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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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IL PRESIDENTE DELL’UEFA L’ALLARME DEL FRANCESE: «IL CALCIO ATTRAE I GRANDI

INVESTITORI. CHI VUOLE SPENDERE DEVE ESSERE IN GRADO DI SOSTENERE CERTI COSTI»

Platini: «Che fortuna, ho giocato

nella squadra più forte del mondo»

di CARLO LAUDISA (GaSport 29-12-2012)

Le Roi rivive la sua favola e manda un messaggio d'amore: «Ho giocato nel club più forte al mondo», la Juve, ovviamente. Michel Platini a Dubai spazia tra ricordi e il lucido sguardo sul futuro del calcio. Si rivede bambino e fa una constatazione: «Ho cominciato a giocare per strada e ho avuto la fortuna di approdare nel club più importante della mia regione, la Lorena. Poi ho avuto la fortuna di giocare nel club più importante di Francia, il Nancy. Infine, di approdare nel club più importante al mondo». Pausa. Quindi un altro amarcord rivolto a Maradona, in prima fila in sala: «Mi sono reso conto di non avere più benzina perché non facevo più gol al Napoli. E ho deciso di lasciare spazio a Diego...». Intervenendo a Globe Soccer il presidente Uefa è partito dall'etica per spiegare la sua visione del calcio: «Sin da quando il professionismo ha preso il sopravvento, l'etica del calcio è poggiata sulla vittoria. Tutti devono dare tutto per avere il massimo sul campo: sia chiaro, però, nel rispetto delle regole e con mezzi legittimi». Il riferimento al doping e alle scommesse è esplicito: «L'Uefa si è già schierata in maniera chiara. I club non possono essere lasciati soli contro organizzazioni malavitose». Non sfugge il tema del razzismo: «Esiste già la misura per fermare le partite quando ci sono gravi episodi di intolleranza e io do tutto il mio appoggio perché la presa di coscienza aumenti. Una sola osservazione, però: il calcio è toccato dal problema come tutta la società».

Aneddoto Tutto gira intorno al denaro e Michel ricorda: «Quando dissi a mio padre che, nel mio primo club, guadagnavo l'equivalente di circa 90 euro al mese, si stupì del fatto che mi pagassero per giocare a calcio. E proprio ai miei tempi gli stipendi sono cresciuti: me ne sono accorto bene alla Juve...». Più soldi per i calciatori, ma anche tante trappole. «In Inghilterra hanno preso una decisione che condivido: chiudere la strada ai fondi che detengono la proprietà dei cartellini. Un abuso che secondo taluni in questi anni ha ridotto in schiavitù i calciatori. Non so se si possa usare questa espressione, ma viene lesa la dignità di un professionista e minata la regolarità dei campionati».

Fair play Il potere del denaro e il fair play finanziario. Platini ribadisce: «Il calcio è un fenomeno che attrae i grandi investitori. Ma mi batto per l'eguaglianza. Tutti devono avere una possibilità e chi vuole spendere deve essere in grado di sostenere certi costi. Altrimenti si crea un ciclo perverso che può portare tanti al fallimento». Nella terra degli sceicchi, ormai azionisti dei maggiori club europei, lancia un messaggio importante: «Il calcio è passione e da sempre attrae i più ricchi. L'importante è che chi ci porta le sue fortune ami questo sport». Non manca il riferimento al Mondiale del 2022, assegnato al vicino Qatar: «La Fifa ha assegnato giustamente a quel Paese l'evento ed è giusto che lo sceicco prenda le sue decisioni autonomamente. Certo, se decidesse di allargare l'organizzazione ai Paesi vicini...», chiaro riferimento ai padroni di casa degli Emirati Arabi. Infine una sottolineatura meteorologica: «Ho detto da tempo che il Mondiale 2022 va giocato d'inverno. Per rispettare i giocatori ma anche gli spettatori. Mi auguro che si vada verso questa soluzione e mi batterò per questo».

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La Uefa dichiara guerra alla

proprietà di calciatori da parte

di fondi e società finanziarie

di MARCO BELLINAZZO (Calcio & business 29-12-2012)

La Commissione esecutiva della Uefa ha deciso di vietare la proprietà di calciatori da parte si soggetti che non siano società di calcio. Ora la Fifa dovrà emettere un regolamento a livello mondiale che traduca questo principio in un esplicito divieto di forme di proprietà di calciatori di terze parti, una pratica potenzialmente in grado di distorcere l'integrità delle competizioni e che permette speculazioni sui giovani calciatori. La Uefa, in ogni caso, attraverso il Consiglio Strategico del Calcio Professionistico (PFSC), è pronta ad applicare un proprio regolamento che blocchi (con un periodo di transizione di tre-quattro anni) tale pratica nelle proprie competizioni.

"La questione è stata discussa a fondo all'interno del Consiglio Strategico del Calcio Professionistico, che comprende la Uefa e i club europei, le leghe professionistiche e la Divisione europea del sindacato dei calciatori FIFPro – ha dichiarato il segretario generale Uefa Gianni Infantino -. Tale organo ha emesso una raccomandazione in cui auspica il divieto di proprietà di terze parti, e la Commissione Esecutiva ha accolto tale raccomandazione. La Fifa ha partecipato al Consiglio Strategico. Abbiamo discusso del tema, e la Commissione Calcio FIFA, presieduta dal presidente Uefa Michel Platini, ha espresso il medesimo auspicio. Se la Fifa dovesse mutare idea, la Uefa potrebbe applicare un regolamento valido nelle proprie competizioni, così come in Inghilterra e in Francia la proprietà terza è vietata nelle competizioni nazionali”.

Michel Platini è stato categorico sul tema: "Non credo sia positivo che calciatori di diverse squadre appartengono a società finanziarie o a individui. Credo non sia positivo né da un punto di vista etico né morale”.

L'ipotesi di un divieto era già emersa a maggio, quando fu presentata per la prima volta al Consiglio Strategico. "Sappiamo tutti - ha aggiunto Infantino - che la proprietà di calciatori di terze parti comporta molti rischi, e che vi sono questioni legate all'integrità delle competizioni, del fair play finanziario e altro. E' il momento di regolamentare la questione e di assumere una posizione ferma, sebbene ragionevole, offrendo un periodo di transizione per permettere ai club di far fronte alla situazione. La Uefa intende definire un quadro normativo per tutelare i club e prevenire il rischio di fallimento dei club. L'obiettivo è quello di proteggere i club a lungo termine. Significa che i club devono prendere direttamente in mano la questione. Così come i calciatori devono essere padroni del proprio futuro, piuttosto che essere in balìa di soggetti il cui modello d'affari consiste nel realizzare quanti più trasferimenti per ricavarne quanto più denaro possibile, denaro che poi esce dal calcio e dai club”.

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Il caso Sì del Consiglio di Stato alla tassazione sulle plusvalenze. La parola ora alla Cassazione

Il Fisco va in rete,

bilanci dei club a rischio

Le società Le società sostengono che l’Irap sulle

plusvalenze della cessione dei giocatori non è dovuta

Contenziosi L’Agenzia delle Entrate chiede centinaia di

milioni di euro per gli esercizi che vanno dal 1999 al 2007

di FEDERICO DE ROSA (CorSera 29-12-2012)

MILANO — Il giochino stavolta rischia davvero di rompersi e di fare danni seri. L’unica speranza, per i club di Serie A, B e Lega Pro, è che la Cassazione dica che non è così. Perché, se dovesse confermare il parere del Consiglio di Stato, i bilanci delle squadre di calcio salterebbero uno dopo l’altro. Colpa delle tasse. In particolare dell’Irap sulle plusvalenze incassate con la cessione dei giocatori. I club hanno sempre sostenuto che non era dovuta. Per il Consiglio di Stato, invece, devono pagare.

Non si tratta di qualche spicciolo ma di centinaia di milioni di euro che l’Agenzia delle Entrate reclama da tempo. La decisione dei giudici amministrativi è infatti l’epilogo — non ancora definitivo—dei numerosi contenziosi avviati dal Fisco sulle imposte relative agli esercizi dal ’99 al 2007 delle società calcistiche. Imagistrati sono del parere che l’Imposta regionale sulle attività produttive era dovuta poiché il trasferimento del giocatore equivale alla cessione del contratto, quindi al diritto di utilizzo esclusivo della prestazione dell’atleta in cambio di un corrispettivo. Fattispecie rilevante ai fini Irap, come direbbe il commercialista.

Nel dubbio, praticamente nessuno finora aveva versato un euro. Anche perché il contrario avrebbe mandato in tilt l’intero sistema che ruota attorno al calcio. La compravendita di giocatori (quasi sempre attraverso permute, quindi senza tirar fuori un quattrino) e il meccanismo delle plusvalenze sono l’architrave su cui si regge l’equilibrio di bilancio dei club italiani. Basti pensare che la norma in vigore consente a chi vende di contabilizzare subito la plusvalenza e a chi compra di annacquare i costi spalmandoli su cinque bilanci. Il vantaggio è chiaro. A fine stagione basta scambiare a prezzo gonfiato il più scarso del vivaio per raddrizzare i conti.

Il Fisco non è rimasto certo a guardare e ha avviato prima accertamenti mirati per poi rivolgersi direttamente ai giudici amministrativi. Che adesso hanno chiarito la questione. Non secondo i club, però. «Ci sono posizioni diverse — fa notare il presidente del collegio dei revisori della Lega di serie A, Ezio Maria Simonelli —. Secondo il Fisco va pagata, secondo le società no, perché le plusvalenze nascono da cespiti, e lo stipendio di un calciatore non è deducibile a fini Irap, quindi si sentono tassate due volte». L’ideale sarebbe fare come in Inghilterra «dove non sono tassate le plusvalenze derivanti dalla cessione dei calciatori se reinvestite», suggerisce Simonelli. Altrimenti, per Claudio Lotito tutto il calcio italiano è a rischio. «O creiamo un’armonizzazione normativa a livello europeo — dice il presidente della Lazio — o siamo svantaggiati». Il secondo tempo in Cassazione?

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Il caso Le società protestano: «Tassa iniqua»

C’è anche l’Irap a far

paura ai bilanci in rosso

Toccherà le plusvalenze 2001-2007. Inter e Milan, posizioni opposte

di DAVIDE PISONI (il Giornale 29-12-2012)

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I nodi vengono al pettine. E per il calcio sono dolori. Una bomba più che un fuoco d’artificio di fine anno sul mondo del pallone. Questo può rappresentare il parere del Consiglio di Stato dello scorso 11 dicembre: «Applicate l’Irap sulle plusvalenze del calcio». Si tratta di una questione annosa che si trascina dal dicembre 2001, quando era stata sancita l’imponibilità delle plusvalenze. In ballo ci sono centinaia di milioni di euro frutto di decine di scambi all’anno fino al 2007, e a contenderseli da una parte c’è l’Agenzia delle Entrate e dall’altra i club. Un salasso che si andrebbe ad aggiungere agli oltre 800 milioni di tasse che il pallone già paga. E l’ex presidente della Covisoc, Victor Uckmar, non ha dubbi nell’intravedere ripercussioni pesanti: «Rappresenta un’ulteriore batosta. Si tenga conto che l’Irap si paga anche con i bilanci in rosso. . . Aggrava la situazione per tutte le squadre, soprattutto per chi ha fatto spesso uso di questo meccanismo».

Non a caso è il nodo fiscale più grosso, alcune big versano comunque l’imposta per non rischiare l’accertamento. Salvo poi chiederne la restituzione andando al contenzioso. Sulla plusvalenza c’è una visione diametralmente opposta delle parti: il Fisco ravvisa che il trasferimento è di fatto una cessione di contratto e quindi l’Irap è dovuta, per i club invece rappresenta la costituzione di un nuovo rapporto. Tra i due litiganti ecco il parere del Consiglio di Stato, svelato dal Sole 24ore, che sposa la prima tesi, secondo cui con la cessione del contratto viene ceduto il diritto all’utilizzo esclusivo della prestazione dell’atleta verso corrispettivo. L’ultima parola ora spetta alla Corte di Cassazione, ma per il Fisco è un punto di forza da far valere nei contenziosi.

Sono tanti quelli che vertono sulle plusvalenze di cui si inizia a parlare nei primi anni Duemila perché è attraverso questo “giochino” che il calcio italiano sistema i conti perché chi vende realizza immediatamente plusvalenza, mentre chi compra spalma il costo sulla durata del contratto. Più che sui top player, il meccanismo si basa sul trasferimento di giovani e sconosciuti, scambi senza passaggio di denaro. Si arriva a inventare lo spalma­debiti per diluire nel tempo l’effetto sui bilanci delle plusvalenze che toccano cifre record. Ad esempio fa rumore nel 2007 l’inchiesta della Procura di Milano su Inter e Milan, poi prosciolte perché il fatto «non costituisce reato». Le due società milanesi erano state protagoniste di tanti scambi.

Adesso il calcio italiano rischia di pagare un conto ben più pesante. Ezio Maria Simonelli, candidato alla Lega di serie A e coordinatore del tavolo di lavoro fra i club e il Fisco, indica una via d’uscita. «Le società si sentono tassate due volte - ha notato Simonelli - . Hanno sancito questo principio alcune decisioni di commissioni tributarie a favore ad esempio di Lazio e Cagliari, ma alla fine non tutti pagano l’Irap sulle plusvalenze. Ad esempio, il Milan lo fa e l’Inter no. Dovremmo importare il sistema Inghilterra, dove non sono tassate le plusvalenze se reinvestite». La pensa così anche il presidente della Lazio, Claudio Lotito: «L’Irap è iniqua e mina la stessa competitività del calcio italiano». Quello che i dirigenti vanno ripetendo da sempre, Adriano Galliani su tutti. Almeno le tasse riescono a mettere d’accordo i presidenti del pallone.

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Imposta sulle attività produttive.

Le possibili conseguenze del parere del Consiglio di Stato sulle plusvalenze

Dall'Irap ipoteca milionaria sul calciomercato

L'ALTRO FRONTE Nel mirino del Fisco ci sono anche i servizi

svolti da alcuni procuratori di atleti che risultano a libro paga dei club

di MARCO BELLINAZZO (Il Sole 214ORE 29-12-2012)

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Imporre il pagamento dell'Irap sulle plusvalenze da calciomercato, per il Fisco non è solo un'esigenza di equità. Se la Cassazione nei prossimi mesi accoglierà il parere (n. 5285) del Consiglio di Stato che ha sancito l'imponibilità dei guadagni legati alle cessioni dei calciatori potrebbero scaturirne per le casse pubbliche entrate milionarie (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri). Basta pensare ad alcuni tra i più clamorosi affari delle ultime sessioni per farsene un'idea. Quando l'Inter nel 2010 ha venduto al Manchester City Mario Balotelli, ha realizzato una plusvalenza di oltre 21 milioni (la differenza tra il valore dell'atleta iscritto a bilancio, poco meno di 500mila euro, e il prezzo pagato dal City per il cartellino, circa 22 milioni). Applicando a questo surplus l'aliquota base dell'Irap, pari al 3,9%, si ottiene un'imposta di circa 850mila euro. Analogamente, tassare ai fini Irap il guadagno percepito dall'Inter dalla vendita di Ibrahimovic al Barcellona, nel luglio del 2009, significa incassare poco più di un milione di euro (su una plusvalenza di oltre 26 milioni). E sempre a un'imposta intorno al milione si arriverebbe grazie alle plusvalenze realizzate dal Milan e dal Napoli quest'estate per i passaggi di Thiago Silva e Lavezzi al Paris Saint Germain.

Peccato, però, che di queste ricche plusvalenze in Italia se ne vedranno sempre meno. La crisi del calcio tricolore sta portando a un generalizzato impoverimento delle rose. I club che tradizionalmente “allevano” giovani calciatori per poi cederli alle big, anzi, potrebbero essere ulteriormente penalizzati da un prelievo Irap sulle transazioni. Proprio l'anomalo impatto dell'Irap che colpisce componenti positive come gli introiti da botteghino, i diritti tv e gli incassi pubblicitari, ma anche elementi negativi come le spese per il personale, che non sono deducibili a fini dell'imposta regionale in quanto i calciatori sono lavoratori dipendenti, finisce per rappresentare un ulteriore gap per i club italiani. Le società chiedono perciò una maggiore certezza del quadro normativo. Un'istanza di cui dovrà farsi carico il prossimo presidente di Lega. Un buon lavoro ha già fatto, del resto, il tavolo istituito quasi un anno fa tra l'agenzia delle Entrate, la Lega e la Figc. A parte la questione delle plusvalenze da calciomercato, su cui continua il muro contro muro, ci sono altre questioni sulle quali invece si sono delineate soluzioni condivise che andranno formalizzate nei prossimi mesi. È quanto avvenuto per la tassazione dei "diritti di compartecipazione", quelle “scommesse” che nell'ambito delle operazioni di calciomercato il club che cede un giocatore di prospettiva stipula con l'acquirente per beneficiare di una percentuale dell'eventuale maggior "valore" raggiunto da quest'ultimo dopo un anno o due. Su queste somme non venivano pagate né lpIva né l'Irap, mentre da alcuni mesi l'agenzia delle Entrate ha riconosciuto che, trattandosi di una sorta di “derivati”, sono rilevanti ai fini Irap ma sono esenti dall'Iva.

Si avvia a essere risolta anche la disputa sugli ammortamenti. Ai club sarà riconosciuta la possibilità di scontare in bilancio il costo dei cartellini in quote non costanti in base agli anni del contratto. Quindi per un trentenne con un accordo triennale, si potrà ammortizzare il cartellino con percentuali del 50-25-25 (presumendo che il massimo del rendimento sia concentrato nel primo anno), purché si adottino criteri omogenei e stabili per tutto il parco giocatori.

Nel mirino del Fisco poi sono finiti i servizi svolti da alcuni procuratori di atleti che risultano a libro paga dei club. Questo "costo" supplementare sostenuto dalle società nasconderebbe una quota extra dell'ingaggio degli atleti. Versarlo al procuratore, anzichè al giocatore, permetterebbe alle società di risparmiare la ritenuta Irpef e di poter detrarre l'Iva. Ora, modificando in via interpretativa il regolamento agenti, si potrà permettere la “doppia rappresentanza”, vale a dire la possibilità che il procuratore curi contemporaneamente gli interessi dell'atleta e della società che lo acquista. In questo modo sarà più semplice riconoscere l'”inerenza” del costo sostenuto dal club pagando il procuratore (e si potrà dedurlo). A patto però che il calciatore liquidi il compenso al manager detraendolo dal proprio stipendio.

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IL CASO IL CONSIGLIO DI STATO CONFERMA L’INTERPRETAZIONE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

Plusvalenze: Irap retroattiva

È in arrivo la stangata sulla A

Tassa anche per gli anni 1999-2007 Lotito: «L'Italia rispetto all'Europa viene penalizzata»

di ALESSANDRO RUSSO (GaSport 29-12-2012)

Si avvia alla conclusione la lunga disputa tra il Fisco e le società di calcio sul pagamento dell'Irap (cioè l'Imposta regionale sulle attività produttive) sulle plusvalenze della cessione dei calciatori. L'epilogo, però, getta un'ombra sui conti dei club. A distanza di undici anni dalla risoluzione del 2001 attraverso la quale l'Agenzia delle Entrate aveva sancito l'imponibilità delle plusvalenze ai fini del tributo regionale, è arrivato il parere del Consiglio di Stato dell'11 dicembre scorso a confermare le tesi dell'amministrazione finanziaria che potrà alzare la voce nei tanti contenziosi aperti con le società calcistiche.

Il tavolo Il presidente del collegio dei revisori della Lega di Serie A, Ezio Maria Simonelli, suggerisce di «importare il sistema adottato in Inghilterra, dove non sono tassate le plusvalenze sui giocatori se reinvestite». Fra le dispute aperte c'è proprio quella dell'Irap sulle plusvalenze. «Ci sono posizioni diverse. I club si sentono tassati due volte — ha notato Simonelli —. Hanno sancito questo principio alcune decisioni di commissioni tributarie a favore ad esempio di Lazio e Cagliari, ma alla fine non tutti pagano l'Irap sulle plusvalenze. Il Milan lo fa e l'Inter no».

L'allarme di Lotito Il presidente della Lazio Claudio Lotito lancia l'allarme. «O creiamo un'armonizzazione a livello europeo o siamo svantaggiati. L'Irap è iniqua e mina la stessa competitività del calcio italiano. Siamo penalizzati perché oltre a non avere gli stadi, abbiamo una doppia tassazione: cedendo un giocatore, oltre a pagare l'Imposta sul reddito delle società, abbiamo una tassa straordinaria sulle plusvalenze». Si può ben dire che il calcio italiano rischia di pagare oggi le scorciatoie finanziarie del periodo 1996-2007, quando si arrivava all'equilibrio patrimoniale con le plusvalenze tramite le cessioni di top player, giovani prodotti nei vivai, ma anche di atleti sconosciuti. Scorciatoia finanziaria che prevedeva trasferimenti senza scambio di denaro che ha già presentato il conto alla Lazio, salvata dal crac solo spalmando in 23 anni il debito di 140 milioni verso l'erario.

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Tackle sui bilanci

L’Irap sui guadagni dalle cessioni

costerà 500 milioni ai club di calcio

di CLAUDIO ANTONELLI (Libero 29-12-2012)

Una bomba Irap da almeno 500 milioni di euro potrebbe abbattersi sul mondo del calcio. Nell’annosa querelle sulla tassazione o meno dell’Imposta regionale sulle plusvalenze sulle cessioni di calciatori, l’Agenzia delle Entrate segna una rete che potrebbe valere anche più di una stagione.

L’assist lo fornisce al fisco il Consiglio di Stato che, con il parere dell’undici dicembre scorso, chiarisce che «le eventuali plusvalenze realizzate in occasione della cessione dei contratti di prestazioni sportive dei calciatori siano da prendere in considerazione in sede di determinazione della base imponibile Irap». Le plusvalenze, quelle che contano e che pesano sui bilanci, sono state realizzate negli anni precedenti il 2008. Era l’epoca dei traferimenti milionari che hanno coinvolto calciatori di prima grandezza, ma anche - e soprattutto - degli scambi tra club di pedine di secondo e terzo piano, che però venivano iscritti a bilancio per cifre fuori mercato.

Ed è proprio su queste poste che il fisco ha messo gli occhi già dal 2001. Stando agli ultimi dati disponibili, l’imponibile Irap per le varie leghe e serie si avvicina al miliardo di euro, il dovuto sarebbe quindi di circa 50 milioni, valore che può essere tranquillamente preso a riferimento anche per gli anni precedenti. «Il fisco è su queste diverse centinaia di milioni che ha focalizzato la sua attenzione», scrive Il Sole24ore anticipando la notizia, «prima avviando un’azione di accertamento mirata e poi perorando la propria pretesa impositiva nei diversi gradi di giudizio. Il parere del Consiglio di Stato, peraltro atto non comune ma che dà l’idea dell’importanza della partita, arriva neanche a farlo apposta (ma forse sì), proprio mentre squadre di serie A, come il Cagliari o la Lazio, hanno vinto la loro partita con il fisco in Commissione regionale e ora si trovano in Cassazione».

La mina Irap del Consiglio di Stato, dunque, finirà per produrre i suoi effetti proprio sulla miriade di contenziosi accesi in tutta Italia. E per il calcio in crisi sarà un altro problema da risolvere.

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Caos plusvalenze

C’è l’incubo Irap sui conti dei club

Una sentenza del Consiglio di Stato dà ragione alla Agenzia delle Entrate. Simonelli:

«Detassare le plusvalenze reinvestite, come in Inghilterra». Lotito: «Ci penalizza rispetto all’Europa»

di STEFANO SALANDIN (TUTTOSPORT 29-12-2012)

IL Consiglio di Stato ha dato ragione all’Agenzia delle Entrate e per i club italiani si apre un altro fronte con il Fisco: è allarme Irap sulle plusvalenze create dalla compravendita di giocatori. Il parere del Consiglio di Stato depositato lo scorso 11 dicembre amplia ulteriormente la forbice tra il carico fiscale dei club italiani e quelli europei riducendone la competitività sul mercato, ma riporta anche d’attualità le gestioni “allegre” di fine millenio. Ora i club cercano una via d’uscita: «O creiamo un’armonizzazione normativa a livello europeo o siamo svantaggiati. L’Irap è iniqua e mina la stessa competitività del calcio italiano. Bisogna importare il sistema adottato in Inghilterra, dove non sono tassate le plusvalenze sui giocatori se reinvestite» è la proposta del presidente del collegio dei revisori della Lega di serie A Ezio Maria Simonelli .

COORDINATORE Simonelli è balzato recentemente alle cronache della politica sportiva perché è diventato il concorrente più accreditato di Andrea Abodi nella corsa alla presidenza della Lega di Serie A, ma già da tempo svolge un ruolo importante in seno alla Lega tanto è vero che coordina il “tavolo” che è stato istituito fra i club e il Fisco per trovare un intesa su molte questioni: dai pagamenti dei procuratori (che il Fisco ritiene benefit occulti ai calciatori) fino appunto alle plusvalenze. «Secondo il Fisco va pagata, secondo le società no perché le plusvalenze nascono da cespiti e lo stipendio di un calciatore non è deducibile a fini Irap, quindi si sentono tassate due volte. Hanno sancito questo principio alcune decisioni di commissioni tributarie a favore ad esempio di Lazio e Cagliari, ma alla fine non tutti pagano l’Irap sulle plusvalenze. Ad esempio, il Milan lo fa e l’Inter no. E’ interesse della Lega avere regole uguali per tutti».

PARLA LOTITO L’ultima parola, ora, spetta alla Cassazione, ma il pronunciamento del Consiglio di Stato è un vero e proprio “gol in contropiede” per il Fisco che ha contenziosi aperti in tutta Italia con parecchi club per le annualità fino al 2007. Immancabile il pronunciamento di Claudio Lotito , sempre attentissimo alle questioni fiscali: «Tutto si basa su un’interpretazione di una circolare fatta, quando era ministro del Tesoro Visco, per impedire le plusvalenze facili - ha spiegato all’Ansa -, ma oggi le squadre pagano regolarmente le tasse. E con l’Irap, a livello europeo, siamo penalizzati perché oltre a non avere gli stadi (ma qualcuno se l’è fatto, ndr), abbiamo una doppia tassazione. Questo non esiste in nessun altro paese d’Europa. In Inghilterra c’è addirittura la detassazione sulle tasse ordinarie». La differenza con il resto d’Europa esiste, ma anche il passato. Che si ripresenta minaccioso e chiede di saldare i debiti pregressi, con il nostro calcio che rischia di pagare oggi un conto salato per la “creatività” dei bilanci di fine millenio, quando con le plsuvalenze fittizie (ricordate i giovani venduti a cifre folli senza che giocassero poi neppure un minuto?) per sanare abnormi buchi di bilancio. Allora ai club i “soldi del Monopoli” facevano comodo; ora che il Fisco li vuole considerare soldi veri, invece, non piacciono più...

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IL CALCIO CHE VOGLIAMO Senza stadi nuovi l'Italia dipenderà dai soldi delle tv - Iaria a pagina 16

Tutti gli stadi da migliorare o sl dipenderà dai diritti tv

Siamo il Paese che più è aggrappato ai soldi delle emittenti, diventati di vitale importanza. Ma vanno scelte altre strade: la Juventus dà l'esempio da seguire

le cifre Inghilterra al top con la televisione Tedeschi secondi La Ligue indietro

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MARCO IARIA - Gasport - 29-12-2012

Cosa succederebbe se il valore dei diritti televisivi si fermasse e cominciasse la sua parabola discendente? È un interrogativo inquietante che comincia a circolare nelle riunioni dei club, negli incontri istituzionali. Il calcio italiano è il più teledipendente che ci sia. Il miliardo annuo che piove dalle emittenti non solo rappresenta il 60% del fatturato della Serie A ma garantisce anche la sopravvivenza delle categorie inferiori, visto che 100 milioni sono destinati alla mutualità. È vero che i contratti già firmati sono validi fino al 2015, ma sarebbe sbagliato non riflettere sulle prospettive del sistema delle pay tv in Italia e non prevedere un piano B in caso di una sua involuzione. Ora che il mecenatismo all'italiana è in crisi e il fair play Uefa è alle porte, i tagli non bastano. Vale lo stesso discorso che si fa per il Paese. Nell'agenda dei prossimi mesi va messo l'accento sul capitolo della crescita. E quando si parla di crescita non si può non parlare di stadi. E lì che siamo indietro. Nel 2010-11 la Serie A ha incassato al botteghino 197 milioni, appena il 13 per cento dei ricavi totali. Solo la Ligue francese ha fatto peggio (131 milioni). Le altre leghe top sono lontanissime: Premier Lea-gue (Inghilterra) 610 milioni (24 per cento del fatturato), Liga (Spagna) 428 (25 per cento), Bundesliga (Germania) 411 (23 per cento).

Differenze. È tutto collegato. Nuovi stadi portano più gente, più gente porta più ricavi, più ricavi portano più qualità tecnica. A casa nostra la Juve ne è l'esempio: nella prima stagione allo Juventus Stadium, inaugurato nell'agosto 2011, la media spettatori è passata dai 22 mila dell'Olimpico a quasi 38 mila, con 21 sold out su 23 partite; i ricavi sono quasi triplicati, da 11,6 a 31,8 milioni. Un circolo virtuoso che sta proseguendo quest'anno, col 30 per cento di proventi netti dagli abbonamenti e i 4,8 milioni incassati nel primo trimestre (1,7 nel 2011-12) da museo, tour e attività extra-sportive organizzate nell'impianto durante la settimana. Il tutto, sul piano tecnico, accompagnato dalla riconquista dello scudetto. All'estero, i numeri dell'Arsenal sono impressionanti. Nel 2006-07, traslocando da Highbury all'Emirates, raddoppiò l'affluenza (da 38 a 60 mila, con 41 mila tifosi in lista d'attesa per un abbonamento) e il giro d'affari (da 64 a 135 milioni) entrando per la prima volta nella top five della classifica delle società più ricche d'Europa realizzata da Deloitte.

Piccoli esempi. Beninteso, lo stadio è un affare per tutti, non solo per le grandi squadre. A patto che il progetto sia commisurato alle esigenze della comunità e del territorio. Se l'investimento in infrastrutture, in un sistema così volatile come quello calcistico, non fosse conveniente, i club inglesi non avrebbero investito 3,1 miliardi di sterline tra il 1992 e il 2011. E non solo l'Arsenal o il Manchester City, che lasciando Maine Road ha visto subito raddoppiare i ricavi. Il Brighton & Hove Albion militava in League One (la terza serie) quando ha iniziato a costruire il suo stadio, costato 98 milioni di sterline. Ne è valsa la pena: 172 per cento di spettatori e 89 per cento di riempimento. Anche in Germania i piccoli casi di successo si sprecano. L'Augsburg, ad esempio, passando nel 2009 nella nuova Sgl Arena, ha incrementato i ricavi al botteghino del 138 per cento. Si stanno ripagando benissimo i 70 milioni spesi per la nuova casa dell'Hoffenheim: il fatturato si è decuplicato e i 30 mila posti (il vecchio impianto ne conteneva 6 mila) sono occupati per il 97 per cento.

In attesa dalla legge. Le squadre italiane prendano appunti. E ora che la legge sugli stadi è stata definitivamente affossata in Parlamento (se ne riparlerà, chissà, nella prossima legislatura), è bene che si rimbocchino le maniche e s'inventino qualcosa. Prima che sia davvero troppo tardi-

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L'intervista. Un anno di calcio, e non solo, nelle mani di Gigi

Te li do io gli Oscar

Buffon: «Sono di nuovo un leader e questa Juve non ha paura di nessuno»

Trattato da mostro, non lo meritavo: una pugnalata

TORINO, 29 dicembre 2012 - Un anno da/con le mani di Gigi. Lo scudetto, la finale dell’Europeo, Madama ritornata. Gigi Buffon, capitano della Juventus e della Nazionale. Un grande fratello, testimone del tempo. La sua vita, le sue emozioni, i suoi Oscar 2012, con qualche speranza per il 2013.

Il meglio di Gigi Buffon.

«Non c’è un momento sintetico. Il 2012 è stato un anno importante. Avrò commesso un errore o due e, chiamato in causa, sono stato decisivo. All’Europeo, poi, si è visto il Buffon che tutti conoscono».

Il peggio?

«Quest’anno no. Fosse sempre così, sai che noia. Le difficoltà, l’infortunio, la fatica mi hanno fatto riprendere in mano il mio destino di leadership».

Il peggio del calcio italiano.

«Le polemiche. Mai costruttive, sempre distruttive: tendono a svilire chi ti sta di fronte, l’avversario, i suoi meriti».

Aveva confidato, in passato, di soffrire il coro «sapete solo rubare».

«Dopo tutto quello che ho passato con la Juve, lo ascolto con orgoglio. Sono qui da tanto e so qual è la verità, i nostri meriti e i nostri demeriti. Con questa certezza, quando sento questo coro, capisco che gli altri hanno grande rispetto e molta paura della Juve, come squadra».

Il miglior giocatore Juve.

«Non posso fare un solo nome: Barzagli, Pirlo, Vidal, Marchisio, i primi che mi vengono in mente, ma anche gli altri hanno compiuto qualcosa di straordinario».

La sorpresa Juve?

«Chiellini e Bonucci per la continuità. Se siamo la difesa meno battuta è merito loro».

La peggiore partita dell’era Conte?

«Quella persa per 1-0 con il Milan a San Siro. Ci ha lasciato l’amaro in bocca perché non l’abbiamo giocata».

La partita capolavoro?

«In casa con il Chelsea e nel 2011-2012 Genoa-Juve, non abbiamo vinto ma ci siamo detti "ce la facciamo"».

Si aspettava lo scudetto dopo i due settimi posti?

«No, però sono un sognatore e nei miei sogni mi accompagna una buona dose di presunzione. Ogni tanto anche i pazzi ci prendono».

Europeo, meglio e peggio.

«Un Europeo stupendo, un’impresa, finale a parte. Noi italiani abbiamo il pregio di rendere equilibrata ogni partita ma per acciacchi, per logorio, vuoi anche per la sensazione di essere alla pari con la Spagna, a Kiev non ci siamo riusciti».

Il Pallone d’Oro di Buffon?

«Mi piace essere concreto. Messi, per numeri e bravura. Se poi allarghiamo i criteri dico Pirlo, meno appariscente, altrettanto decisivo».

Oscar al miglior giocatore straniero?

«Ex aequo Yaya Touré (Manchester City) e Willian (Shakhtar)».

Alla squadra?

«Borussia Dortmund. Mi ricorda la Juve. Nei prossimi cinque anni una tra Juve, Borussia e Shakhtar vincerà la Champions».

La Champions Le manca?

«Veramente anche l’Europeo, la Supercoppa Europea, l’Intercontinentale, la Confederations Cup. Però, se azzecchi la Coppa dei Campioni puoi fare un bel filotto».

Conte è stato squalificato. Non entriamo nel merito, ma dell’uomo che può dire?

«Sia da calciatore che da allenatore si è sempre distinto per correttezza, professionalità e voglia di vincere. E ho detto tutto».

Anche Lei è finito mostro in prima pagina.

«Tre giorni. Mi ha addolorato. Se uno mi conosce sa quanto tengo all’Italia e al movimento calcistico. Non me lo meritavo. Una pugnalata».

Cosa farà da grande, più manager d’azienda o presidente di squadra di calcio?

«Si possono fare entrambe le cose, no?».

Andrebbe a giocare in Australia?

«L’Australia è un posto meraviglioso, ci sono stato in vacanza. Ma ti senti tagliato fuori dal centro nevralgico dell’universo. Comunque, una scelta intrigante».

C’è bisogno del top player?

«Vedo una predisposizione al sacrificio e una grande umiltà da parte dei nostri attaccanti. Non so quanti potrebbero accettarle».

Conte è esigente, Lei non ha mai detto: ora basta?

«Glielo dico tutti i giorni. Scherzo, non mi permetterei. Se questo sudore e questa fatica portano a questi risultati, io che ho passato cinque anni senza vincere, li accetto».

Juve, più attrezzata per scudetto o Champions?

«Questa squadra può fare partita con tutti e non parte battuta da nessuno. È come scegliere tra una bella ragazza con cui sei stato bene per tanti anni e una bellissima e sconosciuta. La risposta mi pare chiara».

Tra due mesi si vota, cosa chiede alla politica?

«Monti ha preso delle misure tartassanti, ma è uno dei pochi che mi rassicura. È rispettato, sa quello che dice ed è credibile. I sacrifici li abbiamo fatti e li facciamo, diteci però a cosa servono e quando finiranno».

I Suoi figli crescono.

«Uno è piccolo, Louis Thomas ha cinque anni e quando giochiamo vedo che in porta è in gamba. Ha qualcosa. Ma fino a dieci anni sarà sempre un "salame"» .

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Stangata del giudice Ranocchia due giornate Inter furiosa

Ranocchia paga doppio

Due turni di stop. Moratti irritato

La squalifica era attesa ma per una sola partita Il presidente «Così è la terza volta che a noi tolgono il più in forma»

Andrea Ramazzotti - Corsport -29-12-2012

Se i rapporti tra l'Inter, gli arbitri e gli organi di giustizia sportiva erano già tesi, la fine del 2012 certo non ha contribuito a distendere gli animi e a portare una ventata di tranquillità. Ieri infatti il club nerazzurro si è visto squalificare per due giornate (e non una come previsto...) Andrea Ranocchia. Inutile dire che in corso Vittorio Emanuele rabbia e fastidio si sono mischiate, anche se il presidente Moratti, pur irritato dal ripetersi di certe situazioni, ha evitato lo scontro frontale: E' un fatto molto particolare e inusuale - ha detto - perché è la terza volta che ci succede una cosa simile. Non avere Ranocchia per le prossime due gare è un peccato perché era in forma proprio come gli altri due». In forma, e il dato non è sfuggito a Moratti, erano anche Cassano e Guarin, fermati rispettivamente per due turni dopo Inter-Cagliari (proteste di Fantantonio nel tunnel per il mancato rigore su Ranocchia nel finale) e per un turno dopo Lazio-Inter (reazione rabbiosa, ma senza insulti, del colombiano a un fallo non fischiatogli nel recupero). I tre provvedimenti disciplinari presi dal Giudice Sportivo per fatti avvenuti dopo il triplice fischio finale, abbinati agli errori dei direttori di gara in 5 diversi match (Juventus-Inter, Atalanta-Inter, Inter-Cagliari, Inter-Napoli e Lazio-Inter), hanno fatto addensare nuvole minacciose nel cielo interista e, anche se la teoria del complotto più volte illustrata da Mourinho nell'anno del triplete nelle ultime 2-3 settimane non è stata pubblicamente sbandierata, i dubbi, le perplessità e i cattivi pensieri in corso Vittorio Emanuele si sprecano.

NIENTE RICORSO - Moratti in questa stagione è stato spesso perentorio nel parlare di arbitri: ha sottolineato gli errori subiti dalla sua formazione allo Juventus Stadium, ma ha assestato l'affondo più deciso dopo Inter-Cagliari, con accuse durissime alla classe arbitrale. E dalla prima denuncia in poi (questa è la convinzione nerazzurra) la situazione è peggiorata, con la squadra che ne ha risentito. La vicenda di Ranocchia è giudicata emblematica: il giocatore è uscito dal campo dicendo al quarto uomo E' una vergogna» riguardo all'operato dell'arbitro e per questo, oltre a scontare una giornata di squalifica per somma di ammonizioni (sarà out per Udinese-Inter del 6 gennaio), dovrà rimanere guardare dalla tribuna anche Inter-Pescara del 12 oltre a pagare una multa da 10.000 euro. La sua espressione è stata giudicata provocatoria ed è stato punito. La società non presenterà ricorso perché la decisione è tecnicamente giusta, ma i dirigenti adesso aspettano di vedere se in futuro, in presenza di finali infuocati all'uscita dal campo o nel tunnel, verrà applicato lo stesso metro di giudizio. Finora, rilevano, non sempre è accaduto e un paio di esempi pare siano già pronti.

REFERTI DA KO - In corso Vittorio Emanuele non è sfuggito inoltre che finora sono stati colpiti gli elementi più in forma di tutti e tre i reparti e che le tre squalifiche sono state decretate in seguito a integrazioni del referto non scritte dall'arbitro o dai due guardalinee, ma dal quarto uomo (caso di Ranocchia), da uno dei giudici d'area (caso di Guarii) o dagli uomini della Procura Federale (caso di Cassano). Alla ripresa degli allenamenti è facile immaginare che i dirigenti e Stramavioni chiederanno ancora più attenzione ai giocatori nelle proteste. All'Inter c'è la sensazione di essere nel mirino e da adesso in poi servirà più sangue freddo. Facile? Assolutamente no perché la rabbia in questo fine di 2012 ad Appiano Gentile e dintorni è palpabile e non semplice da arginare.

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I precedenti di Cassano e Guarin fanno sentire l’Inter accerchiata. Ma nessun ricorso. Tre casi in un mese dopo la vittoria sui bianconeri. E c’è chi sospetta...

Luca Taidelli -Gasport - 29-12-2012

MILANO, 29 dicembre 2012 - Andrea Ranocchia squalificato due turni. E se l’Inter era già arrabbiata, ora è furibonda. La sanzione del Giudice sportivo Gian Paolo Tosel, che ha fermato il difensore per una giornata in quanto diffidato e ammonito e per un’altra si legge nel comunicato - «per avere contestato l’operato arbitrale al termine del match contro il Genoa rivolgendo al quarto ufficiale un’espressione provocatoria» ha scatenato l’ira del club nerazzurro, che trapela chiaramente anche se non ufficialmente. Visto che, dopo Cassano e Guarin, Ranocchia (multato anche di 10mila euro) è il terzo giocatore fermato malgrado l’assenza di sanzioni in campo, in Corso Vittorio Emanuele a questo punto si sentono presi di mira. Tralasciando il concetto di persecuzione, come minimo salta all’occhio una difformità di giudizio rispetto a molti precedenti visto che da sempre tornando negli spogliatoi c’è del nervosismo e non ci si scambia certo ricette culinarie o consigli su dove andare in vacanza.

Verso il non ricorso «Vergognatevi». E’ l’espressione «provocatoria» riportata nel referto che costringerà Ranocchia a saltare non soltanto la trasferta di Udine del 6 gennaio ma anche l’anticipo del 12 contro il Pescara. Il difensore - pare arrabbiato per le ripetute perdite di tempo dei genoani che avevano portato a un recupero di appena 4’ di cui 2’ per le quattro sostituzioni - dalle ricostruzioni invece avrebbe detto «E’ una vergogna». Quindi il riferimento alla terna arbitrale sarebbe tutto da dimostrare. E si tratterebbe della stessa espressione a causa della quale dopo il match col Cagliari fu prima squalificato e poi perdonato Stramaccioni. La frase in questione tra l’altro è stata captata dal quarto uomoMichele Giordano, della sezione di Caltanisetta. Pur avendo tempo sino a lunedì per impugnare il provvedimento, al momento l’orientamento dell’Inter è di non fare ricorso. Impossibile infatti che la frase venga tolta dal referto. Anzi, si rischierebbe un turno in più che priverebbe Strama del difensore anche per la sfida del 20 gennaio in casa della Roma.

Pensiero alla Juve L’Inter è furibonda perché nel giro di un mese scarso si è vista privare degli elementi migliori di ciascun reparto per quanto riportato sul referto non dall’arbitro (che infatti in campo non aveva preso provvedimenti) ma da quarto uomo, arbitro di porta o Procura federale. Dunque squalifica che - aggiungendosi alle altre due - va a stabilire una sorta di record, un caso senza precedenti. Il club nerazzurro ci vede una grave disparità di giudizio e indirettamente si pensa alla Juve. Un po’ perché certi episodi sono iniziati dopo la vittoria a Torino, un po’ perché - concetto che vale appunto in generale - si ritiene che soprattutto con i bianconeri si usino altri pesi e altre misure. Aparte il recupero fiume (6’) che ha portato al gol vittoria contro il Cagliari, ai piani alti della sede nerazzurra viene difficile pensare che nell’accerchiamento che in Catania-Juventus subì l’arbitro Gervasoni - lo stesso che ha diretto Inter-Genoa - perché venisse annullato il gol (regolare) di Bergessio i tanti giocatori bianconeri non abbiano usato espressioni forti.

I precedenti A titolo di cronaca, Cassano era stato squalificato due giornate «per avere, al termine della gara contro il Cagliari, nel sottopassaggio che porta agli spogliatoi, rivolto all’arbitro un’espressione ingiuriosa; infrazione rilevata dai collaboratori della Procura federale». Guarin invece era stato sospeso una giornata «per avere, al termine della gara contro la Lazio, sul terreno di giuoco, assunto un atteggiamento aggressivo ed intimidatorio nei confronti di un assistente». Infrazione rilevata dal giudice di porta Banti.

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Abete candidato unico alla Figc: se Agnelli e gli altri lo rivotano, calcio condannato al Sistema Dinosauri

Xavier Jacobelli - calciomercato.com - 29-12-2012

Il comunicato ufficiale trasuda da ogni poro la soddisfazione del presidente uscente della Federcalcio. E non potrebbe essere altrimenti: dalla santa alleanza fra Dinosauri è scaturita la conferma che, per altri 4 anni, il calcio italiano sarà condannato all'immobilismo e verrà guidato dallo stesso, immarcescibile gruppo dirigente.

Il primo pilastro si chama Carlo Tavecchio, appena confermato alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti, carica che ricopre dalla fine del XX secolo (era il 1999, quando lo elessero per la prima volta).

Il secondo pilastro si chiama Mario Macalli, appena confermato alla presidenza della Lega Pro, carica che ricopre da ancor prima della fine del XX secolo (era il 1997 quando lo elessero per la prima volta).

L'uno e l'altro hanno comunicato a Giancarlo Abete che sosterranno la sua candidatura per un nuovo mandato alla presidenza della Federcalcio. Le elezioni si terranno il 14 gennaio a Roma. Ieri è arrivato anche il pronunciamento ufficiale della Lega di serie B: appoggerà Abete. Manca solo la serie A, che l'11 gennaio tenterà di eleggere il successore di Beretta e il cerchio sarà chiuso perchè, nel frattempo, sia l'Associazione Calciatori sia quella degli Allenatori voteranno per lo stesso candidato unico. Il quale si avvia a un plebiscito nordcoreano, con tutto il rispetto per il regime di Pyongyang che, in materia, è un'autorità assoluta.

Sia chiaro: nessun preconcetto e nessuna pregiudiziale verso le persone e totale rispetto per loro e per l'esito del democratico voto alla base della rielezione. I dirigenti in questione sono stati capaci e meritevoli, ma il discorso è un altro: la gerontocrazia al potere nel calcio conferma che l'Italia non è un Paese per giovani.

Per la cronaca, dal 1989 al 1990 Abete era stato capo del settore tecnico della Figc; sino al 1997 è stato presidente della Lega di serie C; poi, è stato il vice di Carraro al vertice della Figc sino al 2006 e ha preso il posto dello stesso Carraro, dimessosi dopo lo scoppio di Calciopoli venendo proclamato presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio il 2 aprile 2007.

Nei giorni scorsi, Abete aveva risposto piccato alle accuse di immobilismo, formulate da Andrea Agnelli, 37 anni, presidente della Juve. "Agnelli esprime dei giudizi e ho il dovere di rispettarli. A luglio Agnelli disse che la Lega di A avrebbe avuto una nuova governance e non parlo di un nuovo presiente, ma di regole. Non do la colpa a nessuno, ma non c'è stata e si è rinunciato ad averla. Questondimosra quanto sia difficile cambiare nela Confindustria del calcio, figurarsi a livello di istituzioni. Oltre alla critica deve esserci la capacità di cambiare".

Traduzione in italiano: siccome in Lega A i presidenti continuano a litigare, non pretendano di dire alla Figc che cosa dobbiamo fare. Quindi, state freschi se pensate che mi faccia da parte e, con me, l'attuale gruppo dirigente. E pazienza se Agnelli, che ha 25 anni meno di Abete, è in carica solo dal 19 maggio 2010.

E la riforma della giustizia sportiva che premia i pentiti ed emette sentenze pure a campionato in corso, che impedisce ai legali degli incolpati di interrogare i pentiti, che si basa sul principio medievale in base al quale è l'incolpato a dover dimostrare la propria innocenza?

E la riforma della responsabiità oggettiva? E la Figc che, nel luglio 2011, si dichiarò "incompetente" a decidere sul ricorso della Juve contro lo scudetto assegnato a tavolino all'Inter nel 2006? E gli stadi che fanno pena, tanto che il nostro calcio ha perso l'assegnazione degli Europei 2012 e 2016 e, mai e poi mai, avrebbe avuto una chance di ospitare i mondiali 2014, 2018, 2022, per non parlare di ciò che accadrà per il 2026 e il 2030? E la lotta al razzismo (non bisognava interrompere le partite al primo ululato)? E la fuga di paganti e abbonati dai tornei di A e B che continua senza sosta? E la tessera del tifoso che non serve a nulla? E il caso Is Arenas? E la crisi del sistema arbitrale che sforna errori in quantità industriale? E l'Italia di Prandelli vicecampione d'Europa nonostante, negli otto mesi precedenti il torneo in Polonia e Ucraina, avesse disputato tre sole amichevoli poichè i club se n'erano infischiati delle esigenze della Nazionale, mentre la Federcalcio non picchiava i pugni sul tavolo?

Potremmo andare avanti per ore. Questo è lo stato del Sistema Calcio Italia alla vigilia dell'Anno Domini 2013. Il 14 gennaio vedremo chi avrà davvero la volontà di cambiare, a cominciare da Agnelli e dagli altri che reclamano il rinnovamento. Se rivotano per i Dinosauri, che se li tengano.

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IL CASO - GIL E MENDES CONTRO PLATINI: «GLI INVESTITORI ESTERNI AIUTANO IL CALCIO»

«I fondi extra-società sono necessari per lottare alla pari»

CARLO LAUDISA - Gasport - 30-12-2012

DUBAI Dopo l'anatema di Michel Platini contro i fondi d'investimento nel calcio, sul palco di Globe Soccer si levano due voci forti a contraddirlo: quelle di Miguel Angel Gil e Jorge Mendes, rispettivamente premiati come miglior dirigente e miglior agente dell'anno nella kermesse di Dubai. Due giorni fa il presidente dell'Uefa aveva elogiato l'Inghilterra per aver bandito dalla Premier le multiproprietà dei calciatori e aveva preannunciato una dura lotta al fenomeno. E il sasso lanciato nello stagno è stato subito raccolto dal presidente dell'Atletico Madrid e dal procuratore di Radamel Falcao, guarda caso acquistato dall'Atletico con un finanziamento extra-societario. «Il mio club fattura 120 milioni all'anno. Non può permettersi di competere con Real e Barcellona che sfiorano il mezzo miliardo a testa. Io per poter stare al passo con loro devo contare su dei finanziatori e per far questo devo rivolgermi alle banche o ai fondi di investimento». E fa pure una precisazione: «Se chiedo un prestito mi si chiedono interessi elevati. Invece i fondi condividono il rischio con me, chiedendomi una percentuale sugli eventuali guadagni. Ma l'ultima parola tocca sempre a me. In assoluta libertà». Lo sfogo Mendes, super agente di Mourinho, CR7 e Falcao, va giù duro: «Qui nessuno mette in discussione la libertà dei calciatori. Nessuno decide per loro, ma la presenza di investitori con i loro fondi è un aiuto importante per quei club che vogliono competere con le grandi. Così possono davvero essere tutelate tutte le competizioni. Parlo per esperienza personale: se Benfica, Porto e Atletico Madrid non trovassero aiuti fuori dal club non potrebbero ottenere i risultati conseguiti negli ultimi anni». Poi lancia un appello: «Qui c'è un grande equivoco. I fondi d'investimento aiutano il calcio a crescere e a evitare la bancarotta. Bisogna fare chiarezza, precisando che le società agiscono in autonomia, non sono condizionate da chi le aiuta finanziariamente. L'Inghilterra dice no ai fondi? Certo, lì sono tutti ricchi. Sono inutili»

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IL PROGETTO MA UEFA E AGENTI SONO CONTRARI

Database Fifa per collegare i club che comprano e vendono giocatori

c.lau. - Gasport - 30-12-2012

Da due anni la Fifa ha cambiato il calcio-mercato, imponendo un sistema informatizzato (tms) per autorizzare i trasferimenti a livello internazionale. Ora prova un salto di qualità: mettere in contatto venditori e acquirenti grazie a un enorme database. E l'ambizioso progetto prevede anche la nascita di una cassa di compensazione delle transazioni (con una banca in partnership) e una sorta di certificazione di solidità finanziaria dei club attraverso il sistema dei rating. Il progetto è stato illustrato ieri a Globe Soccer da Mark Goddard, il direttore del Tms, che ha così presentato il GPX, sistema studiato dalla Fifa per offrire una moderna banca dati costruita sulle informazioni tecniche di 5 mila società e di circa 400 mila giocatori. La Fifa vorrebbe andare incontro ai club che non hanno risorse per finanziare questi servizi di scouting, ormai veri prodotti commerciali. L'obiettivo è di abbassare i costi, garantendo la privacy. Ma non mancano le obiezioni. Rob Jansen ha rivendicato il ruolo degli agenti e i rischi per i calciatori, ma anche l'Uefa di Platini digerisce malvolentieri tutta questa attenzione per i temi finanziari. C'è poi il dubbio concreto che il nuovo sistema di intermediazione porti davvero a una contrazione dei costi. La quarta edizione di Globe Soccer (organizzata da Bendoni Communication) s'è chiusa con le testimonianze di Radamel Falcao ed Eric Abidal, mentre il dg della Lega di A, Marco Brunelli, ha raccontato l'esperienza della Supercoppa italiana in Cina. Il saluto finale di Michel Platini, accompagnato dal vicepresidente Eca, Umberto Gandini (Milan), per chiudere un evento che partendo dal canovaccio dell'etica ha dato contributi sempre più importanti al mondo del pallone con Maradona e Mourinho ambasciatori di un calcio sempre più globalizzato.

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INCHIESTA LA NUOVA CROCIATA DI PLATINI

Comproprietà della discordia

FOSCHI «Vero, sono una rovina». LO MONACO «No, sempificano gli affari»

Tutti d'accordo, invece, sulle multiproprietà. I fondi di investimento lucrano soltanto soldi ai club»

FEDERICO MASINI - SALVATORE RIGGIO - Tuttosport - 30-12-2012

MILANO. Il presidente della Uefa, Michel Platini, ha lanciato il sasso: «I soldi sono il problema e lo diventano anche con le multiproprietà dei contratti dei giocatori - ha spiegato venerdì a Dubai -. In troppi Paesi la comproprietà dei contratti viene accettata, col risultato che si è di fatto creato un moderno metodo per inibire la volontà del calciatore di fronte a decisioni essenziali per il suo avvenire e la sua carriera. Inghilterra e Francia hanno interdetto questo sistema ed io sono favorevole a che tutta l'Europa faccia lo stesso». Cosi abbiamo sentito dirigenti e procuratori fra i più famosi nel nostro Paese chiedendogli un parere sulla considerazioni dell'ex fantasista bianconero. Se la multiproprietà, assai in voga in Sud America viene bocciata da tutti, diverso il parere dei nostri uomini mercati sulla comproprietà.

LO MONACO, AD PALERMO •Sulle multiproprietà, Platini ha perfettamente ragione: è una depravazione del sistema. C'è una normativa che non consente questo, ma nei paesi del Sud America i giocatori sono di proprietà di gruppi privati. Invece, i giocatori devono essere di proprietà delle società di caldo. Sulla questione delle comproprietà, però, non la penso come il presidente della Uefa perché il condividere è l'anima del commercio. Tante volte l'agganciarsi a operazioni tipo comproprietà o prestito con diritto di riscatto, consente di arrivare a effettuare delle operazioni che forse non potremmo fare.

FOSCHI, Da GENOA «Sono d'accordo con Platini perché da noi le multiproprietà non ci sono. In questo mondo, in questo sistema, non va bene che un privato possa impossessarsi di un cartellino. I giocatori non devono essere lucro per un privato, ma è una società di calcio che deve essere proprietaria del suo cartellino. Per quanto riguarda le comproprietà, anche in Italia dovrebbero finire: sono la rovina dei bilanci. Come cambierebbe il mercato internazionale? Il calciatore avrebbe comunque l'assistenza del procuratore, ma non ci sarebbero questi fondi di investimento, pronti a lucrare. Migliorerebbero, e di molto, le trattative-.

PASQUALIN, PROCURATORE .L'affermazione di Platini sulle multiproprietà non ci sorprende in Italia, considerato che per noi, dal punto di vista giuridico, non è tollerata. Anche la Corte di Cassazione a suo tempo si era pronunciata, dicendo che una persona fisica non può essere proprietaria di un altro essere umano. È chiaro che le cose si sono evolute é ora si parla di titolarità di un cartellino ed è diverso da quell'immagine schiavista che c'era all'epoca. Sono gli stessi calciatori in maniera cosciente a concedere certi diritti. Tutto sommato, le considerazioni. di Platini sono adeguate al suo ruolo istituzionale e apprezzo il suo pensiero. Il mercato, però, non cambierebbe, i trasferimenti ci sarebbero comunque, ma per i club sarebbe più semplice operare..

VIGORELLI, AGENTE FIFA «Le comproprietà sono una Nnostra caratteristica. Sicuramente sarebbe meglio non averle perché a volte paralizzano un po' il mercato. Io trovo giusti i principi espressi da Platini, ma sono davvero difficili da attuare. Non c'è una parità di trattamento economico, noi per esempio siamo svantaggiati rispetto alle società inglesi: gli stadi non sono di proprietà, ci sono meno introiti e qui si fa di necessita virtù. Per quanto riguarda le multiproprietà i giocatori devo- no appartenere alle squadre di calcio, ma se tutto viene fatto in maniera chiara e trasparente, ben vengano cose che possono aiutare i club..

A. CANOVI, AGENTE FIFA •In Europa è proibito avere le multiproprietà, però ci vorrebbe una regola simile in Sud America dove è possibile di tutto e il club, a volte, è il titolare minoritario di diritti economici. Cosa potrebbe cambiare vietandole? Che certi fondi diventeranno proprietari di club di calcio: ce ne sono di talmente potenti che studierebbero un modo per aggirare regola, ci sono troppi interessi economici. È un problema etico che Platini fa bene a sollevare, ma nei fatti non so come possa fare a impedirlo.

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LA REPLICA DI JORGE MENDES, AGENTE DI RONALDO E MOURINHO

«Il piano Platini farebbe il gioco dei grandi club»

Il procuratore spiega: «Porto, Atletico Madrid Benfica o Braga possono restare competitivi comprando giocatori di livello solo grazie a una terza parte»

MASSIMO FRANCHI - Tuttosport -30-12-2012

DUBAI. Michel Platini mette al bando i creatori di prodotti finanziari speculativi sulla proprietà dei calciatori. Per il presidente dell'Uefa il talento in affitto, finalizzato a portar fuori ricchezza dal calcio, non ha diritto di... cittadinanza nel mondo del pallone. E la Fifa coglie al volo il messaggio di Platini dichiarandosi pronta a prenotare trasparenza sulle singole operazioni di trasferimento. Mark Goddard, il direttore del T4ns (il sistema che regola ogni trasferimento), ha illustrato a Globe Soccer il Gpx, altra sigla studiata per ampliare l'area dei servizi (non una norma, ma un supporto finalizzato a offrire una moderna banca dati costruita sulle informazioni tecniche di 5 mila società).

TRASPARENZA La Fifa vorrebbe andare incontro ai club che non hanno risorse per finanziare questi servizi, ormai veri prodotti commerciali in circolazione. Il costo sarebbe basso, i contenuti -rigorosamente riservati e trasparenti», i ricavi andrebbero ad abbattere le pretese del Tins. In realtà è una finestra aperta sul mercato con possibilità di trasformare il tutto con una centralizzazione degli accordi e una camera di compensazione possibile. Si accenna perfino al "rating" futuro per le società, ma siamo troppo avanti, almeno a giudicare dalle reazioni degli agenti.

FORBICE Chi insorge contro tutto questo è nientemeno che il "re" dei procuratori mondiali, il portoghese Jorge Mendes (manager di Cristiano Ronaldo, Mourinho, Scolari, Falcao, Pepe, Di Maria, Nani, Danny e tantissimi altri campioni) il quale ha ricevuto per il 3 anno consecutivo il "Globe Soccer Award" come miglior agente del pianeta. "Se questo progetto dovesse andare in porto - si preoccupa Mendes - la forbice fra grandi e piccoli club sarebbe sempre più ampia. Faccio alcuni esempi: Porto, Atletico Madrid, Benfica o Braga possono restare competitivi comprando giocatori di livello solo grazie all'aiuto di una terza parte. Insieme assumono il rischio dell'investimento: se ci sono profitti li dividono, altrimenti pazienza. Ma club e giocatore sono gli unici a decidere l'eventuale trasferimento.

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Calcio quotato. Tre partite per risanare i conti

La Juve cerca il «pareggio» in Champions

LA SCOMMESSA

Le case d'affari stimano che i ricavi dell'eventuale semifinale sarebbero pari ai 13 milioni di perdite attese: il bilancio andrebbe in attivo

Cheo Condina - Il Sole 24 ore - 30-12-2012

Il conto alla rovescia è già iniziato. Il 12 febbraio la Juventus scenderà in campo a Glasgow per sfidare gli scozzesi del Celtic negli ottavi di finale di Champions League. Un nuovo inizio per un'avventura che, grazie al primo posto nel girone eliminatorio, ha garantito al club bianconero introiti superiori a 20 milioni di euro. Ora l'obiettivo è arrivare il più lontano possibile ma, stando ai calcoli degli esperti del settore, potrebbe bastare la semifinale per avvicinare il traguardo del pareggio di bilancio. Un segnale di buon auspicio nell'ottica del fair play finanziario voluto dal numero uno dell'Uefa, Michel Platini.

I primi progressi nel bilancio bianconero si sono visti non solo nell'ultimo esercizio (aumento dei ricavi del 24% a 214 milioni e perdita dimezzata a 48,6 milioni), ma anche e soprattutto nel primo trimestre fiscale, chiuso lo scorso 3o settembre, che ha visto un ancor più netto calo del passivo (da 26,1 a 11,6 milioni) e un balzo dei ricavi a 54,6 milioni ( 62%). Certo, anche i costi sono lievitati del 9% a 49 milioni, ma l'inversione di rotta, favorita anche dall'effetto stadio di proprietà, è evidente. Non è un caso che Banca Imi, l'investment banking del gruppo Intesa Sanpaolo, nell'ultimo report sul club, abbia nettamente migliorato le stime sul prossimo esercizio, portando le previsioni sui ricavi da 229 a 249 milioni e sulla perdita netta da 19,4 a 13,3 milioni. I motivi? Principalmente due: l'aumento delle entrate da Champions Lea-gue (derivante principalmente dalla rinegoziazione dei diritti tv) e il balzo delle vendite di abbonamenti ( 50% per 22,8 milioni). In più c'è un altro fattore positivo: l'aumento della voce "altri ricavi", legati al merchandising e a tutte le attività accessorie dello Juventus Stadium. «Una posta di bilancio poco sviluppata dalle società italiane, troppo dipendenti dai ricavi da diritti tv», sottolinea Dario Righetti, partner Deloitte.

Ma veniamo al punto forte: le stime riviste da Banca Imi sul bilancio 2012/2013 della Juventus ipotizzano soltanto il passaggio della fase a gironi della Champions League. La strada verso l'eventuale finale, grazie ai premi garantiti dall'Uefa, garantirebbe dunque ricavi non preventivati dalla banca d'affari e pari, senza contare gli incassi da botteghino, a 3,5 milioni per gli ottavi di finale, 3,9 milioni per i quarti e 4,9 per le semifinali. Così, nel giro di tre turni a eliminazione diretta - al netto dei costi e degli eventuali bonus ai giocatori - il club bianconero potrebbero annullare la perdita stimata in 13 milioni da Banca Imi. Ciò, ovviamente, ammesso e non concesso che il mercato di gennaio non comporti esborsi legati alla campagna acquisti o che l'eventuale spesa per il "top player" venga compensata da alcune cessioni. Da non sottovalutare, infine, il tema degli stipendi dei calciatori, che secondo la banca d'affari cresceranno di 8 milioni quest'anno e di 13 nel prossimo esercizio. Anche qui il confronto con il calcio europeo, per l'Italia, è stato fino ad oggi impietoso con un rapporto tra costo del personale e ricavi, dicono le analisi di Deloitte, del 75% a fronte del 70% della Premier League inglese, del 59% della Liga spagnola e del 52% della Bundesliga. «Per sperare in un pareggio di bilancio, bisogna scendere al 6o%», spiega Righetti. La Juventus nell'esercizio 2010-2011 era all'81%, allo scorso 3o giugno era scesa al7o%e, rifacendosi alle stime di Banca Imi, nell'attuale stagione sportiva potrebbe arretrare ulteriormente sotto il 65%.

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Il pallone di Luciano

E' ora di cambiare i capi del calcio

Luciano Moggi - Libero Quotidiano -30-12-2012

La grancassa suona sempre all’unisono per Petrucci e Abete. Il presidente del Coni pronto sempre a puntellare l’altro, l’altro che ricambia, facendogli l’eco. Un sostegno e un’alleanza, andati molto oltre la convenienza dei rapporti istituzionali. Ne sono derivate situazioni gravi, la copertura acritica di posizioni di comodo, o di parte, o avvitate su se stesse da proposizioni di principio, prima conclamate, poi in fretta abbandonate, come l’ etica che non doveva andare in prescrizione, finita alle ortiche, principi di correttezza violati con indifferenza, il contrario esatto di chi avrebbe dovuto improntare lo svolgimento del suo mandato e il suo spirito di servizio a regole di rigore e trasparenza , non mutabili a seconda del destinatario di riferimento, come puntualmente è avvenuto.

Non vogliamo chiederci se Petrucci abbia fatto bene per lo sport italiano, sicuramente ha fatto male al calcio, limitandosi a far da puntello ad Abete. Avrebbe dovuto avere occhio più attento e distaccato, il presidente del Coni, accorgersi che la gestione di Calciopoli (così come quella recente del Calcioscommesse) era stata condotta malamente dalla giustizia sportiva, e per essa da Abete che di quell’ ingranaggio è il principale punto di riferimento oltre che il suo elettore e datore di lavoro.Di fronte a prove inconfutabili che hanno smantellato i capi d’accusa ,di fronte alla relazione conclusiva di Palazzi sul ruolo avuto dall’ Inter in Calciopoli con la configurazione di illecito sportivo, il presidente del Coni, così come Abete, hanno messo la testa sotto il terreno come gli struzzi. E non è storia superata, ma storia sempre viva, l’ Inter fatta salvare dalla prescrizione, dopo che Palazzi ci aveva messo un tempo infinito per terminare le indagini, per la Juve inventata invece “l’ incompetenza a decidere” per non decidere sullo scudetto da revocare ai nerazzurri e restituire al club bianconero.

Eppure prima Sandulli (giustizia sportiva), successivamente il processo ordinario di primo grado, sentenziarono che nessun campionato era risultato alterato. Sono passati più di sei anni, la sintesi di questo obbrobrio può essere persino semplice:e(o)rrori marchiani nei processi sportivi con deturpazione dei diritti delle difese e nelle conseguenti condanne. Man mano che le tesi d’accusa sono state sconfessate, qualcuno avrebbe dovuto ammettere l’errore e rimediare. Niente di tutto questo, nessuno che si sia accorto che i mostri posti in prima pagina non lo meritavano e non lo erano affatto. Ed è qui che stanno le colpe di Petrucci: se persino davanti alla sentenza del processo di secondo grado del rito abbreviato, che ha mandato assolti tutti gli arbitri ivi coinvolti, il presidente del Coni, anziché fare ammenda, ha partorito l’ orrida considerazione che la giustizia sportiva è migliore di quella ordinaria perché ha condannato tutti mentre i giudici ordinari hanno assolto.

Non può neppure sorprendere che per puntellare ancora Abete (cui prodest?) il presidente del Coni provi a fare una reprimenda ad Agnelli, fingendo di destinarla a tutti i presidenti, etichettandoli come “arroganti”. Petrucci è fatto in una certa maniera, spesso procede con i paraocchi e gli piace. Per esempio la sua idea del “tavolo della pace” tra Agnelli e Moratti è stata un fallimento, se ne sono accorti tutti, salvo l’interessato, che continua a propagandarla come un grande successo. Gliela abbiamo scritto noi, gliel’ ha ridetto poi a muso duro proprio Agnelli, e Petrucci, com’è chiaro, non ha gradito. Cosa pretendeva il presidente del Coni, che Agnelli si accontentasse di parole vuote acconsentendo a strette di mano auto preclusive dei diritti vantati? La Juve non rinuncia a volere restituiti i due scudetti e nemmeno alla richiesta di risarcimento che sta seguendo il suo iter.

Petrucci è intervenuto a difesa di Abete, dopo che quest’ultimo è stato bocciato da Agnelli per tutte le cose non fatte nel corso del suo mandato. Fiacca e scarsa di contenuto la replica a Sky del presidente della Figc ”accetto le critiche, ma che siano costruttive, serve saper cambiare (appunto! lui infatti non sa cambiare, almeno in bene... parla, parla ma non dice mai niente)”, e continua “ ma neanche Agnelli ha mantenuto le promesse, sulle nuove regole che si sarebbe dovuta dare la Lega”. Piccola differenza, Agnelli è solo uno dei consiglieri della Lega, non il presidente, e meno che mai un presidente che ha avuto ed ha i poteri del presidente della Federcalcio. Ed è strano, un presidente della Figc due volte sconfitto per l’ organizzazione di campionati europei dovrebbe, questo sì, mettere la testa nella sabbia. Provi, d’ora in poi , ad essere più attivo nei propositi, ad ammettere gli errori fatti, e ad assicurare terzietà alla giustizia sportiva. Così com’è dipende tutta e interamente da lui, sceglie, nomina e all’ occorrenza cassa i giudici. Dov’è l’ autonomia, dove l’indipendenza? Su questo punto, guarda caso, Petrucci non si è pronunciato.

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L’INCHIESTA

Mendes, il superagente

padrone di tutti i big

Da Cristiano Ronaldo a Mourinho una lista di campioni

Storia del rampante che sapeva giocare solo con gli affari

Josè Veiga, il procuratore rivale, arrivò allo scontro con lui quando perse Figo

Quando l’Inter acquistò Quaresma, cacciato anche dal Besiktas, per 25 milioni

di PIPPO RUSSO (Pubblico 30-12-2012)

Tracciare dei confini all’impero calcistico di Jorge Mendes? Impossibile. Si potrebbe soltanto fissarne un punto di partenza: la Gestifute, agenzia fondata nel 1996 e diventata la più ricca al mondo in poco più di 15 anni. Una stima sul suo fatturato annuo parla di 400 milioni, ma si va per difetto perché la rete d’attività che da quel centro si diparte è fitta e ramificata da smarrirsi. E probabilmente lo stesso Jorge Paulo Agostinho Mendes, 47 anni il prossimo 7 gennaio, non immagina di poter arrivare così in alto quando l’avventura parte. Ha trent’anni, e fino a quel momento per lui il mondo del calcio è stato avaro di soddisfazioni. Col pallone ci sa fare poco e ne è consapevole. La leggenda narra che da ragazzino lo facessero giocare perché lui portava non già il pallone, ma addirittura il campo. Quello della Petrogal, l’azienda che produce combustibili fossili controllata dal colosso ex statale Galp Energia (di cui l’Eni possiede una rilevante quota) e che dà il nome al quartiere di Lisbona in cui Mendes cresce. Nello stabilimento lisboeta lavorava il padre con le mansioni di portiere; nel senso di addetto alla portineria, non di guardapali. Avendo l’accesso libero al campo aziendale, il piccolo Jorge giocava quando e con chi gli pareva, e questo lo portava a privilegiare il calcio agli altri sport praticati in gioventù: karate, atletica leggera. Crescendo fa una modesta carriera da calciatore, comprendendo presto che rimarrà nel mondo del calcio soltanto dedicandosi a altro. Facendo fruttare il fiuto per gli affari. Come fa quando rinnova il contratto da calciatore con la Lenhense, club della terza divisione portoghese. In quell’occasione Mendes negozia una decurtazione dell’ingaggio ottenendo in cambio dal presidente del club la gestione della cartellonistica pubblicitaria. Quando a trent’anni smette col calcio giocato apre una discoteca, dopo che negli anni precedenti aveva gestito un videonoleggio e aiutato il fratello a mandare avanti un’azienda specializzata nel commercio di resine. La discoteca di Mendes prende da subito a essere frequentata da calciatori; e questo connubio tra sport, tempo libero e vita mondana si rivelerà per Jorge un’intuizione vincente.

Ma quando Mendes inizia il cammino postagonistico nel mondo del calcio il mercato portoghese è dominato da altre figure. Quella di Manuel Barbosa, primo agente Fifa nella storia lusitana, ma soprattutto quella di José Veiga, fondatore dell’agenzia Superfute e dominus assoluto del calcio portoghese fino all’inizio degli anni Duemila. Quando Mendes prende la procura del primo calciatore, il portiere Nuno Espirito Santo del Vitoria Guimaraes del quale negozia il passaggio al Real Saragozza in Spagna, Veiga entra in fibrillazione. Il vecchio agente subodora la scalata del rampante. I due arrivano quasi allo scontro fisico nell’estate del 2000 all’aeroporto lisboeta di Portela. Motivo: la procura di Luis Figo. Che molla Veiga dopo essere stato portato da quest’ultimo al Barcellona e al Real Madrid (e avere in precedenza firmato due contratti in contemporanea con Juventus e Parma rischiando la squalifica). Nel giro di pochi anni Veiga cade in disgrazia. Il lancio della sua Superfute alla Borsa di Parigi è l’ultimo atto di hybris, unitamente all’ingresso nei quadri dirigenziali del Benfica che lo costringe a rimettere la licenza di agente. Poi arriva per lui il crack finanziario intanto che Mendes gli fa terra bruciata intorno portandogli via tutti i calciatori di maggior valore.

Ovvio che Mendes ci sappia fare. Poco a poco diventa l’agente più ricco e potente d’Europa. Lo fa aggiudicandosi le procure non soltanto di calciatori, ma anche di allenatori. Su tutti, José Mourinho. Nel 2004 lo Special One rompe col suo agente, il brasiliano Jorge Baidek, per affidarsi a Mendes. Da lì nasce un sodalizio a prova di bomba. Ovunque vada, il tecnico portoghese pretende l’ingaggio di calciatori rappresentati dalla Gestifute. Ne sa qualcosa Massimo Moratti, indotto a acquistare per 25 milioni Ricardo “Trivela” Quaresma: ovvero, il più grande bidone della storia interista recente, ultimamente cacciato via persino dai turchi del Besiktas. Superfluo dire che anche Cristiano Ronaldo sia un uomo di Mendes. E chissà come mai, in questi giorni che vedono Mourinho in gravi difficoltà a Madrid, CR 7 minaccia di non rinnovare con le merengues. Un gioco di squadra fatto con altri mezzi. Nei mesi scorsi s’era parlato di un ingaggio come dirigente presso la Real Casa anche per Luis Figo. In sostituzione di Zinedine Zidane, la cui testa è stata pretesa proprio da Mourinho come nei mesi precedenti era successo a Jorge Valdano.

Mendes non si ferma mai, e le sue mani si allungano ovunque. Si parla di lui come di un vero animatore di Quality Football Ireland, un fondo d’investimento finito nel mirino della Fifa e diretto dall’ex CEO del Chelsea, Peter Kenyon. Mendes nega coinvolgimenti ma non convince nessuno. Per di più, la ditta Mendes&Kenyon fa capolino anche in seno alla Creative Artists Agency, un’agenzia che cura gli interessi di personaggi dello sport e dello spettacolo. David Beckham e Cristiano Ronaldo figurano in una lista di oltre 700 star della quale fanno parte anche Alanis Morissette, Eric Clapton, Annie Lennox. Tutto quanto fa entertainment.

Un potere troppo diffuso e un raggio d’azione troppo ampio, quello di Mendes, per non destare sospetti. La stampa inglese gli sta addosso da tempo e accelera con le inchieste dopo il misterioso passaggio del ventenne attaccante Bebé dal Vitoria Guimaraes al Manchester United nell’estate del 2010. Sir Alex Ferguson ammette di non averlo mai visto giocare, e tuttavia è lui a avallare un acquisto da 9 milioni di euro. Tre dei quali finiscono a Mendes per il disturbo. Bebé gioca soltanto due partite di campionato coi Red Devils e nel 2011 viene spedito in prestito al Besiktas (un’altra volta…). Nei mesi scorsi la polizia portoghese ha aperto un’inchiesta sull’affare. Le indagini sono in corso. Che la parabola di Mendes stia calando? Sì, secondo l’agenzia brasiliana specializzata in analisi finanziaria dello sport Pluri Consultoria. Che ai primi di questo mese annuncia la perdita della leadership mondiale da parte di Gestifute. Il sorpasso è avvenuto a opera della Mondial Sport, un’agenzia francese gestita da Costantin Dumitrascu. Nulla dura per sempre, e alla fine, si trova sempre qualcuno più rampante di noi.

(8/fine)

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La storia Girano per i campi di periferia alla ricerca dei campioni del domani. Dote principale: il fiuto

Calcio e crisi, spazio

ai cercatori di talenti

Fisico ed eleganza Aldo Iacopetti, talent scout della Juve, osserva per prima cosa in un

giovane il fisico e l’eleganza. «Certo —dice— poi ci devono essere anche la tecnica e l’intelligenza»

Tecnica e personalità Per Musicco, braccio destro di Sacchi nelle nazionali giovanili,

essenziali sono tecnica, personalità, intelligenza, lettura tattica nelle due fasi di gioco e velocità

di ALBERTO COSTA (CorSera 30-12-2012)

MILANO — L’istinto di sopravvivenza del nostro calcio, colpito e affondato dalla tecnologia, dalle idee e dai soldi dei campionati più ricchi, sta scatenando una sorta di nuova corsa all’oro. In pratica stiamo assistendo a un’inversione di rotta nelle strategie dei grandi club che, dopo le stagioni dell’opulenza, ora si trovano a fare i conti con una recessione di cui non si scorge la fine e il cui risultato pratico è il sostanziale impoverimento tecnico della serie A. Prendiamo il Milan, che negli anni del suo massimo splendore non si faceva scrupolo di utilizzare giocatori usa e getta (vale a dire pronti per vincere e dunque privi di qualsiasi tipo di prospettiva) a scapito degli investimenti a lungo termine sui giovani: ora l’input berlusconiano si riferisce alla costruzione di una squadra under 22, fresca nelle idee e nel talento.

L’esperienza rossonera è la punta di un iceberg. Scarseggiando i soldi, costretti a dipendere in maniera perfino fantozziana dalla Tv che tra un po’, continuando di questo passo, pretenderà di far giocare qualche partita alle 3 di notte se soltanto si dovesse scoprire che il numero dei sonnambuli è di un certo interesse, i nostri club, inclusi quelli di prima fascia, sono per forza di cose obbligati a puntare sui vivai. Diventa così fondamentale la figura del cercatore d’oro sui campi di periferia, del cacciatore di talenti, del cane da tartufo la cui dote principale, lo dice la parola stessa, non può non essere un fiuto sviluppato.

«La prima cosa che osservo in un giovane è il fisico, l’eleganza. Certo, poi ci devono essere la tecnica e l’intelligenza». Da due anni Aldo Iacopetti cerca pepite d’oro per conto della Juve. In precedenza era stato responsabile degli osservatori al settore giovanile del Milan e responsabile del settore giovanile della Samp. Lui, probabilmente, Maradona lo avrebbe scartato. «Per me uno brutto dev’essere un fenomeno». «Il calcio è ancora pieno di gente che si arrangia — racconta Fulvio Fiorin, colonna portante del settore giovanile milanista e braccio destro in panchina di Pippo Inzaghi —. L’esperienza conta ma non è tutto. Ad esempio nel caso di un centrocampista, un osservatore normale guarda come un ragazzo riceve la palla e come la gioca, io invece mi focalizzo su quello che fa prima di ricevere la palla». Alessandro Musicco lavora per la struttura delle nazionali giovanili che fa capo ad Arrigo Sacchi: «In un giocatore noi ricerchiamo alcune caratteristiche: tecnica, personalità, intelligenza (lettura tattica nelle due fasi di gioco), velocità. Si tratta di criteri abbastanza scientifici, il resto dipende dall’intuito».

Buon naso, esperienza e un pizzico di rigore scientifico. Anche se poi, a ben vedere, certe intuizioni sono frutto del caso. Racconta Musicco: «La mia ex moglie, insegnante, aveva un collega che allenava in terza categoria. A furia di insistere mi convinse a visionare un giocatore nonostante avesse già 17 anni e giocasse in terza categoria. Quel ragazzo era Fabian Valtolina. Ha giocato in A: Piacenza, Venezia e Samp». Alla fine però la differenza la fanno le conoscenze, le amicizie («Se hai una buona rete di contatti puoi arrivare prima degli altri»). Nonostante l’abbaglio da parte di chi deve sganciare i soldi sia sempre dietro l’angolo. «Miccoli era al Milan, giocava con me nei giovanissimi nazionali e in un anno segnò una sessantina di gol — ricorda Fiorin —. Ad un certo punto la società cambiò strategia e decise di mollare i ragazzi che a suo dire non avevano futuro, lui incluso. Provai ad oppormi e mi fu risposto: ma lo vedi come è piccolo questo qui? In A non ci giocherà mai». Come volevasi dimostrare.

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COLPO DI TACCO

Lucciole per lanterne, e cala il buio

di MARIO BIANCHINI (IL ROMANISTA 30-12-2012)

"La Roma da fastidio" titolava qualche giorno fa il Romanista, custode inflessibile dei nostri diritti calpestati dalla "suburra" del calcio invidioso. L’assurda congiura continua a manifestarsi cogliendo al volo qualsiasi pretesto, anche ricorrendo all’inganno manipolato ad uso e consumo della faziosità. Per colpire la Roma in qualche modo, si offendono i tifosi romanisti accusati dall’edizione on line di un noto quotidiano politico, La Repubblica. Con tanto di fotografia raffigurante gli spalti festanti del’Olimpico coperto di bandiere, le sentinelle del "candore"ci fanno sapere che gli appassionati giallorossi occupano il primo posto nella disinvolta classifica in tema di violenza. L’osservatore è giunto a questa conclusione sommando con scrupolo certosino multe e ammende propinate dalla giustizia sportiva al club romanista per il comportamento dei propri tifosi. Sulla sponda giallorossa abitano onestà e serenità di giudizi che non si sognererebbero mai di ignorare un problema tristemente noto su molteplici latitudini. Non cerchiamo alibi ma soltanto un disegno più esatto della verità distorta, affidata sconsideratamente alle "onde" di internet. L’Olimpico viene descritto come la fossa dell’inferno dove la partita viene vissuta nel terrore di essere colpiti dai proiettili più svariati. A questo punto però, l’incauto "ragioniere" incappa in una clamorosa distrazione che lo lascia miseramente nudo davanti alle proprie responsabilità. Un fugace inciso messo lì, forse immaginando che nessuno ci avrebbe fatto caso, rivela che il primo posto delle vigliaccate da stadio, appartiene alla Juventus. Ma lo zelante "guardiano" dell’ordinamento civile giustifica la "poverina" con la coraggiosa decisione di aver azzerato le barriere. Non possiamo prendere schiaffi senza reagire. Non è mai elegante fare raffronti quando di tratta di stilare la classifica delle "coraggiose" imprese di pochi imbecilli. E allora perché sbandierare con tanta zelanteria un primato che non esiste? Desideriamo sottolineare all’amante dei numeri, che forse l’abolizione degli argini non ha trovato adeguata risposta nella "civiltà" del pubblico bianconero. Altrimenti non si spiegherebbe perché l’ammontare maggiore di ammende, come lui stesso ci informa, siano finite allo sportello del cassiere juventino. Due più due non fa quattro? E, visto che siamo in tema di record. Non si batte di certo quello dello striscione bianconero nel derby torninese "Noi di Torino orgoglio e vanto , voi solo uno schianto" un insulto ai poveri caduti di Superga del Grande Torino. I "brutti e cattivi" tifosi romanisti , invidiati perché innamorati della squadra più affascinante d’Italia, invitano la gente civile a riflettere sul paragone principe, ben più importante nella classifica delle ammende!

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El portero que temía a la vida

Una biografía de Enke revela que su calvario,

que acabó en suicidio, empezó en el Barcelona

"Ni tenía ni un solo amigo, se aferró a la idea de que todo iba en su contra"

por JOSÉ MANUEL COMAS (EL PAÍS 30-12-2012)

El suicido del portero Robert Enke protagonizó uno de los episodios más tristes de la historia del fútbol alemán. Hace tres años, el 10 de noviembre de 2009, el entonces guardameta del Hannover se arrojó a las vías del tren en la capital de Baja Sajonia. Murió tras ser arrollado por un ferrocarril. Tenía 32 años. El libro Una vida demasiado corta, del periodista y escritor alemán, Ronald Reng y presentado hace un mes en España esclarece los motivos que llevaron al deportista de élite a tomar esa decisión.

La obra narra cómo el cancerbero acumulaba un dolor psicológico insoportable. Se apuntó a que su muerte había obedecido estrictamente a motivos personales: “No tiene nada que ver con el fútbol”, declaró entonces el presidente del Hannover, Martin Kind. El futbolista atravesaba un momento dulce en su carrera, con muchas posibilidades de ocupar la portería de la selección en el Mundial de Sudáfrica. El suicido se relacionó con la muerte de su hija Lara de dos años en 2006. Enke se encontraba tumbado a su lado cuando el corazón de la pequeña falló. Se especuló con que el jugador nunca superó la pérdida a pesar de que seis meses antes de poner fin a su vida, su mujer, Teresa, y él habían adoptado una niña llamada Leila.

Sin embargo, Reng señala en su libro que las depresiones del jugador tenían también que ver con el calvario profesional que vivió. Empezó en el FC Carl Zeiss y pasó por el Monchengladbach, Benfica, Barcelona, Fenerbahçe, Tenerife y Hannover. El escritor afirma que en el conjunto catalán, entonces entrenado por Van Gaal, empezó su particular infierno tras verse relegado al banquillo: “¿Por qué el público aplaudía como loco cuando Valdés detenía un balón sencillo y él no dejaba de recibir los reproches de los técnicos?”, se pregunta el periodista.

Reng revela que el alemán fichó por el Barça por recomendación de Mourinho y que ese periodo supuso el comienzo de su hundimiento personal: “No tenía ni un solo amigo, se aferró a la idea de que todo iba en su contra y le llegaban rumores de que Valdés era titular por ser catalán”. Se obsesionó con el portero de la cantera. Muchos años después cuando Enke triunfaba en el Hannover y el Barcelona, con Rijkaard, el teutón declaró sentirse superior a su excompañero. En su etapa como culé el guardameta, además, no soportaba la presión del entrenador de porteros, Frans Hoek, empeñado en moldearle a imagen y semejanza del entonces titular de la Orange: “Ese balón lo habría sacado Van der Sar”, o “tienes que jugar la pelota con el interior como Edwin”, le gritaba. La gota que colmó el vaso fue el partido de Copa contra el Novelda, de Segunda B, que supuso la eliminación del Barcelona. Aquel día Enke fue titular y encajó tres goles: “Se autoinculpó de forma exagerada y se sintió muy solo cuando Frank de Boer le criticó por su actuación durante una rueda de prensa. Se hizo una idea equivocada de lo que pensaban de él en el vestuario”, opina el escritor. Le describe como una persona muy vulnerable y angustiada a pesar de la imagen de fortaleza que proyectaba. Dice que vivía sumido en el miedo, tomaba antidepresivos y su mujer luchaba para sacarle de la cama. Al portero “le asustaban los partidos”, pero no quería que nadie descubriera su temor. Unos meses antes de su suicidio no acudió a una convocatoria de la selección por un supuesto virus que escondía un trastorno depresivo.

La mayoría de sus pensamientos solo los compartía con su diario, que el mismo calificaba de depre-agenda, a la que el autor del libro ha tenido acceso. En una de sus páginas se mencionaba a sí mismo como “Robbi con su cabeza rota”. Una vida demasiado corta recoge testimonios de muchos excompañeros del guardameta, entre los que se encuentra Valdés. El blaugrana asegura que “Robert era frío, pero tenía el aura de las buenas personas”. El periodista, amigo íntimo de Enke desde su etapa en el Benfica, asegura que nadie se imaginaba lo que planeaba. Recuerda que en la última foto que se hizo con su mujer e hija adoptada, el jugador lucía “la sonrisa más bonita del mundo”. El día del suicidio le dijo a su esposa que volvería tarde a casa porque tenía entrenamiento. Conocía al dedillo los horarios del ferrocarril y cuando el expreso pasó a toda velocidad a las 18.15 puso fin a su pesadilla.

___

FourFourTwo | February 2013

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France’s taxing issue goes to the heart

of how Uefa define ‘fair play’ in FFP

by GABRIELE MARCOTTI (THE TIMES 31-12-2012)

Odds are, on Saturday, somewhere in Qatar, someone was celebrating and uncorking (likely non-alcoholic) champagne. That’s because, on Friday, France’s Constitutional Council struck down President François Hollande’s proposed 75 per cent marginal tax rate on those making more than €1 million (about £818,000) a year.

As you may imagine, not many in France (or elsewhere, for that matter) actually earn more than £818,000 a year in wages. But a sizeable chunk of those who do happen to be footballers. And very many of those happen to play for Paris Saint-Germain, who are, of course, Qatari-owned.

The top tax rate in France is 45 per cent. Some simple mathematics show just how much havoc a jump to 75 per cent would wreak on PSG.

Take Zlatan Ibrahimovic, the Sweden forward, who earns €14 million (about £11.45 million) a year after tax. Right now, this means he makes €25.5 million (£20.86 million) before taxes, or, just over £400,000 a week. With the 75 per cent tax rate in effect, PSG would need to pay him somewhere around €52.5 million (£42.95 million) a season for his take-home pay to be unaffected. No, that’s not a typo . . . that’s around £825,000 a week.

Put another way, PSG would need to increase their wage bill by close to 50 per cent. Obviously they would be far and away the most affected club because they pay the most in Ligue 1, but they would be by no means the only ones affected. A million euros a year works out to around £16,000 a week, decidedly run of the mill not just in the Barclays Premier League, but in at least half a dozen French clubs.

In an age of Financial Fair Play, that would have simply been untenable. Even without FFP, France’s strict internal licensing requirements would have made it a massive headache for clubs. And note that while some high earners — actors, musicians, corporate executives, bankers — can simply take residence elsewhere (indeed Gérard Depardieu, the actor, is famously moving to a Belgian town a few miles from the border), a football club cannot really do that. Footballers are sitting ducks when it comes to taxes . . . unless, of course, they move to another club in another country altogether.

The thing is, the 75 per cent tax rate — which Hollande himself admitted was largely a symbolic gesture, if only because there are only a few thousand salaried employees who make a million Euros a year — has been struck down only on a technicality of the kind that is easy to fix. The court said it was unfair because it applied to individual — rather than household — income. So a couple where both partners earned €800,000 a year for a combined €1.6 million would not be affected, while a household where one earned €1.5 million and the other didn’t work would get whacked at the 75 per cent rate.

The French government has pledged to rewrite the legislation and reintroduce it next year, so the issue hasn’t fully gone away, but 12 months is a long time in politics and football, which means that, for now, PSG and their backers can breathe a sigh of relief.

You don’t need to be a supply-sider to understand that a 75 per cent tax rate would have put the French game at a huge competitive disadvantage. It would make it extremely difficult for French clubs to comply with FFP, meaning no Champions League or Europa League revenue trickling down the French football food chain. Or, if they tried to lower their wage bills, it would mean an exodus of talent away from Le Championnat to other parts in Europe.

Still, while the 75 per cent rate received a stay of execution this past weekend, it does not mean that Uefa in particular should ignore the differences in taxation across Europe, especially now that, via FFP, they are taking an increased interest in club finances.

Imagine that the 75 per cent French tax rate passes next year. Now imagine Cristiano Ronaldo deciding that he wants £15 million a season after tax. If he signs for Monaco, where foreigners pay no income tax, it will cost his club £15 million. Anzhi Makhachkala, where foreigners pay a flat 13 per cent tax rate? £17.25 million. Manchester United, where there is a 50 per cent top rate? £30 million. And PSG? A whopping £60 million.

Before FFP, it would not have mattered so much. You’re in a country with high taxes? Tough, enjoy the great government services you get.

But now teams will be fined or excluded from European competition if they fail to meet the parameters. This is not an even playing field, this is a race where some are driving Lamborghinis and others milk floats.

One solution would be to calculate FFP parameters based on after-tax wages in different countries. When I raised this with Uefa, officials sort of threw their hands in the air and said it was tough enough to enforce FFP without getting into the nitty gritty of how contracts are structured across all their member nations. Which is a fair point, but you feel that at some point soon they will need to address this.

Otherwise the “fair play” part of “Financial Fair Play” will be just empty words and nothing more.

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Vita con la bandierina

Fuorigioco, trucchi

Scopriamo il duro ruolo di assistenti

Bastano pochi errori e finiscono sotto accusa

L'allenatore Stagnoli: «La "priorità" è decisiva»

41 gli assistenti che Braschi ha a disposizione per la A. Tra loro operai, impiegati,

e anche un capitano dei carabinieri (Musolino) e un autista di scuolabus (Bianchi)

40 mila lo stipendio lordo in euro che mediamente porta a casa un assistente di A. Il

contratto è annuale e bastano due/tre sviste gravi per perdere il posto a fine stagione

di FRANCESCO CENITI (GaSport 31-12-2012)

Questione di priorità. È la bussola che governa la «vita» dei 41 assistenti a disposizione di Stefano Braschi per le partite di Serie A. Al momento delle designazioni si cerca il nome dell'arbitro, ma sempre più spesso sono gli ex guardalinee a essere decisivi. Nel bene e nel male. Quasi sempre nel bene. Perché sul fuorigioco «viaggiano» su percentuali impressionanti: circa il 97% delle decisioni sono corrette. Ma bastano due o tre errori pesanti (e in questa stagione ci sono stati) per mandare sotto processo l'intera categoria. Ma chi sono, come si allenano, quanto guadagnano, che cosa fanno nella vita e soprattutto qual è il significato di priorità? Lo scopriremo insieme. Grazie ad Alessandro Stagnoli (grande ex assistente e ora «allenatore») e al designatore Braschi. Un viaggio per spiegare tecnicamente le chiamate da occhio di falco, le sviste più clamorose (dal fuorigioco di Tevez in Argentina-Messico al gol non visto di Muntari; dal pasticcio Bergessio alla rete di El Shaarawy a Catania), per dare risposte alle domande più frequenti («perché non ha visto un fallo laterale quando i giocatori erano a 5 metri?») e avvicinare i tifosi al mondo difficile e pericoloso degli assistenti: grandi responsabilità e pochissima gloria.

Come nasce un assistente Stagnoli, dopo anni trascorsi sulla linea laterale, nella Commissione presieduta da Braschi si occupa degli ex colleghi. «Perché si sceglie di passare le domeniche con una bandierina in mano? Passione, passione e ancora passione. Quasi sempre gli assistenti nascono arbitri. Poi verso i 20/25 anni valutano le prospettive dei due ruoli. I fischietti di Lega Pro dismessi hanno la possibilità di ripartire dalla Can D come assistenti. Cosa non permessa dalla B in su. Una volta imboccata la strada iniziano gli allenamenti mirati e si comincia a convivere con un'ossessione: il fuorigioco. I migliori arrivano in A, ma quando si è al top le pressioni aumentano». Cosa fanno e quanto guadagnano? «Tutti hanno un lavoro. Perché non hai sicurezze. Un assistente di A in media porta a casa 40 mila euro annui lordi. Netti fanno meno di 2 mila al mese, qualcosa di più i 10 internazionali. Possono restare in Can A al massimo 8 stagioni (10 chi varca i confini nazionali), ma a 45 anni si smette. Il contratto dura 12 mesi: chi colleziona due o tre sviste gravi è a rischio. La concorrenza è spietata. Nessuno si può permettere di farne il proprio lavoro, nonostante l'impegno sia da professionisti: si allenano 4 volte a settimana più le partite. Una volta al mese raduno a Coverciano. Molti si bruciano le ferie per stare dietro a questa tabella». Riposta la bandierina nel cassetto si occupano d'altro: ci sono operai, impiegati, cassieri di banca, un arredatore (De Luca), un capitano dei carabinieri (Musolino) e l'autista di scuola bus (Bianchi). Li accumuna un'altra caratteristica: la preparazione fisica e mentale.

Atleti si diventa Il guardalinee cicciotto e poco mobile non esiste più. Da un decennio si fa fatica a distinguerli dai calciatori: fisici asciutti e prestazioni da atleti. Durante una partita percorrono dai 6 agli 8 chilometri. Circa il 25% con la corsa laterale (massacrante: provateci), ma quasi sempre lavorano con il cuore sotto sforzo: scatti brevi e intensi. Uno via l'altro. Poche le pause. La preparazione è curatissima: test personalizzati, controllo costante del peso, dieta e allenamenti continui sulla resistenza alla velocità. A differenza dei calciatori non possono permettersi i crampi: al minimo accenno di affaticamento si fermano. Come in Milan-Pescara con il subentro del quarto uomo. C'è poi lo stress mentale: elevato. Ecco perché a fine gara hanno bisogno di circa 30' per recuperare le energie. A questo si aggiunge una cosa che non si compra al supermercato: l'esperienza. Che fa rima con «priorità».

La bussola e gli errori «Dovete capire una cosa: un assistente non segue lo sviluppo del gioco. A ogni azione stabilisce una priorità: quasi sempre è il fuorigioco, specie da quando ci sono gli addizionali. In questo caso il loro compito è stare allineato al penultimo difensore (l'ultimo è il portiere, ndr) e focalizzare il campo visivo che sta su quella traiettoria. Così tutto quello che accade alla sua sinistra non esiste. Non lo vede. Del resto che cosa preferisce un allenatore: un errore sulla rimessa laterale oppure su un uomo lanciato a rete?». Le parole di Stagnoli spiegano molte cose. Ci sono dei «trucchi»: il primo assistente è aiutato dal quarto uomo, mentre il secondo confida nell'arbitro su angoli, rimesse e falli. Ma sul fuorigioco decide da solo. Una priorità errata può avere conseguenze nefaste. Ayroldi al Mondiale del Sudafrica (senza addizionali) dopo aver svolto alla grande il suo compito (giudicando bene la prima posizione di Tevez) sposta la priorità concentrandosi sul possibile rigore su Messi, non vedendo il successivo e clamoroso fuorigioco sul gol. E vogliamo parlare di Muntari? Ancora Stagnoli: «Fate un esperimento: mettete una matita davanti agli occhi e concentratevi su quello che c'è dopo. La matita risulterà sfocata, quasi scompare. Romagnoli in Milan-Juve battezza come priorità il fuorigioco: perciò segue Muntari e lo juventino fuori dal campo. Troppo tardi si è reso conto che la priorità era un'altra: Buffon aveva respinto il pallone. Basta un attimo...». Altro esempio di priorità errata in Catania-Milan: Rosi gira la testa per un secondo e cerca chi ha il possesso della palla (si vede dalle immagini tv) proprio mentre difensori e attaccanti si spostano all'indietro. Perso l'allineamento, tutto si complica. In Catania-Juve caso diverso: Maggiani è nella posizione giusta, ma legge male lo sviluppo dell'azione. Assalito dai dubbi dà il gol, ma fa retromarcia quando Rizzoli gli comunica (come da protocollo) che in area ci sono stati due tocchi: a quel punto non sa più come collocare Bergessio. Episodio singolare in Juve-Inter: l'assistente non ha capito chi ha passato la palla ad Asamoah. Ancora Stagnoli: «Preti è un talento vero, ma era alla sua prima grande partita. Forse l'emozione gli ha giocato un brutto scherzo. La sfida per un assistente inizia 20' prima. Quando entri nell'arena ci deve essere una specie di vuoto pneumatico: lo stadio e i suoi rumori non esistono».

Rispetto Gli sbagli restano molto pochi: circa il 3/4%. In ogni partita sono mediamente 20 le scelte degli assistenti. Duecento a giornata. Le sviste? Meno di dieci. Braschi aggiunge una cosa importante: «Parlare di errore su un fuorigioco di 10 cm è fuorviante. Fino a 30 per noi la segnalazione è buona. E stiamo strettissimi: in Uefa la tolleranza è un metro. Siamo uomini e non macchine: fare il paragone è sbagliato e poi neppure la tv dà certezze. Pensate davvero che basti tirare la linea per avere la verità assoluta? Basta spostare in avanti o indietro un mezzo fotogramma sul passaggio e le cose cambiano. Bisogna avere una cultura diversa e capire che nel dubbio teniamo giù la bandierina». Non solo, l'assistente non può guardare insieme difensore e pallone. Il passaggio lo «vede» dal rumore: questo comporta una «tara». Fino a quando percepisce il suono del pallone passa qualche decimo di secondo: vale circa un metro se l'attaccante è in velocità. Lo vedrà avanti, ma lo valuterà buono. Il meccanismo si affina con l'esperienza e permette le chiamate da occhio di falco. Braschi: «Il nostro compito è sbagliare il meno possibile. Arrivare a zero è impossibile. Mi piacerebbe ci fosse più riguardo verso arbitri e assistenti. Se un campione si mangia un gol non diventa brocco. Negli altri Paesi il rispetto per chi svolge il nostro lavoro è la prassi. Da noi la prassi sono gli insulti. Qualcosa non torna...».

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We should be protecting match officials

instead we are demonising them

by TONY EVANS (THE TIMES 31-12-2012)

Less than a month ago, Richard Nieuwenhuizen’s name was on everyone’s lips. Richard who? That’s the way with the worthless, the scapegoats. They are quickly forgotten. Nieuwenhuizen was a victim of the passions that football provokes, of the anger that this form of entertainment can generate. He was a linesman punched to death by children.

The Dutch father of three came to mind on Boxing Day while watching Sir Alex Ferguson berate Jake Collin, at Old Trafford. The assistant referee flinched as the Manchester United manager expressed his fury over Jonny Evans’s own goal being allowed. Ferguson’s blows were merely verbal, but the rage was all too visible.

The whole of football should have winced with Collin. Match officials are the least respected people on the pitch. Even at semi-professional level, they are the lowest paid. Despite this, they are held to higher standards of performance than the players and managers they supervise. They draw the most ire. When their team lose, do fans blame the players or the poor decisions from the dugout? As likely as not they point the finger at the referee.

How often do you hear the assertion: “He gave the opposition every decision. We got nothing”? It is true. “The referee was useless.” We’ve all said it. We’ve all felt like giving the “lino” a piece of our mind, like Ferguson.

Everton fans who were not even born in 1977 still spit out Clive Thomas’s name with venom. Nearly 36 years on, Thomas and a disallowed goal loom like a dark cloud over Everton’s history. Supporters who cannot name the team who played in the 1977 FA Cup semi-final can describe in detail Thomas’s confused rationale in disallowing Bryan Hamilton’s “winning goal” against Liverpool. Most clubs have a legendary refereeing bogeyman. Missed chances are forgotten, defensive mistakes ignored; the errors of players and managers are passed over. Tribalism demands that the blame be shifted elsewhere and the opposition given no credit. Officials are the easiest scapegoats. Their impartiality is, in itself, provocation to the zealot.

Ferguson is not alone in his treatment of officials. However, his status gives him an authority that other managers do not have. Other, younger, coaches are influenced by Old Trafford’s doyen. Referees need better protection. The system of rating their performance undermines them. Officials are not assessed by an observer in the ground, but by DVD. The managers of the two sides involved in a match are asked for their views. How can this be a good idea? The only credible way to review the performance of an official is to use someone who is completely impartial.

Match officials should feel most resentful towards the Professional Game Match Officials Limited, their administrative body, and the FA. Neither organisation provides the support they need. The ruling body gives lip service to backing the men who enforce the rules, but managers and players get away with destabilising officials every week.

All visible dissent towards the officials should be punished severely, especially where managers are concerned. For a first offence, they should be sent to the stands. A second should lead to a ban from the ground.

The framework is there. After a Champions League game against Barcelona in 2005, José Mourinho was banned by Uefa from Stamford Bridge for a match against Bayern Munich. Mourinho made comments about Anders Frisk that provoked death threats and the referee’s retirement. The Chelsea manager got around his ban by hiding in a laundry skip to be smuggled into the stadium. Yet the lengths to which the Portuguese went to avoid his penance shows how effective such a sanction could be. Managers hate it when they are not able to influence a game.

For all the hysteria about refereeing mistakes, remarkably few decisions are obviously wrong. Even with the benefit of replays, most questionable rulings are marginal. At real-time speed, in the bustle of a game with all its distractions, it is a surprise that so much is got right.

Despite popular belief, refereeing standards are higher than ever. Without them, football could not exist. It is time to stop demonising officials and protect them. For referees’ sake and the game’s sake, we need to recognise the worth of the scapegoats.

Modificato da Ghost Dog

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Egitto, si riprende il 1° febbraio

Ma dagli ultrà nuove minacce

di ANDREA LUCHETTA (GaSport 31-12-2012)

Buona la quarta? La Federcalcio egiziana ha annunciato ieri la ripresa del campionato, fermo dallo scorso primo febbraio, quando 72 tifosi dell'Al Ahly vennero massacrati allo stadio di Port Said. Il calcio d'inizio dovrebbe scattare proprio il primo febbraio, e francamente è difficile interpretare la scelta come un messaggio distensivo. Gli Ahlawy — gli ultrà dell'Al Ahly — hanno promesso di bloccare il campionato fino alla conclusione del processo su Port Said. Riprendere il giorno del primo anniversario non potrà che esasperare le tensioni, ammesso e non concesso che la Federcalcio (Efa) voglia andare fino in fondo. Negli ultimi mesi l'Efa ha già fissato tre date per la ripresa e si è sempre vista costretta al rinvio.

Provocazione Il caso più clamoroso a settembre, quando il portavoce federale ha sfidato gli ultrà: «Se potete fare qualcosa per fermare il campionato, fatelo e basta». Poche ore dopo, la Federcalcio era invasa da 400 ahlawy, fra cori, petardi e trofei rubati. Gli ultrà restano una delle forze civiche meglio organizzate del Paese, secondi solo alla Fratellanza musulmana. Nel corso della rivoluzione hanno giocato un ruolo decisivo per tener testa alla polizia, e in molti — anche al di fuori delle tifoserie — hanno visto nel massacro di Port Said una vendetta per l'impegno degli ahlawy. La ripresa del campionato rischia di trasformarsi in una cartina di tornasole nella battaglia fra islamisti, rivoluzionari e nostalgici del vecchio regime. E non è difficile ipotizzare che — dopo il braccio di ferro vinto sul referendum costituzionale — la Fratellanza musulmana intenda ora andare allo scontro aperto con le curve, per privare le forze rivoluzionarie di un supporto cruciale.

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Petrucci lascia «Lo sport è in salute»

Il numero uno del Coni racconta i suoi quattordici anni di dirigenza «Soddisfatto per aver mantenuto un'autonomia nonostante la crisi»

14 Anni: la durata della presidenza Petrucci al Coni

12 Gennaio: Data in cui Petrucci diventerà presidente del basket

27 dicembre: Nel 2000 è Grande Ufficiale al Merito della Repubblica

Successione Pagnozzi è in grado di ricoprire il ruolo con capacità.Sta già facendo il presidente, aver mantenuto intatto il finanziamento è merito suo

Bilancio Soddisfatto di aver mantenuto autonomia dello sport anche in questa crisi. Sotto la mia dirigenza siamo entrati nel G8 dello sport mondiale

Successo Nei miei anni al Coni abbiamo vinto molto: anche un mondiale di calcio. Ma il successo di Baldini ad Atene resta indimenticabile

Doping Ripenso all'episodio più recente, quello di Schwazer a Londra. È stata la pagina più nera della mia presidenza: la notizia mi ha gelato

Politica Perla legge sugli stadi sarebbe bastata solo un po' più di buona volontà. Roma 2020?Non ci penso più, ma Monti forse aveva ragione

Calciopoli Il mondo del calcio riesce a superare tutte le bufere. Dopo i processi si dovrà studiare qualche variazione legata alla giustizia sportiva

Saluti Mi piacerebbe essere ricordato come un presidente che ha sempre lavorato in buona fede: come una persona normale. Un grazie a tutti

Dopo quattordici anni alla guida dello sport il presidente del Coni Giovanni Petrucci lascia. Al termine del suo ultimo mandato come numero uno dello sport italiano, tornerà proprio da dove è partito: dal 12 gennaio sarà infatti il nuovo presidente della federbasket. Con lui, in chiusura di questo 2012, facciamo un bilancio che va ben oltre l'anno solare, ma si «allunga» nei quasi tre lustri di dirigenza. Sotto la sua guida l'Italia dello sport ha vinto molto, ha portato a casa un mondiale di calcio, ma ha anche vissuto qualche pagina nera relativa a un male che sembra incurabile: il doping.

Presidente Petrucci, un bilancio dei suoi 14 anni da numero 1 del Coni?

«Sono soddisfatto e lo dico con orgoglio. Siamo riusciti, insieme al segretario generale Pagnozzi, a centrare un obiettivo fondamentale: mantenere l'autonomia e il finanziamento del Coni ai livelli di oggi. Non era semplice, soprattutto ricordando il traumatico inizio nel '99, con la crisi delle schedine e le casse vuote. A livello agonistico sento di dover sottolineare l'importanza di aver fatto crescere per attenzione e diffusione tante altre discipline, oltre a quelle già popolari, con risultati davvero apprezzabili: penso al rugby, al nuoto, al tennis, alla ginnastica e al pugilato. Non a caso Londra 2012 ci ha detto che siamo nel G8 dello sport, con 15 discipline che sono andate a medaglia. Sono numeri che esaltano il lavoro fatto da dirigenti, tecnici ed atleti».

Qual è stato il momento più bello della sua presidenza e perché?

«Sarebbe difficile sceglierne uno. Ripenso a tutte le medaglie vinte ai Giochi Olimpici, da Sydney 2000 a Londra2012 un crescendo di risultati e trionfi che mi regala ancora forti emozioni. Come quelle vissute, dal vivo, al Mondiale del 2006 in un momento difficile, con una bufera giudiziaria che aveva investito il calcio italiano».

E il più brutto?

«Il doping e tutti i suoi casi. Ripenso all'episodio più recente, legato alla positività di Schwazer a Londra. E stata una delle pagine più brutte della mia presidenza. Ero alla gara del tiro a volo (argento di Fabbrizi, ndr), pronto a festeggiare una medaglia ma la notizia mi ha gelato».

A che punto siamo nella lotta al fenomeno e cosa si può fare in futuro per migliorare?

«Il doping lo combattiamo da sempre, abbiamo unanimi riconoscimenti internazionali che lo certificano. In questo senso voglio ricordare una sentenza del TAS del 2 agosto 2011, in cui si riconosce al CONI "la serietà e l'impegno con i quali viene portata avanti la lotta in questione".

Resta però un fenomeno da rincorrere sempre. Il ciclismo, devo darne atto al presidente Di Rocco, ha assunto dei provvedimenti importanti, netti. Si è impegnato per cambiare la mentalità, è una Federazione che traccia un percorso importante in questo senso». A quale successo si sente più legato?

«Al trionfo di Baldini nella maratona ad Atene 2004, perché è semplicemente indimenticabile. Nel tempio dell'atletica, nell'ultima gara dei Giochi, con l'inno italiano suonato durante la cerimonia di chiusura».

A quale atleta?

«Ne indico sei: Antonio Rossi, Massimiliano Rosolino e Armin Zoeggeler tra gli uomini. Valentina Vezzali, Federica Pellegrini e Stefania Belmondo tra le donne».

C'è una cosa che non rifarebbe?

«Sì, sarei meno irruento nelle dichiarazioni. Almeno rispetto all'ultimo periodo, perché inizialmente ero più moderato. Però alzare la voce qualche volta ti fa ottenere dei risultati».

Che situazione sportiva lascia al suo successore?

«Molto buona, il modello CONI è molto apprezzato nel mondo e questo èunvanto per tutto lo sport italiano. Me ne accorgo girando e ricevendo apprezzamenti per quello che è stato fatto. Certo, anche in Italia c'è bisogno di qualche cambiamento ma ci teniamo la nostra realtà. Tante discipline sono in salute, lo dimostrano i risultati: nonc'èpiù solo la mono-cultura calcistica».

Chi fra i tre candidati le sembra piu adatto a prendere la sua eredità e perché?

«Sono per la continuità, non ne faccio un mistero, ma con una considerazione importante. Penso, anzi sono convinto, che Pagnozzi sia in grado di ricoprire il ruolo con grande capacità. Perché il presidente lo sta giàf acendo. Aver mantenuto praticamente invariato il livello di finanziamento per lo sport italiano, ad esempio, è un suo merito. Ha fattc un miracolo con il Ministero dell'Economia. E poi la scelta di fare squadra con Luca Pancalli è davvero vincente».

Sotto la sua egida la bufera Calciopoli, poi Calcioscommesse: semplice malcostume o sistema calcio da rifondare?

«Il mondo del calcio ha una forza notevole, che gli consente di superare tutte le bufere. Mi piacerebbe però che fosse più normale, che agisse con maggiore serenità. Qualche risultato è stato raggiunto, ma ce ne sono altri da perseguire. Il problema delle scommesse comunque non è un fenomeno solo italiano, ma internazionale. Dopo la chiusura dei processi si potrà studiare qualche variazione legata alla giustizia sportiva, senza stravolgimenti».

Sport e politica: il no a Roma 2020, i tagliai fondi, tutti i problemi sulla legge per gli stadi ormai morta nei meandri della burocrazia politica. Possibile che in Italia dello sport interessi solo allo sport?

«La legge sugli stadi non costanulla. È una legge che non riguarda solo gli stadi ma anche i palazzi dello sport dove si possono svolgere tante discipline sportive. So benissimo che ci sono problemi più importanti ma per approvare questa legge bastava buona volontà. La politica serve per legiferare, mi auguro che ci siano degli interventi per far crescere in questo senso il mondo dello sport. Non solo in relazione agli stadi. Il discorso di Roma 2020 ormai l'ho invece archiviato. Ho parlato con il Presidente del Consiglio, Mario Monti, durante il viaggio in Polonia per assistere alla finale degli Europei. Mi rendo conto che sarebbe stato difficile portare avanti la candidatura considerando la situazione attuale del Paese. Nella vita non serve ripensarci, me ne sono fatto una ragione».

Petrucci non lascia lo sport, resta alla guida del basket: perché?

«Perché è una disciplina entusiasmante e perché mi manca il campo, il risultato. Sono sicuro che l'Italia tornerà a vincere con la Nazionale. Si deve pensare in positivo, i tesserati sono in crescita e ci deve essere un maggior utilizzo dei giocatori italiani, che stanno facendo bene. Su tutti Datome».

A chi deve un grazie prima di lasciare?

«Alla squadra guidata dal segretario generale Pagnozzi, con il quale ho condiviso il percorso al timone dello sport italiano. Quindi la Giunta e il Consiglio Nazionale, gli atleti e i tecnici che non tradiscono mai e ci elevano a eccellenza del Paese. Grazie a tutti».

Che voto si dà alla fine del suo mandato al Coni?

«È giusto che certe valutazioni vengano fatte da altri, mi piacerebbe solo essere ricordato come un presidente che ha agito sempre in buona fede. Come una persona normale».

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Chelsea right in refusing to be

held down by Lampard’s ‘anchoring’

Club’s reluctance to give long-serving midfielder

a contract extension is simply down to economics

The danger is to appease the desire of fans to keep faith with bona fide legends

by MATTHEW SYED (THE TIMES 01-01-2013)

One of the curiosities of transfer speculation is that discussion often takes place in an economic vacuum. Liverpool should sign Mr X, Arsenal should sell Mr Y, Real Madrid should offer a contract extension to Mr Z.

But these judgments only make sense in the context of a budget and, more particularly, a price. It may be the case that — all things being equal — Liverpool will improve with Mr X in the starting line-up. But if they have to pay £30 million, all things are hardly equal.

Which brings us to Frank Lampard. Many pundits argue that Chelsea ought to offer the England midfielder a contract extension. They argue that it is an affront to all logic to let such a fine player leave, particularly one who has had a stellar career and who has played so well in recent days. But is it? One of the most regular findings of behavioural economics is the phenomenon of anchoring. This is where people take a given number as the starting point for a negotiation or prediction.

One of the consequences of anchoring is that individuals take their present salary as a benchmark for what they are worth. And they hate having their salary cut.

Lampard has let it be known that he wants to sign a contract extension at Chelsea. But this is not strictly true. What he really wants is a new contract on a salary benchmarked by what he is at present earning. Even with his (doubtless sincere) loyalty to his club, he is unlikely to accept a big salary decrease given the opportunities elsewhere and given the psychological tendencies of anchoring.

And this surely explains Chelsea’s reported reluctance to keep Lampard on the payroll. Everyone knows that Lampard is one of the finest players to have graced the Premier League. We all recognise that he is still playing terrific football. But is a 35-year-old Lampard (his age at the start of next season) likely to provide as much value on the pitch as the Lampard who secured his present contact at the height of his powers? And how good will Lampard be towards the end of a twoyear extension, when he is nearly 37?

Consider that one of the most wellestablished phenomena in football is the overpaid thirtysomething. The reason is twofold. The first is that clubs tend to think that a player’s past form is a good guide to future form, despite the fact that ability tends to decay after the age of 30, particularly in midfielders and forwards.

The second is that the present salary not only anchors the player, but also the club. The management is happy to carry on paying handsomely for an existing asset. Clubs who want to punch above their weight have actively to combat these tendencies — particularly clubs with a history of profligacy such as Chelsea (who have wasted untold millions on compensation for sacked managers).

Admirers point to the number of goals that Lampard has scored through his career — but the question is whether this scoring record can be sustained. Fans argue that he has been a great servant to the club — but can a salary of £8 million per year really be described as servitude, and does it justify overpaying for his services in the future?

People argue that Lampard can provide a good example to the present generation of players through his work ethic and discipline, but this has to be the most spurious argument of all. If any club feel it is appropriate to pay someone close to £16 million over two years to set an example, they have lost their sanity. Footballers should work hard because of personal ambition and a strong culture, not because of a teammate. If the latter is necessary, the club is pretty much finished.

Pundits also point to Paul Scholes and Ryan Giggs, who have been re-signed at Manchester United, as reasons to keep Lampard.

But this is hardly a clinching argument, either. Football history is littered with ageing players who have been kept on by clubs on high salaries, but who have performed below expectation (this overvaluation of older players is also present in baseball and basketball). Two counter examples do not change this reality.

One of the most statistically reliable strengths of good managers is selling at the right time. At the height of his powers, Arsène Wenger sold players considered to be at their peak. He sold Thierry Henry at 29, Patrick Vieira at 29 and Marc Overmars at 27. None of them quite reached their Arsenal levels of performance again. The comparison to Lampard doesn’t quite hold given that Chelsea will not secure a hefty transfer fee, but the savings on the wage bill cannot be ignored.

Lampard has been a brilliant player and has many admirable qualities, but these are not sufficient reasons to keep him on a payroll that must eventually comply with Financial Fair Play. It is reported that no discussions about an extension have taken place, which is often a coded assertion that preliminary discussions were not promising. If Lampard is willing to take a pay cut, Chelsea would be crazy to cast him aside. But if he says he wants a twoyear deal at or near his present salary, they are right to be hard-nosed.

All clubs need to rebuild if they are to survive and flourish. The biggest danger of all is appeasing the conventional (and understandable) desire of fans to keep faith with bonafide legends, and then paying the price later on. It is not disrespectful for Chelsea, who have signed some terrific new midfielders, to look to the future. Whatever happens, Lampard’s place among the greats is assured.

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United exert ‘power’ over

English game, says Mancini

City manager regrets failure to sign Van Persie

by OLIVER KAY (THE TIMES 01-01-2013)

Roberto Mancini set the tone for the new year by stating that Manchester United use their “power” to “control” English football and that Manchester City are paying the price for their failure to act swiftly in the transfer market last summer.

Mancini admits that United deserve to be top of the Barclays Premier League, even if he feels that they are flattered by their seven-point lead, but the City manager has also suggested that Sir Alex Ferguson’s team use their unspecified “power” to gain a competitive advantage.

In an interview with Ġazzetta Dello Sport, the Italian sports newspaper, Mancini was asked whether he felt that Ferguson uses a form of “psychological control” to influence match officials. Mancini replied: “I do not care what Ferguson does. I can only say that I have been [promised] a letter from the federation [FA], asking for an explanation of that statement on Boxing Day [when the City manager said that Kevin Friend, the referee in their 1-0 defeat by Sunderland, had ‘eaten too much at Christmas’]. The letter has not arrived yet. Perhaps the post here is slower than in Italy.”

But Mancini added: “The control does exist. Manchester United are the club that has won almost everything in the last 20 years and its power is felt.”

Mancini’s comments echo those made by Patrick Vieira, the City football development executive, late last season when he claimed that “when United play at home, they get some advantage that other teams don’t get”. Vieira withdrew that complaint, accusing the media of a “cynical” interpretation of his comments, but it drew an angry response from Ferguson.

Before last month’s Manchester derby, Ferguson made remarks about the 21 penalties that City had been awarded since the start of the 2010-11 season, saying that it would prompt questions in the House of Commons if United had benefited from so many decisions. It subsequently came to light that Ferguson’s team had been awarded the same number of penalties, while Mancini suggested that the United manager was ignoring questionable penalties won by Ashley Young.

Mancini’s team are at home to Stoke City this afternoon, while United are away to Wigan Athletic, where a 1-0 defeat proved to be a significant moment in the title race last season. United have responded with a strong start to the campaign, but Mancini said that, while Ferguson’s team “deserve to be first”, it would be fairer if they were three points clear rather than seven.

Pointedly, Mancini said that Robin van Persie “is making the difference” in the title race. The former Arsenal forward was one of Mancini’s prime targets in the transfer market last summer, but City, mindful of the challenges posed by Uefa’s new Financial Fair Play regulations, did not make a bid for the Dutchman. When asked if City had been close to signing Van Persie, Mancini said: “Yes. Then I don’t know what happened. I can say we worked on transfers only in the final three days [of the summer transfer window].”

Mancini said that Mario Balotelli will not be sold during the January transfer window, citing the fondness of Sheikh Mansour, the owner, for the Italy forward and the profile he brings to City, but it is understood that any serious offer would test City’s resolve.

Mancini was dismissive of the suggestion that Pep Guardiola, the former Barcelona coach, could replace him, but the City manager is under severe pressure to prove to the board in the second half of the season that he is capable of taking the team forward.

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I club e il miliardo delle tv

ma cosa succederà in futuro?

Fulvio Bianchi - Spy calcio - repubblica.it - 1-01-2013

Sino al 2015 le casse sono piene e il Circo del Pallone può andare avanti: ogni anno entra un miliardo di euro dai diritti tv, cifra che ci mette al secondo posto nella classifica europea per ricavi (solo la Premier League ci stacca, ma grazie soprattutto ai diritti esteri). Va dato atto, almeno stavolta, alla Lega di serie A di essersi mossa bene e con tempestività: è riuscita a chiudere gli accordi con le tv proprio prima che la crisi arrivasse (sempre se questo è davvero l'apice...). Bravi quindi Maurizio Beretta, il dg Marco Brunelli e l'advisor Infront.

Per fortuna che il calcio davanti allo schermo tira sempre forte (vedi Spy Calcio del 29 dicembre), e gli ascolti sono in crescita, ma le tv, pay e generaliste, vivono un momento non facile. Che succederà dal 2015? I presidenti si stanno facendo questa domanda? Alcuni sicuramente sì, e fra questi Andrea Agnelli che pensa ad una tv della Lega che produca e venda le sue immagini. Per avere più forza contrattuale. Lo stesso Aurelio De Laurentiis è convinto che si possa puntare di più sul mercato estero: ha ragione, ma il prodotto va migliorato. Come? Con stadi pieni, terreni di gioco all'altezza dello spettacolo (il San Paolo con la sabbia è un pessimo ricordo...), livello qualitativamente migliore (18 squadre anziché venti potrebbero essere una soluzione). La stessa Sky è preoccupata, e anche seccata, per il livello complessivo dello spettacolo-calcio in Italia. Bisogna tutelare di più il prodotto: in Inghilterra trasmettono ad esempio solo 138 partite in diretta, il 36,3% del totale, con un valore medio per partita di 5,91 milioni. In futuro le dirette aumenteranno di 16 gare a stagione, ma aumenteranno anche i soldi della tv. Le altre Nazioni trasmettono tutte le gare "live" come noi ma se in Germania, ad esempio, gli spettatori sono cresciuti di pari passo con i diritti tv (vedi il libro "Il calcio ai tempi dello spread"), in Italia è stato l'esatto contrario. I diritti tv sono aumentati del 72%, gli spettatori calati del 9%. Tutta colpa di quei "cattivoni" di Sky e Mediaset Premium? Macché, non ci fossero stati loro molti club avrebbero già portato i libri in tribunale. Colpa, soprattutto, di chi si è disenteressato degli altri ricavi (da stadio merchandising) e si è affidato solo ai soldi delle televisioni. Meglio prepararsi per tempo quindi al 2015, non manca poi molto e andranno rinnovati tutti i contratti. Sia Sky (561 milioni), sia Mediaset Premium (268) hanno presentato offerte, nell'ultimo contratto, pari all'importo minimo richiesto dalla Lega di A. E questo significa chiaramente che fra loro non c'è concorrenza (se non negli ascolti) e che operano praticamente in regime di duopolio visto che Sky trasmesse sul digitale satellitale e Mediaset Premium sul digitale terrestre (pay, ovviamente). Ma la crisi si fa sentire per tutti. La Rai ha un "rosso" da 200 milioni, ed è riuscita solo con sacrifici a salvare le sue trasmissioni-cult e la Coppa Italia. La 7 non esiste quasi più sui diritti sportivi. Mediaset ha avuto un calo pubblicitario consistente negli ultimi mesi e la stessa Sky, che al calcio non può certo rinunciare, ha perso quest'anno circa 71.000 abbonati, con una flessione del 5 per cento dei ricavi. Ma è pur sempre, la pay tv di Rupert Murdoch, la leader sullo sport (a pagamento) in Italia (quest'anno avrà anche la Formula 1, tranne 9 Gp che dovrebbero andare alla Rai, dovrebbero...). E Sky ha anche la sorellina minore Cielo, che trasmette sul digitale free, e che ora sta crescendo piano piano. Ma in futuro potrebbe essere un'arma in più.

Il nodo di Coverciano: Rivera al posto di Baggio?

Gennaio, tempo di elezioni: il 9 ultima Giunta Coni di Gianni Petrucci che il 12, unico candidato, sarà eletto presidente della Federbasket. Ha idee, vuole rinnovare: c'è molto da lavorare, ma la base è buona e la Nazionale sta rinascendo. Sempre il 12 elezioni delle Federbocce (Rizzoli candidato unico), della Federciclismo (addirittura cinque sfidanti per Di Rocco) e della Federazione taekwondo (unico candidato Park Sun Jae: due atleti all'Olimpiade e due medaglie!). Il 14 tocca alla Figc: anche Giancarlo Abete è candidato unico. Ma, come abbiamo già scritto, deve riprendere la leadership della Federazione. Il 3 si incontrerà ancora con Macalli (Lega Pro) e Tavecchio (Lega Dilettanti). Da risolvere molti problemi: uno è quello del settore tecnico. Robi Baggio è in uscita. Non è mai decollato il progetto che aveva studiato con il suo amico-manager Petrone (ora anche allenatore...) e con Bacconi. Ora bisognerà trovare un suo erede: c'è chi vorrebbe a Coverciano, Gianni Rivera, grande ex campione, che sta facendo bene col settore giovanile e scolastico. Ma Renzo Ulivieri, a capo dell'assoallenatori, ha già tuonato: tocca a lui decidere, d'intesa con Abete. Il presidente uscente sarà ovviamente rieletto, l'unico scoglio è la Lega di A dove potrebbe arrivare qualche bocciatura per Abete.

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CALCIO - «Italiani ottimi arbitri» Rizzoli: «Sì a tecnologie più assistenti di porta»

Francesco Ceniti - Gasport - 2-01-2013

Il numero 1 dei nostri fischietti: «Da calciatore protestavo... Il gioco di squadra conta pure per noi, stiamo migliorando».

«Se faccio l'arbitro è "colpa" di un arbitro. La mia vita cambia in una partita Allievi a Bologna: supero l'ultimo difensore e mi butta giù in modo plateale. Ci danno solo punizione dal limite: inizio a protestare. Vado giù duro: "Ma non dai nemmeno giallo: è un'ingiustizia". Mi fa: "Non conosci il regolamento...". Scatta qualcosa dentro e decido di frequentare un corso per arbitri. L'idea era sapere le cose in modo da discutere alla pari con chi dirigeva. Non sono più tornato indietro». Nicola Rizzoli è il migliore fischietto italiano, ma non si concede vacanze neppure durante la sosta. Con orgoglio mostra lo smartphone con i dati dell'ultimo allenamento: la salita del San Luca (2 km, pendenza media 10%) affrontata prima di Capodanno. «Ci ho messo 12' e 50"», dice. La preparazione fisica è uno dei must per essere il numero uno.

Rizzoli, quando fa il giudice di porta si «mangia» i colleghi?

«Quando mai, sarebbe deleterio per un esperimento molto importante. Credo molto negli arbitri addizionali. Ho avuto la fortuna di partecipare al primissimo test in Slovenia. Da allora sono stati fatti passi enormi fino a raggiungere un livello elevatissimo nell'ultimo Europeo. Ci vogliono anni e pazienza».

Ma decide Lei per gli altri arbitri?

«Sgombriamo il campo dagli equivoci: la decisione finale spetta all'arbitro centrale. Guai se accade il contrario. L'addizionale fa da supporto e serve ad avere una copertura quasi totale delle azioni. Vuole un esempio?».

Faccia pure.

«Italia-Croazia in Polonia. Chiellini subisce fallo dall'attaccante, poi si sbilancia e frana sull'avversario. L'arbitro avrebbe visto solo la parte finale e fischiato rigore, il giudice di porta gli ha completato la sequenza ed evitato un errore. Se poi l'idea è di non avere nessuna svista, siamo fuori strada».

In questo avvio di stagione Lei è stato protagonista di situazioni particolari. Partiamo dal rigore contro il Napoli in Supercoppa...

«Decisione condivisa. Mazzoleni aveva visto il fallo: io ho dato una ulteriore conferma. Le immagini sono chiare anche se c'è chi sostiene che non era rigore. La premiazione disertata? Credo non sia stato uno spot felice per l'Italia».

Come le scommesse. Che ne pensa?

«Sono molto orgoglioso che non ci siano arbitri coinvolti. È una vicenda triste».

Torniamo ai casi strani. Udinese-Juve e Udinese-Cagliari: rigore più rosso a Brkic; penalty dato e poi ritirato da Tommasi.

«Nel caso del portiere è stato un gioco di squadra, per capire se il fallo era dentro o fuori, mentre sull'espulsione ha deciso Valeri. Il secondo episodio è stato un equivoco: la parola "difensore", detta per chiarire chi aveva toccato la palla in ottica valutazione fuorigioco, è diventata "rigore". Tornare indietro ha evitato un errore».

Non c'è il rischio confusione con la sovrapposizione delle voci?

«E' normale. Il lavoro di Collina dura da tre anni. Poi conta l'affiatamento: a Euro 2012 io con Rocchi, Tagliavento, Faverani e Stefani vedevano le gare insieme e sugli episodi ci dicevamo come ci saremmo comportati. Mi sbilancio: gli arbitri italiani sono di ottimo livello».

Episodio che ha fatto discutere: il rigore in Milan-Juve...

«Le rispondo in generale. A volte persino la tv fa fatica a dare certezze. Credo che allora valga più l'impressione avuta dall'arbitro. Ci sono dettagli che le immagini non riproducono, penso ai rumori e alla prospettiva di chi è sul campo. Poi c'è l'esperienza. Se un difensore allarga in modo innaturale le braccia, lo fa perché vuole impedire un cross o un tiro. Magari il tocco non sarà volontario, ma quella intenzione si punisce col rigore. Ma su Milan-Juve vorrei far notare altro».

Ci dica?

«La grande compostezza dei giocatori. Pirlo e gli altri mi hanno chiesto spiegazioni in modo civile e sono andati via».

Sono molte le proteste scomposte? Specie nell'intervallo?

«In campo spesso non c'è rispetto, ma c'è un miglioramento rispetto al passato. Fatico a trovare atteggiamenti sbagliati degli attuali capitani. In passato c'erano Maldini, Baggio, Zanetti e pochi altri esempi positivi».

E l'abitudine di dire «guarda che sappiamo che hai sbagliato»?

«Nulla di nuovo. Se un arbitro crede a questi frasi, allora è meglio che si ritiri. Piuttosto per regolamento in panchina nessuno potrebbe avere strumenti di comunicazione».

A proposito: meglio la tecnologia sul gol-non-gol oppure gli addizionali?

«L'ideale sarebbe avere entrambi. Nello specifico, l'occhio di falco serve soltanto a evitare un errore grave, mentre il giudice di porta ha una portata più ampia».

Ha sfiorato le finali di Champions ed Europeo. Deluso?

«No, perché ero arrivato a meritarle. Certo, speravo che l'Italia battesse la Spagna per due ragioni diverse... Il futuro? Per ora la Champions. Il Mondiale è lontano, sono in lizza con Rocchi. Ma potremmo anche andare entrambi».

Sarebbe una novità?

«Busacca, designatore Fifa, crede nella meritocrazia. L'idea è avere arbitri in forma senza badare alle esigenze politiche: bella svolta».

C'è una domanda che si farebbe?

«Sulla conoscenza del regolamento da parte degli addetti ai lavori, giornalisti in testa. Si parla di "ultimo uomo" quando da anni non è più questa la condizione per decidere l'espulsione. Sui falli di mano, poi, regna la confusione».

Lezione di Rizzoli, allora.

«Se s'interrompe un passaggio a un avversario è sempre giallo; se si blocca un dribbling ancora giallo; se c'è un tiro in porta cartellino automatico ed è rosso se evita un gol; se c'è un cross, dipende: con la difesa schierata e senza certezza di chi colpirà la palla, basta la punizione».

Ma non sarebbe tutto più facile se gli arbitri parlassero?

«Il presidente Nicchi sta lavorando in questa direzione. Sarebbe utile e lo faremo, ma serve un cambio culturale. Oggi l'arbitro spesso è un nemico. E invece siamo al servizio del calcio».

NICOLA RIZZOLI 41 ANNI ARBITRO Nicola Rizzoli è nato a Mirandola (Modena) il 5 ottobre 1971. Ha esordito in Serie A il 14 aprile 2002 (Venezia-Perugia 0-2), è internazionale dal gennaio 2007, e ha debuttato in Champions nell'ottobre 2008 (Sporting Lisbona-Basilea). Dal 2009 è nella categoria Elite dell'Uefa. A maggio del 2010 dirige la finale di Europa League tra Atletico Madrid e Fulham 2-1. Nella fase finale dell'Europeo 2012 arbitra due partite dei gironi e poi il quarto di finale Spagna-Francia.

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Movimientos orquestales en la oscuridad

Entrevista a Luciano Moggi

“DICEN QUE HUBO UN

HOMICIDIO, PERO EL

MUERTO NO APARECE

POR NINGÚN LADO”

Hace seis años, unas escuchas policiales destaparon el

mayor escandalo del fútbol italiano. La voz de Luciano

Moggi, mandamás de la Juventus y poder en la sombra

del calcio, aparecía tanto que en España el caso se

bautizó con su apellido: Moggigate. Nadie se movía

como él en la trastienda del fútbol: patrocinadores,

rivales y, por supuesto, árbitros, tenían su móvil. Ahora,

mientras lucha en los tribunales, explica por primera vez

fuera de Italia todo lo que sabe. O casi todo.

"Todo empezó con la muerte de Gianni y Umberto Agnelli. Con ellos vivos, nada de esto habría pasado"

"Dirigentes del Inter pidieron a los árbitros que, sencillamente, les dejaran ganr. Yo nunca lo hice"

"Me he convertido en un James Bond. He visto todas las películas de la saga, para ver si me queda algo por aprender"

"La marcha de 'Ibra' o Lavezzi no es tan grave como las de Verratti o Borini. Deberíamos meditar por qué los jóvenes dejan el calcio"

por ANDREA DE PAULI (Panenka | Diciembre 2012)

Mayo de 2006: usted posiblemente es la persona más influyente del calcio, y gestiona el enésimo ciclo victorioso de la 'Juve', De repente, se empiezan a publicar algunas filtraciones de una investigación ya archivada por la fiscalía de Turín. ¿Cómo vivió esos días?

Como no había hecho nada, no tenía ningún miedo. La 'Juve' cuenta con una historia particular, anterior a mi llegada. Como equipo que siempre gana, estaba bajo sospecha de todo, incluso de regalar coches a los árbitros. No es cierto, como falsas han resultado las acusaciones de 2006. Si pensaban que no me defendería, han fallado por mucho.

¿Cómo está gestionando esa defensa?

He encontrado escuchas que no aparecían en las actas y que nos exculpan de todas las acusaciones. Escuchas cortadas para dar coherencia a las tesis del fiscal, hasta llegar a las motivaciones del primer juicio en el cual se declara que los presuntos sorteos arbitrales amañados, unas de las principales acusaciones, en verdad eran perfectamente regulares. Se hizo de todo para imputar a la 'Juve'.

Italia es el país de los conflictos de intereses. ¿Piensa que quien se ocupó de las escuchas - Telecom, el mayor operador de Italia -, tenía una fuerte conexión con el Inter?

Todo empezó con la muerte de Gianni y Umberto Agnelli. Si hubieran vivido no habría pasado nada de todo esto.

¿Eran tan potentes como para haberlo impedido?

No es una cuestión de poder. Repito, no había nada que investigar. El problema es que yo, Roberto Bettega y Antonio Giraudo teníamos demasiado ascendente en el club y era imposible eliminarnos. Cuando murieron Gianni y Umberto Agnelli empezó la guerra de sucesión y nosotros estábamos en medio.

¿Una guerra civil blanquinegra?

Se percibió el miedo de que Giraudo, el delfín de Umberto Agnelli, pudiera tomar posesión del club. Un temor sin fundamento porque él, Bettega y yo sólo queríamos hacer lo mejor posible nuestro trabajo y nos conformábamos con nuestro sueldo. Sólo alga excepcional podía dejarnos fuera ... y alga excepcional encontraron.

Suena a elementos nuevos que podrían cambiar el veredicto...

Escuché y leí todas las pruebas. En realidad, no era la Juventus la que tenía que bajar, sino otros equipos que no quiero nombrar, porque se trata también de algunos amigos. La 'Juve' no necesitaba ayudas, era un conjunto muy competitivo: basta con dar un vistazo a las alineaciones de la. final mundialista de Berlín. Cinco azzurri y cuatro franceses, más un entrenador y un fisio, con ADN juventino.

Usted me está diciendo que no hay ni un árbitro ni un partido comprado en toda esta historia.

Dicen que hubo un homicidio, pero aquí el muerto no aparece por ningún lado. No me rindo, algún muerto va a salir.

Afirma que la nueva generación de los Agnelli les abandonó completamente.

Sólo le diré que el abogado de la 'Juve' pidió expresamente el descenso de su club a Serie B, con penalización incluida. ¿Le parece normal que un abogado que tendría que defendente llegue y declare "mis clientes son culpables, hay que condenarles"?

Acaba de alegar que había gente más culpable que usted. ¿Ha perdido muchos amigos tras el Calciopoli?

No, no es que haya gente más culpable que yo; yo no soy culpable. Tanto la justicia deportiva como la ordinaria concluyeron que no se alteró el campeonato y que los sorteos arbitrai es siempre fueron regulares.

¿Como está evolucionando el proceso en este momento?

Gracias a las escuchas completas encontradas por nosotros, y llevadas por el tribunal a la federación, el fiscal tuvo que acusar por conducta ilícita primero al Inter, luego al Milan y la Lazio... La propia justicia deporti va y la ordinaria comprobaron que la Juve no hizo nada.

Entonces, ¿por qué se condenó a la Juve y sus directivos?

Hay muchos problemas. Para empezar, la manera de conducir la entidad. Nosotros trabajábamos mucho, buscábamos beneficios a través de los patrocinadores para plantar cara a los grandes gastos. No sólo conseguimos forjar un equipo que lo ganaba todo; durante 12 años no pedimos ni un euro al accionista principal y repartimos dividendos a los accionistas minoritarios. Posiblemente quien nos relevó se preguntó si sería capaz de tanto. Si no te consideras en condiciones, mejor volvera empezar de otra forma. Este pudo haber invitado al abogado a pedir la condena en lugar de defendernos.

Pero en algo habrá fallado usted si al final se le condenó y los demás salieron del paso con sanciones ligeras.

Cuidado. Todavía no hay una condena definitiva. El proceso sigue y nosotros hemos presentado todas las escuchas... ¡170.000! Un trabajo inhumano. Estoy haciendo todo eso por mis intereses personales, pero también para salvar a unos cuantos que no tienen nada que ver y quedaron arruinados. Que siga habiendo errores confirma que ahora, como antes, no hay engaños. El error forma parte del juego.

¿Tiene la sensación de que ha padecido una actitud justicialista, parecida a la de Tangentopoli hacia el partido socialista?

Con la diferencia de que yo no me voy al extranjero, como hizo Craxi. Me quedo en mi patria y me defiendo.

¿Usted se siente un poco una cabeza de turco, el Craxi de la situación?

Nada de eso. Me siento como uno con el cual lo intentaron. A ver si lo consiguen.

¿Qué idea se ha hecho de la gestión de la justicia deportiva y ordinaria?

No qui ero hablar de la deportiva, yo me centro únicamente e nel proceso ordinario. Una vez se haya hecho justicia, pasaré a través de Europa para imponer là. verdad también en el ámbito deportivo.

¿Un ciudadano común, sin sus recursos económicos, podría combatir esta lucha?

No habría sido posible. He gastado. mucho dinero. Sé de gente obligada a reconstruir su vi da como camarero, otros que incluso se enfermaron de cáncer y todo es o no es justo.

¿Puede confirmarme que había una costumbre ampliamente compartida de contacto directo entre los directivos de los clubes y los árbitros?

Lo confirmo y le diré más: todo eso estaba auspiciado por la Federación y la liga. Para conseguir buenas relaciones entre equipos, jefes de los árbitros y colegiados organizaban una cena en Navidades. En cada mesa se sentaban tres árbitros, tres directivos de club y un jefe de los árbitros. No había ninguna norma que prohibiese el contacto.

Esto significa que un árbitro podía recibir un montón de llamadas antes de un partido: presión.

Yo sólo he dicho que no había prohibición de hablar con los árbitros y sus jefes. Entre 10.000 llamadas de otros, hay una única mía en la que pido cinco árbitros internacionales en un sorteo para garantizarme el regular desarrollo de un partido. Si, como se dijo, hubiera tenido tanto poder entre el mundo arbitral habría pedido directamente el árbitro que me gustaba. Otros lo hicieron. Dirigentes del Inter pidieron, sencillamente, que les dejaran ganar los partidos. El directivo del Milan, Meani, antes de un partido dijo al asistente del árbitro: "El Chievo es un equipo veloz. Levanta el banderín desde la mitad del campo, para evitar las contras". Yo nun ca lo hice.

La justicia no encontró acción ilícita por parte de la 'Juve', pero fue igualmente severa hacia usted. ¿Confía en una rehabilitación?

Ahora poseen las escuchas completas. Quiero creer en esa frase que se lee en las salas de los tribunales: "la Justicia es igual para todos".

¿Qué tal se encuentra? ¿Mejor que en la primavera de 2006?

Me he convertido en un James Bond. Recientemente, en Italia han emitido todas las películas de la saga. Las he visto todas para aprender algo.

¿Como lo de llamar desde tarjetas SIM extranjeras?

Muy simple: cuando nos dimos cuenta de que nos estaban interceptando, la Juventus adquirió unas sims en Suiza para defenderse. Cada vez que empezábamos una negociación con un jugador o un patrocinador, entraba la competencia y subía los precios. Nos avisaron de que nos estaban espiando. Elegimos defendernos, pero al final todo el mundo siguió interceptándonos, como demuestra el proceso.

A pesar de que las escuchas fueron realizadas por personas cercanas al Inter, en aquellos años usted estuvo a un paso de fichar por los neroazzurri.

Eso pasó algunos años antes y yo llegué incluso a firmar un contrato para convertirme en el director deportivo del Inter. Luego me di cuenta de que Moratti no era el presidente más adecuado para mi...

Cuéntenos cómo empezó su carrera. La leyenda dice que entró en el fútbol gracias a un panadero, el señor Galletti...

Eso no es cierto. Empecé dejugador, pero pronto entendí que no era lo mío. Por eso, después de un periodo trabajando en los ferrocarriles, me hice ojeador.

Cuentan que era muy bueno. ¿A quién descubrió?

Causio, Paolo Rossi, Gentile, Scirea... Unos cuantos. Conseguí mucho éxito en esta faceta. Todo empezó cuando Allodi, el director deportivo que había construido 'la Grande Inter', llegó a Turín. Cambió el club totalmente: de los ojeadores, sólo se quedó conmigo. Se lo debo todo, me enseñó lo peculiar que es el fútbol y me dejó una advertencia: ¡Cuidado con no ganar demasiado!

Luego se ha convertido en un gran coordinador de ojeadores, quizá la base de su éxito profesional.

Lo mejor para convertirse en un buen directivo es empezar por lo· más bajo. Hay que estudiar a los adversarios, conocer a tus jugadores para entender si son adecuados para el equipo... Así fue como empecé a adquirir la experiencia que luego me perimtió alcanzar grandes resultados.

Al principio iba a todos los campos de Italia...

Siempre he ido a los estadios. Hice de ojeador durante 20 años y llegué a un nivel en que nadie podía enseñarme nada. Luego, como empezaron a asignarme papeles de mayor responsabilidad, empecé a enviar a mis observadores y a tomar en cuenta sus indicaciones. Pero al final siempre acababa viajando para ver a los futbolistas que me indicaban.

Con la cantidad de vídeos que circulan ah ora, ¿se ha simplificado mucho ese trabajo desde entonces?

Quien se limita aver vídeos no descubre a los buenos jugadores.

¿Cuántas veces hay que ver a un jugador para hacerse una idea precisa?

Depende del jugador. Cuando vi a Causio por primera vez en una prueba, le hice abandonar el campo en el descanso. Era demasiado bueno y temía que hubiera gente de la competencia. Se enfadó mucho con su entrenador y yo tuve que tranquilizarle: "Mira, te llevo a la 'Juve'".

Con la llegada del presidente Boniperti, dejó Turin y vivió experiencias en diferentes sitios de Italia. ¿Qué entidad recuerda con más agrado?

La primera, el Nápoles, donde ganamos el segundo scudetto, la Copa de la UEFA, la Coppa y la Supercopa de Italia. La otra es el Torino, donde sin un euro aupamos una Copa, quedamos segundos en la Serie A y se nos escapó la UEFA contra el Ayax de Bergkamp y Van Gaal, golpeando dos postes y un travesaño, sin haber perdido ni un partido en todo el torneo.

Aquel equipo de Lentini, Scifo... o Martín Vázquez.

No era el tipo de jugador que más me gusta. Muy bueno técnicamente, pero limitado bajo presión. Quiero futbolistas con buen pie pero que no se dejen atropellar por el contrario.

¿Su mayor obra fue la primera Juventus de Marcello Lippi?

Todas fueron muy buenas escuadras, hasta llegar a la que considero mejor: Ibrahimovic, Emerson, Cannavaro, Buffon...

La que el Calciopoli destruyó. ¿Cómo acabaron 'Ibra' y Vieira reforzando, justamente, al enemigo interista?

Otro misterio. Vendieron a los dos por sólo 25 millones en la época del plenipotenciario Jean-Claude Blanc. No acabó bien.

Ahora es el director generai del PSG. Deschamps se fue tras un duro enfrentamiento con él.

Mejor no hablar de esa desastrosa gestión. Aportaré sólo un dato: durante mis 12 años, la 'Juve' no gastó nada. En los últimos cinco o seis ha gastado 400 millones.

¿Me está diciendo que quien no sabe mucho de fútbol gasta y lo hace mal?

Sobre todo, gasta mal. Esta 'Juve' me recuerda al Inter cuando Moratti compraba a Sukur o Taribo West. Y con estos jugadores querían ganar a Ibrahimovic, Emerson... ¿Como podían? Sólo derribándola, como pasó.

Construyó al menos tres ciclos ganadores, dos con Lippi, uno con Capello: cuatro finales de Champions.

Fue una gran satisfacción, pero allí empezaron los problemas. El deporte preferido en Italia es abatir a quien sobresale. Es nuestra historia, es la historia de la 'Juve', un club que sabe renovarse y que fastidia cuando vuelve a ganar. No me sorprende lo que ha pasado con Antonio Conte [sancionado seis meses].

Al final, Calciopoli no solo dañó a la 'Juve' sino a todo el fútbol italiano. Se ha quedado unos 10 años retrasado con respeto a los demás.

Cuando se paraliza un equipo como la 'Juve', que da cinco campeones a la selección, empiezan los problemas. Es una consecuencia natural que luego los mejores quieran irse. Así se explican las marchas de Lavezzi, 'Ibra' o Thiago Silva. Incluso la propia 'Juve' no es un equipo formidable, aunque posea el clásico ADN juventino. Tiene unas ambición de victorias que a los demás les falta. Esta temporada, el Inter, tras ganar en Turín, parecía haber encarrilado la liga cuando todavía estaba un punto por detrás. La semana siguiente, pierde en Bérgamo y la 'Juve' marca media docena en Pescara. Esta es la diferencia.

¿Sin Calciopoli, el calcio estaría mejor?

Estoy convencido de que sí. Nuestros medios no hicieron un gran servicio exportando el escándalo, que no es tal sino que fue dictado como tal. Calciopoli es una invención, como hemos empezado a demostrar.

¿Es más triste que se vaya Ibra o que se vayan Verratti y Borini?

Es bastante grave que los jóvenes emergentes prefieran irse a París o a Liverpool antes que quedarse aquí. Habría que reflexionar seriamente sobre este asunto.

Usted llevó a la 'Juve' a un gran entrenador como Lippi. Una leyenda cuenta que iban juntos a Mónaco para estudiar los métodos de Wenger.

No es leyenda, es verdad. Íbamos a estudiar a los equipos a los que nos enfrentábamos. Los demás clubes preferían hacerlo mediante el vídeo.

Una época bonita para usted. Había mucha camaradería entre directivos y cuerpo técnico.

Era una entidad perfecta. Demasiado perfecta. Por eso acabaron destruyéndola.

Otro gran técnico que atrajo fu e Capello. ¿Como lo consiguió, después de que jurase no entrenar nunca a la 'Juve'?

Creo poco en estos juramentos. Confío más en la voluntad de cada entrenador de acabar en el mejor equipo. Capello no estaba de acuerdo con el presidente de la Roma, Sensi. Por un periodista supe que tenía ganas de venir a la 'Juve' y, esa misma tarde, yo estaba en la capital para negociar con él.

También dio que hablar la relación que le une o, mejor, le separa de Zeman.

El tío de Zeman, Vycpálek, entrenaba a la 'Juve' cuando yo llegué. Estaba en Turín, pero yo ni sabía que existiera, tan sólo era un chico. Lo conocí después, cuando empezó a lanzar acusaciones. Entre otras cosas, Zeman dijo que era el mejor entrenador de Europa y que nunca le habían despedido. Yo le conocía unos cuantos ceses, no sólo en Italia. Entonces dije que no sabía entrenar en un sentido: no sabe gestionar al equipo, sus equipos siempre tienen problemas atrás. La Roma de esta campaña no es una excepción.

Ahora los grandes maestros italianos del banquillo están todos fuera.

El calcio ya no posee credibilidad ni para quien quiere entrenar. Creo que no van a volver nunca más; quizá lo harán en otros cargos. Estamos dilapidando un patrimonio de conocimientos que rinde fuera.

¿También se trata de un problema económico?

Los equipos requieren o mucho dinero o mucho trabajo. Yo fiché a Zola del modesto Sassari Torres 1903, cuando ya tenía 23 años y nadie le conocía. Le llevé a Nápoles para sustituír nada menos que a Maradona y se convirtió en un crack. ¿Cómo lo hice? Fui a verle jugar en vivo, me gustó y me lo llevé a Nápoles. ¿Sabéis cómo fiché a Zidane?

Cuente.

Como todo el mundo, vi los partidos entre Milan y Girondins. Me encantó, decidí seguirle tres o cuatro partidos más, y acabé fichándole. El Milan no lo hizo y contrató a Dugarry. Si los clubes actuaran así, los financieros no serían tan necesarios; se financiarían por sí solos.

¿Por ejemplo, el Udinese?

Lo está haciendo perfectamente. Pero allíes más sencillo: si llegas a mitad de tabla, ya haces una buena campaña. En la 'Juve', si quedas segundo has perdido.

Hábleme un poco de su relación con Maradona.

Muy bonita. Me daba mucha guerra, pero ahora entiende que si me hubiera escuchado más habría alargado su carrera. Todavía hoy podría jugar: su categoría no tiene límites.

¿El fútbol italiano conseguirá llenar el hueco que le separa de las ligas más importantes o el declive, a estas alturas, parece inevitable?

A nivel de selección, sería necesario que Prandelli dejara de lado a ciertos veteranos, para apostar por los jóvenes. Gente como Verratti y, sobre todo, Balotelli que ya es un campeón. Tiene un carácter peculiar, pero prefiero gente así que esos que te contestan que sí a todo. Siempre me gustaron los vestuarios turbulentos, en las que había que domar.

¿Es cierto que una vez destruisteis una puerta con Capello?

Jugábamos contra el Siena, colista. Durante la semana nuestros jugadores tildaron el partido de simple formalidad y a mi siempre me han dado miedo estas relajaciones. Por esa, antes del partido le dije a Capello: "Cuando lleguen del calentamiento yo me cabrearé y les diré que han trabajado fatal". Él hizo el resto: arremetió contra una puerta. Ganaron 4-0 sólo para enseñarnos a Capello y a mí que éramos dos imbéciles. Exactamente, lo que queriamos conseguir.

¿Ahora que está al margen, le llama mucha gente para pedir consejo?

Mucha gente, no; casi todos. Pero si no estás en un equipo es complicado, no puedes conocer perfectamente las características de las jugadores. Me limito a simples opiniones personales. Los equipos de fútbol no se hacen con los nombres, sino con las hombres. Y sólo desde dentro puedes conocerlos de verdad.

Ahora no puede ejercer en Italia. ¿Ha pensado en trabajar en el extranjero?

No tengo tiempo. Ahora he de combatir mi batalla.

EL HOMBRE QUE SIEMPRE ESTUVO ALLÍ

Como el Señor Lobo en Pulp Fiction, 'Lucianone' ha ejercido durante cuatro décadas como el principal conseguidor del fútbol italiano: allí donde había un problema siempre aparecía su teléfono. Nacido en 1937 en una aldea de la Toscana, Moggi fracasó como futbolista amateur y ventiló papeles en la empresa estatal de ferrocarriles. Sin embargo, en 1970 se convirtió en ojeador de la Juventus: sus retinas se toparon en unos imberbes Paolo Rossi o Claudio Gentile, que ayudarían a cimentar una década dorada. Luego pasaría por la Roma, la Lazio, el Torino o el Nápoles de Maradona, antes de regresar a la 'Vecchia Signora'. Primero con Lippi y luego con Capello, cuajó una escuadra que enhebraba un título tras otro, hasta que su arma principal - el móvil - se convirtió en su talón de Aquiles. Su curriculum de descubrimientos y trofeos sólo se ve superado por un historial con la justicia que no cabe en este breve perfil.

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Fotos de FEDERICO TARDITO

Making of

Ni teléfono ni ajedrez

A Federico, el fotógrafo que se encargó de retratar a Luciano Moggi, no le tembló el pulso:
"me gustaría hacerle una foto hablando por el móvil, señor Moggi"
. La imagen hubiera sido impactante: el gran acusado de amañar partidos en Italia, junto a su herramienta preferida. Pero no hubo manera. Tampoco quiso posar junto a un tablero de ajedrez, simbolo de su vieja fama de estratega implacable. Eso sí, con el resto de las fotos no hubo problemas.

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Calcio e finanza. I nodi aperti dopo l'annuncio della costruzione dell'impianto a Tor di Valle

L'As Roma fa i conti con il nuovo stadio

L'IMPEGNO FINANZIARIO

Il costruttore Parnasi vince il derby per il nuovo impianto

Rinviata la ricapitalizzazione del club, salgono i debiti con UniCredit

di GIANNI DRAGONI (Il Sole 24ORE 02-01-2013)

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L'As Roma ha annunciato la costruzione di uno stadio da 55-60mila posti a Tor di Valle. Un progetto che, una volta realizzato, si prevede nella stagione 2016-2017, potrà rafforzare il patrimonio della società e aumentare i ricavi della Magica. Restano tuttavia aperti diversi interrogativi, il principale è finanziario: chi paga?

Ovvero, come farà il club che in Borsa vale 66 milioni, paga in ritardo gli stipendi dei calciatori e ha i conti in profondo rosso a sostenere un impegno che, dalle prime stime, potrebbe costare almeno tra 165 e 210 milioni di euro, secondo la capienza dell'impianto?

Un altro interrogativo riguarda le autorizzazioni urbanistiche: l'area è soggetta a vincoli paesaggistici ed è zona di esondazione del Tevere. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ormai in campagna elettorale, annuncia tempi rapidi, «sei mesi di progettazione e un anno di burocrazia, tra conferenze dei servizi e pareri vari».

Si può inoltre notare che Luca Parnasi, il costruttore che ha vinto il derby dei palazzinari per costruire lo stadio della Magica su un'area nella sua disponibilità, ha rapporti d'affari con un altro candidato al Campidoglio, il costruttore catto-dalemiano Alfio Marchini.

Oggi si potrà misurare la reazione della Borsa all'annuncio dello stadio che il presidente della Roma, James Pallotta, ha fatto il 30 dicembre dalla Florida. Le azioni As Roma hanno chiuso l'ultima seduta del 2012 in calo dell'1,15% a 0,4987 euro. Rispetto all'inizio del 2012 hanno perso il 6,96%, ma negli ultimi sei hanno recuperato il 25%, dunque le azioni giallorosse sono ad elevata volatilità. Il prezzo è inferiore del 26,4% a quello di 0,6781 euro per azione pagato dalla nuova compagine (i soci americani con Unicredit) il 18 agosto 2011 per rilevare la Roma dal tandem Sensi-Unicredit. Attualmente la Neep Roma Holding Spa, la società tra americani (al 60%) e Unicredit (40%), possiede il 78% del capitale della società di calcio.

La Roma ha chiuso il bilancio consolidato al 30 giugno 2012 con una perdita di 58,47 milioni e un patrimonio netto negativo di 52,46 milioni. Il club ha bisogno di una ricapitalizzazione robusta, ma l'aumento di capitale da 80 milioni annunciato dalla nuova proprietà viene continuamente rimandato. In maggio americani e Unicredit hanno iniettato nelle casse di Trigoria 50 milioni, come anticipo di una futura ricapitalizzazione. Ma questi soldi ormai sono finiti.

Intanto aumentano perdite e debiti. Nei primi tre mesi dell'esercizio corrente, fino al 30 settembre 2012, le perdite consolidate sono aumentate da 9,8 a 16,86 milioni. L'indebitamento finanziario netto è aumentato da 54,7 a 71,6 milioni tra il 30 giugno e il 30 settembre, quando c'erano anche debiti verso il personale per 20 milioni, in larga parte per stipendi arretrati. Il debito è tutto con una sola banca, Unicredit, che tiene a galla la Roma "americana", per alcuni di fatto è il vero "padrone" della Roma. La banca ha in pegno il marchio della società.

Unicredit, insieme alla Bnl, è la banca che finanzia Parnasi, la cui holding, ha scritto L'Espresso, ha un debito netto superiore a 400 milioni a fronte di 150 milioni di ricavi. Un terzo del capitale della holding di Parnasi, la Parsitalia Srl, è intestato alla Servizio Italia, la fiduciaria della Bnl. E il 62,67% di Parsitalia è intestato alla finanziaria Figepa Srl, il cui capitale è tutto intestato alle fiduciarie delle banche, Servizio Italia di Bnl (il 99%) e Cordusio di Unicredit (1%). Difficile negare che le banche abbiano la regia dell'operazione stadio.

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La Ġazzetta dello Sport 02-01-2013

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LA DENUNCIA DEL PORTIERE WALKER

Hamburger di cane

Ora il calcio cinese

fa scappare le star

Drogba, Anelka, Conca tornano a casa

Lampard declina l’offerta del Tianjin

CONTRATTI D’OROGli ingaggi altissimi avevano attirato campioni

PROBLEMI LOGISTICINessuno organizza le trasferte, e l’igiene è carente

di LUIGI GUELPA (IL SECOLO XIX 02-01-2013)

Galeotto fu l’hamburger di Ian Walker, ex numero uno del Tottenham e della nazionale inglese, da qualche mese in Cina in veste di preparatore dei portieri. «In tutta onestà non so di che animale fosse la carne messa in mezzo a quelle due fette di pane. Sicuramente era qualcosa di poco commestibile. Per non correre rischi ho chiesto al cameriere di riportarlo in cucina». Agli inglesi, si sa, la passione dei cinesi per la carne di cane non è mai andata giù; è la confessione shock affidata alle colonne del quotidiano britannico Daily Telegraph e ha smontato in pochi istanti l’eldorado del calcio cinese: dai successi di Marcello Lippi sulla panchina del Guangzhou Evergrande, fino agli ingaggi a cifre esorbitanti di Drogba e Anelka. Mai come in questi ultimi tempi la Cina si poteva considerare vicina, se non altro come competitor, economico e in prospettiva tecnico, del calcio europeo. L’espansione galoppante della nuova superpotenza non sembrava porre limite a qualsiasi sogno sportivo, ma il nuovo anno si è mestamente aperto con le avvisaglie di un impero destinato a sbriciolarsi sotto i colpi dei sospetti e della disorganizzazione.

«Ci sono soldi, tantissimi - spiega Nicolas Anelka, giocatore e viceallenatore del Shanghai Shenhua - purtroppo manca tutto il resto. A partire dalla pianificazione. A volte non sappiamo a che ora ci si deve allenare. Ce lo comunicano all’ultimo momento, chiamando al telefono giocatore per giocatore. Lo stesso discorso vale per le trasferte. Qui le distanze sono davvero proibitive. Ci si muove con i treni ad alta velocità, ma spesso un gruppo arriva a destinazione con un convoglio e gli altri con quello successivo».

Le cause andrebbero ricercate nell’assenza di un direttore organizzativo, figura che a queste latitudini non è contemplata dai club. I club cinesi vivono su strutture molto snelle: un presidente, il direttore sportivo e l’allenatore, che in teoria dovrebbe occuparsi anche di faccende gestionali. «Si può risolvere qualsiasi cosa col denaro -aggiunge il fantasista argentino Dario Conca - però bisogna avere un minimo di criterio su come utilizzarlo e spenderlo. L’impressione che mi sono fatto dopo un anno è che ci sia tanta passione per il calcio unita a un dilettantismo esasperante». Conca per i 900mila che guadagna al mese nella squadra diretta da Lippi aveva rispedito al mittente le offerte di Arsenal, Siviglia e Lione. «Ora però ho chiesto al mio manager di prendere in esame qualche alternativa».

Drogba e l’argentino Leonardo Pisculichi si sono ad esempio lamentati della pulizia delle camere d’albergo. Hotel a cinque stelle spesso in condizioni igieniche piuttosto dozzinali. Walker, come già spiegato, ha lanciato l’allarme sulla genuinità dei cibi. Aspetto quest’ultimo che starebbe davvero scoraggiando alcuni tra i nuovi papabili pionieri. A partire dal centrocampista e leader del Chelsea Frank Lampard, che un pensierino sulla Cina l’aveva fatto. «È un vero peccato. Avevo ricevuto un’offerta dal Tianjin Teda che stavo valutando attentamente - rivela con un pizzico di amarezza - ma a queste condizioni non serve affatto prendere tempo. Conosco da una vita Ian (Walker) e non è una persona che si inventa le storie... Ho l’impressione che le cose da quelle parti non miglioreranno mai». Anche John Terry, altro papabile, ha risposto “no grazie” alle sirene provenienti da Pechino (sponda Gouan).

La Chinese Super League, fondata nel 2004, è dunque transitata dall’altare alla polvere nel giro di pochi mesi. Drogba, Conca e Anelka hanno le valigie pronte, ma non sono i soli. Con loro stanno per abbandonare il Paese anche l’ex ct della nazionale argentina Sergio Batista, l’attaccante maliano Kanouté e l’ex “pivote” del Barcellona Fábio Rochemback. Davvero un sogno in frantumi nonostante le risorse economiche illimitate dei vari Liu Yongzhuo (patron del team di Lippi) o Zhu Jun (l’uomo che aveva portato Drogba a Shanghai, strappandolo alla concorrenza di mezzo mondo), nuovi ricchi che non potranno fare altro che rivedere progetti e prospettive. Molto probabilmente finiranno per investire nel vecchio continente seguendo le gesta dei signori del petrolio. Se non altro in Europa la vita è davvero a prova di carne di cane spacciata per hamburger di manzo.

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