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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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ESCLUSIVA TJ - Massimo De Santis: "Le intercettazioni dell'Inter? Era chiaro che ci fosse qualcosa di anomalo. Altre squadre stranamente non punite"

27.09.2012 13:00 di Gaetano Mocciaro - Tuttojuve

Massimo De Santis commenta le dichiarazioni dell'investigatore privato Emanuele Cipriani che parla di come nel 2002 e nel 2003 l'Inter avesse commissionato indagini illegali su di lui, oltre che su Moggi, Giraudo, la GEA e il presidente della Reggina Foti. In esclusiva per TuttoJuve.

Massimo De Santis, l’investigatore Cipriani ha dichiarato sotto giuramento che l’Inter nel 2002 e nel 2003 aveva commissionato indagini illegali su Moggi, Giraudo, la GEA, Foti e Lei.

“L’unico commento che posso fare è che queste dichiarazioni confermano che le indagini dell’Inter erano né più né meno le indagini di Calciopoli. Per cui ecco il discorso che ho sempre fatto sia io che il mio avvocato Gallinelli che la genesi è quella e nessuno si mai soffermato a pensare perché siamo noi gli unicio intercettati e non altri soggetti. Poi sono entrate in ballo altre società. Il cardine eravamo io, Moggi, Giraudo e la GEA”.

Perché si è deciso di colpire solo voi?

“Parlo per me e dico che sicuramente c’erano invidie interne. C’era Nucini che andava a vendere notizie false e tendenziose a una società che non riusciva a vincere e doveva giustificarsi in qualche modo”.

Insomma, lo scenario non sembra del tutto chiaro

“Io ho una causa in corso contro l’Inter e mi pare chiaro che ci sia un qualcosa di anomalo in quello che è accaduto, ma è chiarissimo che le indagini su di me siano state fatte per conto dell’Inter, commissionate direttamente da Moratti e dell’Inter. Ribadisco: è anomalo a fronte di altre intercettazioni che gli inquirenti non estendessero le indagini a tutto il resto, agli altri soggetti e alle altre società. D’altra parte l’obiettivo erano Moggi, De Santis e la GEA a e tutti i passaggi ripercorsi dalle analisi dei dossier Telecom Pirelli riconducono a questo filo conduttore. È palese che tutto sia nato dall’Inter e si fa di tutto per chiudere gli occhi e non voler capire ciò, perché è evidente”.

Perché l’Inter si è accanita su di Lei?

“Il problema è questo: io sono condannato per nessuna partita della Juve, cosa anomala. E comunque tutte le intercettazioni in cui l’Inter ne usciva colpevole, così come altre società non sono state trattate dagli inquirenti. Ci fosse stato un processo sportivo adeguato, se la procura di Napoli avesse aperto a tutti le intercettazioni avremmo oggi uno scenario completamente diverso, la storia è stata stravolta totalmente. Su i me è stato cucito un vestito addosso che non era il mio. Tutto andava contro, guarda caso: leggiamo la sentenzia della Casoria e si vede che io non ci sono mai in telefonate dirette, mai. Un po’ singolare come cosa. Non c’è stata una giustizia equa, è stata fatta una cosa di gravità abnorme”.

Inutile dire che non è sorpreso dalle affermazioni di Cipriani

“Ma no, sono cose scoperte nel 2006 all’indomani di Calciopoli e l’unica novità è la GEA, anche se qualcosa era già uscito. La cosa anomala è che a fronte di queste carte la FIGC non ebbe a proseguire un procedimento”.

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ESCLUSIVA TJ - Luciano Moggi: "Cipriani ha confessato che tutto era regolare. Ridate indietro gli Scudetti alla Juve: Calciopoli una macchinazione di Inter e Telecom. Juve-Roma? Zeman fa il furbo, speriamo finisca 6-0..."

27.09.2012 17:30 di Nicolò Schira

La verità viene sempre a galla: è un fiume in piena l'ex direttore generale della Juventus Luciano Moggi l'indomani delle rivelazioni che, di fatto, ridimensiano il castello accusatorio a causa del quale la Juventus è stata depauperata di due Scudetti, subendo addirittura l'onta della retrocessione in Serie B. A TuttoJuve.com Moggi racconta in esclusiva le sue sensazioni.

Direttore, ha letto le affermazioni di Cipriani e Tavaroli?

"Le ho lette e le dico la verità: non c'è affatto da meravigliarsi. Purtroppo qualcuno non mi aveva ascoltato in passato, ma ora, finalmente, si sa come è nata tutta questa vicenda".

E anche i mandanti?

"Esatto. Tutta questa situazione o macchinazione l'ha fatta e originata l'Inter insieme a Telecom, l'hanno dichiarato i diretti interessati che hanno dato vita a tutte le intercettazioni. Ora non ci manca più niente. Tutto è emerso realmente. Da ieri nessuno può negare: si sa come stanno le cose davvero le cose grazie alle affermazioni di Cipriani e dello stesso Tavaroli".

Adesso nel mirino ci sarà l'Inter?

"Sarà un bel problema per Inter e Telecom. Faremo di tutto, affinchè questa volta non la passino liscia".

Tornerà all'attacco quindi?

"In realtà Moggi Luciano è sempre stato all'attacco. Diciamo che ora mi sono venuti in aiuto direttamente i colpevoli...".

Rivuole indietro gli Scudetti vinti nella sua gestione?

"Cipriani dice testualmente: abbiamo pedianato Moggi, ma tutto era regolare. Dunque non c'è dubbio che se era tutto regolare, la Juve debba riavere quello che abbiamo vinto e che mi hanno tolto".

Sabato c'è Juve-Roma. Con Zeman a Torino non è una sfida come le altre...

"Speriamo finisca 6-0 a favore della Juve così imparano a fare i furbi. A Roma c'è qualcuno che fa il furbo e si chiama Zeman. Pure con Ciro Ferrara ha tentato di mettere in piedi il solito giochino. Mi auguro che la Juve in campo gli dia una bella lezione di calcio".

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Il futuro della società E’ il valore della società secondo Forbes

Diavolo, un affare da 900 milioni

Dolce illusione Per questo è difficile una cessione: smentito l’interesse della Ferrero

di GIULIO MOLA (Quotidiano Sportivo 27-09-2012)

Non 400 milioni e neppure 500, come qualcuno aveva azzardato nei giorni in cui si parlava di un interessamento degli sceicchi per l’acquisto di quote minoritarie del Milan. Il «club più titolato al mondo» (copyright Galliani) varrebbe molto di più. A sostenerlo, infatti, è la prestigiosa rivista Forbes che ha redatto la lista dei 50 team sportivi più importanti delle varie categorie in base al fatturato e al valore complessivo (brand, marchio e merchandising sono in continua crescita): il club di via Turati sarebbe al 29° posto in graduatoria, ma con una quotazione di ben 980 milioni di dollari, ovvero qualcosa come 900 milioni di euro. Sarà forse anche questa cifra astronomica che tiene alla larga eventuali acquirenti. Negli ultimi mesi Silvio Berlusconi in persona si è mosso per cercare nuovi soci disposti a immettere capitali fresche nelle casse di via Turati: incontri ci sono stati con Putin per sondare ipotetici imprenditori e uomini d’affari russi (il sogno era un coinvolgimento della Gazprom), ma i contatti più importanti restano quelli con gli sceicchi, in particolare l’emiro Al Maktoum, uno degli uomini più ricchi al mondo. Nulla di concreto finora, a parte una sponsorizzazione quinquiennale da 15 milioni all’anno ottenuta dalla Fly Emirates. E anche l’ultima indiscrezione, ovvero quella di un ritorno di “fiamma“ della famiglia Ferrero, non trova conferme. Anzi, solo smentite, seppur non ufficiali. In realtà contatti in passato c’erano stati, ma chi aveva un certo interesse per il Milan era Pietro Ferrero (figlio di Michele), morto in Sudafrica nell’aprile del 2011 a soli 48 anni, colpito da un infarto mentre era in bicicletta. Giovanni Ferrero, invece, Ceo dell’omonima casa dolciaria e 23mo uomo più ricco del pianeta, avrebbe altri interessi nel campo dello sport. Così come l’azienda. Ecco perché il matrimonio con i rossoneri sembra davvero un affare complicato anche se il Milan, come ha ammesso il Cavaliere, resta in vendita. Motivo per cui nei prossimi mesi cercherà di mettere tutti i conti in ordine. Le cessioni di Thiago Silva e Ibrahimovic sono state solo il punto di partenza...

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Dietro la coreografia

E davanti al nemico

in Curva sventolò

la croce dell'assedio

Spiega Artusi «In quella bandiera c’è l’orgoglio che Firenze mostrò a Carlo V»

di ERNESTO POESIO (Corriere Fiorentino 27-09-2012)

«È il vero simbolo dell'orgoglio fiorentino. E per questo la scelta è stata ancora più appropriata. Mi sono davvero emozionato». Luciano Artusi, direttore del Calcio Storico e autore di oltre cinquanta pubblicazioni sulla storia di Firenze, martedì sera era sugli spalti del Franchi ad ammirare con soddisfazione (e sorpresa) la bella e originale coreografia creata dalla curva Fiesole. Quella bandiera rossa con la croce bianca (che in araldica equivale all'argento, così come il giallo all'oro) ha sorpreso tutti. Non il classico, ma sempre amato giglio rosso che come scriveva Dante «non fu mai posto a ritroso», ma il simbolo di un momento particolare della storia della città.

«I tifosi hanno ricordato — continua Artusi — i giorni dell'epico assedio del 1530, quando la Repubblica Fiorentina si oppose per mesi alle truppe di Carlo V. Sui bastioni, come si può vedere ancora oggi nell'affresco del Vasari conservato nella Sala di Clemente VII (dove oggi ha sede lo studio del sindaco, ndr), i fiorentini issarono la propria bandiera mentre quella degli assedianti era a colori invertiti e con la croce di Sant'Andrea».

Orgoglio dunque, lo stesso che i tifosi viola hanno voluto opporre davanti al proprio «nemico» storico, la Juventus, proprio come cinquecento anni fa fecero gli uomini dell'allora Commissario Francesco Ferrucci davanti all'esercito imperiale. Allora i 13 mila soldati fiorentini tennero testa a più di 30 mila invasori. Un lunghissimo assedio che stremò la città, non tanto però da piegarne lo spirito identitario sintetizzato sui muri dalla scritta in gesso e carbone «poveri ma liberi». E fu quello anche l'anno della leggendaria partita di Calcio Storico, giocata volutamente in piazza Santa Croce in segno di scherno perché più vicina, e quindi più visibile, alle truppe di Carlo V accampate sulle colline intorno alla città.

Radici storiche e anche calcistiche dunque, a questo la coreografia ha fatto riferimento. Un gioco, certo, ma anche il desiderio di sottolineare ancora una volta la compenetrazione fra Firenze e la propria squadra, proprio ciò che il nuovo ciclo della Fiorentina sta lentamente ritrovando dopo due stagioni difficili. «Il messaggio — conclude Artusi — che i tifosi viola hanno voluto lanciare è ben preciso: in quella occasione i fiorentini tirarono fuori gli attributi. E direi che la squadra sul campo lo ha raccolto a meraviglia».

Non solo il simbolo della Repubblica Fiorentina però. All'interno del vessillo disegnata da migliaia di bandierine sono stati riprodotti, come nella bandiera originale, altri due stemmi dal significato particolare. Il primo, quello più a sinistra, uno scudo bianco e rosso diviso a metà, è il simbolo del Comune fin dal 1100. Fu scelto per unire i colori di Fiesole (campo bianco con luna azzurra) a quelli di Firenze (allora il giglio era ancora bianco in campo rosso). E anche in questo caso il richiamo all'attuale Fiorentina si può facilmente individuare vista la terza maglia di questa stagione (appunto bianca e rossa) voluta fortemente da Andrea Della Valle.

Infine il secondo stemma che la Fiesole non ha voluto tralasciare. Lo scudo bianco con croce rossa, la Bandiera del Popolo, comune anche a molte altre città italiane. A Firenze però assunse un significato tutto particolare visto che fu affidata anche al Gonfaloniere di Giustizia. E chissà che non sia stato un caso vederlo apparire proprio contro la Juventus. La squadra dei «trenta scudetti sul campo» e di Conte, l'allenatore squalificato per il calcio scommesse e costretto a seguire le partite dall'alto. Proprio come Carlo V che osservò i fiorentini «giocare a palla» in piazza Santa Croce nel lontano 1530.

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Juve sicura: Conte assolto

grazie a una "vipera"

di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica SERA 27-09-2012)

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Modificato da Ghost Dog

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Moggi spiato illegalmente non è una notizia? Che

strano…Forse servirebbe a saperne un po’ di più

di OLIVIERO BEHA (tiscali: socialnews 28-09-2012)

Invano ho cercato ieri sui giornali (con qualche lodevole eccezione, troppo spesso però attribuibile al derby "Pro o contro la Juve") le notizie sul caso Moggi-Telecom. O erano marginali, o non c'erano proprio, specie su quotidiani che su Calciopoli hanno campato per anni con strilli e strillazzi. Che strano, il famoso o famigerato scontro tra i cosiddetti "giustizialisti" e i loro avversari "garantisti" qui non si è svolto per nulla...Silenzio.

Silenzio sulle notizie dal tribunale di Milano (aula bunker di San Vittore) a proposito dell'investigatore privato Emanuele Cipriani che ha deposto con chiarezza sulle spiate e i dossieraggi nei confronti di Moggi, la Gea e altri del mondo del calcio su commissione dell'Inter. L'aveva già dichiarato Giuliano Tavaroli, responsabile della sicurezza Telecom e Pirelli made by Tronchetti-Provera, sponsor della squadra di Moratti, qualche settimana fa. Tavaroli che ha patteggiato quattro anni...Adesso anche il suo braccio operativo confessa... Sembrerebbe tutto vero, dunque, nella più ampia vicenda spionaggio/Telecom che comprende anche un suicidio "eccellente", quello del manager security-Telecom, Adamo Bove, che nel luglio 2006, in pieno scandalo di Calciopoli allora ancora Moggiopoli e non collegabile all'affare Telecom, si butta "stranamente" di sotto dalla tangenziale di Napoli all'ora di pranzo.

Dunque viene fuori che Moggi and company venivano spiati illegalmente già negli anni precedenti allo scoppio del clamoroso scandalo (ricordate, vero, "il più grande scandalo della storia del calcio" secondo acuti commentatori italiani e stranieri, scesi giù dal pero per l'occasione...): anche a un bambino verrebbe il dubbio che quelle intercettazioni illegali, ripeto illegali quindi fuori da ogni dibattito sulle intercettazioni disposte da un giudice, abbiano qualcosa a che vedere con la storia successiva di Calciopoli tutta basata sulle intercettazioni di varie Procure italiane. Quindi possano risultare interessanti soprattutto se collegate nel tempo, nelle persone, nei moventi. Possibile luce sui misteri pendenti.

Ovvio che la Federcalcio tra una prescrizione e l'altra, rimangiandosi ogni dichiarazione sull'etica e la lealtà sportiva come fossero carciofini, voglia mettere tutto a tacere. Per il potere federale che si regge sui grandi club, quorum Inter e quorum una Juve che non ha voluto far chiarezza per via delle faide interne che sono alla vera origine di Moggiopoli, questi sono fastidi, notizie da non dare. E poiché il potere politico-sportivo si regge sul potere politico-economico tout court, logico che l'omissione /omertà espanda un'ombra generalizzata su tutto ciò.

Le prove generali di tale omissione/omertà le feci nei due anni passati a commentare la domenica sul tg3 delle 19 fatti e misfatti di sport e costume (2008-2010). Quando parlavo di Moggi e chiedevo più verità senza dispensare assoluzioni o condanne, semplicemente perché troppe cose non tornavano, non c'era mai riscontro di ciò che dicevo sui media, salvo poche eccezioni e la "resistenza" sul web. Ero circondato da un alone di sopportazione. Il pazzoide temerario di turno. Era il tg3 della egregia Berlinguer, che a detta sua "non sa proprio nulla di sport", ma evidentemente abbastanza anche di riporto per cacciarmi senza motivazioni (sono in causa per questo). Adesso vedo che naturalmente la storia si ripete, e campioni della difesa della legalità, evidentemente spacciata sempre e solo come merce, fanno passare la storiaccia Cipriani/Tavaroli sotto silenzio solo perché si tratta di Moggi, ovvero un noto "capomafia" almeno secondo la vulgata.

Ahimè, temo che la deontologia professionale e l'onesta intellettuale pretendano un atteggiamento assai diverso. La ricerca della verità non tifa per Moggi o per Facchetti o per Agnelli o per Moratti ecc., non si attiene a criteri di comodo, non fa di cognome Berlinguer o qualunque altro...E non è un caso che come Paese siamo oggi ridotti così, grazie anche al concorso fenomenale di responsabilità e ormai di colpa di un'informazione che o urla (in ritardo) o tace. Bravi, davvero...

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ilRetroscena

Piace Abodi, ma in Lega i veti

giocano per Beretta. O Simonelli

di MARCO IARIA (GaSport 28-09-2012)

Premessa: il presidente non ha poteri, lo statuto di Lega (sia l'attuale sia il nuovo in attesa d'approvazione) gli vieta pure di spostare una penna — è la battuta che circola tra gli inquilini di via Rosellini — senza il consenso dell'assemblea. Laddove tutto si decide, laddove si litiga sui (tantissimi) soldi, laddove ciascun club è azionista alla stessa misura. A ogni modo, scade il quadriennio olimpico e anche la Serie A, tra novembre e dicembre, dovrà rinnovare le cariche. È tempo di toto-elezioni, insomma.

Lunga rincorsa A dir la verità l'immaginaria campagna elettorale è partita da un anno e mezzo, cioè da quando Maurizio Beretta, accettando un incarico in UniCredit, annunciò le dimissioni. Mai ratificate. I nomi hanno cominciato subito a fioccare e negli ultimi tempi sono salite le quotazioni di Andrea Abodi, intraprendente n.1 della B. Il problema è che proprio il suo attivismo mal si attaglia con l'identikit del presidente di A: le società non hanno intenzione di delegare alcunché. Abodi, comunque, piace all'Inter e alla Juventus, alla Roma e alla Fiorentina, ultimamente pure al Napoli. Insomma, un bel parterre anche se gli attestati di stima non equivalgono a dichiarazioni di voto.

Incertezza Al momento tutti restano abbottonati per non bruciare le candidature. Le geometrie variabili della Lega non aiutano a trovare la quadra. In più sono spuntati outsider come Stefano Campoccia, vicepresidente dell'Udinese, ed Ernesto Paolillo, ex a.d. dell'Inter, i quali, pur non avendo chance di raggiungere il quorum di 14 consensi, alimentano l'incertezza. Ecco perché non è mai tramontata l'idea di rieleggere Beretta, con Claudio Lotito grande sponsor. A giugno, durante una riunione, De Laurentiis sputò fuori: «Perché non confermare Maurizio?». Non era una battuta. Nell'immobilismo che regna in Lega una scelta simile un senso ce l'ha eccome, se non altro per esorcizzare il commissariamento che scatterebbe in caso di fumata nera. Come dimenticare, tuttavia, la lettera con cui a febbraio Bologna, Cagliari, Cesena, Inter, Lecce, Novara, Palermo e Siena chiesero le dimissioni di Beretta? Con le retrocessioni sono rimaste in cinque, inoltre l'arrivo a Palermo di Lo Monaco potrebbe mutare le strategie rosanero.

Alternativa Qualora i mal di pancia nei confronti di Beretta fossero troppi, ecco che verrebbe tirata fuori dal cilindro la candidatura d'emergenza: Ezio Maria Simonelli, già presidente del collegio dei revisori della Lega, titolare di un prestigioso studio legale tributario. Una soluzione che non dispiacerebbe al Milan e che garantirebbe una continuità col passato. Proprio Adriano Galliani, ultimamente, è stato tirato per la giacca: c'è chi ha immaginato un suo ritorno su quella poltrona, ormai vietato ai dirigenti di club. Ma lui, che frequenta la Lega (esperienza al Monza compresa) dal 1975, è fermamente intenzionato a proseguire l'opera di risanamento dei conti rossoneri, che consentirà di chiudere il bilancio 2012 in pareggio (o con una perdita minima) e di fare il bis nel 2013. Così gli ha chiesto Fininvest, con quale classifica del Milan non si sa.

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FOOTBALL&CIGARETTES

FINE DI UN RITO

Addio al calcio nicotinico

Antico vizio di campioni,

allenatori e tifosi stressati

Già bandite a bordocampo, dal prossimo campionato

le bionde diventeranno clandestine pure sugli spalti

Le sigarette di Cruijff e Platini, la pipa di Bearzot, il sigaro di Lippi e del Pibe

Quando Scopigno scoprì la bisca di Riva e Albertosi. «Do noia se fumo?»

Il tabagismo estremo di Zeman e le Gauloise di un olimpionico francese

di GIUSEPPE SANSONNA (Pubblico 28-09-2012)

Aspirare forte, dopo aver tracannato il caffè Borghetti, per scaldarsi nelle domeniche invernali. Estasiarsi artificialmente, bruciando erba per condire lo spettacolo sul prato verde del campo. Ognuno ha la sua madeleine, legata al fumo da spalti. Miriadi di sigarette accese, per stemperare i nervi, per premiarsi dopo un gol, per addolcire l’amarezza di una sconfitta. Anche il fumo passivo ha un altro gusto, allo stadio. E’ pura condivisione. Si confonde con l’odore di umanità, le urla, le risate e i cori. Fumavano forte geni del calcio narrato come Beppe Viola, sedicente «primatista di caffè e sigaretta ». O come Giovanni Arpino, che beffava il cancro parafrasando D’Annunzio: «Io ho quel che ho fumato». In Azzurro Tenebra liricizzava le sigarette del Vecio Bearzot. Il Cittì più amato del calcio italiano, accanito della pipa, non trascurava le bionde.

Sottigliezze poetiche, che non inteneriscono il Viminale. Mercoledì l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive ha approvato l’introduzione del divieto di fumo in tutti gli stadi in cui si giocano incontri professionistici. Dal campionato 2013-14 dovrebbe essere vietato fumare in tutti gli impianti a norma. Al Camp Nou, di Barcellona, culla del club più ammirato del mondo, la norma è già attiva. Ma anche in Inghilterra e negli Stati uniti. Ne sa qualcosa Zdenek Zeman, icona nostrana del calcio nicotinico. Costretto, a luglio scorso, a una tournée americana dalla Roma dei Bostoniani. «È la prima volta che ci vado. Sono contento, anche se è difficile trovare posti in cui fumare ». In visita al Wrigley Field, stadio del baseball, tempio storico dei Chicago Cubs, ha riso discreto del proibizionismo un po’ ottuso che lo circondava. Sintetizzato dall ’enorme cartello No smoking che gli campeggiava alle spalle. «Nemmeno all ’aperto si può, qui», ha sussurrato aspirando voluttuose boccate.

Zeman è, da sempre, un mistico del tabacco. Abbinata al suo trench chiaro, a quel disincanto malinconico da noir di Melville, la sigaretta assurge ad accessorio imprescindibile. Cerca però di eludere flash e telecamere, quando fuma: «Detesto dare il cattivo esempio». Attribuisce le colpe del suo tabagismo estremo a Jean Boiteux, nuotatore francese, medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1952. «In quanto sportivo, detestavo il fumo. Poi sentii quel francese dichiarare che fumava quaranta Gauloise al giorno, da sempre. E ci sono cascato. Ne fumo tante. Non le conto perché se lo facessi mi innervosirei. E ne fumerei ancora di più». A Foggia inceneriva tre pacchetti di MS al giorno. «Poi, nella Capitale, sono passato alle Marlboro Lights. Ormai ero ricco». La sue sigarette scandiscono il tempo della vita, come le canzoni che tesse e ricuce, tra sé e sé, rielaborando l’immaginario nazionalpopolare. Fumavano di brutto anche i pupilli Signori e Rambaudi, tridentini ventenni del Foggia zemaniano, nei primi anni novanta. Durante i match, il cattivo esempio in panchina era metodico. Le sigarette erano accese a getto continuo, dal boemo e dal fido Sancho, al secolo Franco Altamura. Aspirate, riprese, scambiate, abbandonate, in una rotazione spasmodica.

Ma il fumo nel calcio ha radici antiche. «Quando ho attaccato guanti e scarpe al chiodo, ho smesso anche di fumare. Non era più proibito, non c’era più gusto». I ricordi rauchi di Ricky Albertosi risuonano nella sua villetta di Forte dei Marmi, via Giambattista Vico, una Sunset Boulevard sospesa tra le Alpi Apuane e le acque verdastre della Versilia. Il baffo è grigio, il cuore bizzoso, le primavere settantatre, ma lo sguardo canagliesco tradisce il rimpianto per quelle Marlboro rosse, aspirate a fondo. Cinquanta in due, lui e Gigi Riva per la disperazione di Valcareggi, nel ritiro messicano. Rombo di tuono per Gianni Brera, Gigirriva per i sardi stregati, inceneriva l’ultima bionda del sabato alle due di notte. Al gusto di fileferru, temibile acquavite locale, tracannata in solitudine nei bar del Poetto. Poi la domenica mattina si svegliava a mezzogiorno, caffè, brioche, e via all’Amsicora a trascinare i rossoblu all’assalto di uno scudetto epico. Ancora oggi, alla cinque di ogni sera, puntuale come il matador di Lorca, si concede la sua passeggiata quotidiana nel centro di Cagliari. Come Immanuel Kant conta i passi intorno al suo isolato, irrigidito dagli anni, tra i sussurri ammirati dei passanti. La malinconia è intatta, il tabagismo pure.

A poche decine di metri, nel bar del porto, un suo vecchio compagno d’area se la passa molto peggio. Intabarrato in un cappotto militare anche in agosto, barba grigia da Bin Laden, beve forte e fuma le sue cicche, fissando vitreo i passanti. Claudio Olinto de Carvalho detto Nenè, perso in una vita vorticosa, dai natali nelle favelas al Santos di Pelè, dai dualismi juventini con Sivori al Cagliari delirante e scudettato. Fino all’e pilogo, a un finale di partita alla Garrincha, scongiurato in extremis da un ricovero in ospedale e dall’affetto dei cagliaritani. Eppure quarantadue anni fa erano tutti a ridere e a fumare, asserragliati nella stessa stanza di un albergo romano, alla vigila del mat ch contro la Lazio. Una coltre di nebbia azzurra, come in un cinema di quarta visione, incorniciava la bisca improvvisata. Animata dai ghigni di Albertosi, dalla sfinge Riva, dalla trepidazione di Sergio Gori, che le scale servite gliele leggevi in faccia. A completare il quartetto c’era Domenghini, che nei campi di Lallio, da ragazzino, si fumava pure la barbetta del granturco. Circondati da compagni sghignazzanti, fumanti, e beventi. Alle due di notte, viene approvata all ’unanimità una mozione urgente: birre e panini per tutti. Poco dopo, suonano alla porta. Ci si aspetta il servizio in camera, invece sull’uscio appaiono le occhiaie da esistenzialista di Manlio Scopigno. Sfila tra le nebbie e guadagna il centro stanza, in un silenzio irreale. Poi infila una cicca in bocca, accende un cerino e mugugna: «Do noia se fumo?». Boato di risate, tensione scaricata, tutti si dileguano nelle rispettive camere. Il giorno dopo, alla Lazio, rifilano quattro gol. «Questione di psicologia», sogghignava Scopigno, detto il filosofo. Uno che non squadrava la mascella, non sbraitava. Gli bastava tintinnare un cucchiaino sulla tazzina a tavola, per creare il silenzio e rapire l’attenzione di quelle orecchie gaglioffe. Per poi tornare a godersi in pace le sue sigarette, al gusto di whisky. O di champagne, nelle sere di festa.

Tabagismi romantici, corollario di un calcio meno muscolare. Distanti dalle sigarette nervose, aspirate dal polmonare Ringhio Gattuso ai mondiali teutonici. «Ne fumava non più di tre o quattro al giorno, per strozzare la tensione», giura Marcello Lippi, trincerato dietro il suo sigaro vistoso, da parodia di Paul Newman. Quando allenava le giovanili della Sampdoria, allungava cicche clandestine al centravanti blucerchiato della prima squadra, una scheggia smilza e ricciuta di nome Gianluca Vialli. Un sodalizio consolidato qualche anno più tardi, sulle sponde bianconere, quando Vialli era diventato ex abrupto un culturista dal cranio lucido, ma non aveva rinunciato alle delizie del tabacco. Ci sono sigarette estatiche, come quella che affiora sulle labbra del seminudo Sebino Nela, fradicio di spumante, nello spogliatoio del Ferraris. Festeggia lo scudetto romanista, accomunato nell’abbandono alcolico e nella fisionomia neanderthaliana all’amico Bruno Conti, altro fumatore accanito. Sul campo esorcizzavano il tabagismo, correndo come pazzi, i polmoni come mantici.

Ci sono poi sigarette di provincia, gustate senza rimpianti. Quelle di Dario Hubner, detto Tatanka, per l’aria bisontina e l’i rruenza da bomber. Sigarette e gol a profusione, allegate a grappini. Da gustare nei laghetti artificali del cesenate, pescando trote per anni con Jozic, Piraccini, sotto l’ala protettrice del patron Lugaresi. Un idillio così sereno da rinviare l’approdo in serie A a trent’anni suonati. In tempo per diventare capocannoniere col Piacenza, qualche anno dopo, in condominio con Trezeguet. Senza mai trascurare il tabacco. La sigaretta intravista di Zidane, prima dei quarti di finale col Brasile nel 2006, sembra invece il vezzo di una divinità. Qualche minuto dopo irriderà la seleçao quasi da solo, con tanto di sombrero a Ronaldo. Sigarette immancabili, a esaltare il grugno da dock di Wayne Rooney, mozzo ideale di una galera pirata.

Ci sono poi sigarette che profumano di grandeur, come quelle di Platini. Le Roi se le concedeva a fine partita, per distendersi dopo match1 trionfali. Una volta l’Avvocato scende a complimentarsi e rimane inorridito, da quell’appendice di brace spiovente dalle labbra sottili: «Michel, quoque tu!». «Non si preoccupi, l’importante è che non fumi Bonini, che deve correre anche per me».

Sigarette sprezzanti, come quelle di Mario Balotelli, che dall’alto dei suoi vent’anni, del suo talento irridente, brucia un po’ di fiato in eccesso. Con l’aria di chi concede piccoli vantaggi agli avversari, per annoiarsi di meno.

Sigarette deliziose, quelle dell’edonista olandese Johann Cruijff. Fumare e far l’amore, anche prima dei match mondiali, anche prima di infrangere il proprio talento mostruoso contro l’implacabilità teutonica. In una vecchia foto si vedono i carnefici dell ’Arancia meccanica, Gerd Muller e Paul Breitner, ebbri di birra a mondiale conquistato, dare fuoco a due Havana guevariani. Nel film di Sandro Ciotti, Il profeta del gol, Crujff portava disinvolto il timbro nicotinico di Ferruccio Amendola, roca voce dei semidei hollywoodiani e di Tomas Milian. Nel 1991, dopo due bypass, dichiarerà pubblicamente. «Nella mia vita ho avuto solo due vizi: uno, il calcio, mi ha dato tutto. L’altro, il fumo, stava per togliermelo».

Poi ci sono le sigarette estreme, quelle che non si pentono, quelle disperate di George Best. Isole di tabacco, in un oceano di whisky. O quelle da infilare contemporaneamente nel naso, nelle orecchie, in bocca, con la faccia paonazza di birra e gli occhi storti: le cicche di Gascoigne, piene di disperata allegria. O il sigaro bigger than life di Maradona, qualche anno fa. Aspirato sulla tolda di una barca, a occhi socchiusi, alla deriva nei mari cubani. Biondo ossigenato, incurante del recente infarto, dilatato come Jake La Motta quando scese dal ring e si reinventò tetro cabarettista. Sembrava triste solitario y final, prima dell’ennesima resurrezione. Adesso fuma ancora i sigari regalati da Fidel e somiglia un po’ di più al Che Guevara che si è tatuato sul bicipite.

Le ultime sigarette, quelle meditative, spettano a Socrates. Quel brasiliano smisurato, la sua barba nera e quella chioma tentacolare, da cangaceiro lisergico inventato da Glauber Rocha.Nel 1984 accettò l’ingaggio della Fiorentina, interpretandolo come un Erasmus. Si concentrò su Michelangelo, le sigarette italiane, i vini toscani, la politica europea e l’ortopedia. Rimaneva, sullo sfondo, questa famosa serie A, con cui cimentarsi. Disgustato e affaticato, se ne tornò in Brasile a fine stagione. A giocare ancora un po’, aprire una clinica, scrivere canzoni per Toquinho e dipingere tele astratte. Imbolsendo e ingrigendo, fino a diventare davvero un po’ simile a Socrate. «Mio padre doveva essere davvero ubriaco a chiamarmi così», ripeteva sogghignando e aspirando forte le sue cicche. Se n’è andato a cinquantasette anni, zuppo di alcol e ricordi, con una risata rauca e, forse, nemmeno un rimpianto.

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Dietro l’aggancio alla Juve, i gol di Cavani e le virtù dei conti a posto

Febbre Napoli, la forza del Sud che va

di MAURIZIO DE GIOVANNI (IL MATTINO 28-09-2012)

Certo, siamo solo alla quinta giornata. Gli avversari sono stati diversi, le circostanze e gli arbitri pure, e a parte qualche vuoto di memoria a Catania stiamo dando il meglio di noi stessi. Ma il fatto certo è che oggi, all’indomani di uno scontro diretto che poteva oggettivamente dare indicazioni diverse, il Napoli è al primo posto in classifica. Il fatto certo è questo; ma i giornali, le tv satellitari e terrestri, i commentatori da studio e da bar e tutti i siti internet danno della cosa un’unica interpretazione: il Napoli è l’anti-Juve.

L’avversario, l’antagonista designato, il primo cane della muta in corsa dietro la lepre zebrata. Non sappiamo come andrà a finire, la strada è ancora lunghissima e lo scontro diretto è solo tra due giornate, ma questa designazione mediatica può già imporre qualche riflessione interessante. Il Napoli è l’anti-Juve, è vero; lo è non solo sul rettangolo di gioco o in classifica. Lo è per quello che rappresenta e anche per quello che potrà rappresentare. E lo è ora più di quanto lo sia stato in passato, perfino quando diede a noi appassionati la dolce abitudine di vederlo vincere un po’ dovunque, nell’era gloriosa di un certo Numero Dieci.

Un recente sondaggio ha visto in crescita esponenziale i simpatizzanti azzurri, divenuti tanti da insidiare le consolidate posizioni dei tifosi nerazzurri, rossoneri e perfino bianconeri. Nel meridione dello stivale, anche fuori da questa nostra strana e meravigliosa città, sono sempre di più quelli che si riconoscono con piacere nei colori di questa squadra. Il dato va letto in modo coordinato con una notizia alla quale è stato dato rilievo sui quotidiani sportivi: il Napoli è l’unica squadra di serie A già in piena regola con la normativa della Fifa in materia dei bilanci, mentre la Juventus occupa una delle ultime posizioni, con un elevato passivo e spese superiori ai ricavi. Si può quindi dire che la squadra azzurra è l’anti-Juve anche sotto l’aspetto gestionale: monte stipendi inferiore al fatturato, valorizzazione del patrimonio tecnico, nessuna necessità di ricapitalizzazioni, contro altissimi ingaggi erogati anche a calciatori habitué della tribuna, costanti e multimilionari interventi della proprietà, cessioni sottocosto di campioni acquistati a prezzi elevatissimi. Ciò non ostante, due squadre così diversamente gestite occupano, per ora, la stessa posizione in classifica, e molti tifosi «trasmigrano» dai ricchi ai poveri (si fa per dire, naturalmente).

Ed è quest’ultimo dato, quello dei tifosi in aumento, a fornire le considerazioni più interessanti. Tifare per una squadra significa anche provare simpatia per la città che essa rappresenta? Forse no, nella maggior parte dei casi; ma Napoli, l’unica delle quattro metropoli italiane rappresentata da una sola compagine, probabilmente fa eccezione. Forse, e dico forse, dietro l’ondata di sorrisi che accompagna gli azzurri c’è anche un nuovo modo di guardare la città dall’esterno.

La Napoli dei due scudetti era una città tardodemocristiana, decadente e in preda a tutte le problematiche che ne hanno accompagnato la storia, e purtroppo al rinascimento che seguì non fece da contrappunto una squadra capace di convogliare ammirazione. Gli azzurri di oggi, compagine giovane, sbarazzina e vincente, sono un esempio di imprenditoria avanzata e consapevole, compatibile con la crisi e attenta a tutti gli aspetti economici; e rappresentano una città che vuole proporre di sé una nuova immagine, esibendo le tante bellezze e combattendo le tante brutture. La Napoli proposta da Cavani e compagni, per intenderci, è quella della Davis sul lungomare e della Coppa America; non basta e non serve a dimenticare i morti di Scampia e le faide di Forcella, ma vivaddio esiste e vuole esistere a modo suo. E molti italiani, soprattutto del sud, cominciano a voler riconoscersi in essa. E noi, per questa cosa, facciamo un gran tifo.

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Baldini: “Con questa Juve ho buoni rapporti: io lottavo contro l’arroganza e l’abuso di potere di Moggi e Giraudo. Ecco perchè dissi no a Elkann”

Guido Boffo - La Stampa -"8-09-2012

Fuori da Trigoria una scritta: «Rega’ sverginamoje il campo». Rega’ sono i giocatori della Roma, sverginamoje è quello che è, il campo è il nuovo stadio della Juventus. Dentro Trigoria nessuno ha voglia di sverniciare proclami, nè l’umore giusto. «Una vittoria, una sconfitta, due pareggi. È poco per le potenzialità della squadra e dell’allenatore, stiamo disperdendo un patrimonio di entusiasmo. Un peccato», ammette Franco Baldini, direttore generale della Roma born in the Usa.

Dimentica il 3-0 a tavolino di Cagliari.

«Ribadisco: abbiamo vinto una sola partita, a San Siro con l’Inter».

Però in classifica avete tre punti in più.

«Ho fatto quello che imponeva il mio ruolo, non volevo rendermi complice di un atteggiamento arbitrario e arrogante. La notte prima, in compenso, ho chiamato il direttore generale del Cagliari e il capogabinetto del Prefetto per vedere se c’erano margini per giocare. Altro che avvoltoio».

Per essere allenata d aZeman, è una Roma poco zemaniana.

«Dategli tempo. E poi c’è Totti: lui non ha le caratteristiche della punta tipica del tridente di Zeman. Quindi complimenti all’allenatore che sta valorizzando un giocatore formidabile, anche a costo di rivedere il proprio credo».

Zeman contro la Juve. I nemici e le battaglie del boemo sono anche i nemici e le battaglie della Roma?

«Non è Zeman che fa le battaglie. È Zeman a essere cercato perché possa dire qualcosa che somigli a un grido di battaglia».

Anche per lei Conte avrebbe dovuto farsi da parte dopo la squalifica?

«Dico che i regolamenti vanno rispettati. Se consentono a Conte di allenare durante la settimana, allora alleni. Abocce ferme, si potrà discutere se certe norme meritino di essere cambiate».

Lei è un grande nemico di Luciano Moggi. Calciopoli ha lasciato delle scorie nei suoi rapporti con la Juve?

«I rapporti sono buoni, non è un segreto che anni fa la proprietà (John Elkann) mi abbia persino chiamato. In passato i miei problemi con chi rappresentava quella Juve nascevano da uno stato d’animo di ribellione contro l’arroganza e l’abuso di potere. Mi hanno persino tolto il piacere di tifare per una squadra italiana nelle Coppe».

Perché non accettò la proposta dei bianconeri?

«Perché ero la persona sbagliata nel posto sbagliato. Per 4-5 anni ci siamo scontrati in Lega Calcio sui diritti tv, loro li volevano soggettivi, la Roma di Sensi, la mia Roma, era per la collettivizzazione. Lavorare per la Juve significava ammettere che in tutti quegli anni avevo detto solo stupidaggini».

A Torino non sarà una serata complicata solo per Zeman.

«È vero, ma che faccio? Rinuncio ad andarci? Se oltre al rispetto della gente perdo quello di me stesso, allora è finita».

Definisca la gestione di Andrea Agnelli.

«Vincente. Da noi, più che altrove, chi vince ha sempre ragione. Ed è un peccato perché tra le pieghe di un mancato successo si perdono di vista tante cose interessanti. Ad esempio il tentativo di portare un contributo alla cultura sportiva di questo Paese, una cultura che non esiste».

Tutto bello ma senza risultati in campo non teme di finire schiacciato dall’etichetta di don Chisciotte?

«È un rischio che corro, essere dileggiato e infangato da chi vuole conservare lo statu quo. Prevengo l’obiezione sul mio coinvolgimento in Passaportopoli, da non responsabile per la giustizia sportiva e ordinaria, ma è vero che si diventa quello che si è anche grazie agli errori. Dipende dall’uso che ne fai. Uno dovrebbe stare zitto per sempre perché nel 1952, faccio per dire, ha fregato un vasetto di marmellata? Se il sistema non ti piace provi a cambiare le cose».

E se non ci riesce torna a Londra. Vero?

«Solo voci. Il fatto che per una qualche combinazione chimica o astrale a Londra abbia avuto delle possibilità, che la mia compagna viva lì, tutto questo proverebbe che la tentazione esiste ed è grande. Ma qui a Roma ha depositato il mio cuore e per estirparmi ce ne vuole. Magari qualche corteo sotto casa al grido: “Vattene, per favore”».

Aver chiamato Luis Enrique è stato un suo errore?

«Sì, un magnifico errore. Quando è venuto qui era già stanco del calcio, dovreste conoscerlo, Luis vive la professione in maniera totalizzante. Lo sapevo e ho sbagliato a sedurlo. Ma è la persona che avrei voluto essere e non ci sono minimamente riuscito. Libero nelle opinioni e di esprimerle, incapace di cedere alle convenienze».

E lei quando ha ceduto?

«Ad esempio rispondendo alla chiamata della Juve. Ero fuori dal giro da un anno, mi sentivo un disadattato».

Se anche Zeman si rivelasse un magnifico errore?

«In quel caso qualcuno mi presenterà il conto o me lo presenterò da solo».

Perché la Roma è dietro la Juve?

«Loro hanno fatto grandi investimenti, hanno preso giocatori pronti subito, noi da crescere. E poi l’abitudine alla vittoria, la Juve ne percepiva la mancanza come una condizione dolorosa, e questo ha prodotto una forte determinazione. La Roma non è abituata alla vittoria e nemmeno le manca, probabilmente».

Un guaio per gli americani.

«Siamo noi che gli abbiamo chiesto di tornare a vincere, per favore, e il più in fretta possibile. Non possiamo lamentarci dei soldi che ci hanno messo a disposizione ma l’obiettivo è l’autosufficienza finanziaria».

Insomma il famoso progetto.

«Insieme a tante iniziative. Allo stadio le nostre partite possono essere seguite dai non vedenti attraverso un sistema audio, abbiamo un settore riservato solo alle famiglie, la fidelity card è diventata un modello. E poi niente biglietti omaggio ai politici».

A proposito, in quanti hanno protestato?

«Mi chieda piuttosto in quanti non lo hanno fatto».

___________________-----

Corsera -27-09-2012

Dal collegio dei difensori dell'allenatore Antonio Conte - il 2 ottobre tappa probabilmente decisiva al Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport - al «board» dello Juventus Football Club. Per l'avvocato Giulia Bongiorno sarebbe un nuovo passo di una carriera densa di onori (e oneri, ovviamente). Per il club bianconero un ingresso eccellente nel consiglio di amministrazione, che si dovrà rinnovare in occasione della prossima assemblea di fine ottobre.

Nel caso della Bongiorno gli intrighi del calcio e della giustizia sportiva non sono certo un mistero. Tra i suoi clienti ha avuto calciatori come Stefano Bettarini («il più bello») e Francesco Totti (per lo sputo agli Europei del 2004). Tra i presidenti l'ex patron della Lazio, Sergio Cragnotti. In corso Galileo Ferraris, secondo le indiscrezioni che circolano, l'avvocato Bongiorno troverebbe i riconfermati Andrea Agnelli, Giuseppe Marotta, Aldo Mazzia, Pavel Nedved, Camillo Venesio.

Ma anche qualche altro «nuovo». Come l'ex presidente della Rai, Paolo Garimberti, dallo scorso aprile nominato presidente dello Juventus Museum, il mausoleo di 115 anni di storia bianconera (ventimila visitatori solo nel primo mese e mezzo). Ma se la fede juventina di Garimberti è cristallina, non si può dire lo stesso della Bongiorno. Nel 2004, cercando di distrarre Totti prima dell'udienza, gli confessò di essere tifosa del Palermo. Peccato veniale? Certo, se avesse detto Fiorentina o Inter sarebbe stato molto peggio.

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Palazzo di Vetro di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 29-09-2012)

Palazzi confermato

è una buona notizia

ma ora si sbrighi

Gran lavoratore e persona riservata però

su scommessopoli deve cambiare marcia

Stefano Palazzi superprocuratore per altri quattro anni. Lo ha ufficializzato il Consiglio federale di ieri e non è una cattiva notizia. Perché Palazzi è un gran lavoratore e soprattutto una persona assai riservata: in un Paese dove si fa a gara per spararla più grossa, lui tace, e calcolando che razza di moltiplicatore è il calcio, il suo tradizionale silenzio è davvero d’oro. Detto questo, e pur comprendendo le difficoltà cui Palazzi va quotidianamente incontro a causa della mole di lavoro (e di scandali) che il calcio italiano gli propina, ci sono un paio di cose nella sua «routine» che richiedono urgentemente di essere modificate. Il presidente federale Abete, che ha un grande rispetto dell’autonomia della giustizia sportiva, deve però sapere che il suo ruolo gli impone di essere parte attiva in queste correzioni di rotta. Le lingue lunghe. I deferimenti per dichiarazioni e comportamenti inopportuni non richiedono quasi mai l’apertura di un fascicolo e chissà quali indagini, come invece avviene. La cosiddetta «notitia criminis» si consuma all’atto stesso della dichiarazione o del comportamento che finiscono in tivvù o sui giornali: o sono da deferimento o non lo sono. Punto. E se sono da deferimento, questo ha un’efficacia, una forza comunicazionale, nel momento in cui si agisce subito, nel giro di 24 ore o poco più. Il momento del giudizio può anche essere, relativamente, spostato nel tempo, ma quello del deferimento no. Perché perde la sua efficacia. Esempi? Ve ne facciamo due, per par condicio. De Laurentiis o chi per lui che l’11 agosto ordina al Napoli di disertare la premiazione dopo la finale di Supercoppa a Pechino, va deferito o no? Più o meno negli stessi giorni, le furiose dichiarazioni di Conte dopo la condanna di secondo grado. E insieme a quelle, parte dei comunicati della Juventus contro la Federcalcio e la giustizia sportiva cinica e bara. Anche in questo caso, che cosa si aspetta a stabilire se si può fare o no, tanto più dopo avere annunciato in via informale che quei deferimenti erano in viaggio? Per queste fattispecie, in realtà, bisognerebbe adottare la stessa regoletta in vigore per le prove tivvù, che Palazzi deve segnalare a Tosel entro le ore 16 del giorno successivo la disputa delle partite.

Scommessopoli. I processi a rate erano una necessità, okay. Perché l’urgenza, prima dell’inizio dei campionati, era quella di stabilire in quale categoria dovessero giocare Lecce, Grosseto e Siena, le tre società più in bilico. Ma si è fatta la fine di settembre, è alle porte la sesta giornata di campionato, e ci sono altri capitoli che vanno affrontati, altrimenti davvero può passare il cattivo pensiero di un Conte per il quale si è usata una velocità che non riguarda altri. La storia del Napoli, di Gianello e delle ipotetiche omesse denunce di Cannavaro eGrava (ma soprattutto l’eventuale responsabilità oggettiva della società) è, quanto a documentazione proveniente dalla Procura di Napoli e successive indagini federali, qualcosa che si è già esaurito da molto tempo. Per la Lazio e il caso Mauri non è esattamente la stessa situazione ma ci andiamo ormai abbastanza vicini. Che cosa aspetta Palazzi? Che si faccia Natale? Sempre nel campo delle ipotesi: un punto di penalizzazione a inizio campionato pesa poco più di nulla, ma a stagione inoltrata, mentre magari si profila l’entusiasmante testa a testa che è già storia di questi giorni, è solo benzina sul fuoco. Darsi una mossa, please.

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Ecco perché la Juventus

colombiana vuole

restituire i suoi scudetti

di MAURIZIO STEFANINI (IL FOGLIO 29-09-2012)

Roma. La Juventus rivuole due scudetti. Il Millonarios di Bogotá, che per la storica disponibilità di liquidi ostentata fin dal nome e il numero di titoli vinti è conosciuto anche come “la Juventus colombiana”, li vuole invece restituire. La clamorosa idea è venuta al nuovo presidente, Felipe Gaitán, l’uomo che sta riportando la squadra ai vertici delle classifiche dopo vari anni di sconfitte. E il motivo per cui vorrebbe restituire le due “stelle” (così le chiamano in Colombia) del 1988 e 1989 è che all’epoca gran parte delle azioni del club erano di proprietà di Gonzalo Rodríguez Gacha, “el Mejicano”, fondatore del Cartello di Medellín e “ministro della guerra” del terribile Pablo Escobar. “Imbecille!”, è stato il commento dell’attaccante Carlos Enrique “la Gambeta” Estrada. Il re del dribbling era infatti venuto al Millonarios proprio perché nelle squadre in cui aveva giocato fino ad allora non era mai riuscito a vincere un campionato, e che in quelle due stagioni segnò 49 goal. “La mafia c’era, ma le partite le vincevamo col nostro sudore! E i gol li facevo io, non la mafia!”, ha detto Estrada. Più diplomatico è stato invece il commento di César Pastrana, presidente del Santa Fé, storico rivale stracittadino del Millonarios: “L’idea è encomiabile, ma dubito che i tifosi siano d’accordo”. Entusiasta è il ministro dell’Interno Fernando Carrillo, che peraltro di Gaitán è il cognato: “Perderebbero due stelle nell’emblema, ma ne guadagnerebbero due di dignità”. E altrettanto felice della decisione del presidente Gaitán si è dimostrato Jorge Luis Pinto, all’epoca allenatore del Santa Fé, il quale aveva denunciato in tribunale per corruzione il collega del Millonarios Luis Augusto García. “Ammirabile, straordinario, vorrei abbracciarlo. Un esempio per il paese e per il mondo”. Anche per l’Italia?

Il presidente della Lega Professionale colombiana, Ramón Sesurún, ha parlato di “posizione filosofica rispettabile”, ma si chiede perché solo il calcio dovrebbe fare questa autocritica, quando in quegli anni “il narcotraffico era riuscito a penetrare in tutta la società colombiana”.

D’altronde alla fine degli anni Ottanta i cartelli della droga non avevano messo le mani solo sul Millonarios. Come hanno ricordato puntigliosamente i giornali colombiani, anche il cartello di Cali dei fratelli Rodríguez Orejuela staccò generosi assegni per la squadra cittadina dell’América, che arrivò così per cinque volte alla finale della Copa Libertadores. Il Nacional di Medellín, finanziato da Pablo Escobar, ebbe tra il 1970 e il 1984 un presidente di nome Hernán Botero che una volta, nel 1981, mostrò dalla tribuna una mazzetta di dollari all’arbitro Orlando Sánchez nel bel mezzo di una partita. Nel 1984 Botero fu estradato per trascorrere diciotto anni in un carcere statunitense per riciclaggio di denaro sporco. Nel 1988 si arrivò al punto che i rappresentanti di sei club fecero sequestrare l’arbitro Armando Pérez, poi liberato con un comunicato in cui si avvertiva che né il Santa Fé né l’América avrebbero dovuto vincere il campionato di calcio colombiano. In caso contrario, i narcos si impegnavano a uccidere i giudici di gara che avessero “fischiato male”.

Anche il Santa Fé, come l’Independiente Medellín e il Deportivo Pereira, furono infiltrate dai mafiosi. Nel 1989 le denunce dell’arbitro uruguayano Juan Daniel Cardellino sulle minacce che aveva ricevuto prima di arbitrare un Nacional-Vasco de Gama portarono la Confederazione sudamericana di calcio a squalificare tutti gli stadi colombiani per le competizioni internazionali. Nel novembre dello stesso anno fu assassinato l’arbitro Alvaro Ortega, evento che portò a sospendere del tutto il campionato del 1989-’90.

___

Colombian club explore

purging bloody stain of

connection with ‘narcos’

by GABRIELE MARCOTTI (The Times 08-10-2012)

“You can’t buy history” is one of the favourite chants that traditional powers direct at their nouveau riche opponents. It’s hard to argue. Silverware from decades ago may have “been won in black and white” but it’s etched for ever in the club’s history. No matter what happens — relegation, bankruptcy, even the disappearance of the club — it cannot be erased.

But what happens when a club want to purge themselves of their past? When some of the silverware in the trophy room is not a source of pride, but one of embarassment and shame, to the point that you simply want it gone?

It is a question facing Millonarios, the Colombian club whose colourful history has been both ground-breaking and horrific. In the early 1950s, many believed that they were the best side in the world. And why not? It was the so-called “El Dorado” period in Colombia. The economy was booming, Europe was still recovering from war, Colombian clubs were flush with cash. The league broke away from Fifa and, freed from pesky things such as international clearances and fees for player registrations, hoovered up top talent, including — in the days of the maximum wage — a number of English and Scottish stars.

Millonarios led the way, raiding Argentina for the legendary Adolfo Pedernera and, later, the future Real Madrid icon, Alfredo Di Stéfano.

That was the heyday that fans of “Millos” like to remember. The one they now want to forget is the one in the late 1980s, when they won two league titles and were owned and bankrolled by José Gonzalo Rodríguez Gacha, aka “The Mexican”.

Rodríguez was wealthy enough to be included in Forbes’s list of the world’s billionaires in 1988. He was also a drug baron, a founder of the infamous Medellín cartel and a business partner of Pablo Escobar. According to reports in Colombia, he bought the debt-ridden club in 1979, paying for it in cash. He set to work trying to build a super club, but, despite lavishing huge amounts on players, they didn’t win the league until 1987, possibly because other “narcos” were also heavily involved in football, pumping money into rival clubs.

They won another league title in 1988 and were well on their way to their third straight crown in 1989, when the league was suspended after an assistant referee was assassinated after working in a match between Medellín and América de Cali. A month later, Rodríguez killed himself by detonating a hand grenade in his face after a gunfight with police forces.

Many see the Colombian titles that Millonarios won in 1987 and 1988 as irredeemably tainted by Rodríguez. A number of referees and players have confessed to having been paid off, threatened or intimidated during that time. Many supporters want to get rid of that stain on their past, even at the expense of losing two trophies.

“They want to lose this baggage from a time when players were puppets and leagues rigged,” said Noemí Sanín, a Millonarios director and former ambassador to the United Kingdom. “Today we’re a transparent club that wins on the pitch, without godfathers or puppetmasters linked to the ‘narcos’.” A decision is expected this month, as shareholders and supporters will vote on whether they wish to relinquish the league titles won under Rodríguez’s stewardship. Felipe Gaitan, the club president, has said he is open to examining the idea.

“We need to discuss the possibility that we only retain those titles which were obtained in legal fashion,” he said.

The controversy has split the fanbase, as well as former players. Mario Vanamerak, a star midfielder in the title-winning sides, said that the proposal was “offensive”. “This is very disturbing for all of us who were on that team,” he said. “We gave everything to land those titles. If the president wants do so, then neither we nor the fans would forgive him.”

As football fans, many of us do not care how titles were won. Millonarios fans could rationalise matters in the same way. OK, the club were fuelled by drug money and were intimidating and bribing officials and opponents. But others were doing the same . Why punish us and not them?

But many others view it differently. The see a club they love with a stain on their past. And it is the love for their club that is pushing them towards returning silverware.

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Lo juventino

ZDENEK PER FAVORE NON CAMBI LA DIFESA

CI RIPAGHERÀ DI TUTTE LE SUE ACCUSE

La speranza I bianconeri puntano sui buchi da formaggio svizzero della retroguardia giallorossa

La replica ai complotti I tre punti varrebbero per la classifica e per umiliare chi straparla sempre di complotti

di PIERLUIGI BATTISTA (CorSera 29-09-2012)

È anche una questione di equilibrio, signor Zeman. Lei può detestare con tutto il suo cuore la Juventus: è un suo diritto. Può accarezzare fantasiose ricostruzioni alla Dan Brown sulla familiarità della Juve con i piani alti della classifica che spesso, anzi quasi sempre, lei ha visto preclusi nella sua brillante carriera: è un suo diritto. Può fare il tifoso e pronunciare parole da curva sui suoi nemici bianconeri: è un suo diritto. Ma deve fare in modo di vincere le partite dicendo ai suoi giocatori che la difesa non è un optional: e questo sarebbe un suo dovere. Ma faccia come crede, se le sue squadre esibiscono sempre difese (tranne a Cagliari, dove la Roma è riuscita a vincere senza prendere nemmeno un gol, a tavolino) che hanno più buchi di un formaggio svizzero, continui pure così, almeno fino a stasera. Gliene saremmo davvero grati.

Spero sinceramente che, stasera, allo Juventus Stadium i tifosi le rivolgano solo qualche innocuo e divertito sfottò, senza inciviltà, nefandezze e slogan demenziali. Lei ha aggredito molto di frequente la Juve, non riconoscendone lealmente mai la bravura, ma limitandosi a insinuazioni che mandano in estasi tutti gli anti-juventini d'Italia ma che suonano come un'offesa per gli juventini. I quali, se stasera la Juve dovesse prevalere, potranno essere gratificati da un godimento doppio: quello di tre punti che confermerebbero il primato in classifica e quello della beffarda umiliazione sul campo di chi, quando parla della Juventus, non guarda mai quello che succede sul campo e straparla di complotti. Lei, che è persona notoriamente spiritosa, non se ne adonterà: idealmente il pubblico bianconero, allo stadio o davanti alla tv verrà cementato da un unico e corale gesto, un gesto che non vorrà essere offensivo, ma rappresenterà plasticamente una forma di risarcimento per tutte le sciocchezze che sono state dette e urlate contro la squadra dai colori bianconeri.

Speriamo dunque che anche stasera lei dimentichi la lezione numero uno del calcio: difendersi, oltre che attaccare. La sua Roma è solida, piena di giocatori di classe, vecchie glorie e giovani talenti. Lo penso sul serio, perché dal centrocampo in su la squadra giallorossa è davvero temibile. Fortuna che in panchina non si dice mai che è altrettanto importante quel che accade dal centrocampo in giù, fino al portiere in deficit di concentrazione, come si è visto con la Samp di Ciro Ferrara. Aspetti ancora un altro giorno con la sistemazione della difesa, signor Zeman. Per una volta le saremmo sinceramente grati.

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Il romanista

NON È SOLO LA SFIDA DEL BOEMO

NOI TIFOSI RICORDIAMO I SOPRUSI SUBITI

I «fattori esterni» Non contano gli allenatori, ma la squadra e vincere se i fattori esterni lo permetteranno

Suggerimento Forse sarebbe meglio parlare più con i giocatori che di processi e polemiche

di GIOVANNI BIANCONI (CorSera 29-09-2012)

Così, rieccoci a Juve-Roma. Che non è Juve-Zeman. Noi stiamo con undici giocatori vestiti con una maglia colorata di giallorosso, l’unica cosa che conta: la maglia, cioè la storia. La Roma. Il resto — sinceramente, a parte la citazione canora—è noia. Davvero. Lo sappiano la Juventus e gli juventini, e lo sappia anche Zeman. Gli allenatori passano (anche se a volte ritornano, ma poi ripassano), la Roma resta. Quella a noi interessa. Che vinca. E che stasera batta la Juve, se ne sarà capace e se i «fattori esterni» lo permetteranno; tante volte, troppe, lo hanno impedito: non ce lo siamo scordato, e sappiamo bene che può ricapitare.

Per noi la Juventus non è solo una squadra di calcio, ma tante altre cose che ci separano dai suoi rappresentanti e sostenitori. Questo però riguarda noi, non gli juventini né Zeman. L’allenatore boemo è tornato, tra molti entusiasmi e qualche scettico borbottio. Per adesso ha avuto ragione chi borbottava, speriamo che venga smentito al più presto.Magari già da stasera. Dipende in primo luogo da lui: Zeman. Perché se in campo vanno i giocatori, mai come nel suo caso i comportamenti dei giocatori dipendono dal tecnico; e se così non fosse, mai come nel suo caso sarebbe un fallimento. Se davvero è portatore di un bel calcio che possa diventare anche vincente, è arrivato il momento di dimostrarlo. E a questo scopo potrebbe forse tornare utile parlare più con i giocatori di schemi e coi preparatori di resistenza fisica, che con i giornalisti di processi e polemiche varie. È vero, come dice Baldini, che i giornalisti lo stuzzicano in cerca di qualche «grido di battaglia», ma è pure vero che si può non rispondere. O trovare risposte che riportino la battaglia sul campo, non fuori.

Quelle fuori spettano ad altri. Prima di tutto a noi tifosi, che certo non dimentichiamo che cos’è e che cosa significa la Juventus, né i soprusi subiti. Il gol annullato a Turone nel lontano ma sempre vicino 1981 è solo l’esempio più clamoroso e sfrontato di un lungo elenco di ingiustizie marchiate col simbolo di quella società. Non smetteremo mai di ricordarle e divulgarle ai posteri. È compito nostro, non dell’allenatore né dei giocatori. Ieri Zeman s’è stupito degli insulti ricevuti in passato e che presumibilmente riceverà stasera, dicendo che i danni alla Juve non li ha fatti lui. Ecco, cominci a trovare il modo di fargliene. Segnando un gol in più (o prendendone uno in meno: è uguale).

___

SANDRO CAMPAGNA

«Vi racconto quando Zeman

tifava per la mia Juventus»

Stasera sfida tra i bianconeri e la Roma. L’allenatore boemo

nei ricordi del ct del Settebello, amico di gioventù a Palermo

«È un paladino dello sport che sognava la squadra dello zio»

di MATTEO PATRONO (Pubblico 29-09-2012)

Si può essere profondamente juventini e al contempo ammirare Zdenek Zeman, volergli addirittura bene? Sì che si può. Basta chiedere a Sandro Campagna, ct del Settebello azzurro, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Londra, oro venti anni fa a quelle di Barcellona quando era ancora giocatore. 49 primavere, siracusano, una vita per la pallanuoto, Campagna era un bambino quando all’inizio degli anni Settanta s’innamorò della vecchia signora grazie a un ex giocatore bianconero, vicino di ombrellone di suo nonno sulla spiaggia di Mondello. Cestmir Vycpalek, lo zio di Zeman, l’uomo che accolse a Palermo il giovane Zdenek in fuga dai carriarmati sovietici di Praga e di lì a poco si sarebbe seduto sulla panchina della Juventus contagiando, oltre al piccolo Campagna, anche il nipote. Vai a sapere che quello un giorno sarebbe diventato il nemico pubblico numero uno di qualunque juventino. «Vabbè non esageriamo - sorride Campagna alla vigilia di Juventus- Roma - Zeman l’ha amata davvero la Juve quando era ragazzo. Poi forse negli anni ha covato un po’di rancore per non esser mai riuscito ad allenare il suo amore di gioventù, la squadra del caro vecchio zio Cesto » .

Infatti l’Avvocato Agnelli rimproverava a Zeman di essere un ingrato nei confronti della squadra che aveva salvato lui e Vycpalek dal comunismo, nientemeno...

Io ero molto affezionato a suo zio, mi prendeva sulle gambe quando giocava a scopone con mio nonno sulla spiaggia. Mi insegnava a contare le carte e siccome ero bravo col pallone mi diceva sempre: «Sandrino, un giorno ti porto con me a Torino». È merito suo se sono diventato tifoso della Juventus. Zdenek invece mi prendeva sulle spalle e mi faceva fare i tuffi, io 8 anni, lui già più di 20. Erano una famiglia davvero speciale a cui sono legato da un grande affetto. Anche se con Zeman non ci vediamo dai tempi della sua prima esperienza con la Roma. Prima o poi magari lo vado a trovare a Trigoria.

Intanto stasera lo ritroverà da avversario a Torino dove lo aspetta, nel migliore dei casi, una bordata di fischi rancorosi.

È una partita già calda di suo, non c’è bisogno di caricarla ulteriormente. Da juventino dico che non dobbiamo giocare contro Zeman ma pensare soltanto a sostenere la nostra squadra che gioca un calcio meraviglioso e può aprire un ciclo. Da zemaniano aggiungo che è una partita come tutte le altre, vale solo tre punti e non deciderà le sorti del campionato. Mi auguro che il pubblico juventino faccia un salto di qualità, oserei dire di superiorità.Diamo un segnale di civiltà a tutto il calcio italiano, facciamo come i tifosi della Fiorentina che l’altra sera che ci hanno preso in giro senza volgarità.

Da uomo di sport, cosa ha pensato in questi anni della contrapposizione Zeman-Juventus su temi come il doping e il rispetto delle regole?

Io di Zeman apprezzo la schiettezza, è uno che non le manda certo a dire. Condivido con lui la cultura del lavoro e penso sia stato il paladino di una battaglia molto importan - te per il calcio italiano dove una volta c'era un uso smodato di farmaci che però, è bene ricordarlo, erano leciti. Da allora il sistema anti-doping italiano ha ristretto in maniera considerevole le possibilità di manovra per chi imbroglia. E' una sfida di cultura sportiva che tutti devono capire e condividere, mica solo la Juve.

Sì ma è una sfida che nacque proprio dalle dichiarazioni di Zeman sulla crescita muscolare dei giocatori della Juve di Lippi, quelli che poi hanno sfilato in Tribunale a testimoniare a un processo per doping dal quale la Juve si è salvata grazie alla prescrizione...

Zeman parlò senza avere in mano delle prove, questo è quello che gli juventini gli hanno sempre rimproverato. E comunque nei tribunali mi pare che la Juventus abbia pagato e espiato le sue colpe abbondantemente.

Lei ha confessato di studiare molto gli altri sport per aggiornarsi, in particolare il calcio per capire come si ribalta la legge del più forte. A Zeman ha mai rubato qualche idea?

No mai. Tuttavia il movimento corale delle sue squadre, ilmodo in cui a seconda di chi ha la palla 7 o 8 giocatori si muovono coralmente, è esattamente quello che chiedo ai miei giocatori di fare in acqua. Sono altri gli allenatori che ho studiato perché ho sempre prestato molta attenzione non solo alla tattica ma anche alla gestione dell'emotività, al controllo della pressione mediatica. In questo mi piaceva molto il Mourinho interista: faceva uscire cose fatte ad arte, magari anche politicamente scorrette ma era straordinario nella gestione dei media e soprattutto nel creare un rapporto di empatia con i suoi giocatori, nel trasmettergli la sua carica. Da questo punto di vista, Antonio Conte mi ricorda molto il portoghese. Da lui negli spogliatoi i giocatori aspettano la scarica elettrica che poi rovesciano in campo. Nella Juve questo si vede a occhio nudo.

All ’Ortigia, quando giocava in serie A negli anni Ottanta, lei si trovò come presidente l'ex arbitro Concetto Lo Bello. Un altro tipo tutto d’un pezzo.

Un uomo d'altri tempi, dalla personalità spiccata. Quando arrivava in piscina si aprivano ali di folla per farlo passare. Io mi ci scontrai di brutto. Avevo 25 anni e volevo far fare un salto alla mia carriera. Chiesi di essere ceduto e di fronte al suo rifiuto me ne andai a giocare coi ragazzini. Rimasi fuori sette mesi, Lo Bello mi tolse il saluto, cercò pure di farmi squalificare. Tornai in piscina a sette giornate dalla fine, la squadra era ultima, infilammo cinque vittorie e ci salvammo. Il presidente nel frattempo si era ammalato, lo andai a trovare in ospedale quasi in punto di morte, fu un incontro molto toccante. Fece uscire tutti dalla stanza e mi ringraziò per aver aiutato la squadra a uscire dai guai. Quindi disse che mi aveva venduto alla Roma per 250 milioni.

Si dice che nel Settebello ci sia un'unica spaccatura, quella tra i romanisti Gitto-Presciutti e gli juventini Campagna-Felugo. È vero?

E' una spaccatura simpatica a base di sfottò anche se poi ogni volta mi tocca ricordare loro che io sono l'allenatore e con l’autorità non si scherza. Per di più Felugo è il capitano, l'anima della squadra, il nostro Pirlo. In questi giorni i due romanisti non si sono fatti sentire, forse temono la sconfitta.

Un pronostico per stasera?

Non ci azzecco mai. Però la Roma l'ho vista giocare, col Bologna ho portato mio figlio allo stadio, lui è romanista. Gioca molto bene nei primi tempi, poi cala vistosamente nella ripresa, per paura o per stanchezza. La Juve è l'esatto contrario. Dunque... forse pareggiano. Però dovesse vincere Zeman, in fondo a lei farebbe comunque piacere.

O no?

Scherza? Non ci dormirei la notte.

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QUI TORINO

Rancori viscerali

Patologia incurabile

di ANDREA DE BENEDETTI (Pubblico 29-09-2012)

La geografia facciale di Zdenek Zeman, un dedalo di grinze contrariate e dolenti che raccontano una vita di sdegni a denti stretti e furori repressi, si arricchirà oggi di una nuova ruga, profonda e tormentata come tutte quelle che negli anni gli ha inciso dentro la Juventus. Lazzi, agonismo spinto e le solite colate di rancore urticante: questo il menù ormai tradizionale che il comitato d’accoglienza bianconero gli riserverà stasera, pedaggio obbligato per colui che un giorno osò avanzare dubbi sulla genesi dei bicipiti di Vialli e Del Piero.

Non importa che dal famoso j’accuse siano trascorsi quattordici anni, che all’epoca dei fatti Marchisio e Bonucci andassero alle elementari e che molti dei Drughi che affollano la Sud non fossero ancora nati. Stasera toccherà a loro, bianconeri di nuovo conio, difendere ex post l’onore di personaggi che furono infangati tre lustri fa, nella più classica delle faide familiari in cui, a distanza di anni, non ci si ricorda nemmeno della ragione per cui qualcuno, un giorno, imbracciò un’arma e cominciò a sparare.

Ora, c’è una cosa che tutti gli juventini – anche i più irriducibili, anche i più avvelenati, anche Vialli Ferrara e Conte – devono sapere (e probabilmente sanno), ed è che il loro rancore viscerale verso Zdenek Zeman non è affatto reciproco. Zeman non odia la Juve, e se la maggior parte delle battute del suo repertorio hanno per oggetto i bianconeri, è solo perché dal ’98 in avanti i giornalisti non fanno altro che chiedergli di accendere la miccia, di dire qualcosa di destra o di sinistra, purché faccia inca**are Madama e faccia venire qualche grinza in più anche a lei.

I bianconeri, invece, il boemo lo odiano proprio, e lo odiano per la stessa ragione per cui si odia il medico che ti ha diagnosticato una brutta malattia, perché tu ti senti benissimo, perché non puoi e non vuoi credergli, perché sei convinto che quella malattia te l’abbia provocata lui solo nominandola. Anche se forse, nel suo modo un po’ brusco, quello che stava facendo era solo cercare di salvarti la vita.

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Zeman sfida Juventus e cori

di VINCENZO CERAMI (Il Messaggero 29-09-2012)

Santo Stefano fu lapidato, San Lorenzo bruciato come Giordano Bruno e Giovanna D’Arco alla fine di un processo sommario. San Biagio venne addirittura scarnificato con pettini di ferro e San Bartolomeo scuoiato vivo. San Sebastiano fu trafitto dalla frecce come in un tirassegno. Insomma Zeman, questa sera a Torino, potrebbe entrare nell’Olimpo dei martiri, degli eroi dello sport, in compagnia dei calciatori caduti per doping e per colpa delle «farmacie». Lo scempio è annunciato. L’allenatore boemo dovrà affrontare l’ira cieca degli ultrà juventini. Probabilmente stasera il calcio inaugurerà un’altra malinconica pagina della sua controversa storia. Questa volta, in caso di incidenti allo stadio, le responsabilità più che al Palazzo, sarebbero da attribuire al profondo malessere del nostro tempo che nel fanatismo esprime i suoi lati deteriori.

Il tifo esasperato non riflette, difende la sua casa con le unghie e con i denti come fosse un tempio sacro. Non sono pochi i sacerdoti che invece di far ragionare i loro fedeli, li aizzano per tenere alta la loro bandiera. Zdenek Zeman non è un eroe, è solo una persona normale, che dice cose normali, di semplice buonsenso. A farlo diventare eroe sono proprio coloro che beneficiano (e hanno beneficiato) dei mali del calcio. Oggi la Juventus, come sempre, è una grande squadra, forse la migliore del campionato. È rispettata molto di più che all’epoca degli arbitri psicolabili, affetti da timore reverenziale per le squadre carismatiche, al servizio più del potere che dello sport. È più forte della Roma, lo dice la classifica e la sua lunga imbattibilità.

Gli occhi dei tifosi dovrebbero essere concentrati solo sulla partita, sul gioco: un tifo sano sostiene la propria squadra prima di spargere veleno sull’allenatore avversario. I romanisti aspettano conferme dagli schemi di Zeman e dalla tenuta dei giallorossi, così come i buoni fans bianconeri vogliono verificare fin dove potranno arrivare i ragazzi allenati di sguincio da Antonio Conte. Invece si assisterà, quasi sicuramente, a un altro spettacolo, a un linciaggio livido, a un tifo tutt’altro che scanzonato e allegro. Fanno fatica certi supporter juventini a capire quanto devono alla rettitudine «normale» di Zeman che ha sempre difeso l’integrità e la lealtà sportiva del calcio. Non possono capire perché della loro casa hanno chiuso porte e finestre, intimamente appagati dallo stato delle cose. Stasera il boemo dovrebbe sedersi sulla panchina con i tappi nelle orecchie, lasciarsi attraversare dagli improperi e dagli insulti che gli pioveranno addosso: non ti curar di loro, ma guarda e passa. E, soprattutto, ci regali oltre al primo, anche un buon secondo tempo.

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zeman esiste se noi lo facciamo esistere

se noi lo ignoriamo zeman non esiste

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El Inter espió a la Juventus"

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La Juventus, con el 'scudetto' de 2006 La Federación le desposeyó de él y se lo otorgó al Inter

Jordi Archs - El mundo deportivo 28/09/2012

La sombra del escándalo acecha permanentemente al 'calcio'. Mientras la justicia civil y deportiva siguen investigando y sancionando a los culpables del último amaño de partidos en vinculación con las casas de apuestas, el Inter es acusado ahora de espiar a la Juventus entre 2002 y 2003. El 'Calciopoli' rebrota.

El martes, durante el proceso que se sigue contra la empresa de telefonía Telecom Italia por escuchas ilegales, el ex investigador privado Emanuele Cipriano, confesó el miércoles, bajo juramento, que en 2002 y 2003 el Inter encargó informes de Luciano Moggi y Antonio Giraudo, ex director general y ex administrador delegado de la Juventus, así como al ex árbitro internacional Massimo de Santis, a Gea World, agencia de representación de jugadores presidida por Alessandro Moggi, hijo de Luciano Moggi.

Cipriano, imputado en el proceso contra Telecom, ofreció ante el juez nuevos e importante detalles que involucran al Inter, que contrató sus servicios con objeto de confirmar las sospechas sobre un posible amaño de partidos de la Serie A a cargo de Moggi.

Dichas sospechas desembocaron en el 'Calciopoli', escándalo de manipulación de partidos en 2005 y 2006. Moggi fue condenado a prisión e inhabilitado de por vida en el fútbol al comprobarse que era el centro de una trama que, mediante la designación de árbitros 'afines', favorecía a la Juventus. Al equipo turinés, además de ser descendido a la Serie B, se le desposeyeron los títulos ligueros de 2005 y 2006. Éste fue adjudicado al Inter mientras Milan, Lazio y Fiorentina, fueron penalizados con varios puntos en la clasificación.

"Es exasperante. Me espiaban a mí y a mi familia. Controloban los teléfonos, seguían de cerca a personas", clamó Luciano Moggi tras oír la declaración de Cipriani. Y denunció: "El 'Calciopoli' nació en Milán, inspirado por el Inter. Tenían todo bajo control".

Vieri ya ha sido indemnizado

El Inter salió indemne de aquel escándalo y ahora Moggi está dispuesto a pedirle una indemnización por daños y perjuicios, como Christian Vieri. El ex delantero ha obtenido un millón de euros del Inter y Telecom Italia por ser espiado, interviniéndole el telefóno, cuando jugaba de 'nerazzurro'.

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L’altro calciomercato

L’attaccante svedese

Jeppson: l’oro di Napoli

L’affare Nel Dopoguerra Achille Lauro versò 105 milioni di lire all’Atalanta. Voleva una squadra che desse lustro alla città (e a lui). Per averlo, spese un quinto del bilancio del Banco di Napoli. Che divenne il soprannome del giovane svedese

Paradossi Inaugurò la metamorfosi miliardaria del pallone, ma si sognava asso del tennis. Era già campione nazionale studentesco. E riprovò a gareggiare con la racchetta sotto falso nome

di CARLO VULPIO (laLettura 30-09-2012)

«O Banc ’e Napule». Così venne soprannominato il centravanti svedese Hans Jeppson quando sbarcò sotto il Vesuvio per indossare la maglia azzurra della squadra di calcio del Napoli. Lo avevano comprato dall’Atalanta per 105 milioni di lire. Valuta 1952. Un record. Una follia. Una cifra che da un lato era un affronto per la miseria che ancora, a 7 anni dalla fine della guerra, affliggeva la città raccontata da Malaparte ne La pelle, ma dall’altro era anche una specie di ubriacatura collettiva che in quel momento come un anestetico aiutò Napoli a non sentire dolore. E a guardare con un po’ più di ottimismo al presente, persino a sognare un futuro migliore.

Jeppson, anzi Jeppsòn, era davvero una banca. Non tanto per l’aneddoto, forse vero forse inventato, che vuole un tifoso— allarmato nel vedere Jeppson abbattuto da un difensore avversario—esclamare: «Maròn! È carut ’o Banc ’e Napule! ». (Madonna! È caduto il Banco di Napoli!). Quanto per altri tre e più validi motivi. Primo, perché l’operazione economica che consentì il trasferimento di Jeppson al Napoli valeva un quinto dell’intero bilancio del Banco di Napoli, quello vero, che nel 1952 era di cinquecento milioni. Secondo, perché dei 105 milioni sborsati dall’allora presidente della squadra, l’armatore Achille Lauro, 75 andarono all’Atalanta e 30 furono incassati in valuta aurea da Jeppson, attraverso un conto svizzero. Terzo, perché il suo acquisto fruttò al Napoli incassi mai visti prima di allora e al suo presidente Lauro, nonché sindaco Lauro e poi anche deputato Lauro, una popolarità enorme, che si aggiunse a quella di cui già godeva come ’O Comandante dell’omonima flotta navale. Jeppson si era messo in mostra ai Mondiali in Brasile del 1950. In nazionale sostituì il grande Gunnar Nordahl, il Pompierone, come lo avevano chiamato quando venne a giocare nel Milan, e segnò due gol proprio contro l’Italia, sconfitta per 3 a 2. L’anno successivo si trasferì in Inghilterra, al Charlton, e poi eccolo in Italia, all’Atalanta, dove alla prima partita contro il Como segna il suo primo gol. Quell’anno ne farà ben 22 in ventisette gare. Più che sufficienti affinché tutti —Inter, Milan, Juventus, e persino il Legnano che allora era in serie A —«uscissero pazzi» per Jeppson. Ma a mettere a segno il colpo di mercato, che avrebbe fatto discutere l’Italia come forse nemmeno il referendum tra monarchia e repubblica, fu il presidente della squadra partenopea, che per sé e per Napoli progettava un Grande Napoli. Una squadra che per la prima volta portasse lo scudetto al Sud e celebrasse l’epica del riscatto della città e la grandiosità del suo viceré, Achille Lauro ’O Comandante.

Lo svedese, figlio di un pasticciere e studente molto diligente, che era andato a giocare in Inghilterra più che altro per imparare la lingua, e che in testa, se proprio doveva essere uno sportivo, aveva il tennis, capiva fino a un certo punto cosa accadeva intorno a lui. Gli sembravano tutti pazzi. Compreso il sindaco-presidente, che di calcio capiva poco o niente e lo lanciò nell’arena come l’uomo della Provvidenza, l’elemento decisivo di ogni gara, al punto che quando il Napoli vinceva era tutto un Viva Jeppson, ma se perdeva la colpa era di mister 105milioni, che l’autocrate Lauro a un certo punto pensò bene di multare per duecentomila lire a ogni sconfitta subita dalla squadra. L’inizio a Napoli fu tormentato. Jeppson rimase quattro giornate senza far gol. Si sbloccò il 5 ottobre del 1952, a San Siro contro l’Inter. Ma il Napoli perse, e anche male, subendo cinque gol. Però da quel momento Jeppson dimostrò di essere un campione vero e con il Napoli segnò 52 reti in 112 partite, togliendosi la soddisfazione di battere per 4 a 1 (con una sua doppietta) proprio il Milan degli svedesi Green, Nordahl e Liedholm, il mitologico trio Gre-No-Li. L’impresa tuttavia non fu sufficiente a conquistare lo scudetto, il Napoli dovette accontentarsi del quarto posto.

Scudetto o meno, l’operazione Jeppson è entrata nella storia perché ha tracciato il solco delle spese folli per l’acquisto e l’ingaggio di un calciatore. Secondo uno studio del «Sole 24 Ore», quei 105 milioni di lire, convertiti in euro odierni varrebbero 1, 5 milioni. Possono sembrare nulla in confronto ai 70 milioni di euro spesi nel 2000 dal Real Madrid per Zinedine Zidane (convertiti in euro odierni, 83 milioni), o ai 90 milioni di euro pagati nel 2009 dal Barcellona per Zlatan Ibrahimovic, o anche rispetto ai 13 miliardi di lire (in euro di oggi 16, 5 milioni) versati dal Napoli nel 1984 per avere Diego Armando Maradona. Ma considerate le condizioni di vita di allora, 105 milioni di lire erano davvero una montagna di soldi.

Non è che con l’affare Jeppson il calcio all’improvviso avesse perso l’innocenza. Semplicemente stavano cambiando le cose. E le contraddizioni si sprecavano. Da un lato, per esempio, si premiava con il Nobel per la Pace ilmedico, teologo e missionario luterano Albert Schweitzer, mentre dall’altro si faceva tranquillamente il primo test nucleare all’idrogeno facendo esplodere una bomba da un megatone su un atollo delle Isole Bikini, nel Pacifico. Da una parte, c’era il Lauro che voleva far grande la città e la squadra, e dall’altra c’era il Lauro che in campagna elettorale tuonava: «Chi non mi vota è un ċornuto!» e da politico innescava e avallava quel sacco edilizio di Napoli mirabilmente raccontato da Franco Rosi nel film Le mani sulla città, sceneggiato assieme a Raffaele La Capria. Jeppson e Lauro non furono soltanto un esempio del laurismo applicato al calcio, o un aspetto del più generale panem et circenses praticato ovunque, ma l’inizio della metamorfosi miliardaria del calcio. Che a Napoli, sinonimo di metropoli da sempre e forse per sempre «sgarrupata», ha trovato i suoi acuti più sorprendenti. Nel 1975, ecco il nuovo record per l’acquisto — due miliardi di lire (10 milioni di euro di oggi)—del centravanti Beppe Savoldi dal Bologna e poi nove anni dopo, come abbiamo già visto, l’altro record per l’acquisto di Maradona. Per non dire degli altri grandi giocatori stranieri (e oriundi) che hanno vestito la maglia del Napoli senza eguagliare o superare questi record, ma che certo non sono costati due lire: da Vinicio, Pesaola, Sivori, Altafini, a Krol, Diaz, Bertoni, Careca, Alemao, Dirceu, fino a Lavezzi, Hamsik e Cavani.

Hans Jeppson però è stato, rispetto a tutti gli altri, un caso particolare. Lui, in realtà, non voleva diventare un calciatore. E più che il centravanti del Napoli e della nazionale svedese, più che l’uomo d’oro del calcio italiano, Jeppson da grande avrebbe voluto essere un campione del tennis come il connazionale Björn Borg. Non è una enfatizzazione. Quando passò al Charlton, per esempio, era già campione nazionale studentesco di tennis in Svezia e pretese di giocare come calciatore dilettante per non perdere il nono posto nella classifica generale dei tennisti svedesi. E nel 1953, poiché non aveva abbandonato il sogno di giocare in Coppa Davis, partecipò sotto falso nome (Verde) al torneo di Napoli, nel quale sconfisse il tedesco Horst Hermann e fu fermato soltanto da Rolando Del Bello. Oggi, Jeppson è un tranquillo signore di 87 anni che ancora si divide tra la Svezia e l’Italia. Per la maggior parte del tempo vive qui, alle porte di Roma, ma dice di essere diventato, con l’età, un custode ancora più geloso della propria vita privata. «L’unica che mi resta — aggiunge con un sorriso cortese —, visto che dell’altra, quella di calciatore, ormai si sa tutto».

Jeppson mollò il calcio nel 1957, la sua ultima stagione la giocò con il Torino. Aveva solo 32 anni. Dice, come allora, di aver fatto bene a ritirarsi ancora giovane, «perché così si evita di assistere al proprio declino e ci si può felicemente dedicare ad altro». L’altro, da allora, è stato il suo lavoro da dirigente industriale, la famiglia—ha sposato una italiana, la napoletana Emma Di Martino — e, appunto, il tennis. Quando ha dovuto lasciare la racchetta è stato un piccolo dramma. Ma è passato. Ora il signor Jeppson gioca a golf.

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Il pallone di Luciano

Né maneggi né frodi

Ecco la verità

sulla farsa Calciopoli

di LUCIANO MOGGI (Libero 30-09-2012)

C’è ancora qualcuno che non ha capito finalmente cosa è stata Calciopoli e come è nata? Segua allora il processo a Telecom! Svela tutta la verità. L’Inter in prima persona, vale a dire Moratti e Facchetti, ordinava le spiate a carico degli avversari che non riusciva a battere sul campo, alla ricerca di intrighi risultati poi inesistenti. Dalle deposizioni infatti di Tavaroli e Cipriani è venuto fuori che tutto l’ambaradan messo su dalla rete degli spioni è stato un buco nell’acqua perché nulla c’era e nulla poteva esserci, né di presunti maneggi, né riguardo al tenore di vita dell’arbitro De Santis, né sulle procure Gea. L’incarico venne da Moratti in persona, seguito poi nei dettagli da Facchetti, e non si accontentavano mai. «Pretendevano aggiornamenti settimanali - ha detto Cipriani - durante i quali venivano incrociati i dati in mio possesso con i dati telefonici che venivano direttamente dalla committente Telecom».

Continua Cipriani: «Mi dissero anche di fatturare a Pirelli per ragioni di riservatezza. In sostanza non doveva comparire l’Inter». Da qui le bugie di Moratti quando, interrogato prima da Borrelli e poi da Palazzi, disse di non sapere nulla.

E ancora, aspetto questo importante da mettere in evidenza, l’origine cioè di Calciopoli. Risulta adesso che «tutte queste illegalità fossero state messe in atto ben prima del 2004, quando fu aperta ufficialmente l’inchiesta da Narducci». Le spiate su Moggi e gli altri, ha detto Cipriani «furono commissionate tra il 2002 e il 2003». Facile notare come tutti i soggetti trattati si siano ritrovati poi nell’inchiesta di Napoli di Narducci. Per caso? O c’entra per caso un pc sequestrato a Tavaroli che fu mandato negli uffici di Auricchio emai restituito? Il ruolo della giustizia sportiva esce con le ossa rotte da questi sviluppi. Il 22 giugno 2007 Palazzi dispose l’archiviazione del procedimento, con una formula che più caotica non si poteva; non erano emerse fattispecie «di rilievo disciplinare procedibili ovvero non prescritte». Si voleva correre a chiudere una vicenda scomoda, salvando in qualunque caso l’ Inter. Una vergogna, per chi ancora vorrebbe credere all’opportunità dell’esistenza di una giustizia sportiva. I fatti dicono che una simile giustizia non esiste, se non vestita di determinati colori e a beneficio di persone gradite dai reggitori del timone.

Se anche le spiate di Telecom commissionate dall’Inter rilevarono che tutto era regolare, e se, come sentenziò Sandulli, nessun campionato e nessuna partita erano stati alterati, di cosa mai dovremmo rispondere e per quale motivo mai alla Juve sono stati sottratti due scudetti, non ancora restituiti?

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Calcio, Platini e quell’ossessione

per i mondiali di calcio in Qatar

di LUCA PISAPIA (ilFattoQuotidiano.it 29-09-2012)

Michel Platini, presidente della Uefa, ritorna sulla discussa decisione di disputare i Mondiali di calcio del 2022 in Qatar e insiste: il Mondiale s’ha da fare a tutti i costi. E poi osserva che, dato il clima desertico dell’emirato del Golfo Persico, dove in estate le temperature raggiungono i 50°, il Mondiale dovrà disputarsi durante l’inverno europeo. Aggiungendo che è la decisione migliore per i tifosi. Quindi la proposta: che i maggiori campionati europei facciano una pausa invernale. “Abbiamo dieci anni per organizzare al meglio le cose – spiega Platini intervistato dall’Evening Standard – A gennaio non sarà possibile giocare per la concomitanza con le Olimpiadi Invernali, quindi la finestra migliore sarebbe dal 2 novembre al 20 dicembre. Che significa che i campionati europei invece che terminare a maggio finiranno a giugno. Non è un gran problema, lo si deve fare per la Coppa del Mondo, che è la manifestazione calcistica più importante in assoluto”.

Tanta determinazione nel sostenere i Mondiali in Qatar, arrivando al punto di chiedere una sospensione dei campionati nazionali (e della Champions League ovviamente) potrebbe risultare sospetta, dati gli stretti legami che uniscono Platini, suo figlio Laurent, e l’ex presidente francese Sarkozy, con l’erede al trono qatariota Tamim bin Hamad Al Thani. Così Platini, che nel dicembre del 2010 portò in dote il suo voto e quello dei suoi fedelissimi al momento dell’assegnazione del Mondiale del 2022 al Qatar piuttosto che all’Inghilterra, si sente in dovere di spiegare che ha “votato il Qatar perché era tempo che il calcio si spostasse in quella parte del mondo. Una volta sono stato a cena con Sarkozy e il primo ministro del Qatar (l’erede al trono ndr.), ma non mi hanno mai chiesto di sostenere la loro candidatura perché sanno che sono indipendente”. Caso strano, Platini da allora è però diventato il più grande sostenitore del Mondiale in Qatar.

Perché le relazioni del calcio francese con i petroldollari del Qatar sono molte, e pericolose. Dal maggio del 2011 la proprietà del Paris Saint-Germain (PSG), è passata nelle mani del fondo sovrano Qatar Investment Authority – un patrimonio stimato in oltre 60 miliardi di dollari per la gestione del terzo giacimento di gas naturale a livello mondiale – attraverso la controllata Qatar Sports Investments. Un’operazione condotta con la supervisione dell’ex presidente Sarkozy, che del PSG è grande tifoso. E del Qatar grande amico. Basti ricordare che l’emiro Hamad Bin Khalifa Al Thani è stato il primo capo di stato ricevuto all’Eliseo da Sarkozy, e da allora è stato tutto un susseguirsi di favori e scambi commerciali. Contemporaneamente all’acquisto del PSG, Al Jazeera – network di proprietà della famiglia reale del Qatar – ha acquisito i diritti della trasmissione all’estero della Ligue 1 francese, e della trasmissione in Francia della Champions League.

Ma non è finita qui. Perché dal gennaio del 2011, poco prima che il figlio dell’emiro acquistasse il PSG, il figlio di Platini, Laurent, ha cominciato a lavorare per la Qatar Sports Investments: ovvero per il braccio sportivo del fondo sovrano cui appartengono sia il PSG che Al Jazeera e che organizzerà i mondiali nel 2022. Sul PSG, i cui acquisti milionari sono un pugno in faccia alla legge del fair play finanziario voluta proprio da Platini (ovvero che le società non possono spendere più di quello che guadagnano), è assordante il silenzio del presidente della Uefa. Sulle modalità dell’assegnazione dei Mondiali in Qatar nel 2022, ci sono forti sospetti di corruzione: la Fifa ha aperto un’inchiesta e in Inghilterra sono state fatte interrogazioni parlamentari. Quello che invece non è sospetto ma è palese, è il gigantesco conflitto d’interessi in seno alla famiglia Platini. E così, con Platini junior in Qatar e Platini senior saldo alla guida della Uefa, e lanciatissimo alla prossima presidenza della Fifa, meglio organizzarsi per i primi Mondiali di calcio invernali della storia.

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Palazzi e i suoi complici silenziosi

di MARCO MENSURATI dal blog Lo zingaro e lo scarafaggio 29-09-2012

Gianni Petrucci, Raffaele Pagnozzi, Piero Gnudi. Presidente e vicepresidente del Coni, ministro dello sport. Prendete carta e penna e segnatevi i nomi del vertice dello calcio italiano. Da oggi, la colpa dello sfascio è tutta loro. Già, perché quando gli errori si trasformano in scempio, quando la malafede diventa criminale e (criminogena), quando l’arroganza sfonda il muro del ridicolo e diventa insulto, vessazione, sporcizia, beh, allora la colpa non è più solamente di chi sbaglia, la colpa diventa anche di chi – pur chiamato istituzionalmente a farlo – omette il controllo, l’intervento, la censura, il veto.

E’ di ieri la notizia che Giancarlo Abete (nomen omen) ha confermato piena fiducia a quel manipolo di incompetenti (o nella migliore della ipotesi inadeguati) che ha gestito nel modo peggiore possibile – punendo a caso, con parametri variabili e onestà intermittente – lo scandalo peggiore della storia del calcio italiano. ”Conferma integrale”, recitava il comunicato stampa della Figc, per quel gruppo di uomini ciechi, sordi e muti, giuridicamente analfabeti, moralmente compromessi, che hanno condotto con mano tremebonda eppure mortifera il sistema calcio in un pozzo di letame dal quale mai nessuno potrà risollevarla.

In molti ci hanno chiesto un commento. Il nostro punto di vista sul caso calcioscommesse era noto da tempo: Palazzi doveva andare a casa, portando con sé il “presidente per mancanza di prove” Abete. Da oggi è cambiato: oltre ad Abete e Palazzi devono andare a casa immediatamente il presidente del Coni Gianni Petrucci (era presidente del Coni anche prima e dopo Calciopoli) il suo avatar Pagnozzi e il ministro zerbino (qualcuno ricorda un solo concetto sensato espresso dal giorno della sua nomina?) Gnudi.

Ma la responsabilità, per quanto ci riguarda, da oggi è estesa anche ad altri soggetti. Ben più importanti dei quattro burocrati giurassici di cui sopra. Ad Andrea Agnelli e a Massimo Moratti, a Silvio Berlusconi e Aurelio De Laurentiis, a Franco Baldini e ad Andrea Della Valle e (persino) a Claudio Lotito. Possibile che nessuno abbia nulla da dire? Possibile che, per fare un esempio, al presidente della Juventus, una delle principali vittime del processo demenziale istruito dai pasticcioni della Figc, la notizia della conferma di Palazzi non abbia suggerito un comunicato stampa, una telefonata? Possibile che gli americani di Baldini, quelli che dovevano rappresentare una novità per il calcio italiano, non abbiano nulla da dire di fronte a un sistema che conferma nel punto chiave un personaggio simbolo della sciatteria e dell’incredibilità? Possibile?

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Possibile che Mensurati scriva certe cose? Caspita, lo ha fatto, incredibilia dictu sed verum. Dimentica solo di aggiungere che basta una parola fuori luogo,una intervista un pò calda ed ecco che scatta il deferimento, chi glielo fa fare? fa bene dunque a scrivere certe cose, anzi dovrebbe farlo tutti i giorni.

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ULTIM’ORA

Roma, 18:33

CALCIO, ROMA; R.SENSI: CERTI GIOCATORI NON ADATTI A ZEMAN

"La mia impressione, da tifosa, è che alcuni calciatori non siano adatti al gioco di Zeman". Intervistata da Enrico Varriale a Stadio Sprint Rai 2, Rosella Sensi è critica dopo il ko in casa Juve. "La squadra non lo seguiva? - dice ancora l'ex presidente riferendosi alla Roma e a Zeman - L'impressione è stata proprio che non lo seguisse, ma credo che le responsabilità vadano distribuite bene". Ma è vero, come detto dal d.g. Franco Baldini che alla Roma non manca la vittoria? "Non voglio polemizzare - risponde la Sensi -, ma la Roma è abituata alla vittoria, anche se non agli scudetti della Juve. Ma non capisco perchè queste dichiarazioni (di Baldini ndr), che stridono con l'ambiente e la carica che si dovrebbe avere prima di una partita come questa". Poi una considerazione di carattere tecnico, rispondendo ad una specifica domanda: "Sì - dice Rosella Sensi -, in certe partite la Roma dovrebbe avere un atteggiamento più difensivo. Ma con questo non vorrei attaccare il mister (Zeman ndr). La Juve gioca un bel calcio, ma anche Zeman sa esprimerlo. Ieri non è andata bene, ma spero che il boemo possa tornare a far vedere un bel gioco". [repubblica.it]

In pratica, ZZ non ha mai colpe!

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Il Cagliari penalizzato

e con la Roma si rigioca?

Fulvio Bianchi - Spy Calcio - La Repubblica - 30- 09- 2012

Cagliari-Roma, molto probabilmente, si rigiocherà (anzi, si giocherà). Se n'è parlato, informalmente, anche venerdì scorso in occasione del consiglio federale. "Per una questione di regolarità del campionato è giusto che la partita venga disputata", ci ha detto un influente dirigente federale. La vicenda è nota: Cellino da Miami che invita i tifosi ad andare allo stadio Is Arenas nonostante il prefetto di Cagliari abbia ordinato le porte chiuse, il prefetto che a tarda notte blocca la partita, il giudice che dà lo 0-3 a tavolino. Come da prassi. Ma questo è un caso inedito e la soluzione migliore, proprio per garantire la regolarità del campionato, sarebbe proprio quella di dare una penalizzazione al Cagliari (1 o 2 punti) per il colpo di testa di Cellino, che sarà anche squalificato, e fare rigiocare la partita. Dove? In campo neutro. Oppure a Cagliari, magari a porte chiuse o con una capienza ridotta, come oggi con il Pescara. D'altronde perché dovrebbe avvantaggiarsene una squadra, in questo caso la Roma, della follia di Cellino, penalizzando così le altre? Tra l'altro, l'Atalanta aveva giocato a porte chiuse a Cagliari. Ora tocca alla Cgf (corte di giustizia federale) decidere, dopo che il club sardo ha fatto appello. Sarebbe una sentenza innovativa, e sono in molti, ormai, a spingere in questa direzione. D'altronde è già è discutibile che ci siano molti giocatori di serie A coinvolti nel calcioscommesse che scendono regolarmente in campo, alcuni anche nelle Coppe europee. Non si sa se, e quando, arriveranno i deferimenti. Non si sa quando si terranno gli eventuali processi. E' normale, tutto questo? E la cosidetta regolarità del campionato? Giriamo la domanda a Giancarlo Abete che ha appena riconfermato per altri quattro anni Stefano Palazzi-Sherlock Holmes.

Campi artificiali: via libera della Fifa alla Lega Dilettanti

Un riconoscimento importante per la Lega Nazionale Dilettanti, guidata da Carlo Tavecchio (candidato unico alle prossime elezioni di dicembre): la Fifa ha conferito alla Lnd l'autorizzazione ad omologare i campi sintetici in tutto il mondo. Solo solo 3-4 le autorizzazioni che la Fifa conferirà. Per Tavecchio una grande soddisfazione, lui che ha sempre creduto nei terreni artificiali (ultimamente anche misti). "Un risultato ad là di ogni speranza", ci ha detto Tavecchio, che è anche vicepresidente vicario della Figc. "Ultimamente sono stati fatti enormi progressi e i terreni artificiali sono arrivati in serie A come in molti club europei".

Barelli n.1 della Federnuoto europea. Ora l'Italia...

Paolo Barelli, senatore Pdl e presidente della Federnuoto italiana, è il nuovo numero 1 della Federazione europea sino al 2016: a Cascais, dove era candidato unico, ha preso 51 voti su 51. Succede così a Nori Kruchten (Lussemburgo) che nel 2008 aveva preso il posto dell'italiano Bartolo Consolo. Un successo per lo sport italiano: ora Barelli, il 14 ottobre, punta al quarto mandato della Federnuoto. Avrà due rivali, Quadri e Colica, ma è considerato il favoritissimo, Ex rivale di Petrucci, di recente ha fatto un accordo: appoggerà Pagnozzi come presidente del Coni.

E Casasco si ricandida alla Federazione Medico Sportiva

Maurizio Casasco, presidente della Federazione Medico Sportiva Italiana, ha annunciato oggi la sua ricandidatura. L'annuncio è stato accompagnato dall'Assemblea Nazionale straordinaria della Federazione Medico Sportiva Italiana con una ripetuta standing ovation per il presidente Casasco. "Mi ricandido per il ruolo di presidente della Federazione Medico Sportiva- ha dichiarato Casasco- per capitalizzare l'enorme successo scientifico, organizzativo e istituzionale, ottenuto dalla Federazione Medico Sportiva italiana con il 32esimo congresso mondiale dei medici sportivi. Lo sento come un dovere nei confronti della FMSI, dei giovani medici sportivi e per un percorso già avviato, che ha come obiettivo la tutela della salute degli atleti e di quanti svolgono attività fisica". Oggi a Roma, intanto, è calato il sipario sul 32esimo convegno mondiale, organizzato dalla Federazione Medico Sportiva Italiana, che per la prima volta si è tenuto in Italia e che ha registrato la presenza di 2800 medici di 117 Paesi del mondo.

(30 settembre 2012)

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R.I.P Huskylover

LORO ti hanno ucciso e vivi solo qui

Modificato da huskylover

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Supporters need to take responsibility

of ending expect and accept culture

by TONY EVANS (THE TIMES 01-10-2012)

Almost every football supporter who follows their team away from home has a horror story to tell about policing and stewarding. Plenty of fans who never leave the comfort of their home stadium have ugly tales, too.

Even in the wake of the Hillsborough Independent Panel (HIP) report, which showed in stark detail the contempt in which football’s paying customers were held two decades ago, there have been incidents that indicate little has changed.

Last month, Manchester City supporters in Madrid were subjected to brutal treatment by the local riot police. The mobile-phone video footage that emerged appeared to show a massive over-reaction by Spanish policemen.

What sparked the bout of violence was not recorded, but it is hard to conceive what might have been so serious as to provoke such random use of batons.

This week, Everton fans had a vicious encounter with the West Yorkshire Police at Elland Road. Seven arrests were made after the fans expressed their contempt for the local force by chanting “murderers” and “justice for the 96”. Norman Bettison, who led the police propaganda unit after Hillsborough, is chief constable of the West Yorkshire force and the match was an emotional flashpoint for both sides. However, even inside the prism of the reaction to the HIP report, this bout of violence should have shocked the public. Instead, events at Elland Road made very little impact on the nation’s consciousness.

Football fans are still feared and mistrusted by a large proportion of the nation — including the authorities and the clubs they support. It is largely irrational. Arrests at football are at a record low — just over 3,000 for all English and Welsh games in 2010-11, a tiny proportion of the crowds who flock to the grounds. Yet a perception that fans are rowdy remains. Supporters themselves must take a hefty measure of the blame for this state of mind.

That is not because they are hooligans or troublemakers. It is because they have not caused enough trouble for those who demean and disrespect them.

There is an “expect and accept” culture among supporters. They expect to be herded around, denied food and drink and be stripped of their civil liberties for the “crime” of watching football. They complain to each other and fail to challenge the authorities and hold them to account. They effectively accept the treatment. While the Everton messageboards were in uproar after the Leeds incident with tales of disproportionate police harshness from police and stewards, Amanda Jacks, a caseworker for the Football Supporters’ Federation (FSF) who deals with these sorts of problems and liaises with police and clubs, received just a single complaint.

The only way fans will be treated rationally and reasonably is where they point out mistreatment to the authorities. Collectively, they must challenge those who imagine the modern matchgoer as a throwback to the 1970s and 80s stereotype.

It is not all negative. There have been huge advances, too. The West Midlands Police — traditionally a force with a reputation for heavy-handedness — has undergone a sea-change in attitude. They encourage their officers to see a match as a community event rather than a public order crisis. The South Yorkshire force is also keen to repair some of the damage of the past by taking a similar stance.

Ironically, the mindset of the police seems easier to change than that of the clubs. What other business has so little interest in the comfort of its customers? At what other public entertainment would they not only train CCTV cameras on the audience for the duration of the event but back it up with squads of stewards staring at spectators for the entire performance?

At the theatre, ushers are there to help, to answer questions and provide a welcome. At football, many stewards are imbued with suspicion and often radiate antagonism. A smile and a welcome at a football ground? They are rarer than a Stewart Downing assist.

Complaining does work. After Manchester United fans were mistreated on an away trip to Marseilles in the Champions League last year, more than 50 contacted the FSF, which collated the evidence and sent it to the FA, Uefa and the French authorities. Eight months later, Arsenal went to the Stade Vélodrome and their supporters had a very different experience. Uefa was very keen that the situation would not be repeated and worked with the club and police to avoid another confrontation.

Once it was difficult to complain and obtain evidence of maltreatment and misbehaviour. Now, with the advent of social media and the ability to film incidents on mobile phones, there are fewer excuses. As much as the culture of the clubs and police needs to change, so does the attitude of the fan.

Do not expect to be treated like a convict. Do not accept poor treatment.

Put the horror stories to those who can do something about it. Fans will be called to account quickly enough if they cause trouble. Supporters must make sure the same level of accountability exists when they are on the receiving end.

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Il caso Il movimento al potere nella striscia di Gaza ordina il boicottaggio della squadra. E il Real Madrid: noi vicini alla Palestina

Hamas e il Barcellona

alla disfida del tifo

Il club invita il soldato israeliano Shalit

di FRANCESCO BATTISTINI (CorSera 01-10-2012)

GERUSALEMME — Giù le bandiere blaugrana. Via le maglie d'Iniesta. Si spengano le tivù, tacciano le radio. E d'ora in poi, guai a chi ne parlerà in strada o ne scriverà sui giornali o ne canterà ancora le gesta. Il Barça è un nemico, ha deciso Hamas.

Quasi peggio d'Israele. Il principio val bene un Messi e a Gaza su certe cose, siano le gonne corte o il mitico tiki-taka del calcio catalano, non si transige. Quelli del Camp Nou hanno ancora sette giorni per pensarci e sbarrare l'ingresso a Gilad Shalit: il soldato israeliano che per cinque anni fu ostaggio delle brigate Qassam, che oggi fa il cronista sportivo e che il 7 ottobre, ospite d'onore, avrà posto sulla tribuna di Barcellona-Real Madrid, il Super Clasico della Liga spagnola. «Un invito vergognoso — protesta il leader Ismail Haniyeh — con la scusa dello sport, s'insabbiano di nuovo i crimini sionisti. Come può un club così considerato, che parla sempre di valori e d'umanità, invitare un simile assassino?». Vai con la fatwa sportiva, allora, vietato esultare: domenica, nella Striscia, scatterà il primo boicottaggio del tifo. E la più guardata squadra del mondo sarà cancellata, almeno nelle intenzioni, dalla mappa sentimentale di questo piccolo angolo chiuso al mondo.

Un Clasico, il pregiudizio mischiato allo sport. In realtà non è la prima volta che Shalit, da ragazzino portiere del kibbutz Cabri, commenta per una testata israeliana: era alla finale degli Europei di calcio in Ucraina, era a quelle Nba a Miami. Nella celle di Hamas, spesso guardava in tv la Champions e faceva un po' di basket, «m'aiutava a dimenticare dove stavo». Con quel che ha passato, ci vuol altro a spaventarlo: «Certo che andrò, speriamo sia solo una tempesta in un bicchier d'acqua...». Con la fama terzomondista che ha, invece, basta un urletto di Hamas a imbarazzare il Barcellona: mès que un club, dicono in catalano, molto più che una squadra, pasiòn de un pueblo, amatissima in Palestina e nel mondo arabo per la sua storia autonomista, per la sua scelta di pubblicizzare sulle maglie solo l'Unicef e la Qatar Foundation, per aver organizzato anni fa una celebre amichevole mista d'israeliani e palestinesi... «Nessuno ha invitato Shalit — è ora la giustificazione un po' goffa — è stato un ministro israeliano a chiederci il biglietto: questo non significa che stiamo prendendo posizione nel conflitto... Nel 2011, è stato nostro ospite anche Abu Mazen. Chi poteva pensare a una reazione del genere?».

La reazione è il catenaccio. Con l'appello palestinese a oscurare il Barça su tutti i media del mondo musulmano. E l'insolito sostegno anche dell'Anp di Abu Mazen, che oggi non definisce più Shalit un ostaggio, ma «un ex prigioniero di guerra che da un tank sparava sui civili» (particolare che peraltro non risulta). Senza dire dei 1.500 attivisti dei centri sociali spagnoli, pronti a clamorose contestazioni allo stadio «per ricordare i 4.660 palestinesi che languono nelle prigioni israeliane»... In zona Cesarini, la società ha provato a calmare la piazza, invitando in tribuna il presidente della federcalcio palestinese Rajub e l'ambasciatore dell'Anp a Madrid, oltre che un calciatore di Gaza, Mahmoud al Sarsak, appena rilasciato dagl'israeliani dopo tre mesi di sciopero della fame e gli appelli dei campioni Cantona e Anelka. Inutile: «Non faccio la foglia di fico — ha risposto sdegnoso il giocatore della Striscia — se mi sedessi vicino a Shalit, sarebbe come se normalizzassi i rapporti con Israele».

La tribuna del rancore, un Clasico anche questo, fa godere quelli del Real. Che in un sobrio comunicato, perfidia in puro stile Mourinho, ricordano quanto s'impegnino, loro, per aprire scuole di sport in Palestina. E che nei blog dei tifosi fanno pure dell'ironia: il calcio è una guerra, cari avversari, ma non vi sembra d'esagerare?

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DOMANI IL TNAS SUL TECNICO BIANCONERO

Squalifica dimezzata, la Juve è fiduciosa

La società: “Noi forti,

ma con Antonio di più”

MASSIMILIANO NEROZZI - La Stampa - 1-10-2012

TORINO - Il top player non è ancora arrivato, ma mica perché è stato sbagliato lo shopping: l’ha tenuto fuori una squalifica, il cui termine imboccherà una legale scorciatoia. L’etichetta l’aveva appiccicata l’ad Beppe Marotta, nei giorni dello scudetto: «Il top player della Juve è stato Antonio Conte».

In casa bianconera pensano che le cose non siano poi tanto cambiate, e per questo si lustrano gli occhi guardando la classifica: Juve prima, imbattuta, «senza il mister». Dalla società ai giocatori, è il pensiero di tanti. Perché va bene lavorare come matti tutta la settimana, preparare nel dettaglio i piani di battaglia, la telepatia messa a punto con Massimo Carrera, «ma Conte a bordo campo ci manca». Avvertimento ai nemici, quando tornerà sul ponte di comando, anche fisicamente. Pare non ci voglia poi ancora tanto, e di certo meno dei dieci mesi, il conto alla rovescia partito all’inizio di agosto. Riapparirà ai primi di dicembre o al massimo con il nuovo anno, è la fiducia bianconera.

Per la Juve è un po’ come tornare sul mercato, se finora non ha avuto l’uomo decisivo della scorsa stagione. La data del rientro lo deciderà il lodo del Tnas, domani, la sera del secondo round di Champions League, contro lo Shakhtar Donetsk, l’esordio nell’alta società europea dello Juventus Stadium. Il club è abbastanza ottimista, e s’immagina una riduzione di pena, rispetto alla condanna della Corte Federale: il migliore dei pensieri, dopo mesi di cattivissime riflessioni, fissa la fine dell’esilio di Conte ai primi di dicembre, tagliando la squalifica a quattro mesi. O al massimo, l’allenatore rispunterà a gennaio, dopo cinque mesi di stop: l’accorciamento di una sofferenza che il tecnico continua a sentire assurda e ingiusta.

Sarebbe già una vittoria per i legali, gli avvocati Giulia Bongiorno, Antonio De Rensis e Luigi Chiappero, dopo la sentenza di secondo grado, che aveva invece confermato la decisione della Disciplinare. Successo griffato Bongiorno, l’acquisto nel ramo legali, un nome che oggi dovrebbe essere anche indicato dalla Exor nella lista dei membri per il prossimo cda della Juve: la finanziaria della famiglia Agnelli, azionista di maggioranza del club, deve infatti depositare il documento 25 giorni prima dell’assemblea dei soci, fissata per il 26 ottobre: toccherà a questa votare le nomine. Dieci i nomi, per un cda che sarà in carica fino al 2015: due le donne, visto che dallo scorso agosto la legge Golfo-Mosca impone negli organi sociali delle aziende quotate e statali un quinto di donne.

La composizione della sua Juve, Conte la continua invece a variare, di partita in partita, rispettando una proprietà commutativa sui generis: cambiando gli interpreti, il prodotto non cambia. Un’alternanza che funziona pure davanti, o soprattutto davanti, se Matri è stato solo l’ultimo a iscriversi al club dei marcatori: quelli della Juve sono già nove, in sei giornate, la più efficace cooperativa del campionato. Per dire, il Napoli s’affida per lo più a un’unica ditta, Cavani. Chissà, alla fine avere un top player per nemico potrebbe avere i suoi vantaggi.

«Giocando ogni tre giorni le occasioni arrivano per tutti - spiegava ieri Matri a Sky - e alla fine la concorrenza stimola. La cosa importante è cercare di farsi trovare pronti e sfruttare le opportunità che arrivano».

Anche con più mira, in questa stagione: «Perché adesso i meccanismi sono assestati, ci conosciamo di più, sappiamo cosa fare e quindi è tutto più semplice». Molto, se in sei partite hanno già segnato quattro punte: lo scorso campionato servirono 15 partite per arrivare a tre, 29 per il quartetto. Tutti per uno, come da codice Conte.

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