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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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La diplomazia del pallone

I Mondiali di calcio del 2022 saranno l’apice di una lunga e articolata

operazione di penetrazione del Qatar nel mondo dello sport

di JOHN CARLIN, EL PAÍS, SPAGNA (Internazionale 1002 | 31 maggio 2013)

Quale di queste due notizie è vera? 1) Il Qatar lancerà la Dream football league, un torneo di calcio tra le 24 squadre più forti del mondo, che mettendo in palio duecento milioni di euro minaccia di oscurare la Champions league, a corto di fondi.

2) Il Qatar finanzia un programma quinquennale di eccellenza sportiva, a cui hanno partecipato due milioni di giovani di tre diversi continenti. L’obiettivo è assegnare la cittadinanza ai migliori calciatori affinché indossino i colori del Qatar ai Mondiali che l’emirato ospiterà nell’estate del 2022.

La notizia vera è la seconda. Eppure anche la prima sembra verosimile, tanto che perfino il rispettabile Times di Londra l’ha pubblicata con titoli a caratteri cubitali. Il giornale ha poi dovuto rettificare e scusarsi con i lettori.

Altra domanda. Cos’hanno in comune Lionel Messi, i Fratelli musulmani egiziani, Tony Blair, i grandi magazzini londinesi Harrods, il marchio automobilistico Porsche, David Beckham, il Banco Santander, la squadra di calcio del Barcellona, Nicolas Sarkozy e i ribelli islamici in Siria? Risposta: tutti hanno ricevuto, ricevono o riceveranno soldi dall’emirato arabo.

Quello che finora è riuscito a fare il Qatar non sembra reale, ma un sogno uscito da una versione moderna delle Mille e una notte, la cui prevedibile morale è che il denaro spiana la strada verso potere e alleanze. Ma se il marchio Qatar è conosciuto in tutto il mondo, è soprattutto grazie alla penetrazione nel mondo del calcio. Niente rappresenta meglio l’ingordigia del Qatar del suo programma di eccellenza sportiva, Aspire, ispirato al modello del vivaio del Barcellona.

Dal 2007 Aspire ha messo alla prova oltre due milioni di giovani calciatori (l’equivalente dell’intera popolazione del Qatar) su ottocento campi di calcio in Asia, America Latina e Africa. Quasi un milione di ragazzi ha partecipato a corsi tenuti da seimila volontari e allenatori professionisti. I migliori ricevono una borsa di studio per perfezionare le loro doti in un centro di allenamento sportivo in Qatar. Sono quindici i paesi coinvolti nel programma Aspire, ognuno dei quali ha una sua rete interna di “osservatori” che fanno una prima scrematura tra i ragazzi di 13 anni. Lo scopo è selezionare ogni anno cinquanta ragazzi di ogni paese e per un mese farli giocare in squadra e sottoporli a prove individuali. Chi supera questo processo di selezione può proseguire la sua formazione in Qatar o in una scuola finanziata da Aspire in Senegal. L’obiettivo filantropico è coltivare professionisti in grado di competere nei grandi campionati europei. Quello più egoistico è convincere i più bravi a diventare cittadini del Qatar e giocare ai Mondiali del 2022.

Aria condizionata allo stadio

Il Barcellona ha beneiciato ampiamente dei milioni del Qatar. In primo luogo perché persone vicine alla squadra hanno partecipato al programma Aspire. Gli scout del Barcellona possono scegliere i migliori giocatori di Aspire per il vivaio della loro squadra. Inoltre, il rapporto costruito attraverso questo programma ha contribuito a rendere il Qatar il maggior finanziatore della squadra catalana. Dal 2011 sulla maglia del Barcellona spicca il nome della Qatar foundation, presieduta dalla moglie dell’emiro. In cambio della pubblicità, che dalla prossima stagione sarà sostituita con quella della Qatar airways, la squadra riceve trenta milioni di euro all’anno. A Barcellona è nata una polemica dopo l’annuncio che la squadra avrebbe avuto uno sponsor, dato che fino a quel momento sulla maglia non c’era mai stata pubblicità. Ma è risultato chiaro a tutti che se il Barcellona voleva continuare a pagare il miglior giocatore del mondo, Lionel Messi, non c’era altra soluzione.

In Francia Al Jazeera ha ottenuto i diritti per trasmettere il campionato di calcio francese, portando così la cifra degli investimenti dell’emirato arabo nel calcio francese a più di un miliardo di euro. I quarti di finale della Champions league del 2013 tra il Barcellona e il Paris Saint-Germain (Psg) sono stati una sfida Qatar contro Qatar. Il Psg nel 2012 è stato comprato dalla Qatar investment authority, il fondo sovrano del paese diretto dal primo ministro Hamad bin Jassim al Thani.

Tutto questo è niente in confronto al gol messo a segno dall’emirato aggiudicandosi i Mondiali del 2022. La Fifa ha scelto il Qatar, nonostante la presenza di contendenti importanti come gli Stati Uniti, grazie all’appoggio di personalità tra cui l’allenatore spagnolo Pep Guardiola e l’ex calciatore francese Zinedine Zidane, ma soprattutto grazie all’enorme quantità di denaro di cui dispone. Circolano voci che i voti siano stati comprati. Ma se il Qatar è riuscito a far prendere in considerazione la sua candidatura è perché ha assicurato di poter rimediare al principale argomento a suo sfavore, le alte temperature, che a giugno possono raggiungere i cinquanta gradi. Doha installerà impianti di aria condizionata in tutti gli stadi, sulle gradinate e in campo. I qatarioti, musulmani devoti, dicono di sapersi imporre sulle leggi naturali volute da Dio grazie alle più sofisticate tecnologie terrene. Ma non tutti ne sono convinti. Oltre al caldo intenso, all’aria condizionata e alle conseguenze sulla salute dei giocatori, si discute anche su come un paese di due milioni di abitanti riuscirà a riempire gli stadi.

Come diceva Oscar Wilde “c’è al mondo una sola cosa peggiore del far parlare di sé: il non far parlare di sé”. E il mondo parla del Qatar. Del calcio e degli altri sport che in Qatar si giocano a livelli di eccellenza, come il tennis, il golf e la pallamano. A Doha si è da poco concluso il mondiale di motociclismo. Come spiega un diplomatico europeo residente nell’emirato, lo sport è la miglior vetrina per far conoscere il nome del Qatar nel mondo.

Dietro allo sport c’è molto altro. C’è la volontà di Doha di trasformarsi in una Londra o in una New York a livello economico, o nella Washington mediorientale. Il Qatar ha usato la sua ricchezza per attirare i migliori talenti della tecnologia e dell’architettura, i migliori ingegneri per costruire nuovi grattacieli di lusso nella capitale, concepita dall’emiro e dai suoi abitanti come la città del futuro. La potenza economica del Qatar si manifesta anche nelle grandi città lontane dal deserto. Europei e statunitensi fanno i loro acquisti in locali di proprietà del Qatar: da Harrods, i famosi grandi magazzini di Londra, nella gioielleria Tiffany’s di New York, nelle boutique di Valentino, nelle concessionarie Porsche. Tutti noi contempliamo la presenza del Qatar negli antichi edifici degli Champs-Élysées di Parigi o nel grattacielo Shard di Londra, l’edificio più alto d’Europa, da poco ultimato grazie al denaro qatariota.

Da dove nasce tutto questo fervore? Qual è l’obiettivo di questa strategia iperattiva? L’obiettivo esplicito riguarda la volontà del Qatar di prepararsi per un futuro in cui le risorse naturali che possiede, soprattutto gas, non offriranno più le attuali garanzie di autosufficienza per un paese che importa il 93 per cento degli alimenti e che ottiene acqua potabile con un costosissimo procedimento di desalinizzazione. È un tentativo di diversificare l’economia, realizzando importanti investimenti in aziende straniere e stringendo alleanze durature con paesi importanti. “Investiamo per le generazioni future”, spiega Ahmad al Sayed, della Qatar Holding.

Le alleanze sono utili se sono durature. “L’emiro ritiene che il Qatar debba pensare alla sopravvivenza futura e per questo investe nei grandi centri finanziari europei e asiatici”, afferma un diplomatico europeo esperto del mondo arabo. “Sopravvivere significa anche stringere legami forti con paesi forti, perché il Qatar è un paese piccolo in una regione instabile”. L’emiro punta anche alla modernizzazione. Spinto forse in parte dal complesso del vicino povero che il Qatar ha sofferto per tutto il novecento, l’emiro vuole governare un paese famoso in tutto il mondo per la sua intraprendenza nel campo dell’innovazione.

Ed è qui che entrano in gioco i Mondiali di calcio che il Qatar ha voluto per due motivi. Il primo è il desiderio di riconoscimento internazionale. Il secondo, il fattore tecnico: un programma d’investimenti infrastrutturali da oltre cento miliardi di dollari, che prevede un nuovo aeroporto, autostrade, ponti, una rete ferroviaria, oltre ai grattacieli alti e moderni che ogni settimana spuntano dalla sabbia.

Il Qatar oltre alla fortuna economica vanta la fortuna politica di essere un paese stabile, con una maggioranza musulmana omogenea. L’emiro e la sua famiglia simpatizzano con i protagonisti delle rivolte arabe in Egitto e in Libia, ma in Qatar non si levano voci a favore della democrazia. La ricchezza non accende la ribellione né il pensiero critico, ma piuttosto il desiderio che la situazione rimanga così com’è. O che si consolidi sempre di più. Tutti i cittadini del Qatar conoscono bene la risposta che i collaboratori dell’emiro danno a chi gli chiede perché spendano soldi in tutto il mondo. “Perché no?”.

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Il Fatto Quotidiano - 31-05- 2013

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«Balotelli pusher a Scampia»

Lui nega ma scoppia il caso

di MAURIZIO DE GIOVANNI (IL MATTINO 31-05-2013)

Chissà se è vero, quello che l’esimio signor Armando De Rosa, pentito, ha detto ai pm: Supermario Balotelli spacciò per scherzo droga nel suo tour a Scampia.

Chissà se è vero che lui, il nuovo bello e dannato che il calcio italiano propone al mondo, il fidanzato che ogni velina vorrebbe avere e al quale ogni puerpera vorrebbe attribuire il proprio figlio, nell’ambito del Safari della Cocaina che ha fatto nella nostra città abbia voluto provare l’ebbrezza dello spaccio, per qualche minuto rilevando la postazione di un pusher a Scampia. Per la verità, con la propria famosa raffinata eleganza, lo stesso centravanti ha smentito via twitter la cosa, salvo rimuovere immediatamente l’allegra comunicazione con la quale, nei proverbiali 140 caratteri, assimilava l’accusa a quella di utilizzo massivo della prostituzione e alla sodomia passiva (non proprio in questi termini, ma insomma). Non abbiamo difficoltà a credere che in effetti l’asserzione del collaboratore di giustizia sia, come dire, un abbellimento della propria deposizione, come l’affermazione dell’altro pentito che ha comunicato che il Pocho Lavezzi sia stato tra i tifosi che, non si sa quanto spontaneamente, applaudivano le gesta calcistiche amatoriali del boss Lo Russo, quello avvistato a bordo campo con l’accredito da giardiniere del San Paolo. Vero o no, bisogna complimentarsi col bravo Balotelli, che ha comunque voluto effettuare questo tour. Ma sì: perché fermarsi al trito e ritrito, il panorama del golfo, Capri, Sorrento e Pompei, quando si ha a disposizione una risorsa di assoluto valore mondiale come la piazza di spaccio più grande d’Europa? Quale luogo esiste più consono di questo, all’immagine del giovane miliardario sopra le righe, al simpatico mascalzone trasgressivo pieno di catene d’oro e orecchini di brillanti, al ragazzo dagli addominali scolpiti e dall’atteggiamento piratesco? Una ragazzata, si dirà. Una bravata innocente, come quella di fumare nella toilette del Freccia Rossa o di far esplodere dei fuochi d’artificio in casa il giorno del compleanno. Che ci sarà di male?

C’è di male, invece. Tanto ce n’è, di male. Caro Balotelli, tu sei un calciatore della nazionale. In te credono migliaia di bambini e ragazzi, volente o nolente sei un eroe del nostro tempi. Non è importante, a parte la rilevanza giudiziaria, che tu abbia voluto provare a spacciare per qualche minuto: è rilevante che tu abbia voluto fare il turista a Scampia, dando la luce sbagliata a quella vergogna della città, a quel tumore che non si riesce a estirpare, rendendolo un luogo da visitare come se fosse un monumento. Chissà cosa penseranno di questa tua simpatica bravata le mamme che non chiudono occhio quando i propri figli non rientrano di notte, o le fidanzate che vedono morire sotto i propri occhi ragazzi che cadono vittime di quella polvere bianca che hai visto passare di mano davanti a te. Per molti anni i tifosi del Napoli hanno dovuto ascoltare discorsi etici che sminuivano la grandezza del Capitano dei due scudetti, che in quel tunnel si era infilato rovinando una carriera che avrebbe potuto essere ben più lunga; e a nulla è valso rispondere che noi lo amavamo ugualmente, e che della droga era stato una vittima e non certo un turista. Il tuo compagno Osvaldo, caro Balotelli, è stato rimosso dalla nazionale solo per un tweet irrispettoso verso il proprio allenatore: cosa dovrebbe spettare a te, che irridendo il lavoro delle forze dell’ordine e la sofferenza di migliaia di famiglie italiane, hai voluto fare il tuo giro turistico della droga?

Chissà, magari è una buona idea. Magari il bus del Sighseeing dovrebbe prevedere una deviazione, prego, signori, alla vostra destra tre spacciatori e due clienti, scattate pure le vostre foto. E forse dovremmo inserire la tappa in un tour che prevede il motocross estremo in via Marina, e un torneo di golf a diciotto buche in via Posillipo. Grazie, Mario: dell’idea e della positiva pubblicità. Siamo tutti con te, nella battaglia contro il razzismo: ma ti prego, ricorda che una stupidaggine è una stupidaggine, qualunque sia il colore di chi la fa. E ti farebbe onore ammettere di averla fatta, questa stupidaggine. E chiedere scusa. Anche con un tweet.

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Io non sto con Balo

Giovanni Capuano - 31-04-2013

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Nessuno in questo momento è in grado di dire se le parole di Armando De Rosa, il pentito che accusa Balotelli di aver spacciato ‘per scherzo’ nel corso della sua visita a Scampia nel 2010, siano vere o meno. Istintivamente verrebbe da dire che si tratta di un’ingenuità esagerata anche per un ragazzo non nuovo a comportamenti al limite come Mario. Quindi meglio sperare che sia tutto falso e che l’errore contenuto nei verbali (De Rosa colloca la visita nel 2009) sia la spia di un tarocco. Però la leggerezza con cui la vicenda viene trattata dal mondo del calcio suona francamente inaccettabile.

Che Balotelli si difenda con energia anche scomposta è legittimo. Che la Figc e Prandelli si schierino acriticamente dalla sua parte sottoscrivendo le parole di Mario via Twitter (!?!) è già un po’ forzato. Che addirittura si tiri in ballo la penosa storia processuale di Enzo Tortora, invece, finisce per essere addirittura offensivo nei confronti di chi contro la camorra lotta ogni giorno.

Accade sulla giornalaccio rosa dello Sport dove in prima pagina campeggia in bella evidenza un ‘Tutti con Balo’ che chiarisce senza troppi equivoci la posizione del giornale. L’articolo in cui si dà conto della vicenda inizia con questa sinistra avvertenza: “Il racconto del Balotelli spacciatore per gioco a Napoli in compagnia di due criminali è stato fatto da un pentito di camorra a due magistrati della Dda. Pentito, camorra e un personaggio famoso tirato in ballo. Già questi tre elementi riportano alla memoria una delle pagine più tristi della storia italiana: l’arresto di Enzo Tortora”.

Ecco, io non ce la faccio a stare con Balo. Sinceramente. Io sto con Sergio Amato ed Enrica Pascandolo, i pubblici ministeri che hanno raccolto le dichiarazioni del pentito, le hanno inserite nei rispettivi fascicoli e ora decideranno se risentire Balotelli su quanto accaduto nell’estate del 2010 o cestinare tutto. Io sto con loro perché il passaggio sul ‘Balotelli spacciatore’ fa parte di carte processuali ben più ampie e serie di quanto possa riguardare il gesto stupido di un ventenne annoiato.

Con quale diritto dovrei accettare acriticamente la versione di Balotelli? Per quale interesse superiore? Detto che, anche fosse vero quanto raccontato dal pentito, probabilmente si tratterebbe di una bagatella lesiva solo dell’immagine del giocatore e non di un reato da ergastolo, perché bisogna attaccare l’etichetta di inattendibile a un collaboratore solo perché non piace quello che ha raccontato sul campione del cuore?

Penso che Prandelli, la Figc e la stampa dovrebbero limitarsi ad apprendere e raccontare quanto contenuto in quei verbali senza fare il tifo. Penso che Balotelli avrà modo e tempi per spiegare che non siano i tweet inconsulti sparati a raffica dal ritiro della Nazionale (anche questa è un’anomalia). Penso che se qualcuno chiederà conto al c.t. del codice etico che fu sono problemi suoi e di chi ha voluto scrivere norme che poi ha applicato un tanto al chilo. A un anno dal Mondiale di Balotelli non si può fare a meno. Basta dirlo con chiarezza e lasciar stare il lavoro dei magistrati di Napoli.

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Impareremo a far di conto quando voi imparerete a fare calcio

La Terza Stella - blogpanorama.it -31-05-2013

Inutile dire che dissentiamo da Michel Platini quando dice che Andrea Agnelli dovrebbe fare meglio i conti in merito agli scudetti. Non ci strappiamo di certo i capelli per quella che è a suo modo una posizione lecita e comoda (ma anche superficiale); insomma una posizione da Presidente dell’UEFA.

Ma la questione del conteggio è sintomatica di come venga gestito il campionato italiano da questa banda di dilettanti allo sbaraglio. Gente che Corrado avrebbe avuto qualche remora addirittura ad ospitare alla sua Corrida. In questi giorni la trattoria di Paese denominata “Calcio Italiano” ha regalato alcune perle memorabili.

La prima. L’Empoli (diciamo l’Empoli non il Real Madrid) tiene in scacco la Federazione per via della partecipazione di due suoi giocatori alla finale Play Off per la Serie A. Ricapitoliamo brevemente di cosa si tratta: Regini e Saponara due delle stelle dell’Empoli finalista in B sono tra i convocati di Mangia per la fase finale dell’Europeo U21. La FIGC vuole che i giocatori seguano i loro compagni nel ritiro dell’Under saltando la finale di ritorno con il Livorno. L’Empoli chiaramente si oppone. Non entreremo nelle pieghe del regolamento per capire chi abbia ragione, ma facciamo due banali considerazioni. Far giocare una finale togliendo a una delle due squadre quelli che sono probabilmente i suoi due miglior giocatori non falsa i campionati? Si parla sempre di valorizzazione dei giovani. Una domanda, se l’Empoli avesse 11 giocatori convocati in U21 dovrebbe giocare la finale Play Off con la Primavera? Questo spiega abbastanza semplicemente l’assurdità della situazione e della FIGC.

La seconda. Balotelli spacciatore per caso. Altro topic caldissimo di questo calcio italiano in picchiata libera è la rivelazione di un pentito di camorra secondo il quale Balotelli avrebbe giocato a fare lo spacciatore nel suo viaggio a Scampia. Premesso che non potrebbe fregarcene di meno. E premesso anche che sarà un tribunale (non un Guido Rossi qualsiasi) a stabilire se la cosa è vera e se costituisce reato e di che entità. Ma un pensiero ci corre al mutabile codice etico di Don Cesare Prandelli. Ma come Criscito resta a casa per accusa ridicole smascherate praticamente immediatamente da qualsiasi blog. Nessun garantismo, nessuna cautela, prudenza zero. Poi arriva questa storia di Balotelli e di colpo Don Cesare si scopre più garantista di Filippo Facci?

Ecco questa gente qui vorrebbe insegnare a noi a contare gli scudetti. Ma per piacere. Imparate a fare calcio, a vivere e a convivere. E noi impareremo a contare. Ma a quel punto, siamo sicuri, arriveremmo allo stesso numero: trentuno.

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Palazzo di vetro di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 01-06-2013)
PALAZZI, DI MARTINO E LE INCHIESTE

CHE SEMBRANO NON FINIRE MAI

Abbiamo lasciato tranquillo Stefano Palazzi per un sacco di tempo. Anzi, siamo andati oltre difendendo l’azione del Procuratore federale di fronte all’imperversare del Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport (Tnas) e dei suoi sconti, ultimamente per la verità un po’ meno esagerati. Non ce ne vorrà, dunque, se ora torniamo a parlare di lui, e di quel vizietto di prendersela comoda che ogni tanto riaffiora. A Palazzi snoccioliamo tre date: 8 gennaio,chiusa inchiesta della Procura di Bari sulla seconda tranche di Scommessopoli con successiva trasmissione degli atti alla Procura federale; 14 febbraio, inizio delle audizioni a cura della «squadra» di vice al suo servizio; 20 aprile, fine delle audizioni. Sono passati 52 giorni, ed è dal 30 aprile che i deferimenti e le archiviazioni vengono dati per imminenti, a livello informale dalla stessa federazione. Al punto che tutti dicono di sapere che per Conte ci sarà l’archiviazione e per Ranocchia, ieri sera impegnato con la Nazionale, un deferimento per omessa denuncia. Caro Palazzi, vuole farci la grazia di procedere ? Qualcuno tra Abete e Valentini può cortesemente sollecitarlo, così da consentire una partenza quasi regolare della prossima stagione? Un affettuoso ringraziamento ad entrambi.

Buon compleanno, in compenso, al capo della Procura di Cremona Roberto Di Martino. La sua inchiesta sui misfatti del calcio compie proprio oggi due anni. Era il primo giugno 2011 quando fu tutto un tintinnar di manette, primo atto ufficiale di una inchiesta che avrebbe dovuto fare ombra, tra una scommessa illecita e una partita aggiustata, alla celebre Calciopoli. Stiamo aspettando le conclusioni, le stesse che in due atti è stata nel frattempo capace di tirare la Procura di Bari e in un atto solo (e piuttosto sbrigativo) la Procura di Napoli. Da Cremona, ancora niente, se non le puntuali interviste in cui Di Martino denuncia il fare omertoso del mondo del calcio. A lui tutta la nostra comprensione e solidarietà, con la preghiera tuttavia di mettere prima o poi un punto: così da consentire a Palazzi, che pure sull’argomento di cartuccelle ne ha avute abbastanza per farsi un’idea, di completare il suo lavoro. Vedere Mauri alzare la Coppa Italia è stato bellissimo: ma sapere un anno dopo il suo arresto se è colpevole di qualche cosa o se è un innocente finito ingiustamente in galera lo sarebbe ancora di più.

Si è conclusa col minimo spargimento di sangue la querelle relativa ai due giocatori dell’Empoli Regini e Saponara che domenica sera si giocheranno la serie A nello spareggio col Livorno e poi raggiungeranno l’Under 21 di Mangia in Israele per la fase finale dell’Europeo. Ad Abete e al presidente della Lega di B Abodi, che si sta brillantemente allenando per prenderne il posto nel 2017, vorremmo suggerire, la prossima volta, di dare un’occhiata al calendario in tempo utile: sarebbe bastato anticipare di un solo giorno la trafila dei playoff per evitare almeno la metà di questo caos.

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Castro: "Io minacciato di morte" E' l'arbitro che ha subito la spinta di Leonardo. Il brasiliano è stato squalificato per 9 mesi, lui sporge denuncia per una telefonata intimidatoria.

Notizia del 02 Giugno 2013 - 12:39

Era diventato, suo malgrado, celebre il 5 maggio scorso, quando subì la rabbia di Leonardo, che lo spintonò nel tunnel degli spogliatoi dopo una contestata espulsione di Thiago Silva. Quel raptus sarebbe costato al dirigente del PSG una squalifica di nove mesi.

Domenica, tuttavia, l'arbitro francese Alexandre Castro è tornato ad occupare le prime pagine dei quotidiani transalpini, e non solo. Le Parisien ha infatti riferito che il direttore di gara della famigerata partita contro il Valenciennes ha sporto denuncia contro ignoti per aver ricevuto minacce di morte sul suo telefono cellulare.

Il tutto risalirebbe alla notte di venerdì, quando Castro avrebbe ricevuto una telefonata minatoria condita di gravi insulti e pesanti intimidazioni. "Abbiamo allertato le autorità competenti affinchè lui e i suoi figli possano essere protetti", ha dichiarato alla Afp il legale del fischietto transalpino

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Zdenek Zeman, l’ultimo universalista?
di ELIO MATASSI (ilFattoQuotidiano.it 03-06-2013)

Il campionato si è concluso da poco, è stata assegnata anche la Coppa Italia come le due Coppe europee. Qual è stata la nota dolente su cui riflettere? Non certo il tardivo licenziamento di Andrea Stramaccioni – in un post dello scorso gennaio avevo già chiaramente evidenziato i limiti caratteriali del giovane allenatore interista –, per me, la nota più dolente, quella che mi ha colpito di più è stata l’esonero di Zeman nello stesso gennaio 2013; un allenatore, Zeman, cui va tutta la mia simpatia e solidarietà umana e intellettuale. Un allenatore che definisco ‘l’ultimo universalista’, cercando di spiegare questa formula nei termini seguenti: rispetto a un campionato sotto l’egida della Juventus –la squadra che ha un rapporto di natura particolare con la vittoria–, in cui ciò che conta è vincere con qualsiasi mezzo e soprattutto contro i propri avversari, Zeman, con la sua concezione ‘estetica’ ed etica del gioco, rappresenta l’unica alternativa credibile.

Non è da considerarsi casuale se quella concezione della ‘vittoria’ ha condotto la Juventus verso il conseguimento del maggior numero di scudetti, il titolo nazionale, (29 secondo i regolamenti, 31 come la dirigenza juventina proclama e rivendica). Comunque, 29 o 31, non vi è una grande differenza rispetto a quanto sto per argomentare. Sono infatti statisticamente irrilevanti rispetto alla due Coppe dei Campioni (al di sotto del 10 per cento rispetto al numero di titoli nazionali vinti), anche senza entrare nel merito delle due vittorie conseguite, una ai rigori, la seconda, su cui preferisco glissare per non infierire. Una percentuale così ridotta non è irrilevante, perché contrassegna la dimensione ‘provinciale’ della squadra torinese – il suo modo di esercitare un dominio sempre circoscritto, ‘particolare’, limitato.

Un campionato qualitativamente di basso profilo, che si sta sempre più avvicinando a quello turco o greco, non poteva accettare un allenatore come Zeman, l’ultimo universalista, ossia colui che ha concepito la vittoria come espressione della bellezza del gioco, della coralità armoniosa, dell’ethos condiviso. Universalista è dunque chi persegue il mito della compenetrazione tra bellezza, verità ed etica, un mito non estetizzante (si pensi a al rapporto disgiuntivo tra bellezza ed ethos di cui parla Kierkegaard in Aut aut), ma appunto universale, che si ricongiunge direttamente alle origini classiche (greche) della nostra civiltà.

Zeman ha pagato in primo luogo come uomo e, in subordine, come allenatore il perseguimento di questo ideale di compiutezza. La dirigenza juventina, in particolare Johan Elkann, dopo il successo sul Napoli nella supercoppa italiana, conseguita l’estate scorsa a Pechino, ha con dispregio parlato di Zeman, che in tutta la sua vita non sarebbe riuscito a vincere quello che un allenatore in seconda, quale era lo juventino Carrera, aveva ottenuto in una sola circostanza. E’ la consueta argomentazione juventina, antiuniversalistica: non importa in quale modo si vinca, importante è vincere comunque. Ricordo che anche quella vittoria fu molto discussa, fino al punto che la squadra soccombente, il Napoli, non partecipò alla cerimonia finale della premiazione, evento mai verificatosi in precedenza.

La dirigenza juventina dimentica inoltre il grande triennio del Foggia allenato da Zeman in serie A con un calcio spumeggiante e spettacolare o dimentica la vittoria nel campionato di Serie B dello scorso anno del Pescara, sempre allenato da Zeman, con un calcio altrettanto esteticamente straordinario e la valorizzazione di alcuni giovani talenti italiani, da Verratti a Insigne e Immobile. E’ facile parlare dall’alto, come una ‘superpotenza’ dinanzi a un uomo solo nella sua estrema coerenza.

Apprezzo Zeman come uomo e come allenatore per il suo coraggio, per la sfida che ha rivolto alla ‘superpotenza’ e per la fede che ha continuato a nutrire per il suo ideale; non può essere considerato un semplice Don Chisciotte sconfitto dalla storia, basti leggere uno degli ultimi lavori di Howard Gardner, Verità, Bellezza, Bontà. Educare alle virtù nel XXI secolo (Milano, Feltrinelli, 2011): “L’attenzione alle virtù è sempre alta, un dibattito vigoroso su di esse ha permeato le società più vitali” (p. 15). L’universalismo zemaniano è quanto mai attuale, anche se appare ‘minoritario’, ma verrà anche il giorno…

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Il doppio privilegio dell’AC Monaco
di CRISTIANO NOVAZIO & LORENZO TATARELLA (SPORT&LEGGE 03-06-2013)

Il campionato calcistico francese si è appena concluso con la vittoria del ricchissimo Paris Saint Germain che ha avuto la meglio delle altre squadre grazie ai numerosi e dispendiosi acquisti fatti nelle ultime sessioni del calcio mercato dalla famiglia reale del Qatar che detiene la proprietà della squadra parigini.

Questo il dato principale di un torneo che ancora non può competere con il livello tecnico degli altri campionati europei principali, ma che dall’anno prossimo sarà arricchito dalla presenza della neo-promossa Ac Monaco, ossia la squadra del Principato di Montecarlo che, guidata dall’allenatore italiano Claudio Ranieri, si è imposta nella serie cadetta, sancendo il divario con le tutte le altre squadre della categoria inferiore.

Fino a questo momento sembra essere una storia normale: il racconto di una normale stagione calcistica in cui vince chi più spende per assicurarsi i migliori protagonisti del panorama calcistico. Invece, è proprio la recente storia dell’Ac Monaco che lascia per il futuro parecchie perplessità.

La squadra aveva culminato la propria parabola discendente con la retrocessione l’anno scorso: un declino impressionante se si pensa che il Monaco era finalista della Champions League poi vinta dal Porto di Mourinho.

Da quel momento una gestione societaria deficitaria e priva di significativi investimenti aveva ridotto la squadra monegasca a un ruolo da comprimaria, culminata proprio con la retrocessione.

Solamente l’ingresso di un nuovo presidente russo, uno di quegli oligarchi che hanno fatto fortune incalcolabili, ha permesso alla società di ripartire e di sperare in successi anche nel breve periodo.

Eh sì, nonostante la presenza di altre squadre oltre al Psg in grado di competere per il titolo nazionale, quali ad esempio il Marsiglia o il Lione, il Monaco con la ricchissima campagna acquisti che il Presidente Rybolovlev sta pianificando un immediato ritorno ai piani alti della Ligue 1.

Nelle ultime due settimane il Monaco ha infatti speso all’incirca 120 milioni di Euro (oltre agli ingaggi) per l’acquisto di tre calciatori, sbaragliando la concorrenza di squadre ben più blasonate tramite offerte milionarie che nessuna persona dotata di un minimo di ragione potrebbe rifiutare.

Ora, questo nuovo ingresso di capitali pone due ordini di riflessioni. In primo luogo, si ha la conferma che al momento le regole del Fair Play finanziario, che dovrebbero entrare in vigore dal prossimo anno, sono completamente prive di vincoli. In secondo luogo, è necessario interrogarsi sulla legislazione fiscale del Principato di Monaco che non è sottoposta alle regole da poco introdotte dal Governo francese che tassano i “super-ricchi” al 75%

Ciò che veramente non riesce a comprendersi è come si farà a mettere in atto le norme imposte dal Fair Play finanziario, appurato che il modo per eluderle è assai semplice: si pensi alla sponsorizzazione da 500 milioni di Euro che una non precisata società del Qatar ha stipulato con il Paris Saint Germain.

Queste norme, seppur giuste e condivisibili nell’ottica di competizioni più equilibrate che premiano i sodalizi che meglio spendono e non quelli che spendono di più, appaiono di impossibile imposizione. Inoltre, sembra forse che, allo stato dei fatti, non vi sia alcun riconoscimento per quelle squadre che già da tempo stanno riducendo le proprie spese per essere rispettose dei parametri imposti.

Ma non è solo questo il problema che si presenta alla luce dei nuovi investimenti fatti dall’Ac Monaco.

Infatti, tutti i club francesi sono sul piede di guerra contro la squadra monegasca in quanto non ritengono equo che la stessa partecipi a un campionato nazionale non rispettando le norme fiscali che vengono imposte per tutti.

In ragione di ciò, tutte le squadre hanno chiesto che il Monaco, per poter partecipare al prossimo campionato versi un contributo di 200 milioni di Euro, quale contributo per tutte le tasse sinora non pagate.

Questo doppio privilegio, non può che essere oggetto dell’attenzione del Presidente della Uefa, Michael Platini, ossia il promotore e realizzatore del Fair Play finanziario.

E potrebbe altresì considerare il problema della presenza dei paradisi fiscali nel settore calcistico, perché come visto in un precedente articolo in questo blog pubblicato, sono numerosi i club, soprattutto inglesi, che hanno trasferito la propria sede finanziaria in paradisi fiscali, potendo così godere dei privilegi che gli stessi garantiscono.

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Preziosi ha perso la testa. :sisi:

Che gentleman...

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European Soccer's Summer Exodus Begins
by ROB HUGHES (The New York Times 04-06-2013)

The arrival of Neymar in Barcelona ends two years of speculation about where Brazil’s new prince among players would choose for his inevitable European flight.

But as Barça and the sponsor Nike made the most of this prize capture, another player — another winger — slipped out of Spanish league soccer. The $74 million trade of Neymar from Santos to Barcelona is more than double the $30 million Manchester City will pay to capture Jesús Navas, the ultraquick right winger from Sevilla.

Somewhere in the middle of those fees, which are simply transfer sums that clubs agree to for the temporary acquisition of players, came the departure from Atlético Madrid of Radamel Falcao.

His move was expected. His destination is a surprise: Falcao could have gone to Chelsea, to one of the Manchester teams, or even across Madrid to Real, but he and his advisers chose A.S. Monaco.

Falcao, the dynamic, instinctive, predatory Colombian, and Navas, the goal maker, will doubtless be the start of a net summer migration from La Liga.

Why? Simple economics. There is Barça and there is Real Madrid; beneath that, there is a sea of indebted clubs in a nation of economic crises.

The reality of Spain, and of leagues in France, Germany, Italy and to a degree England, is that there is growing two-tier gap in which a couple of clubs dominate the television ratings, thus creating wealth that the rest cannot dream of competing against.

But, still, Falcao’s move to Monaco shocked Europe.

He is known as the Colombian Tiger because of his astounding ability to lurk almost unseen until he pounces with goals from all angles, in the air, along the ground. His big match temperament took him from River Plate in Argentina to Porto in Portugal and then to Atlético Madrid.

And while in terms of striking, he was third in La Liga behind Lionel Messi and Cristiano Ronaldo, his near goal-a-game ratio was astonishing in a team that had nothing like the all-round quality to create his goals for him.

Soccer scouts and agents can spot that potential, and sell it. So the departure from Atlético was more than anticipated. Since last August, when Falcao scored three goals that devastated Chelsea in the UEFA Super Cup, it was rumored that the Chelsea owner, Roman Abramovich, would pay whatever price was demanded for him.

But when the move came, it was not to Chelsea in West London, but to Monaco — the very place where the annual Super Cup is played. And it was another Russian paymaster, Dmitry Rybolovlev, paying Atlético’s price and more than matching Chelsea’s salary offer.

Rybolovlev is Monaco’s Abramovich, with an extra advantage in that the club he has purchased happens to be in a tax haven.

With its new fiscal power, Monaco has just risen from the second division of French soccer back to the first. This brings a spending spree that will take on the Qatari-backed Paris Saint-Germain in Ligue 1 in quick time.

Monaco’s coach, the well-travelled Italian Claudio Ranieri, was once fired by the Russian at Chelsea. He doubtless relishes taking from Amramovich to “give” to his new oligarch, Rybolovlev.

Another big player in this marketing of soccer flesh is Jorge Mendes.

Heaven knows how much this Portuguese superagent makes from moving players and coaches around the well-heeled club owners.

Mendes is the adviser to José Mourinho, who has just completed a full circle from Chelsea to Inter to Real Madrid and now back to Chelsea. Mourinho said Monday that he and “the boss” Abramovich had decided to get married again.

That does not come cheaply. The divorce was worth several seasons’ salary on the broken contract; the renewal of vows is reported to be worth £10 million, or $15 million, per year, plus bonuses.

Falcao, meanwhile, has signed on for a net annual pay of €14 million, or $18 million, in the Principality of Monaco. He is joined by other new recruits — James Rodréguez, João Moutinho and Ricardo Carvalho — all with ties to Portugal and all advised by Jorge Mendes.

In the case of Falcao, there is an even deeper tie. When Falcao moved on from helping Porto to win the Europa League to doing the same thing for Atlético, his Spanish team could not afford the full transfer fee.

Mendes then became part-owner, paying the difference so that his client could move upward and onward.

Third-party ownership was supposed to be outlawed by FIFA. But tracking it and breaking it became too expensive and too time-consuming for the world governing body, which has become too embroiled with its own problems to police the movements of players in 200 countries across the globe.

This is not to imply that Mendes is in any way devious. His business starts with his own judgment of spotting rising potential, and finding buyers for his stable of coaches and artists.

What some of us would give, however, to be a fly on the wall the next time Abramovich meets the Portuguese who has just brokered the move back to Chelsea of Mourinho, but moved Falcao beyond Chelsea’s reach for the time being.

Rybolovlev is a qualified cardiologist who mined for potash. His daughter Ekaterina recently paid $150 million to buy the Greek islands of Skorpios and Sparti.

So naturally Abramovich will know about the Rybolovlevs. Soccer is just one way to spend, and the Monégasque appeal of sunshine and tax-advantaged banking has now drawn Falcao as it did the Formula 1 motor racers, Hollywood stars and models who live there.

Also among the residents is Ken Bates: the Englishman who sold Chelsea to Abramovich a decade ago.

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ULTRAS E RABBIA SOCIALE

Galatasaray, Besiktas e Fenerbahçe:

le curve unite contro Erdogan

di BENJAMIN PETRINI (ilmanifesto 05-06-2013)

Il movimento di protesta contro il governo islamista di Recep Erdogan annovera una moltitudine di forze politiche e sociali. Basti pensare che alle poche centinaia di gruppi di studenti, intellettuali e organizzazioni non-governative, che hanno condotto manifestazioni quasi continue dal primo maggio in avanti, si sono uniti l’intero spettro delle forze politiche di opposizione, convinte di poter cavalcare la protesta e scalfire il forte consenso di cui ancora gode il partito governativo di Erdogan, Giustizia e Sviluppo (Akp). Le manifestazioni di questi giorni non sono il frutto di un’opposizione unitaria e programmatica al governo, ma di una più strisciante insoddisfazione e rabbia sociale. Tra le componenti più accese e coinvolte nelle violenze, vi sono gli ultras – i gruppi del tifo organizzato delle principali squadre di calcio turche, che si sono uniti alle contestazioni proprio nelmomento in cui la repressione ha subito un’impennata.Mala politicizzazione e il ruolo del tifo organizzato nelle proteste anti-governative non sono nuovi: durante la Primavera araba, in Egitto, le tifoserie hanno giocato un ruolo importante e soprattutto vengono rappresentate come un elemento di instabilità per il nuovo ordine.

Attraverso comunicati comparsi sui social network il 31 maggio, i maggiori gruppi delle tre principali – e acerrime nemiche – squadre di Istanbul (Galatasaray, Besiktas e Fenerbahçe) hanno aderito ad una tregua storica con l’intento di presentarsi in piazza come un blocco unitario, di solidarizzare con il movimento di protesta e di unire le forze nel fronteggiare la polizia. Con ogni probabilità gli ultras hanno preso parte agli scontri con la polizia che si sono succeduti nei giorni seguenti. Alcune fonti sostengono addirittura che tifosi del Galatasaray abbiano «liberato» una cinquantina di tifosi del Fenerbahçe, finiti nelle mani della polizia. Calore, passione e feroci rivalità a volte sfociate in tragedie sono i tratti caratterizzanti il tifo in Turchia. La tifoseria più marcatamente politicizzata è senza dubbio quella del gruppo Çarsi della squadra del Besiktas, di cui Elif Batuman ha ritratto un elegante profilo nel 2011 per The New Yorker. Di matrice anarchica, il Çarsi condivide con gli altri gruppi la vocazione anti-statalista e soprattutto l’avversione alle forze di pubblica sicurezza. Recentemente, in occasione dell’ultima partita casalinga del Besiktas, l’11 maggio scorso, il Çarsi si è scontrato a più riprese con la polizia.

Nelle manifestazioni di questi giorni, il tifo organizzato è facilmente riconoscibile: alieni alle forze politiche tradizionali, i tifosi hanno indossato sciarpe e magliette delle rispettive squadre e marciato fianco a fianco. L’unione tra i gruppi del tifo organizzato delle squadre di Istanbul – che alcune fonti locali definiscono «storica» e «unica» in trent’anni e passa di storia del tifo – è stata repentinamente seguita da altri gruppi di squadre turche, tra le quali il Bursaspor e il Trabzonspor. Il primo giugno, la terza città turca, Smirne, è stata anch’essa teatro di violenti scontri: anche qui, le tifoserie di Karsiyaka e del Göztepe, accanite rivali, hanno fatto forza comune contro la polizia.

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Money is not the root of all sport’s evils
by MATTHEW SYED (THE TIMES 05-06-2013)

The Deloitte Annual Review on Football Finance is published this week and will document, once again, the growing influence of money. From television rights to players’ wages, the graphs in the report will be like a squadron of Red Arrows thrusting into the stratosphere. English football is now a multibillion-pound industry.

It is not just football, of course. Golf, cricket, tennis and almost every other sport has seen a huge influx of money over recent times. In the Sunday Times Sport Rich List, three active golfers are valued at more than £25 million. Rory McIlroy’s contract with Nike is reported to be worth up to $100 million (about £65 million). Andy Murray’s net wealth rose by £8 million last year alone.

In most circumstances, this kind of growth might be considered a boon, but when it comes to sport, money is widely considered corrupting and unseemly. The most frequent topic in my mailbag is outrage at the influx of cash, particularly how it has inflated the wages of footballers to “grotesque levels”. Bankers, lawyers and executives who would cry blue murder if their own incomes were artificially limited solemnly argue that an axe should be taken to the freely earned incomes of athletes. They argue for a return to the golden age of amateurism.

But if we take a step back, we can see that money has brought many blessings to sport as much as to society. It has given a crack of the whip to aspiring sportspeople from poor backgrounds by giving them a chance to earn a living. It has transformed the quality of television coverage, particularly in football and cricket. It has improved the comfort and safety of stadiums, reducing the risk of a tragedy such as the Bradford fire happening again.

Trying to reduce the scope of money, however well intentioned, would have myriad unintended consequences. If you force clubs to cut ticket prices, rationing will be accomplished by queueing instead. This would be good for some people, but bad for others.

If you force sports bodies to cut the price of their TV rights, you will increase the prospect of bribery (you wonder if the money “saved” would find its way into someone’s pockets, probably a corrupt official).

Suppose we introduced communism into sport, as many seem to want (if only by implication), where athletes earned no money, governing bodies didn’t charge for their products, tickets were free and The Red Flag was sung at every opening ceremony. Do you think vice would cease to exist? Of course not. It would blossom. Black markets would flourish. Quid pro quos would be the norm. Gambling would be driven underground. These things ran riot in the age of amateurism.

Think back to the 5th century where money didn’t even exist. Historians agree about very little, but they are unanimous in asserting that pre-money societies were riddled with corruption and duplicity, even more so than today. If that is too long ago, think back to the early days of the Tour de France, when money was not really an issue but where people covertly hitched lifts or took short cuts. A shot at glory is every bit as corrupting as a shot at a big pay cheque. Should we abolish glory too?

The real problem with the vilification of money is not just its lack of justification, but that it has obscured the deeper issues that we face in sport, and elsewhere. Gambling scandals? Blame money. Match fixing? Blame money. Doping? Blame money. Oafish behaviour? Blame money. All too easy, isn’t it? Money has become the universal, catch-all scapegoat.

But the real problem is not money, it is values. It is solved not by crying into our pillows at the latest salary increase of Wayne Rooney, but by working to instil honesty, integrity and fair play, not just into sport, but our wider culture. It is solved by introducing young people to the blessings of playing by the rules and the pitfalls of the easy option.

This is a complex set of challenges and they are not helped by the demonisation of money. The propensity to cheat afflicts poor and rich alike; it tempts those who have access to lots of money and those with access to very little. It existed in prehistory when humans were living at subsistence and will continue to exist when humans (and footballers) are many times as wealthy as today. Money is not the problem; it is the eternal distraction.

Simon Barnes, my colleague, made the good point this week that administrators have often undermined sport by creating tournaments that go on too long and wickets that are too flat (which bring in five days of revenue, but make for a boring spectacle). But I am not sure that this is really a problem of money, either. Would it not be more accurate to label this as a problem of short-termism? By short-changing spectators today, they are making it highly likely they won’t come again in the future. And short-termism, like greed, has been around for as long as human beings.

The distaste for money in sport is particularly regrettable when you consider that most sports are transparent and ferociously meritocratic. You do not become a top footballer through nepotism or a cosy internship, but through a consistent demonstration of excellence and a lifetime of dedication. In how many high-paid jobs can you say that? Is there not at least a bit of a contrast with many other professions where the full influence of entrenched advantages and covert networks are only now being revealed?

Sportspeople have, very often, done it the hard way. They have earned their money through free and fair exchange. The bad apples should, of course, be punished and the wider cultural problems addressed.

But let us not traduce every athlete earning a high wage. Let us not label it as inherently grotesque. Instead, let’s do something new and, who knows, liberating. Let’s congratulate them.

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Da querela che non arriva mai…


il Fatto Quotidiano 07-06-2013

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SPORT 07-06-2013

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MARCA 07-06-2013

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Filone Bari, 26 a processo
Gillet, carriera a rischio

Palazzi salva Ranocchia, ma deferisce tutti gli altri giocatori
Illecito per il portiere, omessa denuncia a Gazzi, Barreto e Marchese

di FRANCESCO CENITI & MAURIZIO GALDI (GaSport 07-06-2013)

Quasi l’intera rosa del Bari del 2008 e del 2009 sotto inchiesta: ventisei calciatori devono rispondere di illecito (tre di loro per addirittura due diverse combine, tre anche di omessa denuncia), un dirigente (all’epoca dei fatti alla Salernitana), sette calciatori dovranno rispondere di omessa denuncia. Tutto per due partite: Bari-Treviso e Salernita-Bari. Le posizioni più compromesse sono quelle dell’allora capitano del Bari Jean François Gillet e quella dei due «pentiti» Marco Esposito e Davide Lanzafame, ma mentre questi ultimi due potranno patteggiare e approfittare della collaborazione per vedere ridotta la loro squalifica, Gillet rischia molto: a 34 anni se dovesse scattare il massimo di quella che è la richiesta che potrà venire dalla Procura federale di cinque anni di squalifica, potrebbe veder chiudere la sua carriera. Gli unici non del Bari chiamati a giudizio sono Luca Fusco e Massimo Ganci, all’epoca dei fatti alla Salernitana e William Pianu al Treviso. È stata archiviata la posizione del difensore dell’Inter e della Nazionale Andrea Ranocchia. Palazzi ha ritenuto di restare nelle conclusioni della Procura di Bari che aveva prosciolto il calciatore. Antonio Conte, sentito a Bari come «persona informata dei fatti», non ha mai rischiato di essere coinvolto nell’inchiesta.

Le accuse Il procedimento sportivo parte da quello penale in corso a Bari, dove i sostituti Angelillis e Dentamaro hanno citato direttamente in giudizio 24 calciatori e a giorni si conoscerà la data di inizio del processo, mentre Masiello ha già chiesto il patteggiamento. Il procedimento penale, oltre alle ammissioni di Andrea Masiello, ha potuto avvalersi anche di quelle di Davide Lanzafame e Marco Esposito. Il primo ascoltato addirittura in anticipo dagli 007 federali il 4 agosto 2012, il secondo dopo essersi inizialmente avvalso della facoltà di non rispondere, è tornato dai magistrati e ha ammesso le sue responsabilità. L’allora capo della Procura barese, Antonio Laudati, aveva sottolineato come «le ammissioni dei pentiti avevano ricevuto conferma dall’azione dei carabinieri e dalle verifiche effettuate». Un impianto solido, secondo l’accusa. Confermato nelle 114 pagine del deferimento del Procuratore federale Stefano Palazzi.

In giudizio La Disciplinare si riunirà nella prima settimana di luglio, presumibilmente il 4, per esaminare i deferimenti di Palazzi. Probabile che il numero di quanti andranno a giudizio si ridurrà di parecchio: Masiello (già coinvolto nel precedente procedimento sul Bari) dovrebbe cavarsela con un’ammenda in «prosecuzione» essendo stato uno dei principali accusatori dei compagni (ci sarebbe in questo senso già un accordo verbale con la Procura). Lanzafame ed Esposito dovrebbero puntare a un sostanzioso sconto di pena (intorno ai 1416 mesi di squalifica). Da valutare le posizioni di Santoruvo che nel precedente procedimento aveva avuto la derubricazione a slealtà sportiva, ma ora l’accusa è illecito; Stellini che aveva patteggiato per i fatti di Siena; Guberti già gravato di una pesante squalifica; Belmonte che ha scontato una squalifica per omessa denuncia, ma ora ha l’illecito.

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Mauri e Lazio: pronto il deferimento
Palazzi ha preparato gli atti sulle presunte combine con Genoa e Lecce: processo entro l’estate
Tra le carte anche il verbale di Gegic e la serie infinita di sms e chiamate nella notte della gara
di FRANCESCO CENITI & MAURIZIO GALDI (GaSport 07-06-2013)

La Procura federale raddoppia: dopo i deferimenti del filone Bari, è pronto quello per Stefano Mauri, Omar Milanetto, Lazio e Genoa. Stefano Palazzi aspetterà ancora qualche settimana prima di renderlo ufficiale, ma un dato è certo: il capitano biancoceleste finito in carcere a Cremona un anno fa e accusato di aver preso parte alle combine nelle gare contro Genoa e Lecce, andrà a processo entro l’estate. Si chiude così un’attesa snervante che ha spiazzato tifosi e addetti ai lavori: «Ci sono figli e figliastri», la frase più gettonata. Il capo d’imputazione per Mauri dovrebbe essere il più pesante (illecito), grazie alle nuove carte arrivate alla giustizia sportiva da quella ordinaria. In verità, non tutto il materiale in mano al procuratore Roberto di Martino è stato girato a Roma, perché le indagini sono in una fase calda. In particolare c’è un passaggio che riguarda il capitano della Lazio: alcune telefonate avute con Mister X, l’uomo incontrato da Gegic a Milano e che «sussurrava» i tarocchi di A per 600 mila euro. È indagato, ma non ha ricevuto l’avviso di garanzia. Ecco perché da Cremona lo tengono coperto. A breve, però, potrebbe esserci una svolta: se fosse così Palazzi avrà a disposizione tutti gli atti. Ma il destino del processo sportivo a Mauri è scritto: il deferimento ci sarà lo stesso. Tra le carte a disposizione della Procura federale c’è l’esame dei tabulati nelle ore precedenti a Lazio-Genoa 4-2 e alla visita dalle parti di Formello di Zamperini e Ilievski (capo degli Zingari). Un vorticoso giro di telefonate e messaggi simile al traffico in tangenziale nell’ora di punta.

Il verbale di Gegic La contestazione è presente nell’interrogatorio di Gegic del 10 dicembre. Lo slavo afferma di non essere a conoscenza della combine di Lazio-Genoa, scaricando tutto su Ilievski. Di più: afferma di non conoscere Zamperini. E qui il pm gli sventola sotto gli occhi i tabulati con una sua chiamata fatta proprio a Zamperini. Nella notte del 14 maggio (giorno della gara) inizia un vero e proprio tam tam telefonico. Protagonisti: Gervasoni, Zamperini, Mauri, Aureli (bookmaker e fidanzato di Samanta Romano, la ragazza a cui è intestata la scheda usata dal laziale), Ilievski e Dan Seet Eng (il boss delle scommesse di Singapore). I contatti sono uno dietro l’altro. Pochi minuti, persino secondi. Per fare un esempio, ben oltre la mezzanotte Gervasoni sente Zamperini, a seguire Zamperini contatta Ilievski, poi Mauri. A sua volta il laziale parla con Aureli. Si ritorna a Zamperini che richiama Ilievski: è lui a chiamare Singapore. Il «giochino» va avanti fino alle 4 (Mauri, che si limita a discutere con Zamperini, Aureli e tale Massimiliano Pesci, chiude le conversazioni dopo le due), riprende la mattina e s’interrompe intorno a mezzogiorno quando le celle dei telefonini in uso a Zamperini e Ilievski agganciano il ripetitore di Formello. Trova nuovo impulso nel primo pomeriggio (la partita inizia alle 18).

Gli ungheresi In questa fase entrano a far parte del gruppo anche gli ungheresi che avranno un ruolo primario, secondo l’accusa, nella combine di Lecce: sono in città insieme con Ilievski, mentre Zamperini propone a Ferrario l’alterazione della sfida. Insomma, la scheda criptata da Mauri era in uso negli stessi momenti in cui Ilievski ragguagliava Singapore sugli sviluppi della possibile combine, ricevendo ordini e sui soldi da offrire. Questa e altre stranezze non sono per l’accusa semplici coincidenze, ma l’esatto quadro di quello svelato dal pentito Gervasoni: «Lazio-Genoa e Lecce-Lazio sono state combinate». Mauri, Milanetto, i due club e altri tesserati dovranno adesso difendersi in un processo.

CACCIA A MISTER X
A Cremona nel mirino altri giocatori
di FRANCESCO CENITI & MAURIZIO GALDI (GaSport 07-06-2013)

La prossima settimana sarà decisiva per capire se da Cremona arriveranno nuovi colpi di scena. Il procuratore Roberto di Martino attende l’informativa preparata dallo Sco. Contiene di sicuro novità importanti, come una serie di recenti intercettazioni scottanti. Al telefono alcuni giocatori parlano in modo aperto di partite da combinare. In pratica nonostante due anni d’indagini serrate e l’attenzione massima sul fenomeno, c’è ancora molto da fare: c’è chi continua a scherzare con il fuoco. Questa parte dell’informativa merita la massima attenzione. Tradotto: ci saranno nuovi indagati (forse una ventina), molti di loro sono dei calciatori. Ma poi il materiale dovrà essere vagliato e approfondito. Insomma, nuove indagini e tempi lunghi. C’è, invece, una seconda parte molto più delineata: è quella che porta a Mister X e ai suoi complici. Da mesi la Procura ha ricostruito i loro movimenti che porta a tesserati e dirigenti. Il pm una volta letta l’informativa potrebbe decidere di agire. Non resta che attendere.

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World Cup switch turns up heat
Qatar plan to disrupt season may not be one-off, clubs told
by ASHLING O’CONNOR (THE TIMES 07-06-2013)

Professional football leagues face huge upheaval to accommodate moveable dates for World Cup finals under proposals to restructure the calendar, The Times has learnt.

As political pressure grows on European governing bodies to yield to a winter World Cup in Qatar in 2022, the idea that the rescheduling need not be a one-off is gaining impetus.

According to European football’s most senior appointed official, leagues should accommodate finals at different times of year, depending on the climate in the host country.

In an exclusive interview, Gianni Infantino, general secretary of Uefa, said: “Whenever you play the World Cup should be the best period for it. I had the same reflections on South Africa in 2010. It was a pity that it was winter. Four years earlier in Germany, it was nice sunshine. South Africa is a beautiful country, but at five o’clock, it’s night and it’s 0C. It’s not a celebration of football.”

To the horror of traditionalists who cherish Boxing Day football, especially in Britain, Infantino regrets the historical determination of football as a winter game. “You see people in the stadiums with hats and scarves,” he said. “Why did England, who brought to us this beautiful game, decide that football is for the winter and not for the summer? Cricket.

“The month of June, which is the most beautiful month to play football, is hardly ever used except for the Euros [European Championship finals] and the World Cup. But the World Cup is played only every 12 years, more or less, in Europe.”

Infantino’s comments will be interpreted as fuel to a campaign to move the 2022 World Cup finals to January or February to avoid Qatar’s searing summer heat. When the tiny, oil-rich Gulf state was awarded the tournament in a shock decision more than two years ago, it was on the basis that it would be staged in June and July.

Despite the warnings of medical advisers that temperatures of up to 50C (122F) would risk the health of players and fans, the Executive Committee of Fifa, world football’s governing body, voted for Qatar over Australia, Japan, South Korea and the United States.

Qatar, mindful of its contract with Fifa, has never pushed openly for a winter World Cup and is preparing to spend more than $100 billion (about £65 billion) on infrastructure, including air-conditioned stadiums.

But others are doing the lobbying. Sepp Blatter, the Fifa president, said holding it in summer was “not rational or reasonable”. Michel Platini, his Uefa counterpart and the only one to reveal that he voted for Qatar, said a winter World Cup would be “beautiful”.

Infantino said: “I fully share this view that you have to play in the best period for football; that is not June or July in Qatar. This is an issue that Fifa has to sort out. The sooner they do it, the better. The decision for 2022 was taken in 2010, so in 12 years you can organise yourself.”

The Premier League is opposed to a winter World Cup and the disruption that it would cause to up to three seasons. While other leagues may be more flexible if it were a one-off, there is growing concern among clubs that Qatar 2022 will become an excuse for permanent change.

In April, Karl-Heinz Rummenigge, the chairman of Bayern Munich and of the European Club Association, suggested that the Bundesliga, which mirrors the English season, could be played during the summer months. “From May to August is when we do not play football in Germany, although that is when we get the best weather,” he said. “Perhaps we should take a break when the weather is bad.”

At the very least, it could make a mid-season break standard throughout Europe. “It would be better for the players because they wouldn’t arrive at the World Cup exhausted from club football,” Infantino said.

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"Non premiai l'Italia per i fischi" Joseph Blatter dopo sette anni torna a parlare della sua assenza nel momento del trionfo azzurro nel 2006: "L'ho fatto per evitare uno scandalo".
Notizia del 07 Giugno 2013 - 19:09
Joseph Blatter torna a parlare dopo sette anni della sua assenza alla premiazione degli Azzurri campioni del mondo nel 2006 in Germania.
Ai microfoni della Rai il numero uno della Fifa si giustifica così: "Lo feci per evitare alla squadra campione del mondo, per evitare alle oltre 70mila persone presenti allo stadio e alla tv internazionali di assistere ad uno scandalo. Ancor oggi se io vado in un stadio in Germania ricevo un'accoglienza simile ad andare all'inferno. Questo perché all'epoca si è detto che io ero in favore dell'organizzazione del mondiale in Sudafrica e la Germania ha ottenuto i Mondiali per un solo voto e dopo hanno detto che Blatter è contro la Germania: questa è la verità!".
Non è un segreto che al dirigente svizzero il colore azzurro proprio non vada giù ma lui nega: "Io faccio il tifo per il calcio italiano. La squadra azzurra è una buona squadra e questo perche tutti i grandi giocatori italiani giocano in Italia, così come i grandi giocatori spagnoli e tedeschi giocano nei propri campionati. In questo momento gli azzurri sono favoriti per qualificarsi ai Mondiali di Brasile 2014".

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Già, la querela tarda a venire.

E non riesco a capire perché.

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Multe cancellate, spunta Cassano L'elenco dei cittadini alleggeriti dal peso del pagamento delle sanzioni si allunga con una nuova lista in cui compaiono altri 789 nomi.

Notizia del 09 Giugno 2013 - 15:39

L'elenco dei cittadini alleggeriti dal peso del pagamento della multe si allunga con una nuova lista in cui compaiono altri 789 nomi.
Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, gli investigatori stanno procedendo all'individuazione dei "privilegiati" e non è escluso che, in alcuni casi, potrebbero saltare fuori delle omonimie. Detto ciò, i documenti sono spariti e, di conseguenza, gli investigatori hanno forti dubbi sulla legittimità di queste operazioni che hanno permesso ad oltre 1000 persone di evitare il pagamento della multa.
Tra i casi sospetti, al numero 199 della lista D compare il nome di Antonio Cassano, l'ex calciatore delle Roma adesso all'Inter. Spunta poi il nome dell'ex arbitro di serie A Maurizio Mattei, oggi dirigente della Figc. Nello stesso elenco anche suor Maria Rosaria Attanasio, nominata come membro della Consulta dell'ufficio catechistico nazionale. E l'attrice Milena Miconi.
Modificato da totojuve

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Il dominio di Real Madrid e Benfica, espressioni dei regimi fascisti europei, tra gli anni Cinquanta e Sessanta
La dittatura del calcio
di PASQUALE COCCIA (ilmanifesto 08-06-2013)

La finale di Champions League tutta tedesca ha sancito in Europa a livello di club la fine della supremazia delle squadre spagnole Barcellona, in particolare, ma anche il solito Real Madrid. Quando la massima competizione calcistica europea tra club si disputò per la prima volta nel campionato 1955-56 e si chiamava Coppa Campioni, si impose una supremazia ispano-iberica, rappresentata dal Real Madrid e dal Benfica, che conquistarono il trofeo per sette anni di seguito. Le due squadre erano espressione delle uniche dittature fasciste d'Europa, quella di Francisco Franco Bahamonde e di Antonio De Olivera Salazar. In questi paesi, dove sopravvivevano i residui fascisti del Vecchio Continente, il calcio aveva la sua importanza, era pane quotidiano per le masse e strumento di controllo da parte di due irriducibili anticomunisti. Real Madrid e Benfica rappresentarono il fiore all'occhiello, la faccia presentabile dei due dittatori all'Europa. Fu durante la Guerra Civil combattuta tra il 1936 e il 1939, che il Real Madrid si trasformò nella squadra del regime, quando tra febbraio e giugno del '37 la federazione calcio spagnola si divise in due parti, una repubblicana, che da Madrid si trasferì a Barcellona, città simbolo delle forze popolari e delle brigate internazionali, l'altra a San Sebastian, luogo dei golpisti di Franco. La Spagna era spaccata in due sia sul fronte politico sia su quello calcistico. In questo clima, il presidente del Barcellona Ioseph Sunyol, repubblicano e indipendentista, venne assassinato da un gruppo armato di nazionalisti guidati da Sanchez Balzquez. Il Real Madrid, anche se per poco, rimase nelle mani dei repubblicani, infatti il suo presidente Rafael Sanchez Guerra, rimasto fedele alle truppe del Frente Popular, fu destituito, arrestato e torturato nel 1939, mentre il suo tesoriere venne assassinato dai franchisti. Il passaggio di mano avvenne presto e alla presidenza del Real Madrid si insediò Santiago Bernabeu, al quale oggi è dedicato lo stadio dove gioca il Real, anticomunista viscerale e franchista della prima ora, prese parte alla conquista di Cuenca. Dopo la fine della Guerra Civil e la sconfitta delle forze repubblicane, Bernabeu, insediò un comitato per bonificare i vertici del Real, che a partire dalla prima edizione della Coppa Campioni, rappresentò il braccio sportivo in Europa di Francisco Franco. Acquistò la stella del calcio ungherese Puskàs, che dopo l'intervento militare sovietico del 1956 e i carri armati a Budapest, emigrò a Madrid, dove Santiago Bernabeu gli garantì lauti guadagni. Puskàs, divenne paradossalmente il simbolo della «libertà» del regime franchista in chiave anticomunista, e insieme all'asso argentino Di Stefano contribuì alla supremazia del Real nel calcio europeo.

A contrastare il dominio spagnolo in Coppa Campioni fu il Benfica, squadra del dittatore Salazar, a capo del Portogallo dal 1932 al 1974, quando la «rivoluzione dei garofani» lo fece cadere. Il Benfica si impose per le prodezze di due campioni provenienti dalle colonie come Eusebio e Colunha, la cui presenza nella squadra portoghese consentiva a Salazar di sostenere che vi era un'unica grande nazione e che non vi erano differenze tra portoghesi e indigeni delle colonie, dove venivano trasmesse le partite. Ecco quanto riferisce lo scrittore Antonio Lobo Antunes, giovane tenente medico dal 1970 al 1975 in Africa: «Quando in Portogallo giocava il Benfica, noi appendevamo gli altoparlanti a tutto volume, fuori dagli accampamenti. Era un modo per far sentire la radiocronaca ai guerriglieri del movimento di liberazione, tifosissimi del Benfica, la cui stella era il mozambicano Eusebio. I combattimenti allora si interrompevano per 90' e dalla selva non si udiva neppure un fruscio. Finita la partita ricominciavamo a spararci e l'intensità del fuoco dipendeva dal risultato».

Il Benfica si impose in Europa e contese più volte la Coppa Campioni al Real Madrid. Certo, in quegli otto anni, tra il 1955 e il 1963, passava dai fascisti ai fascisti, dalla Spagna di Franco al Portogallo di Salazar. Se in Spagna gli oppositori al regime di Franco tifavano per il Barcellona e l'Athletic Bilbao, squadre che incarnavano l'indipendentismo catalano e il separatismo basco, in Portogallo le simpatie calcistiche degli antisalazariani erano volte all'Acadèmica di Coimbra, club assurto nel 1969 a simbolo delle rivolte degli studenti portoghesi contro Salazar. La squadra dell'Acadèmica quell'anno arrivò a disputare la finale di Coppa del Portogallo proprio contro il Benfica. Per timore di proteste quel 22 giugno Salazar ordinò di non trasmettere la partita in televisione e il presidente fantoccio della repubblica, l'ammiraglio Americo De Deus Rodrigue Tomas, rinunciò a effettuare le premiazioni. L'Acadèmica si arrese solo ai supplementari con il risultato di 2 a 1.

Dopo cinque anni di predominio del Real Madrid dal 1955 al '60 e i seguenti due del Benfica, la dittatura franco-salazariana nel calcio europeo si interruppe cinquanta anni fa, il 22 maggio del 1963, quando il Milan a Wembley sconfisse 2 a 1 il Benfica (due goal di Altafini e uno di Eusebio). Quella sera di maggio fu ritenuta il 25 aprile del calcio europeo, secondo la tesi contenuta nel libro Poi Milan e Benfica. Milano che fatica (Sedizioni, euro 13) scritto da Sergio Giuntini, storico dello sport e Claudio Gregori, giornalista della giornalaccio rosa dello Sport. Certo vent'anni dopo a prendere in mano la squadra rossonera fu Berlusconi, che trasformò il Milan in una squadra vincente in Italia e in Europa, al pari del Real di Franco e del Benfica di Salazar. Quel Milan è stato la prima tappa del lungo percorso calcistico-politico del ventennio berlusconiano, certo meno cruento, ma molto vicino agli intenti di Franco e Salazar.

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L’intervista
ANDREA MASIELLO
«Ho fatto tanti errori
ma quell’autogol

non è stato voluto»
L’ex difensore del Bari, il derby e le partite combinate: «Ero
sfinito quando mi sono incolpato. Collaborare scelta giusta»

«Se parli sei un infame, c’è una mentalità distorta Il futuro? Spero in un’altra chance»
di FRANCESCO CENITI (GaSport 10-06-2013)

«Lo farò, tra qualche anno. Ma lo farò: mia figlia non dovrà vergognarsi. Le racconterò degli errori, il rischio di gettare a mare un’esistenza, la voglia di ripartire guardando in faccia la gente. La stringerò forte per farle capire che si possono commettere tante sciocchezze, ma poi devi avere la forza di affrontare i tuoi demoni e liberarti la coscienza. Le dirò del carcere, di quando sono venuti a prendermi e stavo svenendo, della mamma che piangeva... Ho sbagliato, ma non ho ucciso nessuno. Persone importanti mi hanno fatto la morale, dipingendomi come il diavolo. Non ero un santo, ma neppure il diavolo. Adesso parlo. E qualcosa da dire c’è. A partire dall’autogol nel derby con il Lecce: non l’ho fatto apposta». Sole, nuvole, vento, pioggia e poi ancora sole. A Viareggio il tempo fa le bizze. Sembra quasi che segua il discorso di Andrea Masiello, cambiando il colore del cielo a secondo dell’umore di questo ex ragazzo di 27 anni. Nell’aprile 2012 è stato arrestato a Bari: agli occhi del tifoso è diventato «l’infame» che si vende il derby. Si può fare tutto nel mondo del calcio, ma un derby è sacro. Quasi che il calcioscommesse fosse solo in quell’istante. La storia di Masiello dice anche altro: si è presentato in Procura per collaborare dopo aver letto il suo nome (fatto da Gervasoni) sui giornali. E’ stata una confessione «a rate», ma tra gennaio e marzo 2012 ha messo nero su bianco tutto quello che sapeva. Dopo il fermo non ha aggiunto nulla di nuovo. Stessa cosa con la giustizia sportiva: ha vuotato il sacco, raccontando episodi lontani come le combine con Treviso e Salernitana. Rivelazioni alla base degli ultimi deferimenti. Ma l’autogol è sempre l’autogol: quella sfida (comprata secondo i magistrati) al Lecce è costata la retrocessione. Meglio approfondire.

Masiello, è stato lei a incolparsi: perché lo ha fatto e qual è la verità?
«Bisogna trovarsi in certe situazioni. Avevo ammesso le mie responsabilità, parlato degli Zingari, delle pressioni dei tifosi. E restava quella gara. I magistrati erano convinti che l’avessi fatto apposta, ho spiegato diverse volte che non era così. Poi ho detto “sì”. Forse per sfinimento. Ha presente l’azione?».

È uno dei video più cliccati: lei quasi inciampa, calcia col destro, carambola sul piede e il pallone va nella porta vuota.
«Appunto, un vero disastro. Ma secondo lei uno che vuol fare un autogol fa questo cinema? Chi ha giocato anche in Terza categoria sa che è impossibile. Se volevo far male alla mia squadra c’erano altri modi. Rivedetevi la gara: nel primo tempo salvo un gol con una rovesciata. Quel derby l’ho giocato sul serio. Le cazzate le ho fatte prima e dopo».

E i soldi avuti per comprare il derby? Circa 300 mila euro...
«Non li ho presi. Certo, ho assecondato Giacobbe e Carella (arrestati con lui, ndr). Mi dicevano “ci sistemiamo”. Carella aveva contattato quelli del Lecce facendogli credere che potevano comprare la sfida. In estate siamo andati da loro: ho detto che l’autogol era vero».

Dovremmo crederle?
«Non siete obbligati. Ci sono stati mesi in cui non riuscivo a dormire. Dopo i primi arresti, vivevo nel terrore. Sapevo che Bellavista poteva raccontare dei fatti di Bari, quando venivano in molti a chiederci di combinare le partite per le scommesse».

Perché buttare al vento una carriera in questo modo?
«Ero un bamboccione e non capivo quello che stavo facendo. La consideravo una bravata, ma senza conseguenze. E perché nel calcio c’è una mentalità distorta che ti porta a ragionare in modo sbagliato. Diventi un eroe se non parli, se racconti la verità sei un ignobile. Il calcioscommesse non è solo Paoloni, Masiello, Gervasoni, Carobbio, Doni. E’ molto, molto di più».

Si potrebbe obiettare: dice così perché è stato scoperto...
«Alt, precisiamo. Potevo stare zitto e negare all’infinito. Altri lo hanno fatto davanti a prove schiaccianti. Qualcuno è stato creduto e riabilitato. Ognuno risponde alla propria coscienza. Ho collaborato, pagandone le conseguenze».

Ma ha ottenuto uno sconto sulla squalifica.
«Certo, sarei un ipocrita se non lo ammettessi. Ma non è facile lo stesso. Hai quasi la sensazione che il sistema non ostacoli chi sta zitto. A parole tutti dicono che vogliono pulizia, nei fatti dobbiamo impegnarci per dimostrarlo. Siamo il Paese dove è normale far vincere una squadra perché “tanto siamo salvi”, dove “meglio due feriti che un morto”, dove ti fanno capire “lascia stare, metti nei guai un compagno”. Siamo il Paese che ha in pratica espulso Simone Farina perché ha denunciato Zamperini».

Non vorrà paragonarsi a Farina?
«Per carità, lui ha avuto la forza di opporsi alla combine. Io ci sono finito dentro. Ma dove è ora Farina? Nessuno gli ha offerto un contratto, è andato in Inghilterra. Altri giocatori hanno ottenuto sconti impensabili senza ammettere nulla e adesso hanno un ingaggio».

Chi l’ha aiutata in quei mesi difficili?
«Mia moglie: le ho detto la verità quando sono uscite le prime voci. Poi Salvatore, il mio avvocato (Salvatore Pino, ndr). Con lui mi sono aperto poco alla volta, mi vergognavo. Veniva più facile scrivergli le cose sullo schermo del telefonino. Mi ha fatto pure da psicologo. E’ stato fondamentale. Come l’altro legale, Matias Manco. Poi papà, mamma e mio zio. Gli amici? Prima ne avevo tanti, ora li conto su una mano. Gli altri mi hanno voltato le spalle. Istruttivo».

Quando ha iniziato a deragliare?
«E’ accaduto a Bari: c’è un ambiente particolare. Gioco e scommesse sono una malattia. Hanno ragione i magistrati, moltissimi calciatori scommettono. A Bari la prima volta dico “no”. C’era da dare la vittoria al Treviso, mi faccio squalificare. Passa un anno, siamo già promossi. Dobbiamo andare a Salerno: i tifosi ci chiedono di perdere, poi arriva la proposta dei soldi, la squadra accetta. Settemila euro per rovinarsi la vita. Secondo lei ne avevo bisogno?».

Il peggio accade nell’anno della retrocessione.
«Sì, da marzo in poi è stata una processione. Prima Bellavista e i tifosi al campo, poi Iacovelli che mi presenta Gegic, l’offerta di Guberti per far vincere la Samp, i soldi portati da Ilievski per perdere a Palermo. Sono crollato, non capivo nulla. Eravamo allo sbando, abbiamo avvisato la società. Niente, non ci hanno portato in ritiro, lontano da quel macello. Certo, potevo denunciare. Non ho avuto il coraggio. Ho sbagliato, pensavo finisse lì. Ed è giusto che paghi. Mi sono fatto il carcere, i domiciliari, ho patteggiato 22 mesi e dato 7 mila euro per rifare un campetto».

Poi c’è l’aspetto sportivo...
«Squalifica fino a settembre 2014 e 60 mila euro di multa».

Cosa si aspetta dal futuro?
«Tornare in campo. Mi alleno ogni giorno con l’aiuto del preparatore Marco Terzi (fisicamente è tirato a lucido, ndr), poi gioco con amici due volte a settimana. Certo, mi manca il gruppo, la vita di squadra e il resto. Non voglio togliermi questa speranza. Ho l’età e le motivazioni per recuperare il tempo perduto: credo di poter giocare di nuovo in A. Adesso il minimo che posso fare è chiedere scusa a tutti i tifosi, iniziando da quelli del Bari e dell’Atalanta. E soprattutto al presidente Percassi che aveva riposto in me grande fiducia. Questa storia mi ha fatto crescere. Ora sono un uomo. Si concedono nuove opportunità anche a chi ha commesso sbagli molto più pesanti del mio, perché non dovrei averle io?».

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PRINCIPATO NON NEGOZIABILE
Un russo molto ricco, il regime fiscale di Monaco e le tasse alte di Hollande
Che cosa c’è dietro il caso che sta per cambiare per sempre il mondo del calcio

Neopromosso dalla B, con lo stadio sempre mezzo vuoto, il Monaco ha appena comprato Falcao per 60 milioni di euro
In Francia alle società saranno trattenuti alla fonte i due terzi dello stipendio dei giocatori. Nel Principato no, niente tasse
C’è una legge per obbligare il proprietario, il russo Rybolovlev, a risiedere in Francia. Lui farà ricorso, anche in Europa
La sentenza sul caso Bosman cambiò per sempre la storia del pallone. Il caso Monaco potrebbe avere lo stesso impatto

di BEPPE DI CORRADO (IL FOGLIO 11-06-2013)

Non lo vedi neanche, il Louis II: da fuori sembra un condominio di appartamenti di lusso un po’ âgé. Puro spirito Montecarlo. Il mare, i palazzi con i giardini pensili, lo stadio. Mimetizzato e vuoto. Diciottomila posti che di solito restano vuoti per metà. La desolazione è inversamente proporzionale ai milioni che il miliardario russo Dmitri Rybolovlev sta investendo per fare grande il pallone di Monaco e ai rischi che questo si trascina. Lì, in quello stadio che non sembra uno stadio e che potrebbe anche evitare di essere uno stadio, può consumarsi il più grande caos calcistico-politico-economico-diplomatico che l’Europa ricordi. Perché Radamel Falcao che va al Monaco è di più. E’ un caso, può diventare il caso. Perché con la costruzione di una nuova squadra multimilionaria europea può scoppiare definitivamente la bomba della concorrenza fiscale del Principato. Il club di Montecarlo spende 60 milioni per comprare il centravanti colombiano dell’Atletico Madrid, poi 70 milioni per l’altro colombiano James Rodrìguez, poi 10 milioni per il portiere Victor Valdés. Poi potrebbero arrivare Frank Lampard, Kevin Prince Boateng, Dani Alves: milioni e altri milioni. Già visto, sì. Però qui c’è qualcosa di diverso. Qui c’è quello che a Montecarlo c’è sempre stato, ma che finora non aveva rappresentato un problema: Falcao prenderà un ingaggio di 10 milioni a stagione. Lordi e però anche netti. Perché la tassazione di Monaco sulle persone fisiche è pari a zero.

Fermi tutti. Un momento prima di dire che non c’è differenza con quello che già accadeva l’anno scorso, due anni fa, dieci anni fa. Montecarlo non è cambiata, ma attorno è successo qualcosa. Ecco, se il Paris Saint-Germain o qualunque altra squadra francese avesse voluto prendere lo stesso giocatore, per dargli dieci milioni netti avrebbe dovuto spenderne più di venti, per colpa dell’imposizione fiscale. E’ sempre accaduto, sì. Ma mai il Monaco aveva deciso di fare un’operazione tipo questa, mai aveva avuto un presidente ambizioso come il russo Dmitri Rybolovlev che a Monaco ha comprato la squadra per portarla a vincere il campionato e poi la Champions. E’ partito dalla serie B e vuole prendersi tutto. Centocinquanta milioni già spesi e altri che usciranno dalle sue casse entro il 31 agosto sono una novità anche per la squadra di un posto che non sa che cosa sia la crisi. E questo è un problema, adesso. Le agevolazioni del Monaco sono da sempre tollerate. E’ successo altre volte che la squadra del Principato fosse così forte da lottare per scudetto ed Europa. Però i suoi cicli vincenti sono sempre coincisi con le difficoltà di altri club. Cioè: il Monaco era il meglio che la Francia (pur non essendo Francia) potesse offrire. Oggi no. Oggi il Paris Saint-Germain e i suoi padroni del Qatar vogliono esattamente ciò che vuole Rybolovlev. Per ottenerlo hanno speso centinaia di milioni e hanno anche foraggiato l’intero sistema pallonaro francese: al Jazeera ha comprato i diritti della Ligue 1. Per entrare nel mercato dei giocatori più forti ha dovuto offrire ingaggi altissimi che con le tasse sono diventati mostruosi. La super aliquota al 75 per cento, bocciata dalla Corte costituzionale per le persone fisiche, passerà alle aziende e il primo ministro Jean- Marc Ayrault s’è preso il disturbo di precisare che il prelievo toccherà pure i club di calcio: alle società saranno trattenuti alla fonte i due terzi dello stipendio dei giocatori che guadagnano più di un milione.

C’è qualcosa che non può più tornare, adesso. C’è un problema che dev’essere gestito. E’ complicato, è serio. E’ un piccolo paradosso, questo: nei confini di un solo paese (e del suo piccolo e scomodo coinquilino) esplode una questione che a livello europeo è sul tavolo da anni. Si riassume tutto in una domanda: è regolare che i club che partecipano a una stessa competizione abbiano trattamenti fiscali diversi oppure si rischia di sfociare nella concorrenza sleale? La risposta è sempre stata la stessa: così è, punto. Le squadre spagnole per anni hanno goduto delle agevolazioni che Madrid ha concesso loro, come l’estensione allo sport del trattamento riservato al mondo dello spettacolo. Il miracolo iberico del pallone è stato sì frutto di pianificazione, di scelte intelligenti, di bravi tecnici che hanno creato bravi calciatori, ma anche di un sistema paese che ha aiutato lo sport a essere grande. Per molto tempo i club italiani si sono lamentati, poi stanchi di ricevere porte sbattute in faccia, hanno smesso di porre il problema. Ora riesplode tutto in una dimensione geograficamente ridotta, ma simbolicamente molto più ampia. Perché la concorrenza fiscale tra paesi è praticamente impossibile da cancellare ed è anche un bene. Ma se la concorrenza avviene all’interno di un solo paese (calcistico) la storia si complica. Rischiano di cadere teoremi e certezze sui quali s’è costruito mezzo secolo di pallone e non solo.

La Lega francese ha appena varato un provvedimento che obbliga le società iscritte al campionato ad avere la residenza in Francia a partire dalla stagione 2014- 2015. Chi non si adegua viene escluso dal campionato. Le malelingue sostengono che dietro la norma ci sia proprio la pressante richiesta del Paris Saint-Germain (e quindi del Qatar). Qualcosa più di una moral suasion: di fronte a un campionato in cui un club ha nettamente dei vantaggi fiscali rispetto ad altri, loro sarebbero costretti a guardare altrove. Ecco: la Francia non può permetterselo. Non ora, non con gli amici dell’Emirato con i quali condivide non solo investimenti televisivo-sportivi, ma anche strategie comuni nella Difesa, nelle infrastrutture, nella diplomazia in medio oriente. Se proprio devono inimicarsi qualcuno, a Parigi preferiscono i cugini del Principato, con i quali i rapporti sono formalmente pacifici dal 1962, ma che nei fatti continuano a essere agitati. La Lega calcio fa la sua parte. Al neo signore del calcio di Montecarlo, Rybolovlev, ha chiesto non solo di adeguarsi alle regole fiscali del resto del campionato, ma anche di regolarizzare la sua posizione entro il 2014: duecento milioni di euro di arretrati che il magnate russo dovrebbe versare nelle casse dello stato francese prima dell’inizio della stagione successiva a quella che sta per cominciare.

Rybolovlev non ha parlato. La vittoria del campionato di serie B con Ranieri in panchina ha esportato la sua storia in giro per l’Europa. Soldi, gossip, business. Il calcio sullo sfondo. L’Espresso s’è chiesto chi sia l’uomo che ha deciso di sfidare Parigi: “Quarantasei anni, nativo di Perm (Russia europea orientale), Rybolovlev negli anni Novanta ha fatto fortuna nel campo dei fertilizzanti di potassio, di cui possedeva fino al 2010 l’industria Uralkali. Alla fine del 1996 viene arrestato perché accusato di essere il mandante dell’omicidio della direttrice generale di un’azienda chimica. Il tribunale lo rilascia perché il principale testimone ritira la sua accusa. Nella lista di Forbes è classificato al numero 119 tra i ricchi del pianeta grazie a un patrimonio di oltre 9 miliardi di dollari. Un mese fa ha acquistato per la figlia Ekaterina l’isola di Skorpios, che fu dell’armatore Aristotele Onassis, per 100 milioni di euro. Non nuovo a colpi di mercato immobiliari, Rybolovlev si era già comprato l’ex villa di Donald Trump a Palm Beach per 100 milioni di dollari e un attico super terrazzato a Central Park per 88 milioni di dollari (il prezzo più alto mai pagato per un appartamento a New York): anche quest’ultimo un regalo per l’amata figlia Ekaterina che vive con lui a Montecarlo dopo il divorzio dalla moglie Elena. La quale ha ottenuto 6 miliardi di dollari di risarcimento per le ripetute infedeltà del marito: l’ultima, un’orgia nella vasca da bagno con alcune modelle.

Tra una foto e un racconto della vita privata, il Monaco ha cominciato a rastrellare il mercato. Come il Manchester City e il Paris Saint-Germain degli arabi hanno assecondato molte delle proposte del super procuratore Mino Raiola, così a Montecarlo, l’agente che lavora meglio con il ricchissimo signore russo è Jorge Mendes, celeberrimo portoghese che cura gli interessi e i contratti di José Mourinho, di Falcao, di Cristiano Ronaldo e di molte altre star del pallone. Così la gran parte dei giocatori acquistati finora sono della scuderia del procuratore rivale di Raiola. Le operazioni non sono finite. I duecento milioni che la Lega francese pretende per girarli al fisco di Hollande, Rybolovlev li ha messi sul piatto del mercato: chiedi e ti sarà dato, ha detto più o meno a Claudio Ranieri, il quale non sembrava essere l’allenatore che avrebbe dovuto guidare il Monaco alla conquista d’Europa. Alla fine, invece, l’allenatore italiano è rimasto a Montecarlo pronto a chiedere una lista di campioni. Falcao è arrivato praticamente senza concorrenza: l’avrebbero voluto tutti, dal Real Madrid al Manchester United, ma con i mezzi di cui dispone oggi il Monaco la partita è impossibile per tutti. La chiave di tutto è proprio il regime fiscale. Perché è sull’ingaggio del calciatore che a Montecarlo si fa la differenza nelle trattative: basta pareggiare l’offerta di un potenziale concorrente ed è fatta, convincere il giocatore è un dettaglio che sfiora lo scherzo.

Rybolovlev lo sa. Rybolovlev lo vede. Quello stadio dove si siede un weekend sì e uno no non è da campioni. La differenza la fa lui, i suoi numeri, le sue possibilità e tutto quello che sta all’esterno dello stadio, non dentro. E’ per questo che di fronte al montante malcontento degli altri club nei suoi confronti invece di parlare ha già agito. Alla richiesta della Lega ha risposto facendo ricorso al Consiglio di stato. Attenzione, perché qui si entra in un vortice la cui forza nessuno è in grado di prevedere. Per capirsi: il caso Bosman, cominciò per molto meno e con molto meno. Era il 1990: Jean-Marc Bosman era poco più che un giocatore normale, giocava nel Royal Club di Liegi. Il presidente della squadra decise unilateralmente di decurtargli del 75 per cento lo stipendio, proprio quando era in scadenza di contratto e prossimo a rinnovare l’accordo; Bosman rispose alla proposta di riduzione dell’ingaggio chiedendo al Liegi di cederlo al Dunkerque, squadra di terza divisione francese che l’avrebbe preso volentieri. Il Liegi, però, per acconsentire al trasferimento, chiese un indennizzo pari a un miliardo e 260 milioni di lire, quattro volte la cifra pagata a suo tempo per acquistare il giocatore dallo Standard. Troppo per la società francese. Il trasferimento saltò, il Liegi negò a Bosman la consegna gratuita del cartellino. Iniziò la battaglia: lui fuori rosa, il club tranquillo. All’epoca funzionava così: il calciatore che giocava in una squadra, alla scadenza del contratto poteva trasferirsi in un altro club, ma soltanto dietro il pagamento alla società di appartenenza di un indennizzo parametrato su uno strano incrocio: l’età del giocatore, categoria, ingaggio e premi. Si quantificava e si metteva sul piatto: chi voleva prendersi il giocatore, doveva sborsare quella somma senza sconti, altrimenti nulla. Nel caso di Bosman, fu il nulla. Lui protestò e venne sospeso dalla Federcalcio belga. Allora si rivolse a un tribunale statale, che in attesa di trovare una soluzione diede un via libera temporaneo al giocatore: Jean-Marc poteva cercarsi una squadra e giocare fino a nuovo ordine. Boicottato dal sistema calcio del suo paese – nessun club nazionale gli offrì più lavoro – per continuare a giocare fu costretto a cercare ingaggi all’estero: riuscì a trasferirsi in Francia, al Saint Quentin (terza divisione), poi si spinse perfino all’isola di Reunion, prima di rientrare e avviarsi a concludere la sua carriera nelle serie minori, nel Visé, in quarta divisione belga. Nel frattempo, il suo fascicolo processuale saltava da una scrivania a un’altra, fino a quando il tribunale belga decise che l’affaire Bosman non era di sua competenza. I legali di Jean-Marc si appellavano a norme e trattati sovranazionali: il fascicolo venne spedito alla Corte di giustizia europea. Audizioni, testimonianze, pareri di giuristi e costituzionalisti. Si andò sul pesante, con l’Uefa che in tutti i modi cercò di tenere a bada il ribelle. E lui che rilasciava interviste intimidatorie: “Mi stanno ricattando, vogliono comprarmi. Per cinque anni hanno tentato di corrompermi. Così, per aver tutelato i calciatori nei loro diritti di lavoratori, ho vissuto la discesa agli inferi. Quelli dell’Uefa sono tutti dei mafiosi”. La sentenza arrivò in quel 15 dicembre 1995. Nessuno, cinque anni prima, s’aspettava che una causa di lavoro si sarebbe trasformata in una sentenza che avrebbe cambiato la storia del pallone. Allo stesso modo oggi nessuno può immaginare gli sviluppi del caso Monaco. Se il Consiglio di stato darà torto a Rybolovlev, il magnate russo si rivolgerà altrove. Corte di giustizia di Lussemburgo, sì. Europa, quindi. Il che aprirebbe ogni possibile scenario, compreso quello di una nuova rivoluzione che stavolta parta dal calcio e finisca ovunque. Perché il pallone è un business come un altro. Perché la sfida Monaco-Francia può contagiare tutti. Lo sport farebbe da apriscatole, per poi finire inghiottito come Bosman. E’ il destino del calcio quando smette di essere calcio. Lo stadio non conta più.

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Los fondos de inversión

saltan al campo de juego

La crisis de los clubes de fútbol impulsa el negocio de unas

entidades que ya controlan al menos 54 jugadores en España

La Liga se plantea regular estos instrumentos de gestión

Las empresas del sector ganan más cuantos más fichajes cierren

Los detractores temen que se actúe contra la voluntad de los jugadores

por AMAYA IRÍBAR (El País 12-06-2013)

Neymar y Falcao comparten algo más que el ser dos de los grandes fichajes de lo que va de verano. Son también el ejemplo extremo de un negocio, el del fútbol, donde misteriosos fondos de inversión, jeques y millonarios rusos e intermediarios de todo tipo parecen tener cada vez más fuerza y donde los clubes, incluso algunos de los grandes, no aciertan a explicar de forma coherente sus grandes operaciones a pesar de intentarlo.

¿Cómo justificar que un jugador como Falcao, protagonista en los tres últimos títulos del Atlético —Liga Europa, Supercopa y Copa del Rey— renuncie a la oportunidad de jugar su segunda Champions para recalar en el Mónaco, un recién ascendido a la Primera francesa que ha recibido una enorme inyección de dinero del multimillonario ruso Rybolovlev? El Atlético, que contó con la ayuda de Doyen, una empresa que invierte por diferentes vías en el fútbol —patrocinios, fondos o financiando operaciones de fichaje— para hacerse con los servicios del colombiano, solo explicó el día de su venta que había ingresado 45 millones por el traspaso. En el inesperado destino final de Falcao se han entremezclado los 14 millones de euros que percibirá en Mónaco, las necesidades de caja del Atlético, los intereses de su agente (Jorge Mendes), que está abasteciendo de jugadores el proyecto del millonario ruso como ya hizo en el Chelsea Abramovich, y los deseos de la familia. Con todo, la elección del club monegasco por Falcao, en la cima de su carrera, deja en la afición la sensación de confusión que suele rodear a todas las operaciones relacionadas, de una manera u otra, con fondos de inversión.

La misma confusión se advierte en el caso del fichaje del brasileño Neymar, presentado en Barcelona la semana pasada como la gran estrella que es. El club azulgrana cifró en 57 millones el coste del jugador, aseguró que la operación se había hecho sin intermediarios y se aferró a una cláusula de confidencialidad para no detallar el reparto de ese dinero entre el club vendedor (el Santos) y tres empresas (DIS, TEISA y N&N), que poseían parte de los derechos económicos del jugador.

El Barça y el Madrid pueden permitirse no tener que recurrir a estos fondos, gracias a su fortaleza económica y deportiva. Pero hasta una docena de clubes de Primera y Segunda División, ahogados económicamente, con los bancos cerrados en banda y con las Administraciones en retirada, han encontrado en los fondos de inversión e instrumentos similares el camino para fichar talentos que de otra manera no podrían permitirse. Hasta 54 jugadores no son propiedad al 100% de sus clubes, y un histórico como el Sporting de Gijón ha puesto parte de su cantera en manos de uno de estos inversores. El fenómeno, aunque no es solo español, se ceba en una Liga en crisis; preocupa y mucho a la UEFA, que aboga por prohibir estas fórmulas; y divide al mundo del fútbol. El nuevo presidente de la Liga de Fútbol Profesional (LFP), Javier Tebas, defiende su regulación.

El primer caso sonado en España fue Roberto. El portero llegó al Zaragoza procedente del Benfica en el verano de 2011, poco después de que el club español se declarara en suspensión de pagos. El Zaragoza era incapaz de pagar sus deudas, pero alguien estaba dispuesto a poner encima de la mesa 8,6 millones (100.000 euros más de lo que un año antes había pagado el club portugués al Atlético) para hacerse con los servicios del guardameta. En realidad no fue el club quien pagó sino un fondo de inversión.

Los fondos suelen invertir en jugadores jóvenes con proyección, no suelen comprar más del 50% de sus derechos económicos, de tal forma que comparten el riesgo con el club, y se llevan la parte proporcional de la plusvalía que generan sus futuros traspasos. En caso de que el jugador no sea vendido en un plazo establecido —cuatro años es un periodo habitual— el club devuelve el dinero con intereses.

La fórmula empezó en América Latina, y aunque está prohibida en Inglaterra, Francia y Polonia, lleva años extendiéndose por Europa y funciona a toda máquina en Portugal, donde los grandes clubes cuentan con sus propios fondos de inversión, la mayoría ideados por el Banco Espirito Santo. Creado en 2009, el fondo está participado en un 15% por el propio club —así gana dinero por dos vías con cada venta— y ha dado una rentabilidad del 35% a sus inversores en tres años, según los dirigentes del equipo.

Desde la operación de Roberto, el mercado, aún muy incipiente, se ha avivado en España, en buena parte animado por Doyen, el fondo radicado en Malta que empezó con patrocinios en las camisetas del Atlético, Sporting y Getafe, y es el fondo más activo en la compra de trocitos de jugadores en la Liga, como demuestran las operaciones con los sevillistas Stevanovic, Botía o Kondogbia, por poner solo tres ejemplos, y que anuncia entre sus cromos al atlético Falcao, uno de los protagonistas del verano. La diferencia con Portugal es que, mientras que allí los clubes cotizan en Bolsa y están obligados a informar de sus acuerdos económicos, en España son un misterio y no hay forma de que un aficionado sepa de quién es el jugador y en qué porcentaje.

“No tenemos nada que ocultar. Cumplimos rigurosamente las normas. Adelantamos el dinero y no hay ninguna pistola encima de la mesa”, aseguró Nelio Lucas, responsable de Doyen en España, escoltado por los agentes Juanma López y Mariano Aguilar, en un seminario de la Catédra de Derecho Deportivo de la Universidad Rey Juan Carlos en Las Rozas (Madrid). Lucas no da entrevistas.

Sin embargo la UEFA no lo ve tan claro. Para el máximo organismo del fútbol europeo los fondos son peligrosos por razones morales —pueden obligar a un jugador a cambiar de equipo contra su voluntad y existe una resolución reciente del Tribunal de Arbitraje Deportivo que condena estas prácticas—; deportivas —pueden poner en riesgo la integridad de la competición porque tienen intereses en equipos rivales—; su modelo de negocio favorece la inestabilidad de los jugadores —cuanto más se muevan, más ganan—; y, sobre todo, “son incompatibles con las normas de juego limpio financiero”, que pretenden que los clubes se financien con ingresos más estables.

Los detractores, entre los que están también la FIFA y el sindicato de jugadores AFE, advierten además que estas entidades inflan el mercado y provocan la descapitalización del club, que renuncia a uno de sus activos, la plantilla. Como dice una fuente que pide no ser identificada: “Es pan para hoy y hambre para mañana”.

Contra la decisión de prohibirlos se levantan estos hombres de negocios y muchos clubes, necesitados de ayuda. “El futuro en el fútbol, no solo en España, es que los fondos colaboren con los clubes”, aseguró Carlos Suárez, presidente del Valladolid, en Las Rozas, haciéndose eco del sentir de muchos de sus colegas. Incluso el nuevo presidente de la Liga, Javier Tebas, asegura que los fondos ya han evitado la quiebra de algún club español y defiende la regulación, establecer algún límite y controlarlos, pero no su prohibición. Entre los límites que sugiere Tebas está el número de jugadores que un fondo puede tener en un mismo club, en el campeonato, jóvenes...

“Como en todos los sectores, hay buenos y malos fondos. Lo mejor sería regularlos, porque la mayoría están auditados”, aseguran Alfredo Garzón y Javier Ferrero, de Senn, Ferrero, Asociados, el despacho más activo en este mercado y que representa a Doyen. “Nuestros clientes tampoco tendrían ningún problema en hacer pública la información al regulador, como hacen los clubes portugueses y como se hace en España ante la Liga. Pero muchos clubes tienen miedo de ir más allá porque los aficionados no suelen entender estas operaciones”.

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L'EQUIPE 12-06-2013

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