitri, Can: tutti confermati. Nicchi: "Braschi sa che rischia molto"

Non cambiano i vertici arbitrali del calcio italiano: Braschi guiderà la A, Messina la B, Stefano Farina la Pro. Nome nuovo per la Cai: è Antonio Giannoccaro, fresco di ritiro. Nicchi: "Avere la responsabilità della Serie A non è semplice, c'è troppa visibilità"

ROMA - Tutti confermati. Non cambiano i vertici arbitrali del calcio italiano: Stefano Braschi rimane saldamente in sella alla Can A, così come Domenico Messina resta responsabile della Can B e Stefano Farina della Can Pro. Volti nuovi invece per la Can D (Carlo Pacifici) e per la Cai, con Antonio Danilo Giannoccaro che passa direttamente dai campi di Serie A a un ruolo di responsabilità, a pochissimi mesi dal ritiro.

NICCHI: BRASCHI CORRE RISCHI - Durante la conferenza stampa di inizio stagione, Marcello Nicchi, presidente dell'Aia, ha rivelato le sue sensazioni sull'annata 2013-14. "Braschi è quello che corre i rischi maggiori: ha le responsabilità più grandi e una visibilità enorme, essendo a capo del campionato più importante. Stefano sa bene che, assieme al suo gruppo, lo attende un compito importante: dovrà partire con il piede giusto". Parla anche Antonio Giannoccaro: "Il campo mi mancherà tantissimo, come succede a chi interrompe una lunga carriera. Svolgerò il mio ruolo con entusiasmo, convinto di dare un grande supporto ai giovani che designerò".

(04 luglio 2013

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Ieri, Moggi, domani
Sotto inchiesta 41 società per gli acquisti di giocatori.
Al centro, il sistema dell'ex direttore della Juve, ora passato al figlio

di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 4 luglio 2013)

Non è mai troppo tardi per scoprire l'acqua calda. Martedì scorso oltre cento uomini della Guardia di Finanza si sono presentati nelle sedi di 41 società di calcio professionistico per dimostrare che lo sport più amato del mondo è una macchina di guadagni in nero, di frodi fiscali, di fatture false e di riciclaggio su scala internazionale. Nel calcio-business le società possono perdere, ma gli addetti ai lavori guadagnano sempre e comunque.

Chi segue il football un po' se lo aspettava ma rigore è quando arbitro fischia, avrebbe detto mister Vujadin Boskov. Stavolta il fischio è partito dalla Procura di Napoli, dopo nove mesi di un'inchiesta cominciata a ottobre del 2012 dal centro sportivo di Castel Volturno, dove si allena il club di Aurelio De Laurentiis. In via informale i magistrati dicono di avere perquisito le sedi delle squadre di serie A (tutte salvo Cagliari e Bologna) e di serie B nella speranza di trovare le prove documentali di quanto hanno intercettato nelle conversazioni telefoniche. Con i migliori auguri agli investigatori, è un po' come cercare di fermare Leo Messi. Cioè molto difficile ma non impossibile, se è vero che il divino Leo, beccato in flagrante dal fisco spagnolo su un'evasione legata ai diritti di immagine, si è presentato ai detective con il capo cosparso da un assegno di 10 milioni di euro.

Errare humanum, ma in Italia c'è chi persevera. Per adesso il punto fermo dell'indagine napoletana è molto simile a quello di Calciopoli nel 2006. Si chiama Gea World. Non proprio la vecchia Gea dei figli di padre illustre, creata nel 2001. Una Gea rinnovata, riportata in vita dalla liquidazione e rinnovata sia negli obiettivi di impresa sia negli azionisti. In verità, il frontman è sempre Alessandro Moggi, 40 anni, figlio di Lucianone ed ex enfant prodige dei procuratori sul finire degli anni Novanta. Nel 2011 Moggi junior è stato condannato in secondo grado insieme al padre per violenza privata nel processo dedicato alla sua agenzia sportiva. La società Gea, invece, è stata assolta dall'accusa di essere un'associazione a delinquere che imponeva la sua volontà con le buone o con le cattive ai club e a circa 150 assistiti. Il verdetto, un fritto misto di accuse prescritte e condanne coperte da indulto, è stato presentato come un trionfo dai Moggi. Sulle ali dell'entusiasmo la Gea è stata rilanciata ad aprile del 2012 con l'apertura di una filiale a Dubai, non proprio l'epicentro della trasparenza finanziaria. Un anno dopo, ad aprile del 2013, quando già i magistrati napoletani erano al lavoro da sei mesi, anche Gea Italia è tornata in piena attività pur senza avere mai chiuso i battenti in modo definitivo. Alla grande festa milanese di reinaugurazione hanno partecipato, fra gli altri, Adriano Galliani (Milan), Beppe Marotta (Juventus), Enrico Preziosi (Genoa), Tommaso Ghirardi (Parma) ma anche Ciro Immobile e Antonio Nocerino, due dei calciatori con contratti finiti sotto l'esame degli investigatori.

La Gea bis è stata presentata come una società non tanto focalizzata sulle procure, quanto sull'organizzazione di eventi, il marketing e il "business etico". L'aspetto etico deve essere sfuggito ai magistrati perché, cinque giorni dopo il party, i finanzieri hanno perquisito le abitazioni di Alessandro Moggi e del procuratore argentino Alejandro Mazzoni, agente dell'ex attaccante del Napoli Ezequiel "el Pocho" Lavezzi, un altro dei contratti sospetti.

Prima ancora di rientrare nel business, la nuova Gea si era riorganizzata a livello societario a fine dicembre dell'anno scorso. L'azionista di maggioranza non è Moggi e neppure uno dei due soci sopravvissuti alla tempesta del 2006, cioè Riccardo Calleri, figlio di un ex presidente del Torino, e l'agente Fifa Franco Zavaglia. Il leader della Gea è il veronese Ivan Vecchietti, 41 anni, uno in più di Alessandro Moggi. Vecchietti, che è anche amministratore delegato, è un ex ufficiale della Guardia di Finanza che ha smesso la divisa delle Fiamme Gialle per esercitare da dottore commercialista. Nel 2006 - sempre il 2006 - ha fondato Agorà Consulting insieme al collega più anziano Ermanno Zigiotti, docente all'Università di Macerata. Agorà si occupa, tra l'altro, di servizi al settore sportivo. In particolare, fornisce assistenza fiscale agli atleti e provvede alla gestione e allo sfruttamento dei diritti di immagine ossia di quel meccanismo che ha consentito a molti sportivi professionisti di eludere il fisco. Grazie al meccanismo delle "star company", le società di capitali create e controllate dagli atleti, il reddito da lavoro viene tassato in modo più favorevole.

In breve, Agorà ha in parte coperto l'area di attività della Gea finché la Gea non è stata rilanciata. Nel frattempo, Vecchietti ha gestito alcuni ex clienti o addirittura ex soci della vecchia Gea.

L'ex ufficiale della Finanza è amministratore di società immobiliari che appartengono a Chiara Geronzi, figlia di Cesare e socia fondatrice della vecchia Gea World, e a suo marito Fabrizio Lombardo, rinviato a giudizio l'anno scorso per la bancarotta della Magiste International di Stefano Ricucci, tifoso ed ex azionista della Lazio.

C'è anche un altro ex laziale fra i clienti di Vecchietti. È Alessandro Nesta, ex difensore della Nazionale che proprio Moggi junior fece trasferire dalla Lazio di Sergio Cragnotti al Milan nel 2002, a ridosso del crac della Cirio.

Un altro ex campione del mondo, Fabio Cannavaro, faceva parte del palinsesto per il rilancio della nuova Gea. La società di Moggi junior doveva mettere in scena al San Paolo di Napoli l'addio alle scene calcistiche del difensore, Pallone d'Oro nel fatidico 2006 di Calciopoli. Il match d'addio, previsto per maggio del 2013, è stato rinviato a settembre ufficialmente per questioni inerenti alla gestione del vecchio impianto napoletano. In realtà, sembra che De Laurentiis abbia subodorato qualche problema e abbia bloccato l'ultima esibizione dell'ex capitano azzurro. Intuito imprenditoriale? Possibile. Soffiata? Probabile. Fatto sta che a maggio non se ne è fatto più nulla. A questo punto, sarà anche difficile farne qualcosa a settembre. Si rassegnino i tifosi.

L'estate 2013 passerà come quella scorsa: il calcio andrà in onda in chiaro e in formato cronaca giudiziaria.


Omertà in campo
di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 4 luglio 2013)

I vecchi telecronisti commentavano i tiri in porta ambiziosi e sfortunati lodando l'intenzione del calciatore. Lo stesso si può fare con l'inchiesta di Napoli. Dall'elenco dei possibili reati non manca nulla. Evasione fiscale internazionale, associazione a delinquere, falso, abuso di professione, illecita intermediazione, fatture false e riciclaggio sono i sette peccati capitali che sostengono la pratica imprenditoriale ordinaria dell'industria calcistica. Ordinaria perché così fan tutti, perché non possono non fare così, perché è impensabile competere a livello nazionale e internazionale se non ci si mette d'accordo con i procuratori, se non si pagano commissioni opache, se non si accontenta il campione con il benefit defiscalizzato, se il direttore sportivo non ha il suo feudo personale e la sua corte dei miracoli dove comprare, vendere, prestare, cedere in comproprietà. Poi, certo, ci sono anche i delinquenti veri, quelli che finiscono l'avventura con un mandato di arresto per bancarotta. È capitato a Calisto Tanzi, a Sergio Cragnotti o a Riccardo Gaucci. Ma i 41 presidenti delle società perquisite dalla Guardia di finanza nella mattinata del 25 giugno non appartengono, fino a prova contraria, a questa tipologia e si stupirebbero parecchio se finissero sotto indagine per essersi adattati alle regole universali di un mercato globale. Come nelle armi, nel petrolio e nella finanza, senza l'intermediazione o mazzetta o bakshish il meccanismo si inceppa e, appunto, si finisce fuori mercato. Il tiro in porta dei magistrati era necessario ed è ben mirato, ma avrà vita dura contro un sistema che ha già surclassato in omertà qualunque organizzazione criminale. Intanto, si spera che gli organi del calcio trovino uno spazio nel calendario agonistico per l'ormai consueta inchiesta della magistratura, tra la fine di un campionato e l'inizio del successivo, a ridosso di una competizione internazionale. È davvero un ottimo modo per tenere viva l'attenzione dei tifosi fino al prossimo calcio d'inizio.

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Panorama | 10 luglio 2013

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Inviato (modificato)
I padroni del calcio

Le compravendite milionarie. Il sospetto di operazioni

in nero. Le complicità

tra procuratori e presidenti. Tra inchieste dei pm, blitz della Finanza e

colpi del calciomercato ecco chi vince e chi perde nel mondo del pallone

I FONDI PROPRIETARI DI CALCIATORI, IN GRAN PARTE

SUDAMERICANI, RAPPRESENTANO LA NUOVA ZONA

GRIGIA DELL’EVASIONE E DEL RICICLAGGIO DI DENARO

RE MIDA DEI PROCURATORI È IL PORTOGHESE MENDES

CHE GESTISCE MOURINHO, CRISTIANO RONALDO E FALCAO

di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 11 luglio 2013)

Non è vero che il calcio è una giungla. Esiste un certo ordine nella giungla. In cambio, il calcio è più divertente. Non solo durante il campionato o i tornei internazionali. L'inizio di luglio, per esempio, è la stagione del calciomercato e delle inchieste giudiziarie. Nel 2012, i temi focali erano la cessione a un club straniero di Zlatan Ibrahimovic e le scommesse clandestine. Quest'anno, si attendono la cessione a un club straniero di Edinson Cavani e gli sviluppi della nuova inchiesta giudiziaria su una mezza dozzina di reati, dal riciclaggio all'evasione fiscale, che dieci giorni fa ha portato la Guardia di finanza in visita presso 41 sedi di società di serie A, B e Lega Pro, come pomposamente è stata ribattezzata la serie C.

Qualcuno l'ha definito un blitz. Nulla di tutto questo. I club hanno consegnato con grande tranquillità quanto richiesto dal pool di magistrati napoletani che seguono l'indagine. Per come è organizzato il sistema del calcio professionistico, sarà difficile trovare grandi prove negli archivi ufficiali delle società. Mazzette e fatture gonfiate viaggiano estero su estero e ci sono sistemi a prova di rogatoria internazionale per nascondere la traccia dei soldi.

Men che meno ci si può aspettare la collaborazione di qualche gola profonda. Le cose dello spogliatoio resteranno, come sempre, nello spogliatoio. I padroni del calcio, un'industria globalizzata che muove decine di miliardi, si farebbero torturare pur di tenere segreti i meccanismi finanziari della passione sportiva più diffusa al mondo.

A favore dei magistrati c'è oltre un anno di intercettazioni a partire dalla telefonata fra l'attaccante argentino Ezequiel Lavezzi e il suo procuratore Alejandro Mazzoni , perquisito ad aprile del 2012. Al di fuori degli investigatori, nessuno ha letto il testo della conversazione ma tutti nell'ambiente danno per scontato che la magistratura sia partita da una pratica tanto diffusa quanto banale. Per aumentare l'ingaggio a un campione risparmiando in contributi e tasse, si comprano tre mezzi brocchi e quei milioni spediti in Sudamerica tornano in tasca al binomio agente-campione.

Se il proprietario del club non partecipa alla spartizione estero su estero, è semplice evasione, magari elusione. Se partecipa, è riciclaggio, anche se per adesso non risulta inquisito nessun padrone di squadra in omaggio a uno dei grandi luoghi comuni del football che identificano il presidente in una sorta di ingenuo supertifoso pronto a finire sul lastrico pur di trionfare in campo.

Fra gli addetti ai lavori, come al solito, c'è la corsa al retroscena, diffuso previa garanzia di anonimato. Negli ambienti della Lega, la Confindustria del pallone con sede a Milano, si allude a qualche presidente borderline rispetto al traffico dei calciatori stranieri e si indicano fra i soliti sospetti quelli che vivono di calcio, o principalmente di calcio. Qualcun altro fa riferimento a una Grosse Koalition tra le squadre e i magistrati ai danni dei procuratori, visti da molti proprietari come parassiti colpevoli di gonfiare ingaggi e compravendite, ergo di devastare dei conti della serie A, dove gli stipendi si mangiano tre quarti dei ricavi. Sullo sfondo c'è la solita spaccatura fra i vincenti del momento (il milanista Adriano Galliani e il laziale Claudio Lotito ) e i perdenti di lusso: Andrea Agnelli della Juventus, la Roma degli americani e l'Inter di Massimo Moratti destinata forse ai nuovi padroni indonesiani.

In questo caos, prendersela con gli agenti è l'opzione preferita. Spesso sono loro ad accollarsi il lavoro sporco della contabilità parallela che arricchisce gli individui a discapito delle società. Ma anche loro come i club esprimono serenità e concetti ispirati alle banalità post-partita dei calciatori.

Bruno Carpeggiani , presidente dell'Assoagenti calcio (Aiacs), offre una dichiarazione di prammatica: «Mi auguro che gli indagati dimostrino la loro estraneità. Non credo che la categoria sia sotto attacco. Comunque stiamo preparando un comunicato».

Uno dei suoi colleghi nella giunta dell'associazione, Tullio Tinti , ottimi rapporti con Galliani e lo juventino Beppe Marotta, nonché rappresentante di Andrea Pirlo, Giampaolo Pazzini e Alessandro Matri, taglia corto: «Mi richiami dopo le 20. Prima ho troppo da fare». Dopo le 20 non risponde. Troppo lavoro, a dispetto di una sospensione decretata l'anno scorso dalla giustizia sportiva della Federcalcio fino al 23 settembre 2015 e di un'indagine penale a Milano per riciclaggio insieme al faccendiere svizzero Giuseppe Guastalla .

Anche Alessandro Moggi, figlio di Luciano, ha espresso serenità e desiderio di continuare a lavorare dopo essere finito sotto indagine a Napoli con la nuova Gea in tempi da record. È passato appena un anno da quando l'agenzia è stata ripresentata a una festa per vip a Milano con l'impegno di limitarsi all'assistenza sui diritti di immagine e di non prendere più procure come faceva la vecchia Gea affondata dalle inchieste di Calciopoli del 2006 e dalle condanne per Moggi padre e figlio. «Niente procure? Dicevano la stessa cosa anche ai tempi della vecchia Gea», osserva con una punta di malignità Claudio Pasqualin , uno dei decani della professione. «In quanto ai diritti d'immagine, sono pochi i calciatori che hanno un mercato come testimonial pubblicitari. Con tutto il rispetto, che diritti d'immagine possono sfruttare Calaiò o Nocerino? La verità è che sono tempi molto duri per la categoria e che spesso le società non ci pagano i compensi stabiliti da contratto anche di fronte a decreti ingiuntivi». Nomi? Meglio di no ma, in effetti, le agenzie sembrano risentire della crisi del calcio italiano anche dopo che è caduto il tetto del 5 percento sulla mediazione e dopo che, di fatto, è passato in cavalleria il divieto di incassare compensi sia dall'atleta sia dal club. La Tlt di Tinti è tra quelle che vanno meglio con 3,4 milioni di ricavi 2012 e 1,9 milioni di utile. La Lawsport di Claudio Vigorelli , agente di Dejan Stankovic e Samuel Eto'o, incassa 1 milione di euro scarsi. Fa poco meglio (1,3 milioni di euro) il Reset Group del trentacinquenne Davide Lippi , cresciuto nelle giovanili della Gea prima versione e figlio di Marcello, il commissario tecnico campione del mondo in Germania nel 2006. Ricava 1,6 milioni di euro ma ne perde 100 mila la Branchini Associati di Giovanni Branchini e Carlo Pallavicino che assiste Angelo Ogbonna, Sébastien Frey e Riccardo Montolivo. È in lieve perdita anche l'Italian managers group di Carpeggiani.

Gli unici che tirano sono i supercampioni stranieri. Ma quelli sono un'altra storia. Uno come Cavani, ad esempio, che sia venduto a 50 milioni di euro - quanti ne offre il Chelsea - o ai 63 milioni della clausola rescissoria fissata da De Laurentiis, farà ricchi i suoi mediatori. Sono entrambi romani. Pierpaolo Triulzi , però, ha preso il brevetto da agente a Buenos Aires, dove risiede. Il suo socio Claudio Anellucci , in folta compagnia nella lista di chi si è fatto rubare il Rolex a Napoli, non è un procuratore ma condivide con Triulzi il controllo di Futbol & Transferencias, una srl che fa base in via Po a Roma e non deposita un bilancio dal lontano 2007, l'anno in cui "el Matador" uruguayano è sbarcato a Palermo alla corte di Maurizio Zamparini . La mediazione per Cavani sarà tracciabile, e tassabile, con facilità dal fisco. Diventa più complicato quando il proprietario dei diritti economici dell'atleta è uno dei fondi di investimento che stanno esportando in Europa artisti e artigiani del pallone dai paesi dell'America del Sud.

Al momento di acquistare il brasiliano Felipe Anderson fifty-fifty dal Santos e dal fondo inglese Doyen Sport, Lotito ha duramente criticato la nuova pestilenza con una verve moralistica che tende a rimuovere le sue due condanne non definitive per Calciopoli e aggiotaggio, oltre ai processi per mobbing avviati da tesserati della Lazio e alla supercommissione (15 milioni di euro) pagata per Mauro Zarate alla società di diritto britannico Pluriel Limited dell'agente italiano Riccardo Petrucchi .

Non c'è solo Lotito a obiettare sugli aspetti etici di questo nuovo traffico di esseri umani. Anche Michel Platini , il presidente delle federazioni calcio europee, è abolizionista. Invece lo svizzero Joseph Blatter , 77 anni, il capo della Fifa e del calcio mondiale, è molto più tollerante. Per continuare il suo regno ed essere eletto per la quinta volta dal 1998 gli servono i voti delle federazioni sudamericane. E i boss del pallone in Argentina, Uruguay, Brasile investono i loro sudati risparmi in fondi sportivi che controllano calciatori.

Doyen Sport, un fondo di proprietà della società maltese Doyen Group, ha partecipato anche al montaggio finanziario del transfer del centravanti colombiano Radamel Falcao all'Atlético Madrid della famiglia Gil. Nell'operazione è intervenuto il fondo Quality controllato dall'ex dirigente del Chelsea Peter Kenyon e dal vero numero uno del calciomercato mondiale, il portoghese Jorge Mendes che con la sua agenzia Gestifute ha un portafoglio clienti stimato in 490 milioni di euro dal sito tedesco specializzato TransferMarkt. Due clienti su tutti: Cristiano Ronaldo e Josè Mourinho. E, ovviamente, Falcao ceduto al Monaco dell'oligarca russo Dmitri Rybolovlev per 60 milioni di euro, l'affare più ricco del calciomercato 2013.

Nessun club italiano può più permettersi queste cifre. Il neojuventino Carlos Tévez è costato un quinto di Falcao. L'attaccante argentino, che a 29 anni ha già cambiato sette squadre, è stato più volte venduto dal fondo Media sports investments (Msi) rappresentato da Kia Joorabchian , anglocanadese di origine iraniana che ha condotto la trattativa con il club di Agnelli.

Quando i soldi di una mediazione o di una compravendita finiscono in una società come Msi, il cui reale proprietario non è mai stato individuato a dispetto delle illazioni su Roman Abramovich e del defunto Boris Berezovskij , le possibilità di manovra sono molto ampie.

Del resto, un giocatore è per definizione difficile da valutare. Zamparini è finito in causa con l'agente Marcelo Simonian per avere abbassato il prezzo di cessione di Javier Pastore al Paris Saint-Germain degli emiri di Doha (Qatar) e ha dovuto rimborsare Simonian con 15 milioni di euro. Il Brescia ha sanato il risarcimento danni con la Juventus relativo a Calciopoli cedendo ai bianconeri il portiere Nicola Leali per 3,8 milioni di euro, quanto è valutato il numero uno titolare dell'Under 21 Francesco Bardi, più il prestito dell'altro azzurrino Fausto Rossi. Difficile sindacare. Nello stesso modo, è problematico sostenere che le fatture per attività di scouting siano false. Il padrone dell'Udinese Gianpaolo Pozzo , ad esempio, che ha già subito una condanna per evasione fiscale, mette a bilancio costi di scouting e osservazione molto alti (21 milioni di euro, il quadruplo degli incassi da stadio) ma ogni anno lancia sconosciuti pescati ai quattro angoli della terra.

«I comportamenti elusivi ci sono in tutti i settori dell'economia e non si può generalizzare», dice l'amministratore delegato di un importante club di serie A. «Chi ha sbagliato pagherà. Poi c'è un problema di concorrenza. Se il club cerca un determinato calciatore sul mercato estero, è naturale che si appoggi ai procuratori locali. E se vuoi un giocatore controllato da un fondo, devi trattare con quel fondo. Credo che questi fondi si possano accettare, magari con una forte regolamentazione». È vero anche che nel settore non sono le regole a mancare. Semmai difetta la capacità di sanzionare in modo efficace. Se questo vale per il business normale, a maggior ragione per il calcio. Dietro un investigatore, un magistrato, spesso batte un cuore di tifoso. Quindi, non generalizziamo. Nel calcio c'è chi si fa beccare. Gli altri, avanti come prima. La prova tv c'è solo in campo.

In Italia numero record di agenti e mediatori

di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 11 luglio 2013)

Provate a indovinare quale Paese al mondo vanta il maggior numero di iscritti all’albo dei procuratori di calcio. La falange degli agenti italiani è arrivata alla cifra record di 1188 iscritti all’albo della Federcalcio, di cui appena 46 donne, dopo l’ultima sessione di esami dello scorso aprile. La Spagna campione del Mondo e d’Europa ne ha la metà (578). I nababbi della Premiership inglese, il campionato più ricco del continente, sono appena terzi con 470 iscritti. I virtuosi rivali della Bundesliga tedesca restano fuori dal podio a quota 431. Il Brasile, maggiore esportatore di calciatori del globo, si piazza quinto con 265, la metà della metà dei colleghi italiani. L’attrattiva di un mestiere che promette notorietà, ricchezza e posti gratuiti in tribuna autorità resiste all’evidenza di una recessione che non risparmia neppure la serie A. All’ultima sessione di idoneità tenuta ad aprile a Roma i partecipanti erano poco più di 500, con 204 promossi. Naturalmente prosperano i corsi a pagamento per diventare procuratore o addirittura agente Fifa, a dispetto del disclaimer pubblicato sul sito della Federcalcio internazionale: «La Fifa non ha dato licenze ad agenti dal 2001, gli agenti sono autorizzati dalle singole federazioni e dunque gli agenti Fifa non esistono». Di questo passo, se si considera che i calciatori dei campionati nazionali dalla A alla Lega Pro sono circa 2500 e che i club si vanno riducendo a ritmo di fallimenti, non è lontano il momento in cui il tasso di cambio tra chi fatica in campo e chi cerca contratti raggiungerà la parità. Sembra che sia proprio la crisi ad accentuare la corsa al brevetto di agente. Due anni fa i procuratori laureati erano 828. Alla fine degli anni Novanta, nell’età dell’oro delle plusvalenze fasulle e delle mediazioni miliardarie - in lire - sui calciatori più forti del mondo gli autorizzati erano 281. Eppure i procuratori dell’albo Federcalcio affrontano una concorrenza micidiale da più fronti. In Italia, sta prendendo piede la concorrenza degli avvocati specializzati in procure sportive, che non devono confrontarsi con il labirinto regolamentare imposto dalla Figc e, per esempio, possono rappresentare allo stesso tempo allenatori e calciatori. Nell’elenco dei nomi sulla breccia, ci sono Dario Canovi, Paolo Bordonaro, l’ex agente Claudio Pasqualin, spretatosi dopo una sospensione subita all’inizio del 2012 insieme al socio Andrea D’Amico, e l’emergente legale cosentino Giuseppe Bozzo, 45 anni, re del mercato interista con clienti come mister Walter Mazzarri e l’ormai ex nerazzurro Antonio Cassano, oltre che rappresentante di Fabio Quagliarella, Alberto Gilardino e Federico Marchetti. «È la fabbrica delle illusioni», dice Pasqualin. «Una volta lo spartiacque fra amatori e professionisti era il torneo di Viareggio dove prendevamo contatti con i campioni del futuro come Del Piero, Vieri, Totti. Adesso i procuratori sono assediati dai genitori dei dodicenni che giocano il campionato esordienti».

Intanto l'indagine da Napoli

si allarga a Spagna e Argentina

di CLAUDIO PAPPAIANNI (l'Espresso | 11 luglio 2013)

È nata dall'analisi di rischio di alcune operazioni di mercato del Napoli di Aurelio De Laurentiis la nuova inchiesta "Calcio Malato" che oggi fa tremare molti club.

Il pool coordinato dal procuratore Giovanni Melillo è partito dal contratto di Ezequiel Lavezzi, attaccante argentino che ha fatto sognare la tifoseria azzurra prima di essere venduto al Paris Saint-Germain. Il suo procuratore, Alejandro Mazzoni, indagato insieme con Alessandro Moggi e Leo Rodriguez, mette lo zampino anche in operazioni di mercato del Napoli che, in apparenza, non lo riguardano. Come gli acquisti dei difensori, sempre argentini, Fideleff e Fernandez. Nell'estate del 2011, porta alla corte di Mazzarri anche Cristian Chavez, un carneade della sua scuderia che andrà in campo solo due volte prima di tornare in patria in prestito.

Un milione di euro il costo del suo cartellino di cui metà al San Lorenzo, l'altra metà a investitori privati.

Secondo gli investigatori, è stata solo un'operazione per creare provviste all'estero per l'agente e il suo assistito principale. Il meccanismo è utilizzato anche da altri manager coinvolti. Finora sono in tutto 12 tra italiani e argentini, anche se il numero è destinato a crescere. L'indagine si è allargata alle procure di Spagna e Argentina.

Sotto la lente d'ingrandimento sono finiti pure i contratti che legano gli agenti dei calciatori alle società che acquistano i loro assistiti. A pagare l'intermediazione non è l'atleta ma il club, attraverso contratti di consulenza per operazioni di scouting spesso inesistenti.

Così, alcuni procuratori guadagnano più dei loro atleti. Alla fine, conviene ai calciatori che prendono più soldi senza pagare tasse, agli agenti, alle società che scaricano quei costi. A tutti, tranne che all'Erario che oggi incassa 1,1 miliardi all'anno dal calcio.

Più indipendenza per i giudici sportivi

di RAFFAELE CANTONE (l'Espresso | 11 luglio 2013)

L'ultima inchiesta della procura di Napoli mostra il volto nuovo di problemi antichi.

Tante altre volte le società, i giocatori, i procuratori sono incappati in indagini analoghe. E mentre la crisi ha prosciugato interi comparti economici, oggi intorno al pallone continua a girare una quantità enorme di denaro: un'occasione ghiotta per chi vuole frodare il Fisco e, indirettamente, truffare anche i tifosi che con la loro passione dovrebbero essere i veri proprietari/azionisti del calcio.

Questo episodio chiude un anno nero per il calcio. Il campionato è cominciato con le penalizzazioni di squadre e squalifiche di calciatori per lo scandalo scommesse.

E sono molti a prevedere come imminente un'altra bufera, annunciata da mesi anche dal compianto capo della polizia Antonio Manganelli. Le indagini delle procure antimafia hanno mostrato come il mondo dell'azzardo, legale o clandestino, è sempre più preda di uomini legati ai clan che hanno maggiore capacità di incidere sui risultati delle partite ed eventualmente truccarle.

A questo contagio corrispondono prestazioni sportive ed economiche opache. I magri risultati ottenuti dalla squadre italiane nelle competizioni internazionali, la fuga dei talenti verso i club esteri, l'assenza di investitori stranieri nel nostro campionato sono sintomi di un male profondo. Sono necessarie riforme dell'intero sistema: il nuovo presidente del Coni le ha annunciate come imminenti ma finora non c'è stato nessun provvedimento concreto.

Anzitutto bisogna mettere mano alla giustizia sportiva. Non si discute della serietà del procuratore Stefano Palazzi ma il meccanismo attuale non funziona e ha perso autorevolezza. Gli interessi in campo richiedono maggiori garanzie di indipendenza dei giudici: non può essere un incarico part time, che si somma ad altre attività professionali. Il caso Conte è emblematico: l'allenatore della Juve (che si è sempre dichiarato innocente) viene condannato in primo grado per due ipotesi di omesse denunce e squalificato per dieci mesi; in appello viene assolto per una delle due contestazioni ma in spregio a tutte le regole giuridiche viene confermata la stessa squalifica e poi dopo due gradi di giudizio si accede ad una sorta di patteggiamento e gli si riduce la pena. Questa è una giustizia di tipo privatistico che può andar bene per l'associazione amici dello scopone non per squadre quotate in Borsa.

È anche arrivato il momento di intervenire con coraggio sulle scommesse legali. Sono un cancro che sta facendo ammalare di ludopatia tanti italiani e sta minando la credibilità del calcio, con il rischio di danni irreparabili come è accaduto all'ippica. Bisogna agire per vietare, anche attraverso accordi internazionali, quantomeno le scommesse live e quelle sulle squadre minori che sono di per sé criminogene.

Serve infine una vigilanza più rigorosa sulla contabilità delle società e sul peso dei procuratori. Per impedire che l'assenza di trasparenza allontani dallo sport più amato dagli italiani gli investitori sani. Per questo a un maggiore rigore nel punire le frodi, sarebbe opportuno unire iniziative per rilanciare la redditività del football, oggi dipendente dai diritti televisivi: ad esempio, rendere concreta la costruzione di impianti di proprietà, in modo da poter diversificare i guadagni come da tempo avviene in Germania, che non a caso in questo momento è la nazione europea che anche nel calcio corre di più. Ed infine, combattere seriamente il mercato del falso, che impedisce ai club di trovare risorse con la vendita di magliette e altri gadget. Anche davanti agli stadi ci sono bancarelle che offrono prodotti contraffatti: danneggiano le società ed ingrassano le filiali asiatiche delle mafie italiane che da sempre ne hanno il monopolio.

E oltre all'evasione un mare di nero

di STEFANO LIVADIOTTI (l'Espresso | 11 luglio 2013)

«È colpa anche dell'evasione fiscale se in Italia la crisi si fa sentire più che altrove: i 180 miliardi nascosti ogni anno al fisco rappresentano un'enormità. Ma non sono tutto: le stime sul sommerso in generale, che non tengono conto del giro d'affari della criminalità organizzata, arrivavano già nel 2008 a quota 255-275 miliardi». Per Luigi Zanda, presidente dei senatori del Pd, la ripresa economica è legata alla sconfitta di evasione, corruzione e mafia.

Senatore Zanda, come si sta muovendo questo governo?

«Enrico Letta governa con intelligenza. Ma bisogna convincersi di un fatto: non si tratta di una partita privata della Guardia di finanza o dell'Agenzia delle entrate, che peraltro si stanno muovendo bene.

È lo Stato nel suo complesso che deve rappresentare un fronte unito in questa vera caccia al tesoro. Le forze dell'ordine devono vigilare e la giustizia, anche e soprattutto penale, seguire il suo corso. In questo momento ogni indulgenza sull'evasione fiscale sarebbe imperdonabile: un tradimento. Ci vuole la massima severità.

E se si fanno più controlli i cittadini dovrebbero essere contenti»

Finora però i risultati sono stati piuttosto modesti...

«Non si può certo sperare di risolvere il problema in due mesi. L'evasione in Italia è un costume. Negli ultimi venti anni il centro-destra ha adottato una politica premiale all'inverso, basata sui condoni. I cittadini sono stati diseducati al rispetto della legge. Per questo ora c'è da fare un lavoro enorme. A partire dall'educazione civica nelle scuole».

In concreto?

«Bisogna rendere tracciabili tutti i movimenti di denaro e in questo senso l'anagrafe dei conti correnti rappresenta una novità importante. E nel contempo limitare l'utilizzo del contante alle sole piccole spese personali. Gli strumenti ci sono; oggi è più che mai necessario utilizzarli al meglio. L'incrocio tra le banche dati dovrebbe rendere molto difficile l'evasione. Almeno quella non organizzata su base criminale. Ma recuperare gettito, pur se fondamentale, non è sufficiente. È il momento di rendere più trasparente la spesa pubblica. Così si toglierebbe ogni alibi a chi non fa il proprio dovere con il fisco tirando in ballo gli sperperi dello Stato».

Ma c'è in questa maggioranza la volontà politica di combattere l'evasione, mettendo così a rischio un consenso misurato in una decina di milioni di voti?

«Questa teoria non mi convince. Nel Paese gli evasori sono comunque una minoranza. Sono convinto che chi riuscisse a ottenere risultati significativi nella lotta all'evasione, recuperando quattrini per la crescita, alla fine verrebbe premiato anche dal punto di vista elettorale».

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Calcio, orrore in Brasile: l'arbitro uccide
un giocatore, poi viene decapitato

Campionato dilettanti nel Nord del Paese: il calciatore protesta per un'espulsione, due morti sul campo

UN ARRESTO

Campionato dilettanti nel Nord del Paese: il calciatore protesta per un'espulsione, due morti sul campo

cantanhede--180x140.jpg?v=20130705175323Otávio da Silva Cantanhede (rotadosertao.com)
L'arbitro accoltella un calciatore, uccidendolo, e finisce decapitato. Orrore domenica scorsa in Brasile, come racconta Globoesporte. È successo nello stato del Maranhão, nel nord.

L'ACCOLTELLAMENTO - L'incontro tra dilettanti che si stava svolgendo a Pio XII ha avuto un doppio, tragico, epilogo. L'arbitro, Otavio Jordão da Silva de Catanhede, 20 anni, ha espulso un giocatore, Josenir dos Santos Abreu, 31 anni. Questi ha protestato rifilando anche un calcio al direttore di gara, che ha estratto un coltello ferendolo mortalmente (è morto durante il trasporto in ospedale). Due i fendenti che hanno ucciso Abreu.

IL MASSACRO - Gli spettatori hanno reagito con un'invasione di campo, e sconvolti, hanno raggiunto Catanhede legandolo al palo, lapidandolo, squartandolo e decapitandolo. La testa è stata poi esposta su un palo.

PRIMO ARRESTO - La polizia locale (Ssp) ha annunciato che il responsabile delle indagini, Valter Costa, ha avuto accesso a delle immagini registrate con i cellulari per identificare gli autori del gesto. Un uomo, Luis Moraes de Sousa, 27 anni, è stato arrestato dagli agenti di Santa Inês, a 33 km da Pio XII, e avrebbe confessato almeno l'aggressione a Catanhede. Altre due persone sono ricercate, una per lo squartamento e una perché avrebbe partecipato all'omicidio: . Francisco Edson Moares de Sousa, detto Chiquinho, e Josimar de Sousa, noto come Pirolo. Costa ha infatti spiegato: «I racconti dei testimoni ci avevano messo sulla pista giusta. Abbiamo identificato Luis Moraes, che ha precedenti, come l'ideatore del delitto. "Chiquinho" e "Pirolo" lo hanno aiutato a squadrare la vittima. Siamo sulle loro tracce e li prenderemo, perché un crimine non giustifica mai un altro».

Redazione Online

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Leonardo, ricorso boomerang: pena aumentata di cinque mesi La Commissione disciplinare non crede al ds del Paris Saint-Germain e rincara la dose: tornerà il 30 giugno 2014

Ricordate i famosi “missili” di Occhetto? E’ stato Corrado Guzzanti a renderli immortali ironizzando sulla loro beffarda traiettoria: scagliati con lo scopo di abbattersi sull’avversario politico di turno e di far trionfare la giustizia, i missili del “Líder Minimo” non solo mancavano puntualmente il bersaglio ma, dopo aver compiuto un’ampia parabola, ritornavano alle spalle dell’incauto mittente colpendolo nel luogo più umiliante e doloroso. Ecco, il ricorso presentato dal Paris Saint-Germain contro la squalifica di nove mesi inflitta a Leonardo per la spinta rifilata all’arbitro Castro è davvero un “missile” strepitoso: la squalifica – anziché attenuarsi – si è inasprita di brutto (da nove a quattordici mesi) e a suggellare la figuraccia in mondovisione ora manca solo il Tapiro d’oro. Complimenti vivissimi agli strateghi del club parigino, cui è rimasta la possibilità di presentare un ultimo disperato ricorso al Comitato Nazionale Olimpico e Sportivo Francese (CNOSF) e quindi, potenzialmente, di aggravare la situazione. Se la lasceranno sfuggire?

REGOLAMENTO DI CONTI – I fatti per i quali Leonardo è stato così duramente sanzionato dalla Commissione disciplinare della Ligue 1 francese risalgono allo scorso mese di maggio. Al Parco dei Principi si è da poco conclusa la partita di campionato fra PSG e Valenciennes (1-1 il finale) e il ds dei parigini, inviperito per l’arbitraggio di Alexandre Castro (tutti i torti non li ha: gli episodi dubbi sono tanti e fra questi spicca l’espulsione, apparsa troppo severa, di Thiago Silva al 43’ del primo tempo), attende il direttore di gara nel sottopassaggio che conduce agli spogliatoi e poi lo affronta urtandolo con una leggera spallata come a dire – forse – “caro Castro, tu espelli un giocatore per una cosa così?”. Il gesto, assolutamente non violento ma comunque molto grave, viene ripreso dalle telecamere e le immagini fanno il giro del globo.

L’IMPRUDENZA AL POTERE – La squalifica scatta quasi immediata e il club dei campioni di Francia reagisce difendendo Leonardo a spada tratta: “La direzione del Paris Saint-Germain prende atto della decisione della Commissione Disciplinare della Lfp di sospendere il direttore sportivo del club, Leonardo, per un periodo di nove mesi e di sanzionare il club con 3 punti di penalizzazione con la condizionale (in caso di recidiva la sanzione scatterà automaticamente, ndr). Tenuto conto degli elementi presentati ai membri della Commissione disciplinare, il PSG ritiene questa decisione infondata ed estremamente severa. Di conseguenza, il Paris Saint-Germain, totalmente solidale col suo direttore sportivo, ha deciso di fare ricorso contro questa decisione”.

LA MALDESTRA DIFESA DI LEONARDO E DEL PSG“È il delegato prima di me, quello con l’auricolare nero, che mi blocca il cammino” – ha affermato Leonardo ricostruendo i fatti in modo assai fantasioso – “È lui che mi spinge verso l’arbitro. Sono io che vengo spinto e assalito. Non mi pare che l’arbitro abbia l’espressione di una persona aggredita. Non c’è stata alcuna violenza da parte mia. Volevo solo discutere”. Sulla “non-intenzionalità” del gesto, davvero credibilissima, è stata impostata anche la linea difensiva degli avvocati del PSG, che evidentemente l’hanno considerata come l’unica possibilità per configurare un ricorso. Peccato che non abbiano intuito – di fronte a immagini così eloquenti – che era anche un’ottima ragione per non farlo.

CILIEGINA SULLA TORTA – Come se non bastasse la fragilità della difesa, Leonardo ha avuto pure la bella idea di non presentarsi all’udienza di ieri in tribunale (“è impegnato in una trattativa per un giocatore” ha spiegato il dg Jean-Claude Blanc). Insomma, non c’è che dire: davvero una vicenda giudiziaria condotta alla grande dall’inizio alla fine. Chapeau!

Enrico Steidler

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Bravi ragazzi…


LA CONDANNA
Calci e pugni al presidente,
sei mesi a Giannini

Nel 2006 la rissa con l’ex patron della Sambenedettese
LESIONI E MINACCE: IL “PRINCIPE” AVREBBE ORGANIZZATO

UNA SPEDIZIONE PUNITIVA RECLAMANDO I SUOI STIPENDI
di MICHELA ALLEGRI (Il Messaggero 05-07-2013)

Nelle strade della Capitale è conosciuto come "Il Principe", l'indimenticato ex capitano giallorosso Giuseppe Giannini, che ha vestito la maglia della Roma per ben quindici anni prima di dedicarsi alla carriera da allenatore. Un soprannome regale, che gli era stato affibbiato per la sua tecnica raffinata di gioco. Per quell' eleganza che lo contraddistingueva quando sfiorava il pallone sul campo di calcio. Un'eleganza che Giannini, almeno in un'occasione, avrebbe decisamente lasciato da parte: attaccate le scarpette al chiodo e diventato preparatore tecnico della Sambenedettese, aveva minacciato e preso a pugni l'allora patron della squadra marchigiana Alberto Soldini, per una questione di soldi. Ne era scaturita una lite furibonda, che si è appena risolta sul banco degli imputati del Tribunale di Roma dove, ieri, il Principe è stato condannato a sei mesi di reclusione con l'accusa di lesioni e minacce, su richiesta del pubblico ministero Gianluca Mazzei. Mandato a giudizio con citazione diretta dal pubblico ministero Marcello Cascini, Giannini è accusato di avere «minacciato di morte Soldini Alberto», si legge nelle carte della Procura, e di averlo massacrato di botte, colpendolo con una raffica di calci, pugni, testate e investendolo «con una sportellata della sua autovettura». Una vera e propria spedizione punitiva, insomma, che il Principe aveva organizzato insieme ad un suo amico di nome Pietro, che non è mai stato identificato.

L’AGGUATO
Tutto era successo il 17 ottobre del 2006. Alberto Soldini all'epoca era presidente della Sambenedettese calcio, una squadra di serie C di San Benedetto del Tronto che Giannini aveva allenato per poco tempo: da dicembre a febbraio. Il club marchigiano navigava in cattive acque, e il Principe non aveva percepito gli ultimi mesi di stipendio. Così, secondo l'accusa, avrebbe deciso di recuperare i soldi per conto suo, presentandosi sotto casa del patron per battere cassa. Soldini aveva raccontato di essere stato vittima di un agguato: era uscito di casa alle nove di mattina accompagnato dalla moglie e, proprio di fronte al cancello della sua villa a RomaNord, era stato intercettato da Giannini. Il Principe lo stava aspettando a bordo del suo fuoristrada grigio metallizzato, parcheggiato nel vialetto d'ingresso. Insieme a Giannini c'era un uomo di nome Pietro, che Soldini non aveva mai visto. I due, avevano messo subito le cose in chiaro: si erano presentati per reclamare il denaro e non erano disposti ad aspettare. Il presidente aveva spiegato che la Sambenedettese era prossima al fallimento, che c'era una curatela in atto e che per ilmomento quei soldi non potevano essere recuperati.

L'AGGRESSIONE
Le spiegazioni erano state inutili: «Dammi i soldi sennò ti ammazzo », avrebbe gridato Giannini. Poi, era partita una testata e Soldini era caduto in terra ed era stato preso a calci e pugni. Pietro gli aveva anche afferrato la cravatta «tirandola a mo' di cappio», si legge nelle carte della Procura. Infine, il Principe aveva dato al presidente il colpo di grazia, investendolo con una sportellata del suo fuoristrada. «Oggi ti sei salvato, ma domani mattina sto qua e t'ammazzo», aveva sentenziato Giannini prima di andarsene. Dopo l'aggressione, Soldini aveva sporto denuncia al commissariato di Polizia, ed era stato ricoverato al pronto soccorso dell'ospedale Sant'Andrea, dove gli erano state diagnosticate lesioni guaribili in trenta giorni: «Contusioni, abrasioni multiple del volto e frattura del terzo distale del V metacarpo ».
Soddisfatto per la sentenza l'avvocato Antonio Moriconi, difensore di Soldini: «Giannini era stato riconosciuto da testimoni attendibili, era difficile sbagliarsi perché è un personaggio molto noto». Oltre ai seimesi di condanna, il Principe, che ha ottenuto le attenuanti generiche e la sospensione della pena, dovrà anche liquidare a Soldini una provvisionale immediatamente esecutiva di circa seimila euro.

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