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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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CLUB/LIBRI di CLAUDIO LENZI (SPORTWEEK | 10 NOVEMBRE 2012)

Raffaele Cantone

Le mafie si battono

anche grazie a Cavani

IL MAGISTRATO, AUTORE DI FOOTBALL CLAN, CITA IL MATADOR

CHE, A DIFFERENZA DI MOLTI ALTRI BIG (MARADONA IN PRIMIS),

SI È FATTO RITRARRE CON I PARENTI DELLE VITTIME DELLA MALAVITA.

«LE SCOMMESSE? CRIMINOGENE, ANDREBBERO ABOLITE»

“La camorra non vale niente”. Stadio San Paolo,uno dei più simili a quelli colombiani secondo il procuratore aggiunto di Napoli, Giovanni Melillo. La squadra di Mazzarri ospita il Chievo e prima della partita un gruppo di ragazzi sfila in campo con questa maglietta: “La camorra non vale niente”. Sono alcuni parenti e amici delle vittime innocenti di mafia come Lino Romano, il giovane ammazzato per sbaglio il 15 ottobre scorso mentre andava a giocare a calcetto. Tra i giocatori che lo ricordano con un minuto di silenzio prima del fischio d’inizio c’è anche Cavani: il Matador siede affaticato in tribuna e fa di più, posando con loro in una foto che ben presto dilaga in Rete e in città. «Finalmente un calciatore consapevole dopo tanti, da Maradona a Cannavaro, passando per Hamsik, Balotelli e Lavezzi, che si sono fatti immortalare con boss camorristi. I clan campani amano ostentare, certi scatti sono come medaglie, per questo va sottolineato il gesto di Cavani». Rafaele Cantone, magistrato napoletano, ha condotto l’inchiesta sull’unico tentativo noto di scalata criminale a una squadra di serie A, quello dei casalesi alla Lazio. Con Football Clan, scritto assieme al giornalista Gianluca Di Feo, ci spiega perché il calcio è lo sport più amato dalle mafie.

Se fosse un imprenditore, oggi investirebbe nel calcio italiano?

«Per affetto, sì. È senza dubbio un importante strumento per farsi conoscere ma, valutati attentamente pro e contro, alla fine me ne guarderei. Purtroppo vige un sistema di illegalità difusa, la prova è il caso del calciatore Simone Farina, espulso dall’Italia perché si è messo contro(denunciò la combine per la partita Cesena-Gubbio del 2011 facendo partire la seconda tranche dell’inchiesta Last Bet, ndr)».

Il premier Monti invocò una sospensione dei campionati per due o tre anni. Un affondo necessario?

«È stata una provocazione presa sottogamba, i problemi del calcio sono noti e affrontabili. Parole e comportamenti di questo governo, però, non sono in linea se da una parte s’invoca lo stop e dall’altra si continua a mungere con le scommesse».

Meglio proibirle, come negli States?

«Ci sono tutta una serie di giocate live molto pericolose, che pagano meglio senza ricadute imminenti. Basti pensare a scommesse tipo: chi batterà il primo calcio d’angolo o chi verrà ammonito per primo, perfette per avvicinare i calciatori e corromperli oppure per mettere le mani sulle società come avviene al Sud. Le trovo criminogene, andrebbero proibite».

Le sanzioni, intanto, restano inadeguate. Un tempo era Maradona a godere di un’immunità sostanziale, oggi tutti i calciatori si sentono intoccabili.

«Il calcio è l’unico sistema in cui gli attori riescono a farsi perdonare qualsiasi colpa attraverso le prestazioni sportive. È vero, le sanzioni sono inadeguate e spesso colpiscono perfetti sconosciuti, ma non mi sento di condannare la giustizia sportiva, che senza poteri di indagine fa più di quanto dovrebbe fare. Ciò che non va è il criterio di contrattazione della pena. È successo nell’82 e nel 2006: per due volte l’Italia, vincendo il Mondiale, ha chiuso i suoi scandali con assoluzioni quasi plenarie. E la criminalità è avanzata».

È andato al San Paolo quest’anno? Le inchieste si susseguono.

«Non ancora, purtroppo. Il lavoro del Napoli per far capire da che parte sta è molto importante. Va detto che allo stadio c’è tantissimo entusiasmo e ci sono le frange criminali, che non esistono solo al San Paolo e sono una ristretta minoranza. I tifosi sani sono la vera parte offesa».

Prandelli sta provando a ricucire lo strappo. Gli chieda una cosa da fare.

«È giusto dare la maglia azzurra a chi la merita, ma serve più rigore. In occasione dell’Europeo sono state fatte scelte manichee, un giocatore colpito da avviso di garanzia è stato escluso e un altro è partito per la Polonia. Anche la vicenda Buffon va capita meglio. Che fine hanno fatto tutti i soldi consegnati alla ricevitoria di Parma? Prandelli deve insistere, rendere la casacca della Nazionale un simbolo di legalità. Dopo Rizziconi porti gli azzurri a Quarto, vicino Napoli, sul campo della prima società sportiva sequestrata ai clan e affidata a un’associazione anti-racket».

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La storia

Cannavaro: non ho palestre

e non offro posti di lavoro

Il capitano del Napoli: «La mia famiglia non gestisce centri a Soccavo»

art.non firmato (IL MATTINO 10-11-2012)

«Né io né mio fratello possiamo offrire posti di lavoro». Il capitano del Napoli, Paolo Cannavaro, ha approfittato dell’intervista su Radio Marte - emittente ufficiale del club - per un singolare chiarimento. Il difensore, rimasto a riposo nel match di Europa League contro gli ucraini del Dnipro, ha parlato del riscatto della squadra dopo la sconfitta di Bergamo e la deludente prestazione con il Torino, ma poi ha fatto una puntualizzazione: «Ci sono persone che credono che Fabio ed io siamo titolari della nuova struttura sportiva che sta sorgendo a Soccavo. C’è chi ci chiede informazioni per iscrivere i figli, altri si propongono per posti di lavoro... Ma la famiglia Cannavaro non c’entra in questa iniziativa, non so più come dirlo».

La voce si era diffusa nelle scorse settimane mentre procedevano i lavori per la realizzazione della struttura, che fa capo a un imprenditore impegnato nello sport, ma non collegato al capitano del Napoli né a suo fratello Fabio, il campione del mondo che si è ritirato dal calcio nell’estate 2011, a cinque anni dalla Coppa conquistata a Berlino con la nazionale azzurra. Un equivoco originato dalla vicinanza della struttura con il rione La Loggetta, dove i Cannavaro sono nati e dove tuttora abitano i genitori Pasquale e Gelsomina.

Fabio e Paolo hanno cominciato la carriera nelle giovanili del Napoli, frequentando il centro Paradiso di Soccavo. Entrambi hanno lasciato il club giovanissimi, per ragioni finanziarie, trasferendosi al Parma, quando era di proprietà di Tanzi. Al momento, i due fratelli Cannavaro non hanno intrapreso attività imprenditoriali a Napoli. Fabio è impegnato da dieci anni con l’ex compagno Ciro Ferrara in iniziative di solidarietà con l’associazione che porta i loro cognomi: vive prevalentemente a Dubai, ma le sue puntate in città non sono rare. «Ho pensato che fosse opportuno chiarire, non siamo i titolari della nuova struttura che sta sorgendo a Soccavo», la puntualizzazione via etere di capitan Paolo Cannavaro il giorno dopo la vittoria firmata dai quattro gol di Cavani.

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QUEL SILENZIO INUTILE E CAPRICCIOSO

di TONY DAMASCELLI (il Giornale 10-11-2012)

Ci risiamo con il silenzio stampa.

Roba arcaica, inutile, controproducente. La Juventus (chi?) decide di non presentarsi alla conferenza quotidiana, i cronisti se la godono, nulla cambia, i giornali vanno ugualmente in edicola, le notizie sui bianconeri circolano comunque e dovunque.

A che cosa serve, dunque, la presa di posizione juventina? A nulla se non ad accentuare un clima acido, pensate un po', che esiste tra la squadra campione d'Italia e ancora capolista e il resto della comitiva che ogni giorno segue allenamenti e trascrive frasi di repertorio. Non sono più i tempi di Allodi, di Boniperti e di Moggi quando, almeno, una voce sola si faceva sentire, furba, antipatica, arrogante ma espressione autorevole e unica della società.

Oggi chi è in grado di interpretare questo ruolo nel club di Torino?

Andrea Agnelli che è giovane e ancora inesperto di certi meccanismi e rapporti con la stampa sportiva, Antonio Conte però fermato dalla squalifica e dai fili scoperti di una tensione continua. Il resto non esiste, non ha carisma, non ha autorevolezza, non ha potere nemmeno nei confronti della squadra. La comunicazione del club è fallimentare, la società che conta più tifosi riesce a farsi del male da sola e questa ultima decisione, capricciosa e infantile, ne è la conferma.

Per fortuna poi esiste il campo, su quello parlano i calciatori, su quello la verità viene illustrata anche tra polemiche e contestazioni.

Bisogna saper vincere ma anche perdere. Bisogna soprattutto ricordarsi che i giornalisti, per fortuna di tutti, non giocano. Al massimo, per farsi riconoscere, festeggiano. Michel Platini, molto conosciuto a Torino, un giorno rivolgendosi agli inviati francesi che seguivano la nazionale disse: «Invece di criticarci dovreste ringraziarci. Vi abbiamo regalato trasferte in luoghi bellissimi che non avreste mai conosciuto, alberghi e ristoranti compresi. Altrimenti sareste rimasti a fotografare la tour Eiffel». Seguirono risate, applausi e brindisi. Pagati questi da Michel.

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Libero 10-11-2012

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CLAUDIO LOTITO

«Sono un presidente tifoso

e didascalico. E se serve

sono pronto per la politica»

«Petkovic è un poliglotta, ha statura morale e il fisico autorevole del capo»

«Mi chiamavano Lo Tirchio ma il fair-play finanziario l’ho inventato io»

«Lotito tifoso della Roma? Una menzogna, voglio vincere il derby con Klose»

di BORIS SOLLAZZO & FABIO LUPPINO (Pubblico 10-11-2012)

Villa San Sebastiano, Roma. Gran lusso, tante aquile di materiali vari e una voce, inconfondibile, che attraversa i muri. È Claudio Lotito che parla con chi è venuto a chiedergli udienza, risponde ai suoi quattro cellulari, e ci dedica due ore. Con tanto di intervallo per assistere in diretta a una discussione accesa e divertente (da spiare) sui diritti tv con Urbano Cairo. E alla base di tutto, una gran voglia di derby.

Confessi, cos’è per lei la stracittadina?

Il derby è un campionato nel campionato, soprattutto in una città come questa dove la rivalità è molto sentita: di simile, forse, c’è solo il palio di Siena, per coinvolgimento emotivo di un’intera città. C’è attesa e preoccupazione, ma non tanto per l’esito sportivo quanto per eventuali intemperanze della tifoseria. In passato sono avvenuti episodi deprecabili che spero non si verifichino più: voglio sentimenti e passione in campo, uno spettacolo di sport, pieno di valori positivi. Poi, certo, voglio vincerlo: voglio dare una grande gioia ai nostri tifosi: anche se siamo nella Roma dei panem et circenses, i momenti ludici sono sempre meno seguiti.

Sente la pressione? Anche a livello di classifica è una partita cruciale per la sua squadra

Nessun ridimensionamento in caso di sconfitta, nessuna esaltazione in caso di vittoria: il campionato è lungo, è illogico essere preda di certe emozioni. La verità è che ormai l’agnello sacrificale, la squadra materasso non esiste più: tu devi giocare al meglio, devi essere un collettivo coeso, determinato e un po’ cinico e, alla lunga, avrai quello che meriti. Credo in una Lazio vincente alla fine della stagione.

Superstizioni particolari per il derby?

Sono cattolico praticante, non mi vergogno di dire che vado a messa tutte le settimane, non credo in riti pagani, ma solo nella preghiera. Credo, piuttosto, nel lato escatologico della religione, nella Divina Provvidenza.

Il derby dello stadio lo vince lei di sicuro?

Non mi interessa arrivare primo, ma costruire una struttura che riassuma tutta la nostra lazialità, rappresentata da quei colori che sono quelli olimpici, da quel senso di appartenenza che non duri solo due ore, ma tutta la settimana, in un luogo da frequentare sempre. Così tutti avranno un’empatia maggiore con il club, con la sua storia, con tutta la lazialità e anche guardare una partita sarà molto più sicuro.

Vuole un clima sereno, ma punzecchia gli americani sulla loro “assenza”

Mai rimproverato la Roma, dico solo che con Rosella Sensi ha rappresentato per me e per tutti un interlocutore forte, un riferimento preciso di sentimenti e passioni che si perde nel momento in cui c’è un patron straniero e lontano. Ipotesi suggestiva, per carità, pure il Manchester Utd è nella stessa situazione. Ho detto una cosa ovvia: la Lazio ha un presidente che la rappresenta, la Roma un amministratore delegato. Non è la stessa cosa. Un presidente e proprietario, odiato o amato come me, non è come un manager. Ma la loro struttura ha di sicuro altre qualità, non ne dubito.

È vero che lei prima del 2004 era romanista?

Questa è una menzogna. Nata per screditarmi agli occhi della tifoseria, per sottolineare un mio scarso attaccamento alla maglia, legato alla Lazio. Un attacco proditorio per sminuirmi. Sono tifoso della Lazio e sono orgoglioso di essere a capo della mia squadra del cuore, la prima e unica per cui abbia mai tifato. Mio suocero è stato comproprietario della Roma, mio cognato amministratore delegato dei giallorossi (la signora Lotito, da nubile faceva di cognome Mezzaroma). E a volte sono andato a vedere la Roma con loro, proprio come il padre di mia moglie, per amore del nipote, ora fa con la Lazio. E quasi si sta convertendo al biancazzurro, peraltro.

Com ’è iniziata quest’avventura?

Nel 2004 misi nella Lazio 25 milioni di euro per il 21% - ora ho il 67% - e trovai un buco di 550. L’ho appianato ottenendo grandi risultati: una coppa Italia, una Supercoppa italiana, qualificazioni in Champions League e in Europa League. Ho dato valore al marchio Lazio, che porta una decina di milioni di euro l’anno con la società Lazio Marketing, a cui fa riferimento il giornale, la radio, la tv. L’ho portato a bilancio per 150 milioni di euro - qui nessuno ci aveva mai pensato! - ho chiuso una trattativa con il Fisco che ha tolto altri 150 milioni di debiti con l’Erario. E ci tengo a dire che noi della Lazio abbiamo sempre pagato in anticipo le rate - e ne sono fiero, trovo che sia un rispetto necessario per la cosa pubblica -, e a chi critica il nostro calciomercato dico: pensate che ogni anno tiriamo fuori sei milioni di euro, è come se ogni stagione comprassimo un giocatore di medio-alto livello. Per non parlare dei primi anni e del piano Baraldi: pagavo due rose. A questo ho risposto con i parametro zero, i prestiti con diritto di riscatto, tante idee nuove per fare calcio e imprenditoria in modo diverso. E allora non mi capivano, perché erano legati a vecchi schemi, ricordo ancora le prese in giro, come storpiavano il mio nome: Lo Tirchio, mi definivano. Ora, però, tutte le squadre fanno come noi. E vendono, mentre noi compriamo. Tutti, nel 2004, pensavano che la mia fosse una sfida impossibile: salvare la Lazio è stato come praticare uno sport estremo. Alcuni, anche in Consob, pensavano che io stessi facendo solo del maquillage, ma la mia era una riforma strutturale rivoluzionaria.

Cosa la colpiva di più di questo mondo?

Quando sono arrivato, trovavo folli gli esborsi che si facevano, l’assoluto squilibrio tra uscite faraoniche ed entrate limitate. Mi risposero che s’era sempre fatto così. Consuetudo magna vis est, l’abitudine diventata norma. Ma oltre all’elemento emotivo, sentimenale, passionale, empatico, c’è anche quello economico,non dimentichiamo che la Lazio è una società quotata. Quindi devi cercare il risultato sportivo ma anche di far quadrare i bilanci. In base a questo mi sono definito un presidente tifoso e non un tifoso presidente: a rovinare il calcio, a portarlo in difficoltà, sono stati quelli che hanno scelto di essere prima tifosi e poi presidenti. Del fair play finanziario, circa otto anni fa a Montecarlo, parlai in tempi non sospetti, quando ancora si voleva vincere a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Molti erano perplessi, subii molte critiche e contestazioni, anche perché volli una trasparenza di gestione totale, che non avesse ingerenze di esterni, fossero pure i tifosi.

Di lei dicono che sia un cagnaccio, in tutte le trattative: dai calciatori ai diritti televisivi

Sono leggende metropolitane, sono semplicemente uno che apprezza i suoi giocatori, che ama la propria squadra e non vuole che venga svalutata in nessuna delle sue parti. Forse un po’ di merito va anche ai miei studi: pedagogia con indirizzo psicologico. Spesso capisco il valore di un giocatore parlandoci, sapete quanti ne ho mandati via quando ho capito che non avevano le qualità necessarie per un uomo e un atleta di alto livello? Anche da qui vengono affari come quelli di Lichtsteiner e Kolarov, presi per qualche centinaio di migliaia di euro e venduti per 10 e 21 milioni di euro. O la cessione di Oddo, gran giocatore, per 12 milioni di euro. Quando parlo con qualcuno, capisco il suo carattere, la sua voglia di impegnarsi, la sua capacità di stare nel gruppo. È la mia forma mentis. In ogni caso sulle cessioni vale sempre il solito vecchio detto «pagare moneta, vedere cammello». Ma non prevarico nessuno nelle trattative, rispetto sempre chi ho di fronte.

Ma qualcuno ne ha sbagliato, come Carrizo

Un ragazzo straordinario e un grande portiere, come ha dimostrato a Catania. Non tutti, però, purtroppo, si ambientano bene. Penso anche ad Eliseu, ho sempre creduto in lui, spesi un milione per portarlo a Roma. Lo staff tecnico non ci credeva, ma io sì: e quello che sta facendo a Malaga lo dimostra. Penso anche a Diakitè e Kozak: uno dei miei allenatori, non vi dico quale, diceva che non potevano giocare neanche in primavera. Io gli ho detto: «fermo là, questi rimangono in prima squadra». Perché il calciatore va valutato nella sua interezza di essere umano: dalla sua voglia di emergere alla sua fisicità, oltre all’aspetto prettamente calcistico. Mi sembra che avessi ragione io. Per arrivare nella Lazio, l’ho sempre detto, servono tre requisiti: potenzialità atletico-agonistica, moralità e compatibilità economico e finanziaria.

Così è arrivato anche a Petkovic?

Su Petkovic scrissi in un editoriale le motivazioni che mi hanno portato a sceglierlo, quando ancora era uno sconosciuto per tutti. Di lui apprezzo la statura morale: il volontariato alla Caritas per quattro anni non è certo un’esperienza comune nel mondo del calcio. Poi è poliglotta: sembra una stupidaggine, ma è importante, sa parlare a tutti i giocatori, li fa ambientare subito, con lui si sentono a casa. E poi ha un grande carattere e, ti dirò, quell’imponenza fisica che gli dà un’autorevolezza diversa rispetto a uno mingherlino: ha il fisico del capo.

Ideale per il suo calcio didascalico e moralizzatore. Ma poi lei cosa intende con didascalico?

Didasco, come vi ricorderete, vuol dire insegno. E io voglio che il nostro calcio insegni ai giovani a essere migliori, voglio che vedano in noi degli esempi. Come nel caso di Klose: ma lei lo sa che tornando dalla nazionale lui si allenò con la Primavera - la prima squadra aveva già finito - e dopo aver fatto tutto quello che facevano i giovani compagni, quando i ragazzi tornarono negli spogliatoi lui raccolse tutti i palloni e li mise nella sacca? Me lo raccontò l’allenatore. Uno così è un uomo di altissimo livello, un campione sul campo e nella vita.

Certo le costa un po’ la sua pratica del ghiaccio, novità che ha portato lui alla Lazio

Non so quanto costi, onestamente, ma è una pratica antica, in Scandinavia lo fanno spesso, prima bagno gelato e poi sauna. Ho studiato medicina, la conoscevo da tempo, mica se l’è inventata lui. Pure le spade vengono temprate con caldo e freddo. Miroslav è la nostra spada.

Per lei la moralità è fondamentale. Che dolore è, per lei, essere coinvolto in vicende come quella del calcioscommesse?

Nè io nè la Lazio siamo coinvolti, se vi riferite alla vicenda Erodiani, quello è fuori dal mondo, è un “si dice”, neanche un “dicono”, la differenza che i latini esprimevano con dicitur e dicunt. Io posso pure dire che lei, Boris, ieri sera era a Napoli a fare una rapina, ma poi questa dichiarazione dev’essere suffragata da prove. Francamente, poi, non ho mai giocato una schedina, non so neanche come si scommetta. Ed è ancora più ridicolo, per chi mi conosce: io che non ho alcun intermediario in nessuna mia attività, prendo uno sconosciuto per qualcosa di così delicato? Mi crea malessere quest’ingiustizia, mi avvilisce vedere come persone di scarsa qualità mentano per difendersi o magari, semplicemente, per la filosofia del mal comune, mezzo gaudio. Oppure devo pensare che ci sia una strategia e un regista?

Ci sarebbe un complotto contro la Lazio?

Non credo nella dietrologia, ma non posso non notare una strana coincidenza di tempi di certi fenomeni. Non mi interessa analizzare le ipotesi, ma riflettere su ciò che so. E conosco me stesso, quindi non ho problemi. Mi preoccupa però che questo mondo viva di sentito dire e non di fatti: è un sistema sbagliato che mina da sè le sue fondamenta, perché spesso le persone che ne fanno parte non hanno il retroterra culturale e imprenditoriale necessario a un mondo così complesso. Quando succedono certe cose, ammetto di non riconoscermi nel calcio

Tutto ciò vale anche per Stefano Mauri?

Per quanto riguarda Mauri, mi sembra un giocatore molto sereno, senza alcun peso. Lo capisci se uno è preoccupato, se ha una colpa da nascondere, anche se come me non sei entrato con lui nello specifico di ciò che gli viene contestato. Non vedo retropensieri in lui, poi certo ho visto anche condannare innocenti. In ogni caso questa è una vicenda che afferisce la sfera personale di Mauri, la Lazio è totalmente estranea a qualsiasi possibile addebito.

Mago dei bilanci, mette al centro la questione morale. In politica sarebbe molto utile, lo sa?

Non è mai stato un mio obiettivo, ma per il mio background umanistico ho un forte senso della polis. Sono entrato nella Lazio per il senso di responsabilità verso quel territorio che tante opportunità mi ha dato. Potevo restituire qualcosa a migliaia di persone e l’ho fatto. Se me lo chiedessero, per spirito di servizio, darei un contributo. Per un progetto, non per ambizione personale. In un momento di decadimento morale, istituzionale, economico è un’impresa impossibile, di quelle che piacciono a me. Il mio motto è non mollare mai, proprio come recita un verso dell’inno della Lazio.

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La cura Macalli non è sufficiente

Il calcio soffre

perché ha troppe squadre

In Italia sono 111 le società professionistiche contro le 92 inglesi e le 56 tedesche

IL CONFRONTO In Spagna le leghe prof hanno appena 42 società. Siamo in sovrappeso rispetto a tutta Europa. Con effetti disastrosi

LA SCADENZA Più debiti, meno investimenti meno pubblico e stadi vecchi. Nel 2014 i club saranno ridotti ma è una misura insufficiente

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 10-11-2012)

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L’Europa ci conforta a livello di risultati ma non occulta completamente i problemi di un Sistema che essendo troppo “grasso” fatica a tenere il passo dei più diretti concorrenti e vede, nel frattempo, affacciarsi sul palcoscenico nuovi protagonisti. Nei giorni in cui Juventus, Milan, Inter, Lazio, Napoli e Udinese si confrontavano in Champions ed Europa League, dalla sede della Federazione rimbalzava la notizia di un accordo tra Lega Pro e Associazione calciatori che consentirà a partire dal 2014-2015 il varo di un unico campionato di C (usiamo per comodità la vecchia formula lessicale) con la contemporanea riduzione a sessanta del numero delle squadre organizzate dalla struttura presieduta da Mario Macalli. Nelle lodevoli intenzioni di tutti i protagonisti, a cominciare dal presidente della Federazione, Giancarlo Abete, che si è speso in una non semplice mediazione, questa soluzione dovrebbe mettere il Sistema in sicurezza: niente più stipendi non pagati, versamenti Irpef “dimenticati”, club falliti.

Sarà vero? E’ immaginabile che il sistema calcistico italiano ritrovi il suo equilibrio con tre gironi di Prima (e unica) divisione, una B ridotta a venti squadre e, semmai, una A a diciotto? L’impressione è che ci voglia qualcosa di più, anzi molto di più. E’ il sistema professionistico nel suo complesso che andrebbe ridisegnato ma per farlo, i dirigenti calcistici dovrebbero ritrovare la voglia (e l’estro) per immaginare il futuro. Una cosa è certa: il nostro calcio è in sovrappeso, soprattutto se si mette in relazione il numero delle squadre professionistiche con altri numeri che illustrano la società nel suo complesso.

LEADER - Siamo primi su quel fronte: l’affollamento degli organici che promettono di restare tali anche nel 2014-2015. Soprattutto nel confronto con i nostri più diretti concorrenti. Al momento il calcio professionistico italiano è popolato da 111 squadre; in Europa solo in Turchia ne hanno di più: 126. Persino la sterminata Russia è sul nostro livello (111 esattamente come noi). L’Inghilterra ne ha novantadue (ma poi bisognerebbe prendere in considerazione anche la Scozia), la Germania cinquantasei, la Spagna quarantadue e la Francia quaranta. Le 111 squadre (o anche “appena” cento) da cosa sono giustificate? Dalla ricchezza del Paese? Nel 2010 dal punto di vista del Pil eravamo dietro Germania (duemila miliardi e trecento milioni di euro), il Regno Unito e La Francia. Dalla popolazione? In Germania abitano quasi 82 milioni di persone, in Francia sessantacinque e mezzo, in Italia 60 milioni e 626 mila. Dai ricavi? Il calcio di vertice in Inghilterra (la Premier) incassa oltre due miliardi e mezzo di euro, la Bundesliga un miliardo e 643 milioni, la Liga un miliardo e 640 mila e noi siamo soltanto quarti. Dagli stadi pieni? In Premier nel campionato 2010-2011 le presenze hanno sfiorato quota 13 milioni e mezzo e in Bundesliga con quattro partite in meno rispetto all’Italia si sono attestate quasi sullo stesso livello inglese. E l’Italia? Non è arrivata a nove milioni (i dati sono relativi ai campionati 2010-2011).

FUTURO - Insomma, non un solo “indicatore” giustifica questo (quasi) primato dal punto di vista degli organici del calcio professionistico, non un valore ancorato alla realtà dei fatti induce a ritenere che i problemi sin qui vissuti possano essere di colpo risolti con un “piccolo” taglio. La Federazione e le Leghe sembrano muoversi in una logica ormai vecchia, superata dai tempi: si sono mosse troppo lentamente nel passato e il mondo è andato molto avanti. L’impressione è che la distribuzione delle attuali risorse da un lato non garantiscano a tutti la sopravvivenza e dall’altro limitino enormemente il calcio italiano nel confronto concorrenziale a livello europeo. A volte il futuro nasce dal passato. Questa non è più l’Italia opulenta di qualche anno (o decennio) fa. La soluzione dei problemi deve essere complessiva, non può procedere per “pezzi”, in maniera disarticolata. Bisognerebbe far marciare contemporaneamente la riforma dei campionati con la riforma della Legge 91, immaginare un sistema con una “testa” (il livello professionistico) molto asciutta e la creazione (attraverso la riforma della Legge 91) di un sistema semi-professionistico (e al di sotto di quello un reale dilettantismo). Ma ci vorrebbe coraggio. E come diceva Don Abbondio: se non ce l’hai non te lo puoi dare.

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IL PARADOSSO

Dalla A alla serie B

alla Lega Pro

riforme scollegate

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 10-11-2012)

Alla meta in ordine sparso. Nel passato le riforme dei campionati nascevano dal confronto tra le diverse leghe. Ora ognuna va per proprio conto. Un grave segnale di incomunicabilità. La Federazione non riesce più a essere il luogo in cui gli interessi di parte si trasformano, fondendosi, in un interesse comune. La Lega Pro ha provveduto a mettere nero su bianco la riforma del proprio campionato (dovrà essere ratificata dal Cf del prossimo 21 novembre). Ma nel frattempo anche nelle due serie superiori si discute del problema. Si corre il rischio che non vi sia una sintesi o che questa sintesi sia preceduta da un confronto conflittuale.

Da tempo, ad esempio, la serie B ha annunciato di voler tornare a venti squadre. Probabilmente sarebbe stato opportuno coordinare i due aspetti del problema perché se è vero che dalla Prima divisione qualcuno sale è anche vero che dalla categoria immediatamente superiore qualcuno scende. La Lega presieduta da Andrea Abodi vorrebbe chiudere la partita in concomitanza con la Lega Pro ma per farlo ha bisogno di capire quante squadre potranno retrocedere per raggiungere il numero finale desiderato. Nel frattempo qualche voce ha cominciato a sollevarsi anche in serie A: l’ipotesi di un ritorno a diciotto viene ventilata con grande circospezione perché questo è un nervo estremamente scoperto e la Lega rischia una spaccatura difficilmente componibile.

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MICHELE UVA, DIRETTORE DELL’UFFICIO STUDI FIGC

«Adottiamo anche in Italia

il fair play finanziario Uefa»

«Ridurre il numero dei club può essere utile ma senza altre misure non si recupera qualità»

«L’80 per cento degli introiti viene dai diritti tv Mancano gli stadi nuovi, grande forma di ricavi»

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 10-11-2012)

«Si possono avere anche duecento squadre purché tutte rispettino un principio: i costi non devono mai superare i ricavi».

Michele Uva è un dirigente sportivo giovane ma per attività ormai di lungo corso. In questo momento dirige l’ufficio studi della Figc e negli ultimi anni si è dedicato all’analisi dei problemi e delle difficoltà del calcio italiano. Qualche anno fa ha dato alle stampe il libro “la ripartenza”; a giorni approderà in libreria praticamente il “sequel” scritto sempre insieme a Gianfranco Teotino ed edito da Arel-Il Mulino. Il titolo è significativo: “Il calcio nell’éra dello spread”».

Esiste uno spread anche sul fronte del numero delle squadre professionistiche: siamo i più “ricchi” d’Europa...

«No, non i più ricchi: la Turchia ha centoventisei squadre».

I nostri concorrenti più diretti hanno un sistema professionistico decisamente più asciutto. Possiamo immaginare di reggere con questi numeri?

«Si può reggere anche con duecento squadre se tutte, però, rispettano la regola che le uscite non devono superare le entrate. Il financial fair play varato dall’Uefa potrebbe essere introdotto anche in Italia, semmai non in maniera pedissequa. I principi, però, quelli sì, quelli vanno ripresi e replicati».

Le risorse non sono illimitate e il nostro Modello sembra “tarato” su un’Italia che non c’è più. In Germania le squadre sono cinquantasei. Una cura dimagrante non sarebbe utile?

«In assoluto direi di sì ma poi vale lo stesso discorso che viene fatto in questi giorni a proposito dell’uscita dalla crisi. Possiamo anche metterci a dieta ma la scelta potrebbe rivelarsi inutile sul fronte della competitività internazionale. La realtà è che da un lato dovremmo dimagrire ma dall’altro dovremmo spingere sullo sviluppo. Il Barcellona negli ultimi anni ha triplicato il suo fatturato, le squadre italiane non hanno aggiunto un euro».

Ciò non toglie che il sistema sia figlio di un benessere che si è attenuato.

«Il benessere negli ultimi dieci anni è stato prodotto solo dai diritti televisivi: l’ottanta per cento dell’aumento del fatturato realizzato in questo periodo viene di lì. Però quasi tutto questo incremento è finito in salari e stipendi».

In questa situazione forse sarebbe utile trarre lezione dal passato.

«E’ utile studiare il passato ed è utile studiare le esperienze degli altri».

La reintroduzione del semiprofessionistmo come la vede?

«Io credo che il futuro possa nascere solo combinando diversi elementi. La questione che lei solleva richiama la riforma della legge 91 che, al momento, non prevede il semiprofessionismo. Da tempo viene sollecitato un ammodernamento di questo provvedimento. Ma bisognerebbe introdurre anche in Italia i meccanismi Uefa del financial fair play. Così come sarebbe utile una legge per la costruzione dei nuovi stadi, una fonte di ricavi che al calcio italiano manca».

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IL SOGNO ROSSONERO

LA PREMESSA I CUGINI NERAZZURRI PUNTANO A COSTRUIRE UNA PROPRIA ARENA ANCHE CON L’AIUTO CHE DOVREBBE VENIRE DA NUOVI SOCI

L’IDEA IL CAMPO STORICO RESTEREBBE NELLE MANI DEL CLUB DEL DIAVOLO E NECESSITEREBBE DI LAVORI

IN BREVE ADEGUARE GLI STANDARD PER OTTENERE LA MASSIMA OMOLOGAZIONE UEFA

IN FUTURO OTTENERE DI OSPITARE LA FINALE DELLA CHAMPIONS LEAGUE ENTRO IL 2016,MA NON NEL 2015

Meazza, una nuova veste

per la casa del Milan

«Più servizi, meno posti»

Galliani: ma taglieremo i prezzi dei biglietti

di GIULIO MOLA (IL GIORNO 10-11-2012)

«Benvenuti nella casa del Milan!» è lo slogan urlato a squarciagola dallo speaker rossonero Gegio Lanzoni prima di ogni partita casalinga di Pato e soci. Niente di più vero, visto che, almeno per il prossimo lustro, San Siro resterà il fortino del club più titolato al mondo. Parola di Adriano Galliani il quale, davanti ai numerosi partner commerciali della società, ha annunciato importanti novità che riguardano lo stadio. L’imponente struttura, infatti è pronta a cambiare look in vista di Expo 2015 e della finale di Champions «più del 2016 che del 2015», precisa l’ad del club rossonero. Quali dunque i lavori di ammodernamento per rendere più accogliente San Siro? Galliani li ha snocciolati uno per volta, illustrando tempi e dettagli del nuovo progetto: «Intanto, dopo aver già inaugurato un’altra sala executive nella prossima estate creeremo altri lounge e box e poi rimodelleremo i gradoni del settore arancione per uniformarli a quello rosso». Tempi lunghi invece per la nuova sala stampa: attualmente i giornalisti sono ospitati in un accogliente container all’esterno dell’impianto, entro 2 anni torneranno al primo piano. Ma uno degli interventi più importanti, e che consentirà alla stadio di rientrare nella categoria élite dell’Uefa, riguarda i servizi igienici: «Nel 2015, o al massimo nel 2016, San Siro dovrà tornare in questa categoria d’eccellenza, e perciò a fine campionato faremo un importantissimo lavoro per la creazione di batterie di servizi, destinati in particolar modo al pubblico femminile», promette Galliani. A proposito di tifosi. È intenzione della società di ridurre leggermente la capienza, «dagli attuali 82mila spettatori ad un massimo di 72-73mila, con l’idea di dedicare il primo anello alla corporate degli sponsor. Però abbasseremo ulteriormente il prezzo del biglietto e allo stesso tempo crescerà la sicurezza: lavoriamo molto con gli steward». Ma siccome San Siro sarà più che mai luogo destinato alle famiglie e più facilmente raggiungibile visto che è confermata la presenza di una fermata della metropolitana, vanno sottolineate altre iniziative: «Stiamo raddoppiando anche l’area negozi e il museo di San Siro - spiega il dirigente -. Faremo, inoltre, una costruzione che ospiterà il commerciale e altro attorno alla recinzione dello stadio, che sarà accessibile tutti i giorni». In attesa di investitori esteri e di uno stadio di proprietà, già questo è un bel passo avanti.

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IL TRASLOCO IN VISTA

Via Turati addio

Caccia alla sede

in zona Portello

di GIULIO MOLA (IL GIORNO 10-11-2012)

La firma sui contratti ancora non c’è (probabilmente una locazione in affitto con riscatto prefissato), ma la notizia di un trasloco della sede del Milan è molto più di un’idea. In fase parecchio avanzata. L’annuncio è atteso nei prossimi mesi, ma sembra ormai certo che entro il 31 dicembre del 2013 la società rossonera cambierà quartier generale: lascerà, infatti, la storica sede di via Turati acquisita nel 2004 (ma abitata in affitto dal 1966) da Marco Tronchetti Provera e andrà ad occuparne un’altra, ben più grande, in una zona più periferica. Si chiamerà Palazzo Milan, e pare che del progetto se ne stia occupando Barbara Berlusconi in persona dopo averne discusso con il padre Silvio e l’amministratore delegato del club Adriano Galliani.

Ancora Però non si sa dove sarà ubicata la nuova sede del Milan, perché si stanno visionando un paio di location in più dopo averne già guardate altre. Alcune sono già pronte, altre in costruzione. Ma l’edificio assolutamente avveneristico, sempre aperto e che disporrà pure di musei con tutti i trofei da far ammirare ai tifosi, negozi (compreso un gigantesco store milanista) e ristoranti dovrebbe essere scelto in zona Portello (considerata la vicinanza a San Siro), ex Fiera o Milano City Life. Insomma, il modo migliore per proiettare la squadra rossonera nel futuro; una scelta di business ma pure di immagine e che accosterebbe il club di proprietà della famiglia Berlusconi alle più importanti società europee come Barcellona e Real Madrid, che grazie anche a questo tipo di operazioni riescono a trarre introiti importanti. Va ricordato che l’altra importante proprietà immobiliare del Milan è il centro sportivo di Milanello a Carnago, una manciata di chilometri da Varese. Oltre ad alcuni appartamenti in prestigiose zone di Milano (esempio Ippodromo) dove abitano alcuni campioni rossoneri. Ma per tutti, a cominciare da Silvio Berlusconi, evidentemente sono gli oltre 2mila metri quadrati della sede di via Turati (destinati a diventare appartamenti superlusso) quelli che cominciano a diventare troppo stretti...

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L’AREA ATTORNO ALL’IMPIANTO

E la società punta lo sguardo sul Trotter

di LUCA GUAZZONI (IL GIORNO 10-11-2012)

Non Solo Stadio e sede sociale. È soprattutto l’area circostante San Siro a catturare le maggiori attenzioni da parte della dirigenza rossonera. Il Trotter in particolare. Lo ha ammesso persino Galliani («Il nostro sogno è di poterla acquisire per farne qualcosa di sinergico allo stadio», ndr), confermando le voci che circolavano da qualche tempo. È proprio nell’area dell’Ippodromo che si giocherà il tavolo più importante per il futuro economico del club. Un progetto ambizioso che potrebbe attrarre quindi nuovi investitori (arabi in primis, russi in seconda battuta), sulla falsa riga di quanto fatto dal “cugino” interista Massimo Moratti - capitali freschi dalla Cina per costruire il nuovo stadio -. Le idee frullano in testa, studiando il meglio che c’è in Europa. Quest’estate la società è rimasta ammaliata dalla Veltins-Arena di Gelsenkirchen, piccolo gioiello di architettura tedesca. Ha ammirato soprattutto l’hotel antistante lo stadio: comfort e lusso a due passi dalla partita. Una maniera molto raffinata per ospitare gli avversari ma soprattutto per accogliere i tifosi più abbienti e prestigiosi.

L’ipotesi albergo resta una viva priorità, ma di pari passo corre la costruzione di un vero negozio ufficiale che affiancherebbe i Milan Point sparsi per il centro. L’Old Trafford resta il totem al quale ispirarsi. Dopo aver “copiato” dall’impianto di Manchester il sistema di illuminazione dedicato al campo di gioco, è finito nel mirino anche il suo megastore monomarca Nike (spazio che l’azienda americana paga 25 milioni di sterline all’anno). Il Milan a tal proposito avrebbe già parlato con Adidas per proporre un piano analogo, trovando grande interesse da parte del suo storico sponsor tecnico che sarebbe ben lieto di contribuire.

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Il futuro dei fischietti Si chiude la vicenda con Boggi. Il presidente corre per il quarto mandato

La Figc archivia il «caso»

Nicchi: oggi elezioni arbitri

di PAOLO FRANCI (Quotidiano Sportivo 10-11-2012)

Marcello Nicchi contro Robert Anthony Boggi. La sfida al veleno per la poltrona di presidente dell’Aia è giunto all’ultimo atto: oggi, in un hotel di Fiumicino, andranno in scena le elezioni per il numero uno dei fischietti. Lo sfidante, Boggi, attuale osservatore della Can A, negli ultimi mesi aveva lanciato accuse intrise di veleno a Nicchi (foto), secondo le quali l’attuale presidente avrebbe usato metodi poco democratici nelle procedure elettorali, arrivando addirittura a intimidire tre dirigenti Aia per convincerli ad appoggiarne la riconferma. La vicenda, rimbalzata sui giornali, era poi finita sul tavolo del procuratore federale Stefano Palazzi che aveva aperto un inchiesta, chiusa ieri con l’archiviazione, «non essendo emersi fatti di rilievo disciplinare». Nicchi aveva replicato alle accuse di Boggi definendole «infondate e infamanti» e, sulla chiusura dell’inchiesta di Palazzi ha commentato: «Sono concentrato sulle elezioni. La cosa però non mi sorprende, ho la massima serenità». Nella corsa al futuro designatore — la scelta è prerogativa del presidente — Braschi ha le chance per ottenere il quarto mandato, ma sullo sfondo si staglia netta la figura di Stefano Farina.

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IL NUOVO MEAZZA Uno stadio aperto ogni giorno con musei, store e ristoranti

IL PROGETTO Un investimento da 15 milioni

Ristoranti e negozi sempre aperti

Ecco come sarà il nuovo San Siro

Entro il 2015 il Meazza diventerà uno stadio accessibile tutta la settimana

Megastore per Milan e Inter, più spazio al museo e alle attività commerciali

]OBIETTIVO Fra tre anni l'impianto potrebbe ospitare la finale di Champion's

COMODITÀ Poltrone riscaldate, monitor, 6 sky lounge e bagni rinnovati

LAVORI Con la riqualificazione di San Siro si ridurrà di oltre lomila posti la capienza dello stadio

Gian Piero Scevola - Il Giornale/Milano 10-11-2012

Adriano Galliani ha sferrato un bel colpo a Massimo Moratti anticipando, cosa che avrebbe-rovoluto (e forsedovuto) fare insieme, che San Siro cambierà faccia. Con Moratti ancora impegnato nella ricerca dell'area per la costruzione dello stadio di proprietà dell'Inter (50/60mila posti, costo 200/250 milioni) previsto per il 2017, grazie anche all'ingresso nel cda nerazzurro dei nuovi soci cinesi, Galliani hapreannunciato operee interventi di riqua-lificazionefunzionaleoltreain-novazioni per rendere San Siro non solo più bello, ma soprattutto più accogliente e vivibile 7 giorni su 7. Con il sogno di poter utilizzare presto il Trotter e bonificare l'area dell'ex Pala-sport. Anche perché, uno stadio abilitato per 85.700 persone, di cui 80.018 con posti a sedere, secondo solo al Nou Camp del Barcellona, non può essere considerato dall'Uefa di seconda fascia, non può non fregiarsi di quel titolo di «elite» che accompagna gli impianti idonei ad ospitare l'evento più importante del calcio europeo: la finale di Champions. Via allora a un piano di ristrutturazione e di restyling che permetterà al Meazza, ridotto a 72.000 posti, di ospitare la finale più ambita nel 2016 e non nel 2015 perché l'Uefa tende a non inserire mai quella partita in un contesto di altre manifestazioni. E nel 2015 Milano ospiterà l'Expo, quindi finale all'anno successivo (come promesso da Platini).

Rinnovamento che avrà costi rilevanti divisi tra Milan e Inter cheperl'affittopaganogiàalComune 8 milioni annui fino al 2030 tramite la società M-I Stadio che ha preso il posto del Consorzio San Siro 2000. Da considerare però che il 70% dell'affitto viene investito dalla pubblica amministrazione in opere di ammodernamento, le stesse enunciatedaGalliani nella Sponsor night rossonera, con un costo globale nei prossimitreannidi 15 milioni (E il Comune ne guadagnerà nove).

Vediamole allora queste novità: risanamento della copertura e rifacimento del controsoffitto e delle rampe di accesso del secondo anello; realizzazione di nuova segnaletica dello stadio; nuovo centro di controllo per la sicurezza interna ed esterna; rifacimento dei servizi igienici dei tre anelli (il vero punto debole dove l'Uefa si era messa le mani tra i capelli). E poi: realizzazione di 6 Sky lunge (3 per curva) nel primo anello rosso ed altrettanti per l'arancio , oltre ai 6 e ai 15 Skybox già esistenti nel rosso; riammodernamento sala executive sottotribuna anello arancio; poltrone riscaldate con monitor in tribuna d'onore e in tutti i settori rosso e arancio, box e lunge compresi; raddoppio spazio per il Museo di Intere M ilan, nuovo avveniristico store per i due club, un ristorante per tutte le tasche, 3.500 mq destinati ad attività commerciale e prezzi biglietti più bassi in alcuni settori. L'intento è quello di mettere il primo anello a disposizione degli sponsor per lanciare il «progetto famiglie»: tutti al Meazza tre oreprimadellapartitaperdivertirsi non solo con il calcio.

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Andrea Rota: "Ecco cosa rischiano le società col Fair Play"

Davide Terruzzi - tuttojuve.com -10-11-2012

Che cos’è il Financial Fair Play?

Il Financial Fair Play è l’istituto che l’UEFA, il massimo organismo calcistico europeo, ha introdotto per cercare di garantire una generale stabilità economica al calcio continentale.

L’UEFA con questo istituto ha imposto ai club europei la condizione che, per partecipare alle proprie competizioni, essi debbano rispettare alcuni parametri finanziari fondamentali.

Financial Fair Play significa infatti giocare in modo corretto dal punto di vista finanziario: il gioco corretto si sviluppa rispettando le regole finanziarie definite dall’UEFA (contenute nel regolamento “UEFA Licensing and financial fair play regulations”).

Quando troveranno applicazione le regole sul Financial Fair Play imposte dall’UEFA?

Il primo periodo di monitoraggio riguarderà i dati finanziari consuntivi delle stagioni 2011/12 e 2012/13, mentre dal secondo periodo in poi saranno considerate tre stagioni (il secondo periodo ad esempio terrà contro delle stagioni 2011/12, 2012/2013, 2013/2014).

La stagione 2013/2014 sarà la prima stagione in cui l’UEFA verificherà l’effettivo rispetto di tutti parametri del Financial Fair Play da parte dei club. La stagione 2014/2015 sarà la prima stagione dove saranno applicate le sanzioni previste dall’UEFA per la violazione del regolamento. A titolo esemplificativo, se nella stagione 2013/2014 i parametri finanziari del Real Madrid, a livello aggregato (consuntivo 2011/12 e 2012/13), non rientreranno nelle condizioni imposte dell’UEFA, quest’ultima imporrà al Real Madrid gli opportuni provvedimenti disciplinari nella stagione 2014/2015.

E quali sono i parametri finanziari previsti dal regolamento UEFA che i club dovranno rispettare?

I principali parametri finanziari declinati dall’UEFA sono quattro:

1) Bilancio di esercizio certificato da un revisore esterno;

2) Patrimonio Netto non negativo;

3) Indice di break even nei 2 anni precedenti o per 3 anni a livello cumulato che rispetti i criteri UEFA (prima stagione inclusa nel monitoraggio: 2011/2012);

4) Nessuna problematica di debiti scaduti verso altri club, il Fisco e/o i propri Dipendenti.

L'UEFA potrà richiedere anche maggiori approfondimenti ed analisi su club che presenteranno:

5) Costo dei dipendenti (in gran parte rappresentato dal “Monte Ingaggi”) superiore al 70% del Fatturato

6) Posizione Finanziaria Netta (indebitamento di natura finanziaria al netto della liquidità o cassa) superiore al Fatturato

Se il club non rispetterà almeno uno di questi parametri, sarà considerato inadempiente il regolamento UEFA e quindi soggetto a possibili provvedimenti.

Quali sono tra questi parametri quelli da comprendere meglio secondo Lei?

Sicuramente l’indice di “break even” è quel parametro per cui è necessaria una maggior chiarezza.

Quest’indice tiene contro degli utili/perdite del club a livello aggregato nel periodo di analisi. L’UEFA impone per questo indice alcuni limiti: le perdite del club, aggregate negli anni del periodo di analisi, dovranno presentare un deficit inferiore a 5 milioni di euro.

Il deficit di 5 milioni di euro potrà essere esteso a 45 milioni, per i primi 2 periodi di monitoraggio, ed a 30 milioni per i successivi tre. L’estensione potrà essere applicata solo a condizione che gli azionisti del club coprano con aumenti di capitale proprio/immissioni di liquidità la perdita aggregata nel periodo.

Saranno dedotte dal calcolo del “break even” le spese sostenute dal club per:

- lo sviluppo di adeguamenti al proprio stadio/costruzione di un nuovo stadio;

- lo sviluppo del proprio settore giovanile;

- investimenti sociali a livello generale e/o per la propria comunità di riferimento.

Se il break even risulterà avere un deficit superiore ai limiti imposti, il club avrà fallito il cosiddetto “Financial Fair Play test” (FFP test).

Il “Financial Fair Play test” è sempre applicato in modo così fiscale?

Direi proprio di sì; solamente per il primo periodo di applicazione del FFP, il regolamento UEFA prevede alcune eccezioni nei casi in cui il deficit riscontrato sia superiore ai limiti imposti. Mi spiego meglio, se un club non ha superato il FFP test, ma dimostra di avere avuto nel periodo considerato perdite decrescenti ad ogni stagione del periodo, questi avrà la possibilità di dedurre dal calcolo del break even i costi legati ai salari dei calciatori messi sotto contratto prima del 1 giungo 2010.

Sempre a titolo esemplificativo, se il Real Madrid presenterà un deficit aggregato nel primo periodo di 100 milioni di euro, ma dimostrerà di aver avuto nel corso delle due stagioni del periodo perdite decrescenti, ad esempio 70 milioni nel 2011/2012 e 30 milioni nel 2012/13, potrà dedurre i costi degli ingaggi di calciatori come Iker Casillas e Sergio Ramos (sempre che i loro contratti non siano stati rinnovati dopo il 1 giugno 2010). Dedotti questi costi, il Real Madrid supererà il FFP test solo se il break even calcolato rientrerà nei parametri UEFA di 5 milioni e/o 45 milioni di euro.

In cosa consistono i provvedimenti disciplinari previsti dall’UEFA per le violazioni al FFP?

I provvedimenti potranno variare a seconda della gravità della violazione e potranno contemplare, oltre alla semplice penalizzazione in punti in classifica, anche all’esclusione del club dalle competizioni UEFA.

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Politica e crac finanziari, chi è Biesuz l’uomo che Silvio vuole al posto di Galliani

Alberto Crepaldi - linkiesta.it - 10-11-2012

Un tipo meticoloso che deve tutto alla politica e che si dovrà occupare, per la prima volta, di calcio. Berlusconi ha fiducia in lui, ma nelle sue esperienze da manager non ha collezionato molti successi, anzi. Ecco chi è Giuseppe Biesuz, l'uomo che dovrebbe prendere il posto di Galliani alla guida del Milan.

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Negli ambienti calcistici si parla con sempre più insistenza della imminente sostituzione di Adriano Galliani alla guida del Milan. Silvio Berlusconi starebbe puntando su Giuseppe Biesuz, che agli appassionati di calcio, ma sopratutto ai tifosi rossoneri, non dice proprio nulla. Perché Berlusconi investe su uno che col mondo del pallone non ha familiarità? Così, mossi dalla curiosità, ci siamo messi alla ricerca di qualche informazioni utile a inquadrare il probabile futuro amministratore delegato del Milan. Appurando che il Biesuz, a dispetto della poca affinità con il calcio, ha invece decisamente confidenza con la politica. Con quella che conta.

Stretto collaboratore di Carlo Bernini, ex ministro dei trasporti travolto da tangentopoli e recentemente scomparso, Biesuz deve avere ereditato da questo la passione per strade e ferrovie. Una passione coltivata inizialmente nella Italtop srl, società specializzata in rilievi topografici, che stranamente non viene citata nel curriculum di Biesuz. Perché è proprio con la Italtop, di cui Biesuz è socio e che verrà liquidata per un mare di debiti nel 1994, che Biesuz si fa le ossa e lavora gomito a gomito con la Regione Veneto – allora presieduta proprio dal doroteo Carlo Bernini – nell’esecuzione di rilievi per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali, come ad esempio la terza corsia dell’autostrada Padova-Mestre e il raccordo con l’Aeroporto Marco Polo di Venezia.

I due anni in Italtop, uniti ad una solida e mai nascosta fede forzista prima, e pidiellina poi, sfociata in un ottimo rapporto con Marcello Dell’Utri, devono aver costituito un biglietto da visita efficace quando, nel 2008, Formigoni lo designa a capo di Ferrovie Nord Milano (Fnm). Nelle sue parole, un manager «che ha maturato una significativa esperienza nella gestione di importanti società quotate, conducendo processi complessi di riorganizzazione e rilancio». È evidente, però, come Formigoni abbia fatto un po’ di confusione tra le candidature che saranno arrivate sulla sua scrivania per guidare Fnm.

In Richard Ginori, dove Biesuz ha rivestito il ruolo di amministratore delegato, il manager veneto viene estromesso nel 2006. L’esperienza come direttore generale del gruppo Finmek in Amministrazione Straordinaria si conclude, nell’ambito del crack da un miliardo di euro, con un processo per concorso in bancarotta fraudolenta, da cui Biesuz viene assolto nel 2010. Il manager lavora poi, nel biennio 2006-2007 e come si legge nelle note biografiche riportate sul sito di Trenord, in qualità di “consulente straordinario per il rilancio e la ristrutturazione del Gruppo Cit (Compagnia Italiana Turismo)”. Il periodo in cui Biesuz dà consulenza straordinaria è quello in cui il gruppo Cit riceve il colpo di grazia: si perfeziona infatti nel 2007 la sua cessione al Soglia Hotel Group srl, capeggiato al tempo dal parlamentare pdl Gerardo Soglia e che in seguito risulterà insolvente.

Proprio in questi giorni, poi, è emerso un nuovo tassello del curriculum lavorativo di Biesuz. La Guardia di Finanza ha infatti perquisito la sua abitazione e il suo ufficio in Trenord (società nata dalla sinergia tra Trenitalia e Tnm ed estranea alla vicenda), di cui Biezuz è diventato amministratore delegato. Le perquisizioni riguardano un’ipotesi di bancarotta della società Urban Screen, e sono legate ad una imputazione per “ipotesi attenuata di fatture emesse per operazioni inesistenti” per il periodo in cui Biesuz è stato ad della Urban Screen medesima, lasciata nel 2008, tre anni prima della dichiarazione di fallimento.

I tifosi del Milan sappiano, però, che Biesuz, al di là del fatto di aver lasciato dietro di sé una scia di fallimenti societari, è un tipo meticoloso. Uno di quei manager che non rinuncia a sporcarsi le mani nell’assolvere la propria missione. In un passaggio di una intervista ad Affari Italiani di qualche mese fa, il manager scelto da Formigoni e frequentatore abituale del Meeting di Rimini, spiega così la sua abitudine a verificare di persona le inefficienze sui treni lombardi: «torno adesso da un pranzo con alcuni manager. Siamo andati a vedere i wc dei treni. È una questione di igiene mentale. Farlo dopo mangiato fa sì che se lo si trova sporco ci si mette nelle condizioni dei pendolari e si fa di tutto per evitare che riaccada».

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Calcio: Aia, Nicchi confermato presidente

AGI) - Roma, 10 nov. - Marcello Nicchi e' stato confermato presidente dell'Aia. In carica dal marzo 2009, Nicchi ha ottenuto il secondo mandato alla guida dell'Assoarbitri con 208 voti su 332 .

Non sappiamo quanto democraticamente

Abete: "Con gli arbitri un confronto serrato"

di Redazione Sportitalia

pubblicato il 10 Novembre 2012 18:10 in Calcio

E' stato un confronto serrato, alcune volte aspro nei toni, ma all'interno di un'associazione che è abituata al confronto associativo e che rappresenta un mondo importante e fondamentale per la realtà del calcio". Il presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, commenta così la rielezione di Marcello Nicchi alla guida dell'Assoarbitri, al termine di una campagna elettorale con l'avversario Robert Anthony Boggi, accompagnata da polemiche. "Ho espresso il forte auspicio che ci sia una capacità, terminato il confronto elettorale, di recuperare una dimensione di progetto unitario - aggiunge Abete - perché il parlamento dell'Aia e i 340 elettori che si sono espressi a maggioranza assoluta in favore di Nicchi, ma con un consenso per Robert Boggi, devono poi riprendere la dimensione di un progetto comune". "I passaggi elettorali spesso stati aspri - riconosce il n.1 Figc -, sarebbe stato auspicabile tenere toni più bassi perché il vero rischio che si corre quando si personalizzano questi confronti è che venga meno da parte dell'opinione pubblica l'attenzione per i contenuti". Sul malumore della corrente di Boggi per i tempi ravvicinati con cui la Procura federale ha archiviato il procedimento nei confronti di Nicchi su presunti metodi non regolamentari adottati dal presidente nella campagna elettorale, Abete precisa: "La Procura ha ascoltato in tempo record tutti i soggetti interessati dagli esposti e dalle denunce e poi ha ritenuto di chiudere questo tipo di verifica in modo tale da dare all'Assemblea l'opportunità di operare con delle certezze. Del resto l'esposto non è stato fatto otto mesi fa", conclude il presidente della Federcalcio.

Arbitri, Nicchi rieletto: «Il meglio deve venire» [tuttosport.com]

È il risultato dell'assemblea elettiva riunita all'Hilton Airport di Fiumicino. Battuto l'altro candidato, Robert Anthony Boggi

ROMA - Marcello Nicchi è stato confermato presidente dell'Associazione Italiana Arbitri. È il risultato dell'assemblea elettiva riunita all'Hilton Airport di Fiumicino. Nicchi ha battuto l'altro candidato, Robert Anthony Boggi. Nicchi è stato rieletto alla presidenza dell'Aia con 208 voti; 119 le preferenze ottenute da Boggi, cinque le schede bianche. Dei 340 aventi diritto hanno votato 332.

COME OBAMA - "Ci aspettano 4 anni intensi, è il momento di riprendere l'autostrada che ci porta lontano. Non ci sono caselli intermedi. Sono orgoglioso di rappresentare tutta l'associazione e in modo particolare tutti coloro che vogliono bene all'associazione. Fuori da Calciopoli, fuori da Scomessopoli, fuori da troiai: questa è l'associazione arbitri. E il meglio deve ancora venire". Marcello Nicchi si ispira a Barack Obama per ringraziare l'assemblea dell'Aia che lo ha confermato presidente degli arbitri. "Continuerò a lavorare con tutta la forza per tenere lontane dall'Aia le persone che cercano di togliere equilibrio all'associazione - assicura il neo eletto -. Il mio ufficio a Roma è sempre aperto, il mio cellulare è sempre acceso, anche la notte". "Ora tutti si rimettano in ordine, mi riferisco a leghe, tv e giornali, io gli arbitri non li abbandono: sbaglieremo ancora, speriamo poco, ma quest'Aia è una delle migliori associazioni al mondo e nel mondo del calcio la più grande del mondo", aggiunge Nicchi con orgoglio. "Nel 2016, quando mi ricandiderò, spero che chiunque possa fare il presidente: sarebbe un momento di grande crescita. Il meglio deve ancora venire", conclude il numero uno dell'Aia, ricordando la frase utilizzata dal presidente Usa Obama.

Modificato da totojuve

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CALCIOPOLI IL RETROSCENA

Schede svizzere: il giallo

Emerge una novità: tabulati troppo "dettagliati",

erano davvero delle aziende telefoniche?

Un dettaglio insinua il dubbio: nelle liste delle chiamate c’erano

dati che le compagnie non raccoglievano. E quel pc di Tavaroli...

di GUIDO VACIAGO (TUTTOSPORT 11-11-2012)

TORINO. Calciopoli: un retroscena emerge e potenzialmente potrebbe minare l’utilizzabilità della prova principale per la quale a Napoli è stato condannato Luciano Moggi (e non solo lui), ovvero le famigerate schede svizzere, attraverso le quali - secondo l’accusa - l’ex dg bianconero coordinava la “cupola” e parlava con arbitri e designatori evitando le intercettazioni. Ora, grazie all’instancabile Paolo Gallinelli, l’avvocato dell’ex arbitro Massimo De Santis, sorge un dubbio sui tabulati, attraverso i quali hanno ricostruito i contatti fra gli “associati”. Ecco perché.

La domanda è questa: come hanno fatto i Carabinieri di via in Selci ad avere, nei loro tabulati, anche i tentativi di chiamata? Ovvero, come hanno fatto ad avere nelle liste delle chiamate effettuate dalle famose schede svizzere anche le chiamate senza risposta (perché, per esempio, l’altro telefono è spento o non raggiungibile)? La domanda è importante perché solo dal 2009 le compagnie telefoniche italiane raccolgono quel tipo di dato. Prima del 2009 i tabulati forniti alla magistratura per le indagini contenevano solamente i dati delle chiamate andate a buon fine. Si legge in un documento ufficiale relativo al decreto Frattini: «In ottemperanza alle previsioni di Legge, le società telefoniche si sono prontamente fatte parte attiva per raccogliere anche le informazioni relative alle chiamate non risposte successivamente al 31 Dicembre 2009. Nel rispetto delle previsioni del D.Lgs. 109/2008 (Decreto Frattini), i dati relativi alle chiamate non risposte possono essere conservati per soli 30 giorni». Insomma, se solo dal 2009 le compagnie telefoniche raccolgono quel tipo di dato, come mai nei tabulati in mano agli inquirenti di Calciopoli i tentativi di chiamata c’erano?

Quei tabulati, secondo quanto ricostruito in aula dagli stessi Carabinieri (e in particolare dal maresciallo Di Laroni), sono stati ottenuti dalle compagnie telefoniche italiane, alle quali le schede svizzere si agganciavano in roaming. Insomma, ci fu - secondo la ricostruzione - nei confronti delle varie aziende (Tim, Wind, Vodafone, eccetera) una regolare richiesta per conoscere il traffico telefonico di quelle schede, quando agganciate alle cellule italiane. Le compagnie consegnarono questi tabulati, sui quali i Carabinieri effettuarono manualmente e senza l’uso di computer lo schema degli incroci per stabilire da dove chiamavano e chi chiamavano. In questo modo, secondo un metodo deduttivo: se una certa scheda aveva molti contatti da Arezzo veniva associata all’arbitro Bertini, se aveva molti contatti da Roma veniva associata a De Santis. Un metodo che ha lasciato qualche “buco”, ma ha retto nel processo di primo grado. Il problema, ora, è capire perché quei tabulati erano così “dettagliati”, visto che all’epoca delle indagini (2004-2005-2006), le compagnie telefoniche non fornivano il dato dei tentativi di chiamata, in essi però contenuti. Arrivavano davvero dalle compagnie telefoniche? Al dubbio (e per ora solo un dubbio, niente di più) si associa un altro piccolo grande mistero delle indagini di Calciopoli, quello della presenza del computer di Giuliano Tavaroli nella caserma di via in Selci nei giorni in cui si indagava su Calciopoli. Il pc dell’ex responsabile della security Telecom (che aveva organizzato le indagini illegali su Moggi, De Santis e i designatori nel 2003, poi coinvolto nello scandalo Telecom) venne spedito a Roma dalla Procura di Milano con un decreto di ispezione. Spedito proprio alla seconda sezione del nucleo operativo di via in Selci a Roma. Perché? E cosa conteneva quel pc? Tavaroli e i suoi uomini, per esempio, avevano accesso al famigerato sistema Radar per intercettare illegamente il traffico telefonico e, con quel sistema, i tentativi di chiamate venivano registrati. Da qui il dubbio. Solo un dubbio, per ora.

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Strano se ne siano accorti solo adeso. Questi dubbi li avevamo già esternati al processo sportivo, in cui le schede c'entrarono poco, ma furono trasformati in realtà al processo di Napoli con le ricostruzioni manuali a prescindere dal decreto Frattini.

Il difficile è smontare il tentativo di pericolo di un reato anticipato. Roba da Aghata Christie o meglio fantascienza non da tribunali.

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Eletto con il 62,6%

Nicchi batte Boggi

Guiderà l'Aia per altri

4 anni e ora cita Obama

di FABIO MONTI (CorSera 11-11-2012)

Marcello Nicchi è stato rieletto presidente dell'Aia (gli arbitri italiani), carica che ricopriva dal 6 marzo 2009: sui 340 aventi diritto hanno votato in 332. Nicchi ha raccolto 208 voti (62,6%); 119 le preferenze ottenute dallo sfidante Robert Anthony Boggi (35,8%), 5 le schede bianche. Più che un'assemblea elettiva è stata una fiera della vanità, con interventi e citazioni sopra le righe. Prima e dopo il voto. Ha cominciato Boggi: «L'Aia è una monarchia assoluta, Nicchi è come Luigi XIV; io mi candido per amore dell'Associazione, per me è un dovere morale, liberiamo l'Aia insieme. È stato fatto appena il 10% di quanto promesso; con questo ritmo il processo di rinnovamento si completerebbe nel 2048». E Nicchi: «Il lavoro fatto in questi quattro anni rappresenta il 160% del programma presentato nel 2009. Non era previsto che dovessimo difendere la nostra autonomia e la presenza di diritto nel Consiglio federale. Se andate a leggere le cose fatte ce ne sono 200 o 300 più di quelle elencate nel programma elettorale. Ma vogliamo fare ancora il massimo, perché oggi fare l'arbitro vuol dire fare cultura». Poi, dopo 36 interventi degli associati, è venuta l'ora di votare. E alla fine, dopo la vittoria, Nicchi ha citato nientemeno che Obama: «Ci aspettano quattro anni intensi, è il momento di riprendere l'autostrada che ci porta lontano. Non ci sono caselli intermedi. Sono orgoglioso di rappresentare tutta l'associazione, in particolare chi vuole bene all'Aia. Fuori da Calciopoli, fuori da Scommessopoli, fuori dai troiai: questa è l'associazione arbitri. E il meglio deve ancora venire». A parte il linguaggio da fine dicitore, Nicchi ha promesso: «Continuerò a lavorare con tutta la forza per tenere lontano dall'Aia le persone che cercano di togliere equilibrio. Il mio ufficio a Roma è sempre aperto; il mio cellulare è sempre acceso, anche di notte». E ha garantito che fra quattro anni si ricandiderà. Come si dice: uno che non è attaccato alla poltrona.

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Nicchi, vittoria tra le polemiche

Arbitri: mai una elezione in un clima così caldo, ma il presidente uscente batte Boggi

Secondo mandato di fila: un minuto di applausi per un successo netto. Adesso altri quattro anni di esami durissimi

di EDMONDO PINNA (CorSport 11-11-2012)

FIUMICINO - «Il bello deve ancora venire». Marcello Nicchi è stato eletto, per la seconda volta consecutiva, presidente dell'Associazione Italiana Arbitri. Questa volta, a differenza del 2009 (quando superò il suo avversario per soli otto voti), è stata una vittoria netta, 208 voti contro 119, praticamente ininfluenti (ai fini del peso politico e del significato elettorale) le 5 schede bianche. Un trionfo per il numero uno degli arbitri. E dato che l’ultima grande elezione è stata quella negli Usa, l’uomo di Arezzo - nonostante qualche ora fa rifiutasse qualsiasi tipo di paragone "sopra le righe" - ha ceduto alla tentazione di prendere in prestito il succo del discorso di Obama alla sua America. Sconfitto - ottantanove voti di scarto non se li aspettavano neanche loro - lo sfidante Robert Anthony Boggi da New York che, dopo le pesanti accuse nel discorso di presentazione, ha teso la mano all’avversario: «Complimenti, il voto delle persone va rispettato». Un modo forse per stemperare un clima di veleni che ha costretto lo stesso presidente Abete a un richiamo nel suo discorso di benvenuto a Nicchi: «Sarebbe stato meglio lavorare con toni più bassi». Conoscendo la proverbiale diplomazia, potete immaginare il resto...

CROCE ROSSA - La commozione - quasi - dopo la proclamazione alle 16.21 e dopo quasi un minuto di applausi. Marcello Nicchi era di tutt’altro umore e aspetto in mattina, ore 9.30, quando sono cominciati ufficialmente i lavori all’hotel Hilton di Fiumicino. Più teso del solito, nonostante fosse sempre il candidato forte. Ma le voci della vigilia, i risultati dei sondaggi più o meno ufficiali (uno voleva addirittura Boggi vincente a +15), l’apprensione crescente per un risultato che sembrava scontato all’inizio della corsa, non lo era col passare delle giornate, è stato trionfale nei numeri alla fine, hanno evidentemente minato anche un carattere forte come l'aretino. «Siamo un’associazione di volontari, la Croce Rossa del calcio» ha detto in un passaggio del suo discorso. In un altro, forse con un pizzico di imprudenza, per sottolineare il lato umanitario dell’Associazione ha ricordato una delle ferite ancora aperte della nostra Italia: «Dopo il terremoto de L'Aquila, l’Aia è arrivata in Abruzzo prima della Protezione civile». Per carità, su quella Protezione civile ci sono state indagini e inchieste. Però... L’ultima metafora, prima dei saluti: «L’Aia è come un aquilone più incontra il vento contrario e più vola in alto», con 32" di applausi che sembrava ci fosse una claque... Durissimo (e anche lui sopra le righe) l’intervento di Boggi, con tanto di slide e colonna sonora della Pantera rosa. Ha paragonato la presidenza di Nicchi a Pol Pot e a Ceausescu, ha detto che il presidente deve essere un «Primus inter pares e non Sua Maestà », e a Nicchi di aver instaurato « una monarchia assoluta e dispotica». «Ho un sogno, l’Aia libera» ha chiuso Boggi, fino a ieri osservatore della Can A.

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LA REAZIONE DEL VINCITORE

«Sono orgoglioso:

il bello deve ancora venire»

Un po’ di commozione, poi Nicchi dice:

«Siamo popolari e i più bravi del mondo»

di EDMONDO PINNA (CorSport 11-11-2012)

FIUMICINO - «Noi riusciamo a vincere da soli, come 44 mesi fa». Era stato profetico il vicepresidente Narciso Pisacreta, colui che all’interno dell’Aia viene considerato l’eminenza grigia, il cardinal Richelieu di Marcello Nicchi. Così è stato, sia pure in una campagna elettorale che fino a pochi secondi prima dell'apertura dei seggi (tutti touch screen, stile-Usa) non ha fatto mancare colpi e frecciate al curaro. E viene da pensare, considerando che si eleggeva il presidente degli arbitri, ovvero di coloro che hanno il compito di garantire la legalità (sportiva) dentro il campo. Come si conviene ad ogni terzo tempo, tanto per rimanere in tema, i due contendenti alla fine si sono stretti la mano. Nei prossimi giorni (o mesi), capiremo se quella stretta di mano era solo di facciata e arriverà la notte dei lunghi coltelli.

Duecentotto a centodiciannove, è stato un trionfo per il presidente uscente, Marcello Nicchi: «Io non ho nessuno da minacciare. Finite le parole, ricominciano i fatti. Sono orgoglioso di essere il rappresentante di questa associazione e di tutti quelli che vogliono bene all'Associazione. La nostra popolarità ha varcato i confini dell'Oceano, siamo i più grandi del Mondo». E il suo «Il bello deve ancora venire» acquista fondamento e importanza. Una vittoria netta, un en plein (visto anche via web con la diretta sia in streaming che su Twitter, aggiornatissimo) su tutta la linea, visto che, a differenza di quanto accadde nel 2009, anche la squadra che lavorerà con lui (il Comitato Nazionale) è tutta sua: i tre inseriti del listino (Perinello, Carbonari e Gialluisi) e i tre eletti (Zaroli, Iori e D'Anna). Con loro, sul palco, anche Alfredo Trentalange, che Nicchi ha chiamato su: «Vieni, non aver paura, sono andati via».

COMPLIMENTI - Ad essere andati via dall’hotel Hilton di Fiumicino, subito dopo i risultati, sicuramente Boggi e i suoi uomini che pure, con grande signorilità, avevano fatto notare la tempistica del pronunciamento della Procura federale sulle denunce (una di Borriello, che con Capraro era nella squadra di Collina con Nicchi presidente) presentate ai federali. «Non si può discutere un presidente eletto, il voto va rispettato. A Nicchi ho fatto i miei auguri» ha detto Boggi. Apricena, che sarebbe stato l’eventuale vice, ha affermato: «Vittoria netta, nulla da dire».

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ELEZIONI ARBITRI

NICCHI RESTA SUL TRONO AIA

PER ALTRI 4 ANNI: STIAMO FRESCHI

di FRANCO ORDINE (il Giornale)

Marcello Nicchi è rimasto sul trono dell’Aia, l’associazione degli arbitri italiani. Robert Boggi, lo sfidante, che lo aveva accusato di «comportarsi come Luigi XIV, come un monarca assoluto», non è riuscito a capovolgere il pronostico. 208 i voti collezionati dal presidente uscente, toscano di Arezzo, 119 quelli del rivale che aveva puntato tutte le sue carte sulla voglia, e necessità, di cambiamento da parte dell’associazione attraversata da un forte dissenso. Solo all’immediata vigilia del voto, la procura federale ha deciso di archiviare il procedimento disciplinare neri confronti di Boggi, messo in stato di accusa per aver espresso un feroce giudizio sul conto di Nicchi. Si sa: in campagna elettorale tutto è concesso.

Solo 5 le schede bianche, segno di una platea divisa secondo un orientamento preciso: la maggioranza è rimasta col monarca Nicchi, la minoranza col rivoluzionario Boggi. Come un autentico monarca, Nicchi si è comportato anche dopo, a scrutinio concluso. «Nel 2016, quando mi ricandiderò, spero che chiunque possa fare il presidente» ha annunciato. Bisognerà prepararsi al peggio, allora. Anche se l’interessato ha già dribblato la battuta facendo ricorso all’incipit utilizzato da Obama, «il meglio deve ancora venire». Con la rielezione in tasca, e il trono al sicuro per altri quattro anni, Nicchi ha provato anche ad alzare la voce. «Ora tutti si rimettano in ordine, mi riferisco a Leghe, tv e giornali, io gli arbitri non li abbandono: sbaglieremo ancora, speriamo poco, ma questa Aia è una delle migliori al mondo». Sulle leghe risponderanno altri. Sui giornali, per la piccola parte che ci compete, possiamo rassicurarlo: non ci faremo mettere in riga da Nicchi. Che continui a difendere gli arbitri, è un dovere di ufficio. Che invece possa e debba lavorare sodo per migliorare la resa della squadra, affidata alla discutibile regia del designatore Braschi, è altrettanto indiscutibile. E sono q­uesti i problemi che un presidente dell’Aia che non si senta monarca deve provare a risolvere nei prossimi anni. E invece, proprio ai fischietti che da ieri sera sono tornati in campo, ha spedito una frase che non è molto rassicurante. «Non vi chiedo niente, regalatemi solo quattro anni come quelli che ho vissuto ». Stiamo freschi!

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La votazione Per il dirigente 208 voti contro i 119 raccolti dallo sfidante che aveva lanciato accuse di pressioni elettorali

Arbitri, Nicchi rivince e fa suo lo slogan di Obama

La scelta Il discorso agli associati sui progetti per i

prossimi quattro anni di lavoro: «Il meglio deve ancora venire»

La gioia di Nicchi «Finora siamo stati fuori da scandali e troiai vari: continuiamo così»

La rabbia di Boggi «Aia guidata dal nuovo Luigi XIV, un monarca assoluto: dove andremo?»

di ANTONIO SACCO (IL MATTINO 11-11-2012)

ROMA. «Il meglio deve ancora venire». Non è Chicago, ma Fiumicino e il rieletto presidente dell'Associazione italiana arbitri, Marcello Nicchi, fa sua la frase di Barack Obama per ringraziare l'assemblea che gli ha conferito il mandato per altri quattro anni. Battuto dunque lo sfidante Robert Anthony Boggi (208 preferenze contro le 119 ottenute dall’ex fischietto internazionale di Salerno, attuale osservatore della Can A) e le polemiche che hanno accompagnato una campagna elettorale infuocata: sarà anche per questo che Nicchi ha aspettato il responso chiuso in camera, mentre il salone dell'hotel era gremito in attesa del vincitore e solo dopo ha fatto il suo ingresso.

«Ci aspettano quattro anni intensi, è il momento di riprendere l'autostrada che ci porta lontano. Non ci sono caselli intermedi. Sono orgoglioso di rappresentare tutta l'associazione e tutti coloro che vogliono bene all'Aia. Fuori da Calciopoli, fuori da Scomessopoli, fuori da troiai: questa è l'associazione arbitri», rivendica con orgoglio Nicchi.

Dichiarazioni che sanno di sfogo dopo i toni aspri con l'avversario Boggi che l'aveva accusato anche di metodi poco democratici. Non per la Procura Figc che venerdì, alla vigilia del voto, ha archiviato la relativa inchiesta. Ma la coda al veleno non è mancata e lo si era avvertito nell'intervento di Boggi ancora alla ricerca dei voti degli indecisi. Altro che Obama, Nicchi per l’avversario elettorale e la sua squadra è un sovrano assoluto. «Siamo qui per una nuova Aia, profondamente rispettosa di tutte le anime. Sono qui perchè in tantissimi mi hanno chiesto di esserci e di dare una svolta. Nicchi è come Luigi XIV, l'Aia è una monarchia assoluta. Liberiamola», l'orazione prevoto di Boggi. «Mai più colpi bassi, l'associazione sarà rispettosa di chi la pensa diversamente - aveva assicurato -. Il presidente non deve essere sua maestà».

La mission è fallita, anche se di seguaci ne ha raccolti molti: tra i 332 votanti (erano 340 gli aventi diritto), in 119 gli hanno accordato la propria fiducia (5 le schede bianche). Ma il voto premia la continuità. «Lavorerò con tutta la forza per tenere lontane dall'Aia le persone che cercano di togliere equilibrio all'associazione - promette il rieletto Nicchi -. Il mio ufficio a Roma è sempre aperto, il mio cellulare è sempre acceso». Il rieletto presidente dovrà però convivere con quel 37% che non l'ha votato. La Figc spera ci riesca: il direttore generale, Antonello Valentini, aveva auspicato il fair play visto nella campagna elettorale statunitense; il presidente Abete li ha invitati a lavorare insieme. Boggi si è comunque complimentato con il vincitore.

«È stato un confronto serrato - ha sottolineato il presidente della Federcalcio, Abete -, alcune volte aspro nei toni, ma all'interno di un'associazione che è abituata al confronto e che rappresenta un mondo fondamentale per il calcio. Ho espresso il forte auspicio che ci sia una capacità di recuperare una dimensione di progetto unitario». Sulla decisione della Procura: «Ha ascoltato in tempo record tutti i soggetti interessati dagli esposti e poi ha ritenuto di chiudere questo tipo di verifica in modo tale da dare all'assemblea l'opportunità di operare con delle certezze».

«Non ci saranno strascichi - ha assicurato Nicchi -, anzi tutto il sistema calcio dovrebbe prendere esempio dall'Aia. Il problema semmai è in qualche Lega dove si scelgono presidenti solo per acclamanzione». Poi il rilancio: «Nel 2016, quando mi ricandiderò, spero che chiunque possa fare il presidente: sarebbe un momento di grande crescita». Il presente però è per i suoi arbitri: «Ora tutti si rimettano in ordine, mi riferisco a leghe, tv e giornali, io gli arbitri non li abbandono. Sbaglieremo ancora, speriamo poco, ma questa associazione degli arbitri è la più grande del mondo».

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Nicchi fa il bis

Gli arbitri non cambiano

«Il meglio deve venire»

Il presidente uscente dell’Aia batte Boggi con il 62% dei voti

e poi cita Obama: «Adesso fuori dai guai, andremo lontano»

di FRANCESCO CENITI (GaSport 11-11-2012)

«E il meglio deve ancora venire...». Sono passate da poco le 4 del pomeriggio quando Marcello Nicchi utilizza le stesse parole pronunciate da Barack Obama dopo la rielezione. Certo, Fiumicino non è Chicago e il «peso» delle due poltrone sta come uno dei sette colli di Roma all'Everest. Ma se riportiamo tutto alla dimensione italiana e ancora più nello specifico allo sport di casa nostra, l'importanza del presidente dell'Associazione arbitri esce in tutta la sua magnificenza. Festeggia a pieno titolo Nicchi: la sua è stata una vittoria netta (209 voti a 119) dopo una campagna elettorale aspra. Ora, restando sul modello americano, chi ha trionfato avrà il compito di ricompattare l'Aia cercando di coinvolgere il più possibile anche chi ha sostenuto la candidatura di Robert Boggi. E ovviamente lo sforzo è richiesto anche ai battuti: dal voto bisognerà trarre una lezione se si vuole aiutare l'Aia a crescere. Un auspicio fatto in sala anche dal presidente della Figc Abete, e che abbraccia idealmente i 35 mila associati. Senza di loro, addio campionati. Ma la giornata di ieri ha detto anche altro. Sono risuonate forti le parole di Nicchi in difesa degli arbitri.

Guai e autostrade Il suo secondo mandato nasce sotto una stella luminosa. Nel 2009 aveva sconfitto Apricena (candidato alla vicepresidenza con Boggi) per una manciata di voti. I prossimi 4 anni li ha ottenuti con oltre il 62% spazzando ogni dubbio. Prima del voto aveva respinto le accuse di gestione dittatoriale («Falsità»), dopo ha usato parole dirette: «È il momento di riprendere l'autostrada che porta lontano — ha iniziato —, non ci sono caselli intermedi. Lavorerò con forza per tenere fuori dall'Aia le persone che cercano di toglierci equilibrio. Fuori da Calciopoli, fuori da Scommessopoli, fuori dai guai: questa è l'associazione arbitri. E il meglio deve ancora venire: tra 4 anni mi ricandiderò». Nicchi ridimensiona le polemiche: «Non è stata una campagna elettorale avvelenata. È stato solo un confronto vivace: è il bello della democrazia. Non ci saranno strascichi. Tutto il sistema calcio dovrebbe prendere esempio dall'Aia. Il problema semmai è in qualche Lega dove si scelgono presidenti solo per acclamazione». Nicchi si è poi soffermato sulle cose da fare («I rimborsi in primis, aspettiamo l'aumento già richiesto»), ma alla fine l'attenzione è tornata sugli arbitri. Due le domande ricorrenti: la possibilità di farli parlare e i giudici di porta. «Non è un problema di regolamento — ha risposto —, i nostri ragazzi sanno reggere il confronto anche fuori dal campo. Ma la cultura deve cambiare: ogni domenica dobbiamo proteggerci da soli dalle critiche. Se dobbiamo aggiungerci alle tante sciocchezze, preferiamo restare zitti. Abbiamo diviso la Can anche su richiesta delle Leghe, mettendoci al loro servizio. In cambio spesso riceviamo solo insulti: così non si può andare avanti. Non lo permetterò. I giudici di porta? Stanno facendo bene, ma possiamo fare meglio. È il nostro obiettivo. Ma smettiamola con attacchi strumentali». Della serie: a ogni presidente oneri e onori.

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LA NUOVA SQUADRA SCELTI I COMPONENTI DEL COMITATO NAZIONALE: IL VICE È PISACRETA

Trentalange confermato

Dialogo con gli sconfitti

Abete: «Bene negli ultimi 4 anni. Finora tanti errori, la maggior parte è dei guardalinee»

di FRANCESCO CENITI (GaSport 11-11-2012)

Otto sorrisi in una fotografia. La vittoria di Nicchi porta anche una nuova squadra al comando dell'Aia ieri subito in posa dopo la competizione. Con il presidente faranno parte del Comitato nazionale anche il vice Narciso Pisacreta più Maurizio Gialluisi, Alberto Zaroli, Rosario D'Anna, Umberto Carbonari, Giancarlo Perinello ed Erio Iori. Con il nuovo regolamento spetta al presidente Nicchi la nomina del responsabile del settore tecnico. La scelta non è in discussione: sarà riconfermato Alfredo Trentalange. Possibile il coinvolgimento in qualche modo della parte sconfitta. Ieri i primi segnali di distensione sono arrivati da Nicchi («Nessun veleno, solo un confronto»), ma anche dall'altro candidato Boggi che ha subito fatto i «complimenti sinceri» al suo avversario. E anche Apricena (battuto da Nicchi nel 2009 e vice di Boggi in questa nuova avventura) dopo le parole forti usate prima del voto ha preferito smussare le polemiche definendo un «successo limpido» il nuovo trionfo del presidente uscente.

Il plauso della Figc Parole che saranno apprezzate anche da Abete. Il presidente della Figc, sempre vicino agli arbitri e ringraziato in modo caloroso da Nicchi, è intervenuto a competizione conclusa: «Il giudizio sul lavoro svolto nell'ultimo quadriennio è positivo, ora insieme faremo un'Aia piu forte e costruiremo un mondo arbitrale sempre più al servizio del calcio. Campagna elettorale aspra? Fa parte dei giochi. Certo, sarebbe stato auspicabile tenere toni più bassi perché quando si personalizza il confronto si corre il rischio di lasciare in secondo piano i contenuti. Le critiche ad arbitri e giudici di porta? A caldo si possono usare parole sopra le righe. Finora ci sono stati degli errori, la maggior parte dei guardalinee. Gli arbitri di porta non hanno causato nessun problema, anzi hanno valutato benissimo una serie di situazioni complicate che avrebbero potuto determinare ben altri problemi in loro assenza. Chiaramente un rodaggio è necessario e l'avevamo detto fin dall'inizio, ma la presenza in A degli addizionali può aiutare anche le nostre squadre impegnate in Europa dove ritrovano lo stessa sistema di arbitraggio».

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Arbitri

Nicchi batte Boggi rieletto presidente

“Adesso basta troiai”

art.non firmato (la Repubblica 11-11-2012)

ROMA — «Fuori da Calciopoli, fuori da Scomessopoli, fuori da troiai: questa è l'associazione arbitri. E il meglio deve ancora venire ». È un euforico Marcello Nicchi quello che, appena rieletto capo degli arbitri, cita Obama e lancia proclami: «Ci aspettano 4 anni intensi. Sono orgoglioso di rappresentare tutta l'associazione e in modo particolare tutti coloro che ci vogliono bene». Non moltissima gente, a dire il vero, di questi tempi (eccezion fatta per quelli della procura federale che hanno archiviato in mezzo alle polemiche e a tempi di record il procedimento che aveva proprio Nicchi come “indagato”).

Nicchi (208 voti) rende l’onore delle armi allo sconfitto, Robert Anthony Boggi (119) : «Liberiamo l’Aia dal monarca: Nicchi come Luigi XIV», era stato uno dei suoi slogan. «Non ci saranno strascichi - lo assolve Nicchi - La campagna è stata dura ma è la democrazia e penso che in molti dovrebbero prendere esempio da noi».

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LA STAMPA 11-11-2012

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LIBERO 11-11-2012

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Le elezioni Vittoria netta sullo sfidante Boggi: «Inizio subito a lavorare perché nel 2016 mi ricandido»

Nicchi rieletto presidente

dell’Aia: «Il meglio deve venire»

di FEDERICO D’ASCOLI (Quotidiano Sportivo 11-11-2012)

«Il meglio deve ancora venire». Cita addirittura Barack Obama per chiudere il discorso che dà il via al suo mandato-bis, Marcello Nicchi. L’assemblea generale dell’Aia ha scelto ancora l’aretino (...) come guida nei prossimi quattro anni. Una vittoria netta quella del presidente uscente che ha incassato 208 preferenze su 332 votanti contro le 119 dello sfidante Robert Anthony Boggi. In termini percentuali il 62,7% contro il 35,8% (il resto è rappresentato dall’1,5% di schede bianche).

Si chiude così una lunga campagna elettorale senza esclusione di colpi che aveva visto la coppia sfidante Boggi-Apricena denunciare Nicchi alla giustizia sportiva per presunte minacce e intimidazioni nella raccolta dei consensi dentro l’Aia. Procedimento rapidamente archiviato dal procuratore federale Palazzi alla vigilia del voto. Ma anche nella giornata elettorale non erano mancate le stoccate: «Marcello Nicchi è come Luigi XIV, l’Aia è una monarchia assoluta. Liberiamo l’Aia» aveva attaccato Boggi nel suo intervento prima dell’apertura delle urne. Il risultato però non ammette repliche, ben al di là di quello con cui Nicchi batté nel 2009 Matteo Apricena che stavolta si è ripresentato come aspirante vice presidente di Boggi, rimediando un’ulteriore umiliazione personale.

«Sono orgoglioso di rappresentare tutta l’associazione: ci aspettano quattro anni intensi — ha spiegato Nicchi — c’è grande soddisfazione per i nostri ragazzi, quei ragazzi che per troppo tempo abbiamo dimenticato per spettacoli indegni messi in scena da noi dirigenti. Continuerò a lavorare con tutta la forza per tenere lontano quelle persone che in queste circostanze non perdono occasione per cercare di squilibrare l’Aia. Regalatemi altri quattro anni così: fuori da tutti i troiai come Calciopoli e Scommessopoli...».

La sfida di Nicchi è già lanciata e va oltre il quadriennio: «Inizio subito a lavorare in ottica 2016. Perché tra quattro anni mi ricandido».

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L’AIA NON CAMBIA IL VERTICE

Per Nicchi una conferma trionfale

«Ci aspettano quattro anni intensi»

Surclassato Boggi per 208 voti a 119: «Il mio orgoglio? Gli arbitri fuori da Scommessopoli.

Resteremo in silenzio dopo le partite, non vogliamo aggiungere sciocchezze a ciò che altri dicono»

di SIMONE DI STEFANO (TUTTOSPORT 11-11-2012)

ROMA. Alla fine è stato un trionfo: con 208 voti contro i 119 raccolti da Robert Anthony Boggi , i delegati arbitri hanno riconfermato ieri Marcello Nicchi presidente dell’Aia fino al 2016. «Ci aspettano 4 anni intensi, è il momento di riprendere l’autostrada che ci porta lontano. Non ci sono caselli intermedi», dice orgoglioso alla platea Nicchi nel suo primo discorso da rieletto. Un’elezione all’italiana, fatta di veleni e accuse reciproche. Di democratico, della giornata all’Hilton di Fiumicino, resta soltanto la pillola finale di Nicchi quando cita Obama : «... e il meglio deve ancora venire». Il peggio lo abbiamo appena visto, tanto che lo stesso presidente Figc, Giancarlo Abete , appresa la conferma di Nicchi si è vestito da Napolitano chiedendo unione d’intenti: «E’ stata una campagna elettorale molto aspra ed è auspicabile che si abbassino i toni, ma ora è importante recuperare un progetto unitario. Il giudizio sul lavoro svolto da Nicchi nell’ultimo quadriennio è positivo, ora dobbiamo lavorare insieme per un’Aia più forte».

POLEMICHE Durante il suo discorso lo sfidante Boggi aveva accusato Nicchi di «dispotica vanità»: «Marcello Nicchi è come Luigi XIV, l’Aia è una monarchia assoluta, vogliamo una nuova Aia rispettosa nei confronti di chi non la pensa come i capi. Nicchi ha detto di aver realizzato il 98% del programma, ma è stato fatto il 10%». Nicchi si è affidato ai suoi recenti successi politici, da ultimo l’aver salvato l’Aia dal Consiglio Federale: «Non era previsto che dovessimo difendere la nostra autonomia e non era previsto che dovessi difendere la nostra presenza di diritto nel Consiglio federale - ha tenuto a precisare Nicchi -: a questo punto il lavoro fatto non è il 98% del programma ma il 160%». Non da meno l’orgoglio che «nessun arbitro è stato coinvolto nello schifo di Scommessopoli», dice Nicchi. «Continuerò a lavorare con tutta la forza per tenere lontane dall’Aia le persone che cercano di togliere equilibrio all’associazione - ha poi assicurato -. Ora tutti si rimettano in ordine, leghe, tv e giornali: io gli arbitri non li abbandono. Quest’Aia è una delle migliori associazioni al mondo e la più grande del mondo nel calcio e nel 2016 quando mi ricandiderò, spero che chiunque possa fare il presidente: sarebbe un momento di grande crescita».

SILENZIO Si chiude così una lunga campagna elettorale infarcita di veleni, l’ultimo la denuncia (archiviata da Palazzi) con Boggi che accusava Nicchi di aver fatto «pressioni» su alcuni dirigenti. «In 43 anni di appartenenza all’associazione - ha risposto Nicchi in mattinata - non ho mai diffamato nessuno e non ho mai portato all’esterno i problemi dell’associazione. L’associazione è forte e noi la porteremo ancora più in alto». Sempre in silenzio però, perché Nicchi chiude ancora sulla possibilità di far parlare gli arbitri dopo le partite: «Mettiamo prima ordine e poi gli arbitri parleranno. Se alla fine di ogni partita si deve aggiungere qualcosa alle tante sciocchezze che si sentono dire, noi evitiamo di dire le nostre».

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Storie di sport

Arbitraggi a prova di test Dna

di FLAVIO PAGANO (Corriere del Mezzogiorno - Napoli 11-11-2012)

Genoa vs Napoli sarà diretta dal signor Rizzoli, involontaria star di quel Catania-Juve così controverso, da indurre un bookmaker ad annullare le giocate: e la scelta del designatore è stata fatalmente accompagnata da aspre polemiche. Ma tranquilli, presto tutto potrebbe cambiare.

Ultimamente, infatti, si parla molto di un test del Dna che consentirebbe di capire per quale sport siamo portati. Un test in grado di svelare le caratteristiche muscolari e metaboliche di ogni individuo. Non solo si potrà sapere in anticipo se abbiamo le molecole giuste per salire sul ring, o se è meglio che ci diamo all'ippica; ma anche se c'è puzza di campione. Un bene? Per certi versi sicuramente no, dato che simili test rischierebbero di favorire altre stolte missive, come quelle che una società triestina ha inviato ad alcuni suoi giovanissimi praticanti - giudicati un pò scarsetti - invitandoli a starsene a casa. Senza contare l'uso indiscriminato che le grandi società sportive potrebbero farne nei Paesi in via di sviluppo, con biocacciatori alla ricerca di talenti nei villaggi africani: «Tu sì, tu no», come si faceva un tempo davanti ai cancelli dei porti, con gli scaricatori. Ma un'applicazione interessante, a pensarci, ci sarebbe: visti i tempi geologici con cui la governance calcistica prende le decisioni - come ad esempio quella di supportare terne, quaterne e cinquine di arbitri, legittimando finalmente l'uso delle telecamere (tombola!) - perché non elaborare un test del Dna per scoprire se uno è portato o meno per vestire la giacchetta nera? Un test che ci dica se - oltre che fiato per correre e fischiare, e vista d'aquila - il candidato possegga anche l'obiettività e la saggezza indispensabili per dirigere un incontro. In ogni caso, sul signor Rizzoli nessun dubbio. Il suo pedigree è da purissimo fischietto di razza. Siamo certi che grifoni contro ciucci - gemellati da quando, ai tempi del colera, i genovesi furono i primi a rompere l'umiliante quarantena del San Paolo - sarà partita vera.

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Soltanto 23.094 spettatori

è il campionato della noia

Fulvio Bianchi - Spy calcio - repubblica.it - 11-11-2012

Sinora in serie A la media-partita è stata di 23.094 spettatori. La scorsa stagione, nello stesso periodo, era di 23.006; l'anno prima solo 22.830. Segnali confortanti? Non direi proprio, Inghilterra e Germania restano distanti anni luce: non si fa un passo avanti, anche se sono salite tre società (Torino, Sampdoria e Pescara) che sicuramente faranno più spettatori di Lecce, Novara e Cesena, lo scorso anno in A. Ma non ci sono segnali di ripresa a Firenze, il Milan ha visto crollare gli abbonati, lo stesso Napoli non raccoglie più l'entusiasmo di un tempo. Pochi spettatori anche per la Lazio (derby a parte, ovviamente) e per il Palermo mentre il Cagliari cerca disperatamente di risolvere il problema dello stadio attraverso un percorso ad ostacoli. Ci vogliono impianti più piccoli, più accoglienti. Il tifoso deve sentirsi come a casa (vedi esempio virtuoso della Juve): ma i club cosa fanno? Poco o niente, come se la cosa li riguardasse in maniera marginale. Perché non vanno a lezione in Bundesliga o Premier League? Niente. Preferiscono tenere gli stadi (mezzi) vuoti e non abbassano nemmeno il prezzo del biglietto: in Italia siamo ancora troppo indietro rispetto al calcio che conta. Altro che campionato più bello del mondo: ormai è solo un ricordo.

Da risolvere poi il problema delle trasferte: colpa solo della tessera del tifoso? Non credo: è stata sottoscritta da un milione di persone solo in serie A, ma pochissimi seguono la loro squadra fuori casa. Sono sempre meno. Non sono serviti nemmeno gli sconti sui treni e negli Autogrill. I club fanno troppo poco per i loro tifosi, raramente se ne interessano. Forse non vogliono avere grane e preferiscono che gli appassionati se ne stiano a casa davanti alla tv? Probabile sia così: ma il calcio è bello quando ci sono stadi gli pieni, c'è colore, folclore, allegria. Ma ci siamo ridotti agli albo degli striscioni, che brutta fine...

Indispensabile, e non più rinviabile ormai, è soprattutto la riforma del campionati: che va concordata fra tutte le parti. Per ora si sono messe in cammino la Lega di B e la Lega Pro. In B, il presidente Andrea Abodi è stato bravo a convincere le società: dal 2014-15 si scende quindi da 22 (una follia, retaggio del caso Catania) a 20 club. Che sono già tanti, a mio avviso. Ma almeno la B ha iniziato il percorso vizioso, lanciando anche dei giovani. Così come la Lega Pro: per convinzione, ma anche per necessità (troppi i club falliti e quelli che non pagano gli stipendi), dal 2014-'15 avrà solo 60 società, un campionato unico di tre gironi. Una riforma che forse si poteva anche anticipare: difficile trovare il prossimo anno 69 club come adesso, 69 club che non abbiano penalizzazioni, paghino regolarmente gli stipendi e non facciano dormire i calciatori allo stadio (vedi Milazzo). Ma la rivoluzione era ormai improcrastinabile, visto che l'ex serie C partiva da un format di 90 club, altra follia tutta italiana. E' stato bravo Mario Macalli a spingere per la riforma, con il contributo determinante del presidente Giancarlo Abete, che ha convinto sindacato calciatori e associazione allenatori che è arrivato il momento della svolta, del coraggio. Ma Tommasi e Ulivieri, si sa, sono persone di buon senso. Ecco così la riforma approvata.

La Lega di A invece è ancora ferma, titubante: se i grossi club (Milan, Juve, Inter, Lazio, ecc.) sono pronti a scendere a 18 club, anche perché impegnati in Europa, altre società temono non solo di avere meno soldi dalle tv (e non è detto che sia così), ma anche di finire in serie B e restarci chissà quanti anni. Ci sono almeno 5-6 società che sono contrarie a cambiare format: sarà complicato mettere d'accordo tutti. Ma così si rischia di avere un campionato troppo modesto, con tante gare noiose. Se ne parlerà più avanti di questo problema, dopo l'elezione del presidente della A (quasi certa la conferma di Maurizio Beretta). Intanto, gli arbitri hanno già deciso: avanti con Marcello Nicchi, confermato a larghissima maggioranza (62,6%) presidente dell'Aia. Battuto lo sfidante Robert Antonhy Boggi, ex arbitro pure lui. Nicchi è in piena sintonia con Braschi e sa benissimo che questo è il periodo più delicato della stagione per gli arbitri (e per gli assistenti, colpevoli sinora degli errori più gravi). E' sempre stato così. Ci vuole più concentrazione, e anche un po' più di coraggio da parte di qualche arbitro (vero, Tagliavento?).

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Mondiali di calcio. Progettate grandi opere per 250 miliardi: molte opportunità per le imprese italiane

2022, il Qatar gioca d'anticipo

Doha ha già lanciato l'asta per la costruzione del primo stadio

UN OCCHIO ALL'AMBIENTE Ottime le chance per il nostro settore

delle tecnologie ambientali: sarà la prima Coppa del mondo a impatto zero

di MICAELA CAPPELLINI (Il Sole 24ORE 12-11-2012)

Sarà all'interno di un centro acquatico e verrà climatizzato a impatto zero grazie a un'avveniristica copertura di pannelli solari. Quarantacinque gradi fuori, 23 dentro. Avrà un centro commerciale, un media center e persino una spa. È lo stadio di Al-Wakrah, il primo dei dodici che il Qatar dovrà costruire per i Mondiali di calcio del 2022. E la sua prima pietra sarà posata già all'inizio dell'anno prossimo.

Fa sul serio, il ricco emirato mediorientale. Soprattutto, ha deciso di partire con largo, larghissimo anticipo. Il mese scorso la Qatar 2022 Supreme Committee ha autorizzato il lancio del bando di gara per il primo stadio e i vincitori verranno annunciati già entro la fine dell'anno. Entro marzo 2013 verrà invece bandito l'appalto per il restyling dello stadio Al Rayyan. Sul piatto c'è una cifra enorme: non solo i 3 miliardi di dollari per gli stadi, ma anche i 20 miliardi per i trasporti, i 24 per le strade, i 12 per gli alloggi e via così, per un totale che la Qatar First Investment Bank quantifica in 65 miliardi di dollari. L'equivalente della manovra appena varata dal primo ministro spagnolo Mariano Rajoy.

In realtà, se mai è possibile, la posta in gioco in Qatar è ancora più alta: «Fra progetti infrastrutturali in arrivo e progetti in corso, a Doha si spenderanno 250 miliardi di dollari», assicura Ferdinando Fiore, direttore dell'Ice di Dubai che è anche responsabile del mercato di Doha. Una cifra astronomica in cui le imprese italiane possono e devono trovare la loro parte. «Impregilo ad esempio – prosegue Fiore – si è aggiudicata la realizzazione di un tunnel per la raccolta delle acque reflue. Per le aziende più piccole, invece, c'è sempre la possibilità di entrare come subfornitori». Quel che più importa, sostiene Fiore, è che l'Italia non sia percepita solo come patria del lusso – i cui beni esporta già in Qatar con grande successo – ma anche della tecnologia.

Vediamole nel dettaglio, queste grandi opere sul piatto. Si comincia con la metropolitana della capitale Doha, un groviglio di quattro nuovi percorsi e ben 340 chilometri di lunghezza che costeranno 25 miliardi di dollari. Poi c'è la modernizzazione del porto, che dovrà accogliere anche le navi da crociera di lusso - qualcuno i Mondiali li seguirà da lì - e che potrebbe essere completata a coppa del mondo finita: costo previsto 6 miliardi. C'è la realizzazione ex novo di un aeroporto, sempre nella capitale, che richiederà 11 miliardi di dollari. C'è il maxi-hub ferroviario, che in un soffio collegherà Doha al Bahrein e all'Arabia Saudita. Per atleti e turisti, sarà necessario arrivare a 94mila stanze d'albergo, contro le 45mila attuali, per un totale di 54 nuovi hotel. Occorreranno strutture ospedaliere e occorreranno medici e infermieri specializzati dall'estero.

Il tema della sicurezza avrà un ruolo importante, data la collocazione mediorientale del Paese e, soprattutto, dato il supporto che l'emiro del Qatar esprime nei confronti dei Territori palestinesi o delle primavere arabe. Una simpatia talmente forte da meritarsi un premio speciale: a Mondiali finiti, gli spettacolari stadi climatizzati da 3 miliardi di dollari verranno smantellati e usati per costruire 22 stadi in altrettanti Paesi poveri, uno dei quali sarà proprio la Striscia di Gaza.

Ancor più importante della sicurezza sarà la questione ambientale, un ambito in cui la tecnologia e le aziende italiane possono avere qualcosa da offrire. Quelli del Qatar saranno i primi Mondiali carbon free, a impatto zero. Le stesse coperture per il condizionamento degli stadi dovranno essere garantite da impianti a energia rinnovabile. Con la scusa della vetrina 2022, poi, a Doha hanno ripreso vigore vecchi, ambiziosi progetti che per un po' erano stati accantonati, come la torre da 122 piani del Convention center.

Tra l'Italia e il Qatar le relazioni economiche stanno intensificandosi negli ultimi anni. Dopo la recente visita dell'emiro Al Thani a Roma, il presidente Mario Monti sarà a Doha il prossimo 21 novembre, nell'ambito di un tour mediorientale che lo porterà anche in Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati. I Mondiali in questo caso non c'entrano: nel mirino del presidente c'è la promozione dell'Italia come destinazione credibile e sicura di investimenti. E a Doha i petrodollari - anzi i metano-dollari - non mancano.

Per le imprese italiane che invece vogliono salire sul treno dei Mondiali, gli interlocutori di riferimento sono molteplici. C'è la Commissione suprema che amministra l'evento, c'è la Qatar First Investment bank, c'è il neonato Italian Business Council in Qatar «e soprattutto ci siamo noi dell'Ice – suggerisce Fiore – che facciamo da collettori di informazioni. Non esiste infatti un'agenzia unica che gestisce gli appalti. Tranne che per gli stadi, le gare per il grosso delle infrastrutture fanno riferimento ai singoli ministeri pertinenti».

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Brasile-Russia. Il punto sugli appalti per gli altri due tornei

Gli impianti per Mosca?

In versione «last minute»

GRAVE RITARDO «CARIOCA» Le nostre aziende in campo come

subfornitori, ma le gare più importanti per la mobilità devono ancora partire

di MICAELA CAPPELLINI (Il Sole 24ORE 12-11-2012)

«L'esperienza delle Olimpiadi invernali di Sochi 2014 ce lo ha insegnato: fino a due anni prima del torneo, qui in Russia non si muove nulla». Scherza, ma non troppo, Matteo Masini, vicedirettore dell'ufficio Ice di Mosca. Per un Qatar che parte dieci anni prima, c'è una Russia che si sveglierà soltanto all'ultimo. Stiamo parlando dei Mondiali di calcio del 2018, quelli che saranno ospitati in 11 città dell'ex repubblica sovietica, tutte nella sua parte europea. Costo stimato dal ministero russo per lo Sport, il Turismo e le Politiche giovanili in un recentissimo rapporto: 632 miliardi di rubli, circa 16 miliardi di euro, di cui poco più di un terzo riservati agli stadi.

Se dunque per il Qatar le aziende italiane devono già muoversi, per la Russia c'è ancora parecchio tempo davanti. E soprattutto, ci sono modalità differenti nel farlo. Per Sochi, ad esempio, le gare internazionali si sono limitate agli impianti, perché erano sotto i riflettori della comunità internazionale. Il grosso delle infrastrutture è stato dato in mano a quattro gruppi finanziari russi, i quali hanno a loro volta affidato le commesse alle aziende con cui quotidianamente fanno affari. «Questo non significa che le imprese italiane non avranno chance – chiarisce Masini – Impregilo per esempio lavora con le ferrovie russe agli snodi attorno a Sochi. Significa però che bisogna muoversi per tempo nel darsi una presenza stabile in Russia. Una struttura con personale locale che, secondo la mentalità del paese, stringa i giusti contatti con chi probabilmente si aggiudicherà gli appalti».

Se Atene piange, Sparta non ride. E così, anche il Brasile è in ritardo sulla tabella di marcia. Un ritardo più grave di quello russo, poiché al countdown manca poco più di un anno e mezzo. «Se gli stadi sono a buon punto, sulle infrastrutture per la mobilità il ritardo è grave – racconta Giovanni Sacchi, direttore dell'Ice di San Paolo – dalle metropolitane al monotrilho, il treno monorotaia che collegherà l'aeroporto al centro di San Paolo, le gare stanno partendo adesso e qualcosa già si premette che non verrà finito in tempo per i Mondiali».

Cosa hanno saputo accaparrarsi le aziende italiane? «Soprattutto subforniture ai grandi consorzi brasiliani che si sono aggiudicati i lavori – spiega Sacchi – il gruppo Omsi, ad esempio, ha presentato varie offerte per la fornitura di sedute per i principali stadi, mentre Enel Green Power sta partecipando alla gara per la copertura con pannelli fotovoltaici dello stadio di Brasilia». Sul fronte della mobilità sono in pista, tra le altre, Geodata, che progetterà la Linea 5 della metropolitana di San Paolo; mentre Ansaldo-Breda fornirà una ventina di treni per la nuova linea della metropolitana di Fortaleza.

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Timing the key when it

comes to substitutions

by RORY SMITH (THE TIMES 12-11-2012)

Bret Myers has a theory. It is a theory that he believes can help your manager help your team win football matches. It is a theory he first established by examining almost 500 games. He then tested it against a further 1,300 fixtures, drawn from the Barclays Premier League, from Spain, from Italy and from Germany.

Myers, a former professional footballer in the United States, is now an assistant professor at Villanova Business School, in Pennsylvania. His theory is: “Heading into the second half of a game, if your side is behind, it is important to make your first substitution prior to the 58th minute.

“If you are still behind, the second change needs to come before the 73rd minute. If still behind, the third and final change should be made before the 79th minute. The studies we have done provide a clear recommendation for managers when it comes to substitutions. The rule appears to hold regardless of quality of opposition, and whether or not your team is at home.”

If this sort of thing seems remote, abstract, it is not. Myers’s pattern has a real impact. “The study assumes that a substitution strategy is successful if the goal difference is improved in the end,” he says. “It has been found that teams are roughly 40 to 45 per cent successful when following the rule and 18 to 22 per cent when not.”

To put this in layman’s terms: if your team is losing, and your manager does not follow the pattern, your team has a one in five chance of turning the result around. If he does follow the pattern, he more than doubles his odds of success. That is why Myers thinks his theory can help your team win football matches.

Football does not like numbers. “There is only one statistic that matters,” said Alan Green, while commentating on Liverpool’s 1-1 draw with Newcastle last Sunday. “And that is the result.” The Ulsterman is hardly alone.

Countless commentators, professional and amateur enthusiasts, would agree with his sentiment. The denizens of the Barclays Premier League disagree. Slowly but surely, clubs have come to realise that there are countless statistics out there that matter. They matter because they can lead to your team scoring more and conceding fewer goals.

That is why, on Wednesday, representatives of almost every Premier League club — plus delegates from the npower Championship, rugby league and the England and Wales Cricket Board — will gather at Manchester Business School for the second annual Sports Analytics Conference to hear Myers, and others, speak. They will attend because they believe that this is football’s cutting edge. Its next frontier.

The use of analytics in football is mired in misunderstanding. This is not baseball: there is not one magic number that can transform the game, just as soon as a Bill James discovers it and a Billy Beane implements it. There will be no Moneyball moment. What there are, though, are countless areas where teams need more knowledge.

“Everyone wants to know which numbers are important,” says Phil Clarke, the former Great Britain Rugby League captain and the director of The Sports Office, a company providing analytics software to a host of clubs, behind the Manchester conference.

“There has been a lot of information, a lot of numbers, around for a decade or more, since ProZone and Opta and all the rest started generating them. What we are trying to do now is to get more from them.” That is another misunderstanding: gathering numbers is just the first step. Establishing what they mean is entirely different.

“Clubs are doing more and more of this,” says Clarke. In a host of areas, too. “They are gathering information from saliva testing before training sessions and analysing the results to establish hydration levels. On the basis of that, they can determine what sort of training an individual player can do.

“Picasso once said that computers are useless, because they can only give you answers. What analysts are starting to do now is to work out what the right questions are. That is not to say that managers will suddenly become irrelevant: you still need that expertise to combine with the information. But you can’t manage what you don’t measure. The more knowledge you have, the better informed you are when you make your decisions.” The number of aspects of the game being investigated by those gathering in Manchester is staggering.

“Injury prevention, match analysis and scouting are the most interesting areas,” says Chris Anderson, a professor at Cornell University. “But the key is that clubs need to understand that they cannot do them all at once. The insights can come from within or outside, but organisations have to change. Different people have to be hired, responsibilities shared differently, and staff trained differently.” Anderson, like Clarke and Myers, knows that this is just the start. No magic answer will be revealed in Manchester. But football is approaching a new frontier.

58 — 73 — 79 The substitution pattern in minutes that, according to Myers’s study, gives teams the best chance of overturning a deficit.

10 Number of full-time analysts employed by Manchester City, the Premier League champions

32 million number of player ‘actions’ on Chelsea’s analytics database, drawn from more than 13,000 games.

1 in 9 corners that lead to a goal, according to figures generated by Chris Anderson. The vast majority are wasted.

400 Number of times the ball is turned over, on average, in the course of a Premier League game.

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Asia remains a long way

from realising its vast

potential on world stage

by GABRIELE MARCOTTI (THE TIMES 12-11-2012)

Some of the more doom-mongering economists out there suggest that Europe’s malaise is not cyclical like past ones but rather signals some kind of paradigm shift. We will never again be what we were: South America is booming, Asia is rising, even Africa is growing. The established order is no more. Does this extend to football?

Probably. We know Brazil is thriving and awash with money. More broadly speaking, the fact that South America’s footballing knowhow and talent production line matches, if not surpasses, most of Europe suggests that they are well on their way. North America, while also hurting economically, is not helped by geography and logistics — Concacaf’s delicate balance between giant nations and tiny islands does not make it an ideal vehicle for continental growth — so it may take a while. The same goes for Africa. Despite its enormous talent pool, the economic gap is so massive that you cannot expect it to close anytime soon.

Which leaves Asia. Financially, it is a match for anyone. There is also an interesting mix of styles, cultures and approaches. From Iran and the Gulf States to South Korea, Japan and China down to Australia (which, football-wise, is Asian), there’s plenty of potential and, in many countries, football is already king. Can Asia bridge the gap and turn itself into a legitimate world power?

If you consider performances in the group stages of the past three World Cups, you get some sense of the power relations between the various confederations. (I looked only at group stages because, if you include knockout phases, results can get skewed, as the quality of opposition increases. Bear in mind, though, that, as groups are seeded, it is often tougher for smaller nations.) South America is far and away the best performing continent, earning an average of 1.93 points per game, followed by Europe (1.57), Concacaf (1.03), Asia (1.00) and Africa (0.85).

It took Asian nations a long time to establish credible professional leagues — among the more established, Japan and South Korea date to the 1990s, Iran to 2001, Australia to 2005 — and that offers a sense of how much ground they have had to make up. Then there are the Gulf States, who represent a bit of a special case: plenty of (postwar) money, but smallish populations, a brutal climate and, until recently, a tricky sporting landscape.

Since then, they have tried to turn their showpiece, the Asian Champions’ League, into the kind of TV-friendly pan-continental competition that sponsors love. Saturday’s final, in which Ulsan Hyundai, of South Korea, defeated Al Ahli, of Saudi Arabia, 3-0, was a decent affair played in front of a 44,000-strong full house, with all the trappings of the big time.

It marked the third time in four years that a Korean club became champions of Asia and therein lies the problem: the AFC Champions’ League is a closed shop in the most literal sense of the word. There are 47 nations in the Asian Football Confederation, but only 11 of them are entered into the competition.

Nations are allowed to participate based on criteria that include competitiveness, professionalism, marketability and financial status. It was originally thought that, by setting the bar high, it would push other nations to invest in and raise the level of their domestic game. Alas, it has not worked out that way and the result is that even leagues in nations with sizeable economies, such as Malaysia, India or Pakistan, are shut out, as are Gulf nations who — one would imagine — could find the investment to make it work, such as Bahrain, Yemen or Oman. As a result, the AFC Champions’ League is a lot less representative, and less commercially viable, than it could be.

This does not mean that the level is not good. In fact, that is the flipside: by setting high minimum standards, you do not have minnows out for a hiding (or endless pre-qualifying as with Uefa competitions). Should they overcome Monterrey, of Mexico, at the Fifa Club World Cup next month and face Chelsea in the semi-finals, they will not embarrass themselves. In fact, the Asian Champions’ League winners have reached the semi-finals on each of the past three occasions, losing to either the Uefa or South American representatives.

Logic would suggest that the way forward involves pushing football in Asia’s other leading nations, allowing more leagues at least to join in qualifying and reaping the commercial benefits. The problem, as ever, is political. Asian football’s powerbrokers are split between large developed economies, such as South Korea, Japan, Australia and the cash-rich Gulf States. Not only are there deep cultural differences, there are also differing sets of priorities and modus operandi about how to grow the game locally.

The Asian Champions’ League could one day be not only a continental competition that rivals its Uefa counterpart (commercially, at least), but also help the game across Asia grow and fulfil its potential. It might even help unify the globe’s biggest and most divided continent. Right now, however, that day looks a long way off.

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“Nuestros estadios son cárceles”

La peor crisis de espectadores del ‘calcio’:

el 51% no ha pisado un campo en el último año

por ELEONORA GIOVINO (EL PAÍS 12-11-2012)

La Juve construyó un estadio de 41.000 espectadores para asegurarse que siempre estuviera lleno. Y aun así, en su estreno de Champions, en su vuelta a las competiciones europeas, solo había 29.330. El Milan sufre la peor crisis de abonados de la era Berlusconi: 22.000 en lugar de los 31.000 del año pasado. Lejos queda el récord de 72.000 de la campaña 1991-92. Contra el Cagliari, hace pocas semanas, solo 4.000 personas pagaron una entrada; en el debut europeo contra el Anderlecht, acudieron al estadio 22.000 personas. Solo en el Maksimir de Zagreb había menos gente (6.000). El Nápoles juntaba 65.000 espectadores en el San Paolo cuando jugaba en Tercera; ahora, en días normales, no hay más de 35.000. Nadie compra entradas. Muy pocos van a los campos. Es la crisis de un calcio cada vez más abandonado a sí mismo, sin estrellas (Sneijder y Boateng fueron los hombres de portada del derbi de Milán); salpicado por escándalos un año sí y otro también, y del que huyen hasta las nuevas promesas como Verratti, que ha fichado por el PSG porque allí le hablaban del “presente, no del futuro”.

Una investigación de DemosCoop desveló hace poco que hay un 13% menos de aficionados respecto a 2009. Si esa temporada más de un italiano de cada dos se definía como “aficionado al fútbol”, hoy son 4 de cada 10. Los que lo siguen en vivo son solo el 23,6%. Los horarios son los mismos de siempre: hay dos partidos los sábados (18.00 y 20.45) y los demás el domingo (uno a las 12.30; otro a las 20.45 y el resto a las 15.00 horas). Una encuesta en La Ġazzetta dello Sport desvelaba a principios de octubre que el 51% de los italianos que se declara aficionado al fútbol no ha pisado un estadio en el último año; el 33% lo ha hecho entre una y cinco veces; el 11%, entre seis y 10, y solo el 5% más de 10 veces. Entre los motivos, el 40% indicó el precio de las entradas, el 26% cree que es más cómodo verlo en la tele y el 19% considera los estadios peligrosos.

“Son cárceles a cielo abierto. Sus estructuras son obsoletas y hay violencia verbal entre dirigentes y física entre aficionados. Cada día más parcelas del estadio están en manos de los más violentos”, afirma Arrigo Sacchi. Paolo Condò, histórico periodista de La Ġazzetta, lo corrobora. “Tengo dos hijos pequeños, los he llevado al estadio en Francia y en España, pero en Italia no, por el clima de guerra. A los clubes no les interesa llenar los campos de familias”.

No es una casualidad que los estadios italianos sean los que menos se llenan de Europa. Un informe de la federación italiana (FIGC) del verano dice que el porcentaje de espectadores respecto a la capacidad del estadio es la más baja de Europa: 56% frente al 70% de Francia, el 75% de España, el 91% de Alemania y el 92% de Inglaterra. Eso explica que los ingresos de los clubes italianos por entradas y abonos hayan bajado de dos millones de euros en la temporada 1997-98 a en 800.000 en la 2010-11, según el mismo informe.

“Ir al estadio se ha convertido en algo complicado: por la tessera del tifoso [el carné del hincha que se impuso hace dos años], porque solo puedes comprar la entrada yendo al banco… y todo eso frena a la gente normal. Además de que, claro, el espectáċulo que vas a ver tampoco es especialmente bonito. Pero muchas veces no lo ha sido y aun así la gente iba a los estadios. Ahora sale más rentable verlo en casa de amigos. Divides el precio y adelante”, dice Gianni Mura, de La Repubblica. Una conocida empresa de cupones descuento ha empezado una campaña con los clubes para vender entradas más baratas. A eso ha llegado el calcio.

Para algunos, como Edison Cavani, sin embargo, sigue siendo atractivo. “El fútbol es uno y cada cual lo ve con su mirada y sus prismáticos. Yo de pequeño soñaba con el fútbol italiano, veía a Batistuta y mi objetivo era jugar en el calcio. Para mí era y sigue siendo top. No es justo decir que es un campeonato mediocre, muchos de los que han decidido irse lo han hecho por dinero”, declaró en una entrevista.

“Los mejores jugadores están en otros países, pero nadie en Italia se ha planteado sustituirles para favorecer un juego más armonioso o atractivo”, apunta Sacchi. ¿Y los escándalos? “La gente a eso está acostumbrada, somos un país de maquiavélicos. Sabemos que hay cosas sucias y parece que hasta nos gusta…”, dice Condó. “Lo que piensa el italiano medio no es ‘ no voy al estadio porque esta gente apuesta’ sino ‘no voy porque es una tomadura de pelo que ganen tanto dinero en plena crisis”, explica Gianni Mura. Ambos periodistas aseguran que el problema de la fuga de las estrellas es algo que afecta solo a algunos clubes, no al campeonato. Pero cuando se les pide que digan los nombres de 10 talentos del calcio no llegan ni a siete.

“Parece que la solución a la crisis de espectadores pasa por tener estadios nuevos y en propiedad. Pero el problema es el contenido, no el envoltorio. Puedes tener un estadio tan bonito y tan moderno como el del Ajax, pero si sigue llenándose de gilipollas no cambia nada”, concluye Mura.

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Calcio made in Italy, continua la fuga

degli spettatori dagli stadi di Serie A e B

La media quest’anno (neanche 23 persone a partita) è inferiore alle precedenti stagioni e impietosa rispetto agli altri campionati europei: 30mila negli ultimi due anni in Spagna, 35mila in Inghilterra, ben 42mila in Germania

di LUCA PISAPIA (ilFattoQuotidiano.it 12-11-2012)

Il calcio italiano, in crisi di appeal e di risultati a livello continentale, assiste impotente alla fuga degli spettatori dagli stadi. E la desertificazione degli spalti si ripercuote a sua volta, causa minori introiti, sul livello di competitività delle squadre in Europa. Domenica, per esempio, c’erano solamente 12.313 spettatori paganti a San Siro per la sfida del Milan contro la Fiorentina, che aggiunti ai poco meno di 24mila abbonati (in netto calo rispetto agli oltre 30mila delle stagioni precedenti, e in assoluto il record negativo dell’era Berlusconi) riuscivano a stento a riempire lo stadio per metà della sua capienza. Ma il problema non è certo del Milan, che anzi con 39mila spettatori di media è la seconda squadra con più pubblico dopo l’Inter. Quello degli spalti vuoti, che si giochi il campionato, la Champions League, o sia ospitata la Nazionale, è un problema che coinvolge l’intero paese.

La situazione è tragica. In Serie B la media degli spettatori è di poco superiore ai 5mila a partita, con un’utilizzazione della capienza degli stadi inferiore a un terzo di quella possibile, mentre negli altri tre grandi campionati europei (Germania, Inghilterra e Spagna) le seconde divisioni attirano una media di pubblico sfiora le 20mila unità. In Serie A non va certo meglio. La media quest’anno è inferiore ai 23mila spettatori a partita, in calo rispetto ai 24.031 di media della stagione 2010-11 e ai 25.282 della stagione 2009-10. Il confronto con gli altri campionati, tutti in crescita, è impietoso. Nella Liga spagnola la media negli ultimi due anni è stata intorno ai 30mila. Nella Premier League inglese oltre i 35mila. Mentre nella Bundesliga tedesca si superano tranquillamente i 42mila spettatori a partita.

Queste cifre tolgono di mezzo immediatamente il falso problema della televisione: anche all’estero le partite sono trasmesse in diretta. Anzi, in Inghilterra e Germania specialmente, vige anche la cultura del pub, o Kneipe, dove molti tifosi si ritrovano per vedere insieme la squadra del cuore. E ciò nonostante gli stadi sono pieni. Non è nemmeno un problema di qualità del campionato, dato che sabato in Inghilterra hanno assistito al pareggio tra Southampton e Swansea – compagini non certo colme di talento – in più di 30mila. Quasi il doppio degli spettatori di Genoa-Napoli (3mila paganti), dove erano in campo Cavani, Hamsik e compagnia. E allora si ritorna al problema degli impianti sportivi, fiore all’occhiello degli altri campionati, che dagli stadi ottengono il 25% dei ricavi annuali, mentre in Italia la percentuale scende al 12%.

A dimostrarlo, nel mare degli stadi vecchi e fatiscenti che tendono a respingere lo spettatore piuttosto che ad attirarlo, emerge l’esempio dello Juventus Stadium: unico impianto di proprietà tra le società italiane, con una media spettatori di oltre 38mila a partita e una percentuale di riempimento del 93%. Offrendo tale prodotto, a fronte di un investimento di poco superiore ai 125 milioni, la società bianconera nel bilancio 2011-12 appena approvato ha potuto segnare un aumento di oltre il 50% dei ricavi dagli abbonamenti e una crescita dei ricavi complessivi da gara che in una sola stagione sono passati da 11,5 a 31,8 milioni di euro. Oltretutto, in un recente convegno della Lega di Serie B, l’advisor Kpmg ha calcolato che per le società interessate a costruire nuovi stadi il costo per ogni posto a sedere dovrebbe essere compreso tra i mille e duemila euro. Una cifra recuperabile in poche stagioni.

Ma la soluzione non può essere quella della proprietà dell’impianto in sé e per sé, che si vorrebbe concedere attraverso leggi confuse che servono solo a favorire abusi e speculazioni edilizie quanto di investimenti seri, sulla falsariga tedesca e inglese. Anche nei confronti del tifoso che, una volta che è stato trasformato in consumatore, come tale andrebbe tutelato. Magari attraverso l’abolizione definitiva della cosiddetta tessera del tifoso, che ha avuto l’effetto di azzerare le trasferte. Altrove gli stadi sono pieni, e le squadre volano nelle competizioni continentali. In Italia si è passati dalle 15 finali europee degli anni Novanta (media spettatori intorno ai 30mila) alle 4 degli anni Zero (media intorno ai 25mila). Quest’anno tra Champions e Europa League rischiamo che già a dicembre solo due o tre squadre superino il turno. Il deserto sugli spalti si sta già ripercuotendo nelle bacheche.

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Conte risponde ai tifosi: «La panchina mi manca»

Il tecnico della Juventus carica l'ambiente: «Vogliono sminuire le nostre vittorie ma noi siamo più forti e i numeri parlano chiaro. Io come Ferguson? Spero di restate a lungo alla Juve. Pogba può diventare fra i migliori giocatori del mondo. Il ko contro l'Inter è servito per ritrovare la nostra intensità»

TORINO - Antonio Conte torna a parlare. Per farlo ha scelto la via dei social network, rispondendo ad alcune delle migliaia di domande arrivate dai tifosi bianconeri presenti in tutto il mondo. Eccovi le risposte del mister.

Che emozione provo quando ascolto i cori che i tifosi mi dedicano?

Il tifoso è tutto per me. Quando sento inneggiare il mio nome è una carica di adrenalina che mi fa rabbrividire. Così come è bellissimo essere fermato per strada dai tifosi che mi ringraziano per aver riportato la Juve in alto.

Qual è stata la prima cosa che ho detto ai giocatori dopo la vittoria dello scudetto?

Ci siamo abbracciati e abbiamo parlato poco. Abbiamo anche pianto per la gioia perchè sappiamo cosa è stato per noi arrivare allo scudetto e alla finale di coppa Italia. Conosciamo il lavoro che c'è stato dietro per raggiungere quell'obiettivo. Cercheremo di confermarci quest'anno anche se non sarà facile.

Quanto mi manca la panchina?

Me ne sono fatta costruire una in casa da mia moglie. E invito anche quelli dello staff, così quando vedo la partita alla televisione riesco a litigare con qualcuno. Scherzi a parte, ovviamente mi manca tanto. Il mio lavoro si è dovuto triplicare in questi tre mesi perchè se prima riesci ad intervenire fisicamente, adesso è più difficile. Ho comunque dei collaboratori ottimi e dei calciatori molto responsabili che sono prima degli uomini e poi degli splendidi professionisti. Ci sta aiutando molto il fatto di essere insieme da più di un anno e il nostro metodo di gioco ormai è assimilato. Mi manca molto il contatto con l'erba, i tifosi, gli arbitri, i miei ragazzi e gli avversari.

Come sostituire Asamoah durante la coppa d'Africa?

Intanto pensiamo ad arrivare al meglio a gennaio. Abbiamo in rosa elementi ottimi che potranno sostituirlo adeguatamente, a cominciare da De Ceglie che purtroppo ha avuto qualche problema fisico in questo inizio di stagione ma su cui punto tanto, e poi Giaccherini, Padoin e Pepe. Sono tranquillo perchè ho grande fiducia nella rosa che ho a disposizione.

Virtù fondamentali per raggiungere gli obiettivi?

Ce ne sono molte. Quando mi guardo, faccio riferimento al mio passato da calciatore. Ero un giocatore semplice, con grande corsa ma mezzi tecnici non eccelsi. La mia dote fondamentale era quella di volermi sempre migliorare su tutto, con umiltà e voglia. Grazie a questa virtù sono diventato capitano e ho potuto giocare in Nazionale. Alla fine quello che conta è riuscire a scrivere pagine di storia e lo si fa unicamente vincendo. Dobbiamo vincere cercando di eccellere nel gioco e nei comportamenti.

Quanto rimpiango il pari in terra danese?

Mai guardarsi indietro ma sempre avanti. Ora pensiamo alla Lazio, impegno probante e poi affrontare la sfida con il Chelsea. In Danimarca è stato un pari ingiusto. Abbiamo dominato ma non siamo riusciti a vincere. Mi ha fatto sorridere che quando ho letto che loro venivano considerati una squadra equivalente ad una di serie C del nostro campionato. Invito i critici a vedere le partite dei danesi contro le altre squadre del girone. Loro mercoledì sera hanno perso perchè la Juve ha fatto una grande partita e non per la loro pochezza. Ho letto anche che l'impegno contro il Pescara è stato semplice: non è vero. Siamo stati noi con il nostro approccio alla sfida a rendere facile il match.

Lo scudetto più bello, quello del 5 maggio o questo da imbattuto?

Permettetemi di scegliere e di dire quest'ultimo perchè è il mio primo successo da allenatore. E' una soddisfazione enorme che senti maggiormente perchè è la tua creatura che hai messo in piedi grazie alla società. Anche la vittoria della Supercoppa mi ha regalato grandi emozioni. Solo nei sogni migliori potevo sperare in un esordio così sulla panchina della Juve.

Il nostro gioco è simile a quello del Borussia Dortmund?

Mi piace molto la squadra tedesca. La studio da tempo visto che sono molto pignolo. Ho visto l'ultima sfida che loro hanno fatto contro il Real Madrid e mi hanno impressionato per la corsa e la qualità del gioco. Hanno un ottimo allenatore. Vedo attinenze con la mia Juve.

Io il Ferguson della Juve?

E' un calcio intenso e stressante, quello che si gioca in Italia. Quelli che noi affrontiamo ogni anno sono pesi calcistici ed extracalcistici. Mi auguro di restare in bianconero per tantissimo tempo perchè sono nel posto dove mi auguravo di essere quando ho cominciato ad allenare. Spero di continuare a crescere assieme alla mia squadra e di proseguire questo rapporto il più a lungo possibile.

Cosa vuol dire Juventus per me?

Juventus è emozione e una parte di vita professionale importantissima, determinante. Mio padre era juventino e questo la dice tutta su come siamo nati e cresciuti anche nella mia famiglia. Io ho avuto la fortuna di giocare nelle due squadre del mio cuore: Lecce e Juventus. Io ora sono un professionista e ho amato le squadre che ho allenato, dall'Arezzo al Bari, fino all'Atalanta e al Siena. Ora sono tornato a casa, alla Juve.

Quanto credo in Pogba?

Paul ha 19 anni e io non ci ho pensato neanche un attimo a dargli una maglia da titolare e responsabilizzarlo. Io ho esordito in A a 19 anni, quindi mi riconosco in lui. Pogba ha qualità e mezzi straordinari. Ora sta a me - e a lui - farlo crescere e farne un campione. Ha potenzialità enormi e può diventare tra i numeri uno al mondo. Però non deve mai perdere la bussola. A 19 anni basta una partita giocata bene per farti perdere la testa.

L'imitazione di Crozza mi dà fastidio?

Ormai mia moglie quando mi vede arrabbiato mi dice: "Agghiacciante, agghiacciante". Essere imitato vuol dire aver raggiunto una popolarità importante. Prendo il lato positivo della storia. E poi sono contento perchè così Crozza quando mi imita può mettersi i capelli in testa che altrimenti ne sarebbe sprovvisto.

Il più grande giocatore contro cui ho giocato?

Senza dubbio Maradona. Ci giocai contro con la maglia del Lecce, erano i suoi ultimi anni ma era incredibile. Ora Messi è sulle sue orme.

Quanto risente la squadra della mia assenza in panchina?

Ho già detto prima quanto mi manca il campo, però abbiamo la fortuna di avere alle spalle un anno in più di lavoro con dei calciatori insostituibili. Nonostante la mia assenza, stiamo facendo cose straordinarie che i media non mettono, secondo me, in dovuto risalto.

Perchè non do continuità agli attaccanti, preferendo la continua rotazione?

Continuità è far giocare per 2-3 partite consecutive gli stessi attaccanti e quindi lasciare in panchina gli altri. A me quello che interessa è che ci sia sempre una grande risposta da parte dei miei 5 attaccanti. Io non ho gerarchie, ho attaccanti che si equivalgono, pur avendo caratteristiche diverse. Io li valuto durante gli allenamenti. Per il momento ho sempre avuto grandi risposte da parte di tutti. Purtroppo è inevitabile che ci siano sempre polemiche, create ad arte. Quagliarella è stato utlizzato il giusto, non è vero che l'ho usato poco. Mi spiace che in Italia si pensi solo alle polemiche e non ai risultati. Così prenderemo sempre schiaffi in Europa, come stiamo facendo adesso.

La più grande difficoltà di allenare un club come la Juve?

E' quella di vincere. Mi devo confrontare con un malcostume che non riguarda l'aspetto sportivo ma il tifo. Si dice sempre che la Juve o la si odia o la sia ama. Io penso che si dovrebbe essere più educati e rispettosi del lavoro altrui. Dire anche che la Juve ha giocato un bel calcio, che per 49 partite è stata imbattuta. Queste cose non vengono mai fuori ma si percepisce solo un grande "tifo", soprattutto tra i giornalisti. La professionalità dovrebbe sempre prevalere sul tifo. Mi spiace per ciò che è accaduto dopo Juventus-Nordsjelland, quando ho visto con i miei occhi in sala stampa giornalisti (tanti, non uno solo) esultare per un gol dei Blues che, tra l'altro, non sono neanche una squadra italiana. E' stata una mancanza di rispetto e mi sono vergognato per loro, per quei giornalisti.

Cosa si prova ad aver riportato la Juve in alto dopo Calciopoli?

Provo grande gioia e anche un po' di stanchezza. Però poi ripenso a ciò che è accaduto lo scorso anno e allora mi torna il sorriso. Questi successi sono figli di un lavoro costante e degli sforzi importanti. Lo scudetto dell'anno scorso deve essere motivo di orgoglio e soddisfazione: con lavoro, passione e umiltà si possono raggiungere traguardi che all'inizio sembrano inarrivabili.

Il ko con l'Inter frutto di una fame meno intensa?

La Juve la fame non l'ha mai persa anche se in alcune sfide avevamo dimostrato meno intensità. Ovviamente la striscia incredibile di risultati utili ci ha dato fiducia ma ci ha portato a sottovalutare quanto sia importante l'intensità. Il ko con l'Inter mi ha amareggiato ma vanno fatti i complimenti all'Inter, una squadra contro la quale rivaleggeremo per lo scudetto fino alla fine.

Perchè non gioco con il 4-3-3 contro le squadre più piccole?

A me interessano più i principi di gioco che i numeri. E poi il 4-3-3 è un modulo più difensivo di quello che stiamo utlizzando adesso.

Persone alle quali mi sono più ispirato?

Alla mia famiglia in primis che mi ha portato ad essere ciò che sono ora. Io sono una persona leale, dura, che non ama compromessi. Nella mia carriera, poi, ho avuto la fortuna di avere tutti i più bravi allenatori e compagni di squadra incredibili, a cominciare da Zidane e Montero.

Mai pensato di abbandonare tutto in questi mesi?

Domanda che mi fa male perchè mi chiede dei miei stati d'animo. Sicuramente ho attraversato dei momenti molto difficili nei quali non riuscivo a trovare un perchè. Io sono una persona molto alla mano e devo trovare un perchè in tutto e quando non lo trovo mi sforzo comunque di cercarlo. Mi è stato di grandissimo aiuto il fatto di avere a sostegno, oltre alla mia famiglia, anche Andrea Agnelli che mi ha dimostrato fiducia incondizionata su tutto e tutti. Per me questo è stato molto importante, soprattutto per gestire il mio autocontrollo. Mi piacerebbe che chi ha espresso pareri 'da paladino' passasse ciò che sto passando io...

Le mie due partite perfette con la Juve?

La vittoria in Champions da calciatore e quella all'Old Trafford contro il Manchester, quando feci gol. Dopo quella partita incrociai all'aeroporto dei tifosi della Juve che mi diedero una incredibile dimostrazione d'affetto.

Rapporto con Del Piero?

Sincero e schietto. Con lui abbiamo passato dieci anni da compagni e quindi è stata una storia basata sulla schiettezza e l'onestà. Io lo ringrazierò sempre per come si è comportato lo scorso anno, è stato fondamentale. Sono felice che ora sta facendo bene in Australia. E' un protagonista assoluto e non poteva essere altrimenti. So che tifa e tiferà sempre per noi.

Quali caratteristiche ha Giovinco e cosa può ancora esprimere?

Io ho dato fiducia a lui, come a tutti i miei giocatori. Lui è un calciatore nato nel settore giovanile, come Marchisio e De Ceglie. Fa parte della nostra cantera e sono orgoglioso di lui. Sebastian è un giocatore che, rispetto agli altri attaccanti, ha più facilità nell'uno contro uno e decide anche con gli assit le partite. Giovinco deve crescere come tutti gli altri.

Ci sono soldatini alla Juve?

No, qui ci sono professionisti seri e impeccabili. Quando andiamo a prendere un calciatore, le cose che andiamo a vedere sono i suoi requisiti umani perchè nei momenti di difficoltà il giocatore viene sempre in secondo piano ed emerge l'uomo. Se dietro l'uomo c'è solo un chiacchierone, allora preferiamo lasciare questo giocatore agli altri.

La Juve può arrivare alla finale Champions?

Vorrei ricordare a tutti da dove arriviamo, anche se non mi piace ribadirlo più di tanto. C'è una strada da percorrere molto lunga. Lo scudetto dello scorso anno era una cosa impensabile a tanti. Ora siamo tornati in Champions ma c'è tanta da strada da fare e se Mancini dice che il Manchester City ha bisogno di 10 anni per vincere la Champions, allora dobbiamo essere pazienti. Per il momento siamo imbattuti e ce la giocheremo contro il Chelsea. Se saremo bravi andremo avanti, altrimenti ci riomboccheremo le maniche e continueremo a lavorare duramente. L'importante è non essere impazienti.

Chi sarà l'antagonista per lo scudetto della Juve?

Inter, Napoli, Fiorentina, Lazio, Milan e Roma sono tutte attrezzate per vincere. Noi guardiamo solo in casa nostra. Con questo ho concluso. Volevo ringraziare tutti i tifosi bianconeri che in questo periodo, assieme alla mia famiglia, mi hanno dato tanta energia e grinta. Sempre uniti e sempre forza Juve!

qui il video

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Giornalisti sportivi alla prova del tifo

di Flavio Tranquillo - Il fatto Quotidiano - 12 novembre 2012

Maurizio Crosetti qualche giorno fa su Repubblica ha scritto cose come sempre assai interessanti. L’argomento è una frase di Conte (“Chi è quella m…. che ha esultato?”) in occasione di un gol del Chelsea asseritamente festeggiato in sala stampa da giornalisti anti-juventini.

Sul tema del tifo dei giornalisti sportivi partirei con un po’ di outing, che ai lettori non dispiace quasi mai.

2 aprile 1987, Losanna, finale di Coppa dei Campioni tra Tracer e Maccabi. 71-69 Milano, pochi secondi sul cronometro, Meneghin sbaglia il lay-up della staffa, Doron Jamchy cincischia con la palla in mano, il suo tiro cortissimo finisce inoffensivo nelle mani di Bob McAdoo e dopo 21 anni il massimo trofeo continentale torna a Milano. Un giovane precario seduto in tribuna stampa balza in piedi e lancia un urlo belluino per sfogare tensione e gioia per la vittoria (non sua peraltro).

Il capo-rubrica basket del quotidiano sportivo più venduto in Italia, che teneva quel precario “sotto osservazione”, guarda schifato e decide che in Via Solferino spazio per lui non ce ne sarà mai. Senza vergognarmi di essere stato quell’urlatore, è appena ovvio che avesse ragione il prestigioso collega.

Le due cose, tifo e giudizio intellettualmente onesto, non sono compatibili. Se uno non riesce a rinunciare alla prima non deve certo nascondere il proprio animo ma semplicemente scegliere un altro lavoro. Non finirò mai di ringraziare quel capo-rubrica, perché mi ha spalancato le porte di un mondo, quello Tv, molto più adatto a me. Ma ancora di più perché quello sguardo di riprovazione mi ha fatto capire che è meglio vedere professionalmente lo sport senza foderarsi le lenti col prosciutto del tifo.

Dopodichè, molto laicamente, non sarò certo io a scagliare pietre contro i giornalisti che invece il tifo non lo soffocano. E’ una scelta personale, ognuno faccia il proprio gioco. Ma proprio ricordando quell’urlo, sarebbe presuntuosissimo pensare di riuscire a combinare uno stato d’animo che ti espone ad una simile figuraccia e l’obbligo professionale di equidistanza, anche se questo non significa che resoconti e commenti debbono essere affidati a robot col bilancino.

Ma è legale non essere tifosi in questo paese? Scorrendo la Costituzione, trovo all’articolo 112 che obbligatoria è l’azione penale. L’articolo 34 definisce obbligatoria l’istruzione inferiore. Ma da 1 a 139 il tifo non è menzionato. E allora non capisco perché tifosi si debba essere per forza, anche contro la propria volontà. Fidatevi, se fate i telecronisti le prime due domande che vi verranno poste saranno 1) “serve qualcuno da voi?” e 2) “per che squadra tifi?”.

Per fortuna non sono certo io a decidere le assunzioni. Ma soprattutto, non può essere dato per scontato che abbia una squadra del cuore. A meno che … A meno che, come credo, non sia una maniera per sdoganare il tifo come atteggiamento. In poche parole, tutti tifosi, nessun problema. E invece no ragazzi, non può e non deve essere così. Lunga vita ai supporter che sull’altare della propria passione sacrificano tempo, denaro ed energie.

Come detto è un modo di fruizione dello sport che non mi appartiene, ma finchè è rispettoso delle altrui libertà, è uno spettacolo favoloso. Non però se questo significa dover scegliere. Allenatori e dirigenti spesso pretendono tifo a favore, e bollano come altrui tifosi quelli che non battono la grancassa per loro. Colleghi ed addetti ai lavori invece, altrettanto spesso sanno, o meglio credono di sapere, da che parte stai. Se date ascolto ad un pentito, si può vivere (bene) anche senza appartenenze.

Ah, piccola postilla. Pensate alle questioni più importanti dello sport, e magari ci sta qualche parallelismo … Che poi un tifo, specie in queste faccende, sarebbe ammesso. Anzi, questo sì che sarebbe obbligatorio da Costituzione (articolo 4, “ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”) . E’ quello per chi sta dalla parte giusta, anche se fa cose che non sono nei nostri interessi diretti.

Quello, per intenderci, delle immortali parole di Paolo Borsellino. “Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dava al lavoro del giudice, significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche svegliando le coscienze”. Game, set and match.

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LA STORIA

Il Davide dello sport pulito

Trenta anni contro il Golia doping

Sandro Donati, ex dirigente Coni ed ex allenatore ora consulente della Wada, racconta in un libro, un diario minuzioso e preciso, fatti e personaggi della lotta alla farmacia proibita che ha distrutto ogni credibilità dello sport. Una cronaca che mette a nudo tutte le responsabilità, anche del sistema mediatico

di EUGENIO CAPODACQUA (Repubblica.it 12-11-2012)

Un diario personale minuzioso e preciso. Che inchioda inesorabilmente alle proprie responsabilità un'intera generazione di atleti, tecnici, dirigenti sportivi. Una storia, quella del doping nello sport nostrano "vissuta in prima persona", come dice lo stesso autore, quel Sandro Donati, che è stato, a partire dai primissimi anni 80 il primo grande combattente sul fronte della farmacia proibita che ha distrutto negli ultimi 30 anni ogni credibilità dello sport. Specie quello di vertice. E nel tempo è divenuto la memoria storica di tutto o quasi quello di grave in questo campo che è successo nel Bel Paese.

"Lo sport del doping" (sottotitolo: "Chi lo subisce e chi lo combatte", Le staffette, edizioni Gruppo Abele pgg.300) è un libro importante. Un paradigma, quello dell'ex dirigente Coni, ex allenatore e oggi consulente della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, nonché validissimo collaboratore dell'associazione "Libera" di Don Ciotti, perché nessuno più di lui che ha vissuto direttamente le vicende che racconta con meticolosità ragioneristica può fotografare quella triste realtà. Fatta da dirigenti senza scrupoli capaci di ogni compromesso per aggrapparsi alla poltrona, da tecnici e medici cinici e senza scrupoli, da atleti deboli e spesso conniventi, da media quanto meno superficiali. Un libro che è la "summa" di quanto di brutto è stato fatto in ambito sportivo nell'ultimo trentennio e che illustra in modo esemplare come, al pari dei famigerati paesi dell'est in Italia ci sia stato per un certo, lunghissimo, periodo, un vero e proprio "doping di Stato". La figura centrale di questo racconto, che ha la forza del diario scarno e senza fronzoli, ma che coinvolge nel crescendo di efferatezze che illustra, è quella del professor Francesco Conconi, al centro di un'indagine penale conclusasi con la prescrizione per scadenza dei termini, ma le cui motivazioni sono un feroce atto di accusa contro l'intero sistema sportivo.

Si va dalle ricerche sul dosaggio degli anabolizzanti per gli azzurri di alto livello, fatte con la complicità delle strutture Coni, alle trasfusioni vietate, agli anni dell'epo, l'ormone che ha cambiato il volto di gran parte dello sport nostrano e mondiale. Anni in cui l'ente di stato finanziava un controllo antidoping di facciata e poi ugualmente foraggiava le pratiche dopanti più vergognose e pericolose per la salute degli atleti. E poi i casi Farragiana, il salto truccato di Evangelisti, i rapporti con Nebiolo (ex numero uno dell'atletica, deceduto nel 1999 ) e il potere sportivo: Carraro, Pescante, il segretario Pagnozzi, favoritissimo per la prossima elezione a presidente del Coni. Fino ai giorni nostri con Armstrong e compagnia. Atleti che si piegano alla volontà di dirigenti e tecnici scellerati; altri che si oppongono finché possono.

Una cronaca incalzante che mette a nudo anche le grandi responsabilità del sistema mediatico, fermo ad atteggiamenti celebrativi che ancora oggi condizionano molte scelte su giornali e tv; sordo e cieco di fronte a segnali, allarmi e denunce. Anche se all'autore nella foga del racconto e nella rabbia dell'uomo solo contro tutti, sfugge come alla fine proprio dal sistema mediatico è passata - sia pure fra mille difficoltà e contraddizioni - quell'informazione che ha fatto esplodere scandali e alla fine sgretolare il muro dell'ipocrisia.

E' la storia di un Davide dello sport pulito che si batte contro un Golia dello sport che si è negli anni trasformato in business, danaro, affari. Perdendo tutte le valenze e i valori originari. Anzi, mettendosi dietro un velo ipocrita di valori costantemente contraddetti da comportamenti ambigui e diseducativi.

In cui di fronte al risultato da raggiungere ad ogni costo non c'è umanità che tenga. Una storia che non risparmia nessuno, neppure quegli ambienti della magistratura (il famigerato "porto delle nebbie" della Procura di Roma), che troppo a lungo ha fatto da oscura spalla ad un governo sportivo che per giustificare il vortice di miliardi degli anni d'oro del Totocalcio, non ha esitato a ricorrere ai mezzi più bassi e vili.

Una storia che rivela momento terribili di solitudine. Come quando Donati scopre che contro di lui il Coni schiera gli avvocati più famosi. Ma poi perde. E alla fine vince lui. Non perché il doping e l'imbroglio sia finito e sconfitto, ma perché se adesso c'è un minimo di coscienza e di scetticismo di fronte a tanti "eroi" dello sport fasulli e dirigenti "specchiati", lo si deve anche alle battaglie fatte da Donati e da pochi altri come lui. Battaglie che lanciano il seme dell'impegno, anche quando il confronto è impari e le forze in campo sbilanciatissime. "Nel mio impegno di tanti anni sulla problematica del doping e in altre strettamente attinenti - scrive Donati - ho avuto spesso l'opportunità di scoprire e toccare il re nudo, per cui nella mia mente non ci sono più potenti al di sopra di tutto e di tutti, ma comuni mortali - ambiziosi e spregiudicati quanto si vuole - ma resi forti da catene di potere: partiti politici, logge massoniche che si arrogano il diritto di fissare gli obbiettivi della collettività, tante altre associazioni finalizzate allo scambio di favori. All'interno di una catena del genere anche individui comuni possono apparire dei giganti...".

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SANDRO DONATI

«Il doping è come un fiume carsico

L’atleta oggi è più solo che mai»

Intervista all’ex allenatore azzurro, autore di un nuovo libro contro lo sport chimico

«Possiamo accettare che Schwazer sia la vittima finale? C’erano indizi su lui»

« L’atletica ha corrotto tutto lo sport diffondendo la scienza del male»

«Il preparatore atletico della Juve è legato a Fuentes ma la Spagna insabbia tutto»

di EMILIANO BERNARDINI (Pubblico 13-11-2012)

Pone domande, attacca, scuote coscienze Sandro Donati nella sua ultima fatica editoriale, Lo sport del Doping. Chi lo subisce, chi lo combatte (gruppo Abele Edizioni). Un libro destinato a fare rumore, presentato ieri nella sede romana dell’Fnsi alla presenza di Don Luigi Ciotti che l’ha definito «un atto di giustizia fondato sulla più seria ricerca documentale, una denuncia rigorosa e competente, un contributo di grande democrazia». Ex allenatore del mezzofondo azzurro, da più di 30 anni paladino della lotta alla farmacia proibita dello sport, Donati è consulente dell’Agenzia mondiale anti-doping (Wada) dopo esser stato emarginato dal Coni. E proprio dai vertici del Comitato olimpico italiano, comincia il suo j’accuse. «Nella mia carriera ho avuto rapporti di lavoro con tutti, da Pescante a Pagnozzi: volevano che facessi l’indiano, speravano fossi loro complice. Ma quello che mi ha deluso di più è il presidente Petrucci. Poco dopo la sua elezione nel ‘99, chiamò me e il dott. Bellotti (direttore della Scuola dello sport, ndr) e ci disse: ‘Io questo schifo del doping non lo tollero. Andate avanti, avete carta bianca’. Ma poi nel momento del bisogno ci ha abbandonato. Alla vigilia delle Olimpiadi del 2000, fece sua la lezione del pragmatismo sportivo imperante all ’epoca, riassunta nella frase di un ct dell ’atletica azzurra: il pubblico è interessato alle medaglie, lei è in grado di garantirle solo con la tecnica di allenamento?». E infatti i controlli a sorpresa sulla comitiva in partenza per i giochi si fermarono. I dati sui valori fuori norma di molti atleti, infilati in un cassetto.

Dottor Donati, è cambiato qualcosa rispetto ad allora?

Le istituzioni sportive, e non solo quelle italiane, fanno di tutto per nascondere, per coprire. Ora hanno il problema delle indagini giudiziarie che creano una destabilizzazione. Questo crea dei buchi nell’assetto di copertura. Quindi è più difficile insabbiare gli scandali completamente.

Però lei vede una linea di continuità con il passato, giusto?

Una continuità totale. L’unica cosa che è cambiata è ora il doping non è più esplicito, ma continua come un fiume carsico affidato all ’inziativa del singolo atleta, che mai come in questo momento è debole e solo.

Si riferisce ad Alex Schwazer?

Possiamo accettare che Schwazer sia la sola vittima finale? E tutti gli altri? Parlo dei medici, degli allenatori, degli sponsor, delle Federazioni. Tutti coloro che beneficiano del successo di un atleta ma poi nel momento dello scandalo restano sfocati, nell’ombra. È evidente che lui durante gli interrogatori si è autocensurato per non compromettere le sue possibilità residue di raggranellare qualcosa. L’atleta, quando raggiunge il successo, è una vittima potenziale di se stesso. Io ricordo sempre che i farmaci li prende l’atleta mentre i dirigenti si guardano bene dal darli ai propri figli.

La positività all’Epo di Schwazer prima dei giochi di Londra è stato uno shock per tutti.

Ma c’erano tutti gli indizi e persino variazioni ematiche sospette perché sull’atleta fosse fatto un controllo a sorpresa da parte della federazione italiana e del Coni. Se fossi un giornalista, mi piacerebbe chiedere al segretario del Coni, Raffaele Pagnozzi, come facesse ad essere così sicuro che Schwazer dopo Londra sarebbe diventato una leggenda olimpica.

Solo colpa delle istituzioni sportive?

La maggior parte delle colpe sono da imputare alle istituzioni politiche che hanno delegato a quelle sportive tutto questo potere. Dovevano capire fin da subito che lo sport non poteva essere il controllore di se stesso. Tanto meno che potesse eliminare le mele marce al proprio interno.

Nel libro lei se la prende anche con i media.

Spesso nella stampa prevale la strada in discesa dei vincitori con il vento a favore. Ci sono sempre state voci fuori dal coro ma sono dovuti scoppiare scandali clamorosi affinchè la grande stampa aprisse gli occhi. Su Lance Armstrong per esempio, chissà in quanti si staranno vergognando dei tanti pezzi trionfalistici scritti in passato.

Armstrong e Schwazer, il punto di contatto è il famigerato Dottor Michele Ferrari.

La matrice di partenza di Ferrari è quella che riporta a Francesco Conconi e al Centro studi dell ’Università di Ferrara. Una matrice alimentata dal sistema sportivo italiano e dal denaro pubblico. Di questa alleanza faceva parte il Consiglio nazionale delle ricerche che ha collaborato con il Coni per innalzare l’onore della patria in maniera fittizia. Quella di Ferrari è la storia di un professionista che ha cominciato ad operare in maniera disinvolta. Oggi le metodologie di allenamento sono state schiacciate e messe in secondo piano dall’abuso degli ormoni, soprattutto negli sport individuali. Il ritardo dell’antidoping ha effetti devastanti perché consente per lustri di usare prodotti che non figurano come vietati arricchendo le aziende farmaceutiche. Questo ha fatto si che ai vertici dello sport arrivassero medici e allenatori spregiudicati.

Cosa sa di Julio Tous Fajardo, il preparatore atletico della Juventus, guru spagnolo dell ’allenamento di potenza e velocità?

Ha dei legami che lo portano al Eufemiano Fuentes, il dottore dell’età dell’oro dello sport spagnolo. Un cartello internazionale con interconnessioni evidenti. Purtroppo la magistratura iberica è al servizio delle istituzioni per cui non si è mai fatta luce su alcuni collaboratori di Fuentes legati al calcio e coinvolti nell’Operacion Puerto.

Nel calcio si continua a dire che il doping non serve, dunque non c’è.

C’è eccome. Dopo le denunce di Zeman nel ‘98, si scoprì che il laboratorio dell’Acquacetosa il doping non lo cercava proprio. Quando cominciarono a cercarlo, saltarono fuori 11 casi di positività al nandrolone. Come al solito fu messo tutto a tacere. In Italia l’Agen - zia antidoping sta di casa al Foro Italico perchè il Coni ha convito il governo che non c’è bisogno di una agenzia indipendente. Se ne occupa direttamente il Coni, che così se la canta e se la suona.

Come interpreta i continui malesseri di Federica Pellegrini?

Ognuno può riflettere da solo quando si ripetono certi episodi. Così come fanno riflettere le dichiarazioni spontanee di Alessia Filippi quando commentando la storia della giovane nuotatrice finita in coma per aver assunto bicarbonato, ha ammesso candidamente che anche lei lo prendeva. Qualsiasi cosa dico sulla Pellegrini verrebbe amplificata all’inverosimile e scatenerebbe polemiche infinite. Io parlo sulla base di prove concrete, certo è che dobbiamo fare attenzione a certi segnali. L’attenzione non può essere data solo dai medici che sono intorno agli atleti.

I record dell’atletica andrebbero cancellati come i titoli di Armstrong?

L’atletica è stata la corruttrice di tutto lo sport perché ha lanciato la scienza del male e fatto toccare con mano, attraverso misure e tempi stratosferici quanto il doping potesse incidere sui risultati. E’ un insulto ai giovani che di fronte a quegli obbiettivi irraggiungibili, sono mandati allo sbaraglio. Mantenere quei record è puro cinismo.

Ha mai temuto per la sua incolumità?

No, mai ricevuto minacce o cose simili. Promesse di querele, quelle sì, tante. Sono ancora qui che aspetto.

Modificato da Ghost Dog

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Corriere della Sera - Roma 12-11-2012

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POLTRONISSIMA di CARLO TECCE

(il Fatto Quotidiano del Lunedì 15-10-2012)

Giancarlo,

l’Abete sempre verde

Giancarlo Abete ha una qualità che, in tempi di mobilità e precarietà, è fondamentale: è un uomo statico. Non aspetta lo scatto di carriera, non lo desidera, non lo cerca. Il figlio e fratello Giancarlino, che organizzava le partite di calcetto a Montecitorio, unica propensione al movimento giocando (si racconta) come esterno sinistro, è paziente e accorto. È cresciuto tra i banchi di Montecitorio, ovviamente con la Democrazia cristiana, che l'aveva adottato per strapparlo ai fasti di una famiglia di imprenditori e politici molto influenti e molto svegli, partiti dal Sannio e sbarcati a Roma. Il ragazzo rischiava di perdersi, e la Camera l'avrebbe aiutato. Tre legislature, la seconda, appunto, per scomparsa di avversari. Nel gennaio 1983, all'improvviso morì Amerigo Petrucci, ex sindaco di Roma, e Giancarlino gli subentrò per non staccarsi più dal centro romano finché la ramazza di Mani Pulite gli consigliò di dedicarsi al più semplice e amorfo mercato italiano: il calcio, la Federazione che gestisce il “giuoco”. Rapida ascesa, piedi puntati e sguardo assente. I mille confronti con se stesso: “Non so se mi sono spiegato”. Non importa. Davanti lo proteggevano Luciano Nizzola e Antonio Matarrese, Giancarlino sostava adagiato in seconda fila, sapendo, come gli automobilisti più scaltri, che quel posto primo o poi l'avrebbero liberato. Lui non doveva fare nulla. Non suonare, non lampeggiare. Doveva, semplicemente, spegnere il motore e attendere il turno. Così poteva giocare, in casacca familiare, al giovane industriale laziale, passare di timone in timone senza cambiare rotta. Chi non si sporca le mani, in teoria, se le ritrova pulite. E Giancarlino ha sfruttato la melma di Calciopoli, che buttò fuori il mammasantissima Franco Carraro, per rivendicare una verginità che poteva avere. Almeno per il ruolo di osservatore, testimone oculare non particolarmente attento. La fortuna viene in soccorso a chi non la stressa. E Abete, prima commissario e infine (o finalmente) presidente Figc, può sfoggiare in bacheca il Mondiale di Germania. Raggiunta la riva, non ha mezzi per tornare indietro. Commette errori marchiani e colleziona figuracce internazionali: l'Ucraina e la Polonia ci sfilano gli Europei; Marcello Lippi ritorna e fa danni; Roberto Donadoni viene cacciato per un rigore. Ancora calcioscommesse, stesse reazioni e stessa anima candida di Abete, che insulta la Lega Calcio e, nel frattempo, viene rieletto essendo l'unico pretendente. Non esiste un potenziale sostituto di Abete. Forse perché Giancarlino Abete più che esserci, sta.

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il Fatto Quotidiano del

Lunedì 15-10-2012

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TRIBUNE-TRIBUNALI

La Fatwa dello stadio è per sempre

IL PALLONE È OMERTOSO, MA NON DIMENTICA. BASTA UN GESTO PER GUADAGNARSI IL

RANCORE PERENNE. È PIENO DI POVERI CRISTI SMARRITI NELL’ECCESSO DI CONFIDENZA

Fashanu rimase solo, messo nell’angolo dei ‘deviati’ da tutte le

tifoserie del Regno. Preferì impiccarsi. Sparire. Farsi dimenticare

di MALCOM PAGANI (il Fatto Quotidiano del Lunedì 29-10-2012)

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Dove vai se vuoi una pagnotta?”. Da un fornaio, immagino”. “Dove vai se vuoi un cosciotto d'agnello?”. “Da un macellaio”. “Allora perché continui ad andare in quei fottuti locali per ƒroci?”. Alla domanda del suo allenatore Brian Clough, l’attaccante Justin Fashanu preferì il silenzio. A cantare pensavano gli altri. Cori, striscioni e banane in campo. Ogni fine settimana, da quando le voci si erano trasformate in certezza e le sue preferenze oltre la porta di casa, in pubblico argomento davanti al tè delle 5. Fashanu rimase solo. Rinnegato dal fratello, inseguito dalla Polizia, messo nell’angolo dei “deviati” da tutte le tifoserie del Regno. Preferì impiccarsi. Sparire. Farsi dimenticare.

A volte accade perché pressione psicologica collettiva, interessi societari e contestazione individuale coincidono. Altre perché una maglia è per la vita e svestirla lascia nudi. Quando un simbolo laziale, Lionello Manfredonia lasciò la Juventus per tornare a Roma dalla parte “sbagliata”, ebbe l’onore della fazione personalizzata. Il Gam, gruppo antiManfredonia. Coltellate, scissioni del vecchio Cucs della curva sud romanista, litanie domenicali e strappi al cuore.

MARCO BALLOTTA, portiere della Lazio, il più anziano giocatore di sempre ad aver giocato in Serie A, si prese una secchiata d’acqua dalla terrazza di un albergo di Norcia, perché “colpevole”, secondo gli ultras, di “esse ‘na spia de Lotito”. Il ritmo di una mentalità “irriducibile” in cui comprensione e perdono sono al bando. È accaduto ad Antonio Candreva, accusato di romanismo e ora riammesso a corte dopo mesi. A Cassano e Ibrahimovic, impegnati a promettere amore eterno con cadenza semestrale e a ricevere insulti proporzionali alla bugia. Ai “politici” come Di Canio, Lucarelli o Paolo Sollier tra pugni chiusi e boschi di braccia tese.

Se la stinta identità della bandiera ha abituato le curve a considerare passeggero anche l’idolo e le società si sono adeguate in fretta esiliando in Australia anche i monogami alla Del Piero, nelle pieghe del racconto si avverte soprattutto l’assenza di un contraltare plausibile. Di una figurina come Gianfranco Zigoni in grado di sovvertire il quadro trascinando pavoni al guinzaglio. O di un eroe mancato di nome Cristiano Doni, perdonato da Bergamo una prima volta per il calcioscommesse e poi lasciato andare con maledizione eterna “infame” e “venduto” di fronte all’evidenza.

Il rumore ha le sue regole. Pretende il rispetto della filologia sentimentale. Il dare. L’avere. In proporzioni variabili. Si può essere travolti per manifesta incapacità e mancata sottomissione (nella stagione scorsa la contrattata spoliazione dei giocatori del Genoa opposto al Siena, Beppe Sculli escluso, vale come enciclopedia del genere) o perché si è guccinianamente “negri, ebrei o comunisti”. Dal cappio protoleghista al collo di un fantoccio nero calato al Bentegodi, benvenuto dei tifosi del Verona all’olandese Maickel Ferrier che saggiamente emigrò a Salerno, alle scritte neonaziste sui muri del Friuli dirette ai natali della punta israeliana dell’Udinese Ronny Rosenthal. In quel caso, come in altri, è pronta la giustificazione di regime.

L’indisposizione, il mal di schiena, l’esito negativo della visita medica. Il pallone è omertoso, ma non dimentica. Basta un gesto o un labiale in diretta tv per guadagnarsi il rancore perenne. A Francesco Guidolin, colto a esclamare: “Città di ɱerda” mentre guidava il Bologna, ogni ritorno in Emilia costa attenzioni non benevole. Per un dito medio o peggio, se si gioca a calcio, si dimostra complicato anche uscire di casa. Accadde ad Astutillo Malgioglio, portiere e galantuomo e ad Angelo Pagotto, altro pesce nella rete pescato nell’attimo del ṿaffanċulo verso la bolgia torinista nell’eccitata sede di uno spareggio di fine anno. Quando arrivò al Torino, sei anni dopo, non mise mai piede in campo.

DI POVERI cristi smarriti nell’eccesso fatale di confidenza è pieno l’almanacco. La rabbia torna indietro e diecimila voci ostili possono più di qualunque considerazione tardiva. Se hai le spalle larghe e l’indifferenza di Fabio Capello, puoi allenare anche a Baghdad. In caso contrario l’incomprensione spezza i rami e fa cadere a terra senza possibilità di rialzarsi. A Cagliari, nell’ottobre 2007, giocano due buoni amici. Davide Marchini e Pasquale Foggia. Il primo è un onesto pedatore, il secondo un talento appena convocato in Nazionale. Un tunnel, un peccato di lesa maestà, due schiaffi, un allenamento che degenera. Poche ore dopo, per un chiarimento, Marchini e Foggia si incontrano in un bar di Cagliari. Con Foggia c’è anche Marco Marzano, tifoso personale di “Pasqualino”. Uno che alle parole preferisce i fatti. “Non lo devi fare più”. Volano pugni, ferite rimarginate ed emarginazioni ancora in corso. Il processo riprenderà a dicembre. Robert Acquafresca, spettatore involontario, all’epoca tesserato del Cagliari, dice di non aver visto perché fuori dal bar “a fare una telefonata”. Le carriere sono lunghe. Se corri fatichi a parlare. I tamburi battono il tempo a memoria. O con me. O contro di me. Un anatema è per sempre.

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LA TESTIMONIANZA

Genova, in città

comandano gli ultras

di LANFRANCO VACCARI ex direttore de Il Secolo XIX

(il Fatto Quotidiano del Lunedì 29-10-2012)

Nel giugno 2005 il Genoa venne indagato dalla Procura federale per illecito sportivo. Intervistato da una tv locale, dissi che sarebbe stato meglio se il presidente Enrico Preziosi avesse fatto un passo indietro fino a che la sua posizione non si fosse chiarita. La gradinata Nord, cuore del tifo genoano, organizzò cortei per la città contro il Secolo XIX e la mia persona, imbrattando i muri con scritte insultanti e minacciose al punto che il capo della Polizia mi affibbiò una scorta per tre mesi. Per tutta la stagione, un enorme striscione campeggiò sugli spalti dello stadio di Marassi: “Noi non compriamo il Secolo”. Un sabato del gennaio 2007 pubblicammo in prima pagina la notizia che il giocatore della Sampdoria Francesco Flachi era stato trovato positivo alla cocaina. I tifosi doriani la considerarono un tentativo di “destabilizzare” la squadra (qualsiasi cosa significasse) e il giorno dopo, di ritorno da una rovinosa trasferta a San Siro contro l’Inter, alcuni gruppi diedero l’assalto alla sede del giornale, ruppero un po’ di vetri e alla fine furono dispersi da polizia e carabinieri. Secondo i calcoli dell’ufficio distribuzione, la rivolta dei tifosi genoani contro il giornale costò una media giornaliera di 5 mila copie vendute in meno. Quella dei sampdoriani più o meno la metà (la città di Genova è in stragrande maggioranza rossoblu). I tifosi organizzati emettono “fatwe”, non diversamente dagli ayatollah iraniani. I giornali sono vittime relativamente rare. Viceversa, i presidenti delle società di calcio vengono tenuti sotto continuo ricatto. Allenatori e giocatori coltivano un rapporto ambiguo e tendono a non fare nulla che possa indispettire gli ultras. A volte sono condiscendenti fino al limite della complicità, come dimostra il caso del derby romano del 2004. S’era diffusa la voce che un ragazzo fosse stato investito e ucciso da un’auto della polizia. Nonostante le smentite ufficiali, i capi delle bande invasero il campo e parlamentarono con Francesco Totti, riuscendo a ottenere la sospensione della partita.

DA QUESTO PUNTO di vista, il tifo organizzato si comporta esattamente come una qualsiasi lobby di potere. Esercita la sua influenza per ottenere ciò che vuole e – se non ci riesce – mette in atto un meccanismo di vendetta. Tanto per fare un paio di esempi: nonostante Assoporti (l’associazione dei porti italiani), in linea con la spending review, abbia chiesto l’abolizione delle autorità portuali di Manfredonia e Trapani per manifesta inutilità, il Parlamento le ha confermate sotto la spinta, rispettivamente, di Massimo D’Alema e Renato Schifani; quando Camilla Baresani stroncò la cotoletta servita nel ristorante milanese di Dolce e Gabbana nella sua rubrica sul Sole 24 Ore, i due stilisti ritirarono la pubblicità dal giornale. Ora, naturalmente, è molto più facile prendersela con i tifosi che non con i politici o gli imprenditori. Sono rozzi e galleggiano fra l’idiozia (come nel caso del tifosi del Verona che cantano slogan contro Morosini) e la criminalità (ostentando un repertorio che abbraccia buona parte del codice penale). Ma, dal punto di vista concettuale, sono del tutto allineati con una società che premia i prevaricatori, come succede sempre quando si alimenta un supremo disprezzo delle regole, e garantisce l’impunità, fatale corollario. Loro non fanno altro che approfittarne – e francamente sarebbe stupefacente il contrario. Quello che non è tollerabile è considerarli “non dei veri sportivi”, come pretende la retorica corrente. Il tentativo di catalogarli alla stregua di un fenomeno eccentrico è solo un modo della società che li produce per autoassolversi, per respingere qualsiasi corresponsabilità. Nella storia di questo Paese non è una novità – fin dai tempi del fascismo come parentesi, senza nessun rapporto con ciò che era successo prima del ’22 né con ciò che è accaduto dopo il ’45, e avanti a fino a Silvio Berlusconi, considerato come se fosse sceso da un’astronave aliena o uscito da un tubo catodico.

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MONTAGNE E TOPOLINI

Sport e processi:

la specialità

è il nulla di fatto

DA CALCIOPOLI AL CALCIOSCOMMESSE

FACCIA FEROCE SUI GIORNALI E NELLE SENTENZE DI PRIMO GRADO, POI

SCONTI DI PENA E ASSOLUZIONI VARIE, SOPRATTUTTO PER I NOMI CHE CONTANO

di LUCA DE CAROLIS (il Fatto Quotidiano del Lunedì 29-10-2012)

Punire poco tutti, per non punire davvero nessuno. Ovvero, la pallida giustizia del pallone: quella che sui giornali e nelle sentenze di primo grado fa la faccia feroce, ma poi distribuisce sconti di pena e assoluzioni ai nomi che contano. Dalla Calciopoli del 2006 al calcioscommesse che è scandalo anche di questi giorni, passando per inchieste e processi vari, il filo rosso della giustizia sportiva è sempre quello: si parte con pene draconiane, si arriva con sanzioni che valgono buffetti. Esempio perfetto, il recentissimo caso dell’allenatore della Juventus, Antonio Conte, imputato di omessa denuncia per Novara-Siena e Albinoleffe-Siena del 2011, ai tempi in cui allenava i toscani. La tesi della Procura federale (l’accusa) era che Conte sapesse delle due combine, ma che fosse rimasto in silenzio. Da qui il processo sportivo, con inizio il 1° agosto scorso. Primo atto, un tragicomico tentativo di patteggiamento, con la Procura federale (l’accusa) che si accorda con i legali juventini per tre mesi di squalifica. Sanzione così lieve che la commissione disciplinare, il primo grado, la respinge. E allora, giravolta del Procuratore federale Stefano Palazzi, e richiesta di pena pesante: un anno e tre mesi di squalifica.

IL GIORNO DOPO, sentenza: dieci mesi di squalifica. Ed è bufera, con la Juventus che accusa tutto e tutti. Il processo però procede, e il 22 agosto arriva la sentenza di appello. La Corte federale conferma i dieci mesi di squalifica, prosciogliendo però Conte per Novara-Siena. A margine, un giudice commenta: “A Conte è andata anche bene, poteva essere accusato di illecito sportivo”. Ossia, di un’imputazione che può valere una squalifica minima di tre anni. Ancora polemiche, ancora bianconeri furibondi. Si va verso il Tribunale di arbitrato del Coni, terzo e ultimo grado. Prima, settimane di trattative tra legali juventini e controparte. Soffia un forte vento di sconto, si sussurra di tregua in arrivo: come se una pena non dipendesse da (eventuali) colpe, ma fosse appesa a un gioco di accordi e contrappesi. Il 5 ottobre il Tnas si esprime, ed è davvero maxi-sconto: quattro mesi di squalifica. Conte se ne tornerà in panchina l’8 dicembre.

Addio obbligato ai campi invece per Cristiano Doni, ex bandiera dell’Atalanta, che dai processi per il calcio scommesse è uscito con tre anni e otto mesi di squalifica. Ai tempi belli, dopo ogni gol, Doni si toccava il mento, come a dire che lui poteva circolare a testa alta. Era il suo modo di ricordare l’assoluzione dall’accusa di combine per Atalanta-Pistoiese, partita di Coppa Italia del 2000. Peccato però che lo stesso Doni, pochi mesi fa abbia ammesso che “il risultato era concordato”. La truffa c’era, eccome: eppure la Caf assolse gli otto imputati. E dire che la procura federale aveva chiesto l’illecito sportivo per tutti, tuonando contro “i calciatori che mirano ad arricchire se stessi e le proprie famiglie”. Riavvolgendo il nastro, si torna al processo di Calciopoli, che sei anni fa svelò lo squallido retropalco del pallone italico: un eterno mercato, dove arbitraggi e partite venivano aggiustati dietro gentile richiesta, di solito via telefono. I motori dello scandalo, secondo l’accusa, erano l’ex dg della Juventus, Luciano Moggi, l’allora ad bianconero, Antonio Giraudo e l’ex vicepresidente federale, Innocenzo Mazzini. Sono stati puniti con la radiazione solo nel giugno 2011, nonostante i giudici sportivi l’avessero chiesta in tutti i gradi di giudizio già anni prima. Tempi biblici, ufficialmente dovuti a modifiche dello statuto federale. Ma a colpire sono anche e soprattutto le sentenze dell’estate 2006. A luglio, la Caf fu durissima: Fiorentina e Lazio retrocesse in Serie B, Milan colpito da 15 punti di penalità, e una sfilza di squalifiche da titolo.

In ordine di gravità: quattro anni di stop per il patron viola Diego Della Valle, tre anni e sei mesi per il presidente della Lazio Claudio Lotito, un anno per l’ad del Milan Adriano Galliani. Sullo sfondo, la mannaia sulla Juventus, scaraventata in B, e sui suoi dioscuri Moggi e Giraudo. Pareva l’apocalisse del calcio. Ma il tempo è sempre galantuomo, nella giustizia del pallone. E allora, dalla Corte federale (l’appello) arrivarono robuste riduzioni di pena per club e dirigenti. L’antipasto, in vista dell’Arbi - trato del Coni: che nell’ottobre del 2006, a campionato in corso e interesse popolare crollato, addolcì ulteriormente le condanne. Qualche numero: quattro mesi per Lotito, cinque per Galliani, otto per Della Valle. Punti di penalità per Fiorentina, Lazio e Milan. Così andò: dopo la bufera.

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IN VIAGGIO DENTRO E FUORI L’OLIMPICO

Curve, regole zero

C’è la zona franca

art.non firmato (il Fatto Quotidiano del Lunedì 29-10-2012)

Nell’ordine: abolizione dello scontrino fiscale. Totale anonimato. Parcheggio selvaggio contro ogni frustrazione settimanale. Possibilità di offrire un cazzotto in faccia al proprio vicino, senza alcuna conseguenza penale. Ovvio, salvo casi di sfiga. Eppoi canna libera, di marijuana o di hascisc a seconda delle preferenze. Dov’è questo luogo? Segnate l’indirizzo: Foro Italico, Roma, dentro e fuori lo Stadio Olimpico.

Questo il “viaggio”. Si arriva nella zona, caos assoluto, vigili in mezzo alla strada, alcuni di loro chiacchierano, altri offrono generiche indicazioni mulinando le braccia. Qui è sperimentata la terza o quarta fila. Poveri i primi arrivati. Per organizzare il “tetris” della sosta, c’è a disposizione un’ampia e articolata truppa di parcheggiatori abusivi. In quanto ai motorini la libertà diventa assoluta, anche nella velocità, l’unico rischio è di non ritrovarlo all’uscita.

Questione biglietti. I bagarini esistono ancora, il pericolo di venir scoperti all’entrata, prima del tornello c’è, ma avviene di rado. Perché di rado gli stewart controllano la corrispondenza del nome tra tagliando e carta d’identità. Nel frattempo, se oltre al biglietto conquistato, il neo-tifoso prova il desiderio di munirsi di sciarpa, maglietta, cappellino o altro, si trova davanti una scelta infinita di bancarelle (alcune autorizzate) o venditori occasionali che passeggiano, borsone in spalla. La mercanzia non ha la qualità dell’originale, vero, ma cosa importa: il prezzo è nettamente inferiore, mentre lo scontrino è un male estinto. Si entra dentro l’Olimpico. Se si è acquistato un tagliando di curva, bene dimenticare il posto assegnato. Vincono le dinamiche dei gruppi di ultras che stazionano secondo logiche interne, quindi è giusto optare per un non-luogo, ai margini del settore. Cercare conforto nell’intervento degli stewart è inutile. Angolo droghe. Rollare una canna è pratica comune, chiedere una cartina è come domandare una sigaretta. Assistere al passaggio del “trofeo” un episodio ripetuto, così come ascoltare i commenti sulla qualità del prodotto. Bagnare il tutto con boccali di birra, la sintesi perfetta. La nemesi può essere raggiunta da una rissa scoppiata tra tifosi della stessa squadra. I motivi? Spesso è difficile comprenderli. Come tutto il resto.

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