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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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ESCLUSIVO - Cobolli Gigli: “Non dimentico Calciopoli e godrei a vincere in fuorigioco”

di Giovanni Capuano - Panorama.it - 23-03.2012

I suoi derby d’Italia sono stati intrisi nella sofferenza e pieni di soddisfazione. Veniva dalla serie B e dal trauma di Calciopoli, eppure la Juventus di Cobolli Gigli fu capace di mettere sotto l’Inter che dominava. Ora che i ruoli si sono inveriti l’ex presidente bianconero vive una vigilia carica di significati. Non sarà una partita normale. “Calciopoli? Impossibile dimenticare e che non pesi” dice, anche se Conte e la nuova Juventus “hanno usato toni troppo elevati”, lontani dallo stile di sempre.

Giovanni Cobolli Gigli è rimasto oggi solo un tifoso bianconero. Però è l’uomo che ha traghettato il club fuori dalle secche di Calciopoli e nei novanta minuti dello Juventus Stadium rivivrà anche parte della sua esperienza alla guida della società più amata e odiata di Italia.

Come vive questa vigilia?

“Con apprensione e speranza. Guardando i numeri la Juventus viene da una buona serie di partite mentre l’Inter è in una situazione complicata. Non vuol dire niente ed è certo che tutte due hanno bisogno di vincere, però è un fatto che almeno dal punto di vista psicologico la Juventus sia tornata in corsa per lo scudetto”.

Ma può davvero vincerlo?

“Ha più probabilità oggi di alcune settimane fa. Ha dimostrato di essersi ripresa dopo un calo fisico anche se il Milan ha quattro punti di vantaggio. Le partite contro Roma prima e Barcellona poi però possono pesare e bisogna approfittarne”.

E l’Inter?

“E’ una squadra che deve dare un segnale ma non so se Ranieri riuscirà a fare il risultato che Moratti pretende”.

La sorprende questa inversione di posizioni? Un anno fa Inter e Juventus avevano ciascuna punti e posizione dell’altra oggi. Si aspettava che i ruoli si ribaltassero così in fretta?

“L’Inter era già in fase involutiva evidente. La Juventus l’anno scorso ha fatto un brutto campionato e la colpa è anche dell’allenatore. Prenderla in mano in questa situazione come è capitato a Conte e riuscire a restituirgli un’anima è stata un’impresa importante”.

Conte è un valore aggiunto di questa Juventus?

“Certamente e credo che i giocatori lo sentano molto. L’unico consiglio che gli darei se fossi ancora presidente è di stare un po’ più tranquillo. Ha un’animo così legato al risultato che a volte un po’ esagera anche se mi sembra che ultimamente si sia rimesso a soffrire più in silenzio e penso che questo aiuti perché conta molto come stile da Juventus”.

Lei si sarebbe risparmiato le polemiche durissime degli ultimi mesi?

“Glielo dico come tifoso prima che come ex presidente. C’è stato un momento in cui la Juventus ha usato toni troppo elevati e per me la Juventus rimane la società di Boniperti, dello stile dell’avvocato Agnelli e del dottor Umberto Agnelli. Quella per me è la Juventus. Mi fa piacere che si mantenga su quella linea”.

Lei non avrebbe mai detto che gli arbitri sono ancora condizionati da Calciopoli?

“Non voglio fare polemica con nessuno e tantomeno con Agnelli, ma le confermo che apprezzo l’atteggiamento che la Juventus ha preso in queste ultime settimane”

La Juventus è tornata grande o si rischia un entusiasmo prematuro in un cammino di risalita difficile?

“E’ sicuramente tornata competitiva ma penso abbia bisogno ancora di qualche innesto di classe oltre a tanti ottimi giocatori pieni di buona volontà”.

Anche la conquista della finale di Coppa Italia ha un valore simbolico: è la prima finale dopo Calciopoli…

“Mi ha fatto un piacere immenso anche perché sono un delpierista convinto e mi ha fatto piacere vedere quel suo gol voluto in tutti i modi, vederlo in campo per 70 minuti e mi farà piacere seguire la finale contro il Napoli che sarà dura. Spero ci sia di nuovo Del Piero come ha detto Conte”.

E’ quasi un peccato che debba chiudere la sua esperienza con la Juventus…

“Chiudere è qualcosa che nella vita capita sempre. Immagino che apra a qualche esperienza calcistica all’estero. Se chiudesse vincendo questa coppa sarebbe una chiusura degna del grande campione che è”.

E’ un caso se il bilancio delle sfide tra Inter e Juventus dopo Calciopoli è favorevole ai bianconeri anche se a lungo l’Inter è stata la squadra più forte?

“Non è un caso e ricordo con grande soddisfazione quelle vittorie e anche il gol in fuorigioco di Camoranesi a San Siro (ndr successo per 2-1 nella stagione 2007-2008)”.

Ha goduto quella sera?

“Sono di scuola bonipertiana e lui diceva ‘vincere anche in fuorigioco pur di vincere’ naturalmente rispettando le regole e l’etica”

Vale anche per domenica sera?

“Non c’è dubbio ma l’Inter per me non è mai stata un nemico come diceva Mourinho. E’ solo l’avversario che sento di più e che mi fa più piacere sconfiggere”

Oggi lo è diventata nemica della Juventus?

“Dal punto di vista dirigenziale mi auguro la considerino solo un’avversaria. Anche i giocatori, anche se oggi sono pochi quelli che hanno vissuto Calciopoli, credo sentano molto questa partita”.

Già… Calciopoli. Difficile che resti fuori domenica sera dal rettangolo di gioco. Inter-Juventus potrà tornare a essere una partita normale?

“Il tempo cancella le cose e le nuove generazioni di tifosi sapranno poco o nulla di quello che è successo”.

Oggi è impossibile che torni solo una rivalità sportiva?

“Bisogna tenere in conto quelle che sono le relazioni fra dirigenti. La Juventus porta avanti tesi che condivido. E’ finita da sola in Calciopoli e in periodi successivi è emerso che non era l’unica e non è stata nemmeno condannata per comportamenti illeciti ma solo per peccati veniali. Vorrei che un giorno qualcuno mi spiegasse perché altre intercettazioni non sono finite nei faldoni dell’inchiesta e quello che dice Palazzi in maniera tardiva è che l’Inter aveva commesso illeciti sportivi sia pure da discutere in un processo”.

Sono circostanze che non possono restare fuori dal campo?

“Io non le posso dimenticare e continuo ad avere la curiosità di come mai sono state escluse quelle intercettazioni. Bisognerebbe chiederlo a Narducci e Auricchio e come non posso dimenticarle io non può farlo Agnelli”.

Non poteva essere questa sfida l’occasione per un atto simbolico? L’invito di Agnelli a Moratti a vedere la partita insieme…

“Capita raramente. A me è successo solo con Lotito all’ultima partita della stagione ma senza che fosse una cosa programmata”.

Questa volta si tratterebbe di farlo succedere…

“Non credo che avverrà. Basterebbe che i due presidenti si salutassero prima della partita e con moderata cordialità anche alla fine della partita”.

Sarà anche l’occasione del ritorno di Ranieri a Torino. Come devono accoglierlo i tifosi?

“Spero bene. Con noi ha fatto bene fino alle ultime partite in cui abbiamo deciso di separarci. Dovrebbero riconoscergli di aver fatto tutto quello che poteva fare e poi un professionista può anche cambiare e andare ad allenatore la rivale più grande”.

Trascorso qualche anno anche lei ha cambiato idea sull’esperienza di Ranieri a Torino? Il divorzio è stato polemico…

“Non ho più avuto occasione di parlare con lui ma anche la comunicazione dell’esonero la fece solo Blanc. Ho letto frasi aspre nei confronti di Blanc ma è chiaro che quando un tecnico viene allontanato vive la situazione in modo non piacevole”.

Il giudizio oggi, però, è che fu un buon allenatore?

“Gli sono grato ma in quelle ultime giornate aveva un po’ perso il controllo della squadra. A me continua a dispiacere che Deschamps abbia deciso allora da solo di lasciare la Juventus perché sarebbe stato l’uomo giusto”.

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Non so che giornale sia, ma evidentemente c'è ancora gente che si deve adattare al cambio dopo 10 anni di euro...

E dire che poi hanno scritto anche quanto sarebbe l'incasso, quindi i conti non tornano, perché vorrebbe dire avere 30 persone in tutto.

Manco i giornalisti sanno fare questi qua...

Questo è un paese allo sfascio, ve lo dico io.

.oddio

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Roma, Baldini si scusa per cori contro Pessotto

Il direttore generale giallorosso ha posto personalmente le sue scuse al dirigente della Juventus per i cori offensivi che alcuni tifosi giallorossi hanno ieri sera rivolto all'ex difensore bianconero in occasione della finale della Coppa Italia Primavera giocata allo stadio Olimpico

ROMA - Il direttore generale della Roma, Franco Baldini, ha posto personalmente le sue scuse al dirigente della Juventus, Gianluca Pessotto, per i cori offensivi che alcuni tifosi giallorossi hanno ieri sera rivolto all'ex difensore bianconero in occasione della finale della Coppa Italia Primavera giocata allo stadio Olimpico. "Abbiamo vissuto una bellissima soddisfazione, peccato che la bellezza della vittoria sia stata sporcata da eccessi di tifo di cattivo gusto".

LE SCUSE - La Roma, che ha comunque voluto "ringraziare tutti i tifosi che hanno accompagnato la squadra primavera di Alberto De Rossi al successo nella finale di Coppa Italia", ha aggiunto: "Tutti insieme abbiamo vissuto una bellissima soddisfazione in una cornice, quella dello stadio Olimpico, suggestiva ed emozionante - la nota messa dal club giallorosso -. Peccato solo che la bellezza della vittoria sia stata sporcata da alcuni eccessi di tifo di cattivo gusto. Al dirigente della Juventus, Gianluca Pessotto, il direttore generale della Roma Franco Baldini ha già porto personalmente le sue scuse". Nel corso del primo tempo della finale di ritorno tra Roma e Juventus, alcuni sostenitori giallorossi avevano intonato il coro "Pessotto buttate de sotto" in riferimento al tragico episodio che vide protagonista l'ex difensore bianconero Gianluca Pessotto, attuale dirigente della Juve, nel giugno del 2006.

Roma

Cori contro Pessotto

La Roma chiede scusa

Presa di posizione netta del club giallorosso dopo le offese al dirigente bianconero a margine della gara di Coppa Italia primavera: "Vittoria sporcata dal cattivo gusto"

di MATTEO PINCI

ROMA - Era difficile fare finta di nulla. La Roma ha scelto di prendere una posizione netta contro le urla becere di quei tifosi che, nel corso di una finale di coppa Italia Primavera, hanno macchiato la vittoria della propria squadra con quei vergognosi cori all'indirizzo di Gianluca Pessotto. "Oh Pessotto buttati di sotto", il coro di una parte dei ventimila sostenitori arrivati giovedì sera all'Olimpico per una partita di baby romanisti.

Una vergogna a cui la Roma della Rivoluzione Culturale ha voluto dire "no". Con un comunicato ufficiale: "Peccato solo che la bellezza della vittoria sia stata sporcata da alcuni eccessi di tifo di cattivo gusto. Al dirigente della Juventus Gianluca Pessotto il direttore generale della Roma Franco Baldini ha già porto personalmente le sue scuse". Di fatto, il più rilevante esponente della dirigenza del club giallorosso ha messo la propria faccia su una scusa pubblica doverosa, quanto inusuale. Una presa di posizione forte per condannare pubblicamente lo scempio perpetrato da sedicenti tifosi infangando il dramma umano che nel 2006 aveva spinto l'ex giocatore bianconero a tentare il suicidio. Forse la prima volta in cui una società come la Roma si espone direttamente per censurare il comportamento dei propri tifosi, mettendo da parte bandiere e colori nel nome di un idea più grande.

(23 marzo 2012)

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Modificato da totojuve

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Juve-Inter ad alto spread

È «derby d’Italia»

anche per i debiti:

i due terzi della A

Le due squadre nell’ultima stagione hanno accumulato

182,2 milioni di «rosso». Un problema di tutte le grandi

di FILIPPO GRASSIA (il Giornale 24-03-2012)

È il derby d’Italia non solo perché così lo battezzò Gianni Brera buonanima,

ma anche per i debiti che si portano appresso Juventus e Inter con gestioni in

rosso fisso, caratterizzate da uscite platealmente superiori alle entrate.

Alla faccia non solo del fair-play finanziario, ma anche di una corretta

amministrazione. I dati sono drammatici. La società bianconera ha chiuso

l’ultimo esercizio finanziario con una perditadi 95, 4 milioni, quella

nerazzurra s’è fermata a 86,8: in totale fanno 182,2 milioni, i due/terzi di

tutta la Serie A che nello stesso periodo ha accumulato un deficit di 284, 7

milioni. L’altro terzo, per la cronaca, è legato quasi interamente alle

perdite di Milan e Roma. Come a dire che le grandi, nonostante i fatturati di

maggiore entità, sono quasi fisiologicamente costrette a indebitarsi per

rincorrere scudetti, coppe e scoperti in banca. E’ il gatto che si morde la

coda.

La Juventus è in fase di rilancio, ha raggiunto la finale di Coppa Italia e si

trova sulla scia del Milan in campionato, con 2-3 ritocchi può rientrare fra

le migliori 8 squadre d’Europa. Ma la finanza resta allegra. Gli azionisti

hanno dato fondo a ogni risorsa per coprire le perdite con l'uso totale delle

riserve del patrimonio netto (70, 3 milioni), l'azzeramento del capitale

sociale (20,2 milioni) e il parziale utilizzo della riserva sovrapprezzo

azioni (4,9 milioni). La Exor, che possiede il 60% delle azioni bianconere, ha

sborsato oltre 80 milioni, di cui 9 in conto alla ex finanziaria di Gheddafi,

per garantire la continuità aziendale. E i tifosi-azionisti non sono stati da

meno dimostrando un attaccamento tangibile alla causa. Ma non è finita. A

breve la Exor sarà chiamata a sottoscrivere un nuovo aumento di capitale per

pareggiare le perdite che, nell’ultima semestrale, sono state superiori ai 30

milioni. Del genere, impossibile andare avanti così. Da questo momento il

management dovrà lavorare sodo per evitare errori in fase di mercato e

arrivare a quell’autofinanziamento che rappresentava il valore aggiunto del

ciclo legato a Giraudo e Moggi. Sotto la loro guida la Juventus ha ripianato

un passivo di 74 miliardi di lire e non ha mai fatto ricorso al mecenatismo

dei fratelli Agnelli.

Nell’Inter la situazione è diversa. Tocca a Massimo Moratti, e a lui solo,

mettere mani al portafogli per ripianare il bilancio in caduta libera. E la

cosa non è di poco conto tenuto conto dei 1. 150 milioni sborsati nel corso

della ultradecennale presidenza e dei problemi contingenti della Saras, la

raffineria di famiglia che non riesce più a produrre utili, anzi è in perdita

secca da alcuni trimestri. Se a questo aggiungete che la squadra è in gran

parte da rifare ed è fuori dalla Champions League, vi renderete conto di come

siano nebulose le prospettive della Beneamata. I tifosi invocano acquisti a

iosa. Ma forse non sanno, o fanno finta di ignorare, che dal 1995 al 2006 la

società nerazzurra ha accusato perdite per 661 milioni e che la situazione è

peggiorata nel periodo successivo con quasi 500 milioni di rosso.

Le cessioni di Eto’o e Thiago Motta, tanto per rifarci agli ultimi addii più

illustri e chiacchierati, hanno prodotto importanti plusvalenze, ma sono

riuscite solo a tamponare uno scoperto che si preannuncia a fine stagione

sugli 80 milioni. Per la società elvetica Swiss Ramble sarà di 88 milioni.

Ecco perché Moratti, sostenuto da Tronchetti Provera, è alla ricerca di

partner che intervengano non solo nello sponsoring ma anche nell’azionariato.

Lo spread, tanto per usare in senso lato un termine di moda in campo

economico-politico, è forte su entrambi i versanti. Ma la Juventus vanta

prospettive molto più rosee dell’Inter per tre motivi fondamentali: la squadra

in via di ricostruzione, la qualificazione in Champions League e il nuovo

stadio. In soldoni un vantaggio di almeno 250 milioni.

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FAVORI AL REAL

Mou «graziato»

Per la Spagna è uno scandalo

art.non firmato (il Giornale 24-03-2012)

Torna incandescente l’atmosfera in Spagna attorno al Real Madrid di Josè

Mourinho, dopo la raffica di espulsioni di mercoledì, con gestacci e insulti,

che ha visto protagonisti i merengue nel brutto pareggio con il Villareal. Il

tecnico portoghese ha decretato il silenzio stampa della squadra, cancellando

il consueto incontro con i giornalisti della vigilia della partita di Liga

contro la Real Sociedad, mentre hanno suscitato violente polemiche le sentenze

ultraleggere della Commissione disciplinare per gli espulsi di mercoledi,

definite «uno scandalo! » dalla stampa catalana vicina al Barcellona. Mourinho,

espulso per proteste, è stato punito con una giornata di squalifica, il

preparatore atletico Rui Faria, alla quarta espulsione dall’inizio della

stagione, con due, Ozïl, rosso sempre per proteste, con una. Pepe, che ha

aggredito verbalmente l’arbitro Romero gridando «hijo de puta» (figlio di

pũttana) sarà fuori solo per due partite. Sergio Ramos, espulso per doppio

giallo, è stato amnistiato. Uno dei due cartellini è stato annullato per un

non meglio precisato «vizio di forma». Cristiano Ronaldo, che davanti alle tv

ha detto «è un furto», non è stato citato. Lo stesso Mou, che la tv Cuatro ha

registrato mentre gridava anche lui «hijo de puta» all’arbitro, non è stato

punito per l’insulto. «È uno scandalo!» strilla l’edizione online di Sport .

Identico il titolo di Mundo Deportivo . La stampa catalana da mesi denuncia i

«favori» di arbitri e Federazione al Real. Persino il 79% dei lettori di Marca

e di As , i due giornali vicini al club blanco, hanno definito inadeguate le

sanzioni. Dai giornali spagnoli continua la pioggia di critiche a Mourinho.

Marca scrive che «i giocatori e la panchina sono troppo alterati». El Pais

parla di «Ira da frustrazione», dopo che in tre giorni il club madridista ha

visto passare da 10 a 6 punti il vantaggio sul Barcellona, per La Vanguardia

«Il Madrid perde gas e infanga la sua immagine » e Mundo Deportivo titola

«Panico blanco» e parla di «Mourinho alle corde: se non vince la Liga-

sostiene- il portoghese se ne andrà o sarà defenestrato».

___

Marca la differenza

di SANTIAGO SEGUROLA (GaSport 24-03-2012)

IL MALE DI MOU CONTAGIA IL REAL

NON SA CONVIVERE CON LA SCONFITTA

Non c'è niente che ponga rimedio all'infantile intolleranza di Mourinho alle

avversità, situazione che di solito descrive la fibra morale della gente di

sport. Il pareggio a Villarreal ha prodotto le stesse immagini che fanno il

giro del mondo ogni volta che il Madrid non ottiene la vittoria. Mourinho, il

suo aiutante Rui Faria, Sergio Ramos e Ozil sono stati espulsi nel mezzo di un

inspiegabile clima di isteria. Cristiano Ronaldo ha accusato l'arbitro di aver

rubato la partita al Real. Mentre si dirigevano verso gli spogliatoi, Pepe ha

dato del figlio di pũttana all'arbitro e lo ha accusato di essere un

rapinatore, secondo quanto afferma il referto. Questo tsunami di disperazione

è dovuto al gol di Senna, quando mancavano nove minuti alla fine.

Mourinho possiede un senso patrimoniale del calcio. Ritiene che può succedere

solo ciò che lui desidera che succeda. Ignoro il nome con cui si definisce

questo tipo di personalità in termini psicologici, però si avvicina a quello

dei ragazzini viziati che ottengono sempre quello che vogliono e non accettano

mai un no. Mourinho appartiene alla singolare razza di quelli che non perdono

mai. La sconfitta deriva dalle cospirazioni degli altri. È un modo patetico di

affrontare la sua professione, che però gli rende benefici. Questo tipo di

personalità genera adesioni incrollabili perché offre ai suoi il comodo

rifugio dell'alibi.

Il Real Madrid, che è sempre stato un club austero, castigliano, con una

riconosciuta capacità di interiorizzare le sconfitte e non cercare scuse

demagogiche, durante l'ultimo anno e mezzo è diventato protagonista di alcuni

degli episodi più sgradevoli del calcio contemporaneo. È stata rara la

sconfitta che non si è poi tradotta in un comportamento intempestivo o

violento. Ancora oggi pesa il ricordo degli incidenti dell'anno scorso nella

Champions, prorogati in questa stagione con l'aggressione a tradimento di

Mourinho nei confronti di Tito Vilanova, aiutante di Pep Guardiola, nella

finale della Supercopa di Spagna. Ogni sconfitta alimenta una tensione

nucleare.

I fatti successi a Vila-real rispondono alla linea di comportamento del

Madrid dall'arrivo di Mourinho. Il messaggio ufficiale è che l'arbitro ha

danneggiato la squadra e evitato la vittoria. Una buona parte dei tifosi ha

adottato quest'idea così comoda e confortevole. Nonostante ciò, la realtà pone

l'allenatore in una situazione più delicata che in occasioni precedenti. A

molti tifosi, inclusi ferventi mourinhisti, non è piaciuta la formazione

conservatrice schierata contro il Villarreal. Non convincono neanche le

critiche all'arbitro, che non ha fischiato i due rigori di Arbeloa nell'area

madridista. La partita meritava un'autocritica che Mourinho non ha fatto. Le

sue decisioni sono state discutibili e il suo comportamento ha prodotto un

effetto devastante sulla squadra. Il Madrid ha trasportato sul gioco il grado

di combustione che l'allenatore gli trasmetteva dalla panchina. I giocatori

hanno risposto all'avversità del pareggio come ha fatto Mourinho, senza capire

che gli rimanevano ancora 10 minuti di gioco, davanti a un rivale debole ed

estenuato. Però le cose sono così con quest'uomo incapace di convivere con la

sconfitta.

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la storia di DAVIDE COPPO (il Giornale 24-03-2012)

Un fenomeno paradossale nella ricca Germania

Berlino sull’orlo della serie B

è l’ultima capitale del pallone

La città che attira più investimenti nel continente

non riesce ad evitare la retrocessione dell’Hertha

Nel 2010, alla vigilia della sua ultima retrocessione, il quotidiano Der

Tagesspiegel pubblicò un articolo in cui sentenziava 'Se l'Hertha retrocederà,

tutta Berlino si sentirà a sua volta retrocessa, ancor più incompiuta, sporca,

povera di prima'. Nella versione online dello stesso articolo, però, era

significativa la presenza di un commento. Diceva: «L'Hertha BSC non è Berlino.

E Berlino è molto più del solo Hertha». Ecco, appunto. Facciamo un rapido

flash forward: la squadra della capitale tedesca poi effettivamente

retrocederà, per tornare in Bundesliga l'anno successivo (la stagione in

corso). Markus Babbel, storico ex di Bayern e Liverpool, verrà esonerato

nonostante i discreti risultati, e l'Hertha si troverà ancora in zona

retrocessione, come un Cesena o un Lecce qualsiasi. Oggi l'infezione si è

fatta cancrena, e la Zweite Liga è lì, a un passo. Berlino penultima in

classifica, male come nessun’altra capitale d’Europa.

E allora torna, sibillino e cassandrino, il commento di quell'anonimo lettore

di quasi due anni fa: Berlino è molto più dell'Hertha. Sì, è vero, ed è per

questo che rimane un affascinante mistero l'imbarazzante pochezza della sua

squadra. Berlino è, per dire, la città che ha attirato, nel primo trimestre

dell'anno appena trascorso, qualcosa come 140 milioni di euro di investimenti

in start-up, o ancora il secondo luogo al mondo in cui nascono più start-up

ogni anno (al primo posto c'è quell'eldorado chiamato Silicon Valley).

Così la Germania - la stessa Germania che fa la voce grossa in Europa, su

tutto e con tutti - si ritrova con una capitale senza una degna

rappresentazione calcistica. E dire che anche gli snobissimi parigini si sono

svegliati, mettendo in piedi un progetto di marketing e sport che nei prossimi

anni potrà verosimilmente portare alla creazione di un dream team. Settanta

milioni di investimento iniziale nel PSG (acquisendone il 70% ed estinguendo

tutti i debiti) e un piano di conquista economica della Ligue 1 che passa per

Al Jazeera (che ha acquistato i diritti di trasmissione di tutte le partite su

territorio francese fino al 2016), e il Qatar ha messo le mani sulla Francia.

A Roma sono invece sbarcati «gli americani», con un po' di soldi in meno ma

con l'entusiasmo di Tom DiBenedetto, la competenza di Sabatini e le promesse

revoluciònarie di Luis Enrique. Un progetto che un po' funziona e un po' no,

ma intanto affascina. Poi c'è Madrid, finalmente prima in Liga e in odore di

titolo dopo anni di dominio catalano. E Londra, beh Londra alla fine è sempre

lì, con il Chelsea redivivo grazie all'insospettabile Di Matteo, che punta

dritto alla semifinale di Champions.

Insomma, fanalino di coda dell'Europa è la Germania, troppo impegnata a

'salvare' il continente per occuparsi di passatempi così volgari come quelli

pallonari. E l'Hertha sprofonda nonostante 'mr Bundesliga' Otto Rehhagel. La

nostra umile vendetta ce la costruiamo in un rettangolo verde di 110 metri per 75.

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CALCIOPOLI

La pace impossibile e i tribunali

Lo scudetto 2006 dividerà sempre

di GUIDO VACIAGO (Tuttosport 24-03-2012)

TORINO. Senza quella decisione, improvvida e - soprattutto - non necessaria,

di riassegnare lo scudetto 2005-06 all’Inter, forse oggi le cose sarebbe un

po’ più semplici. Perché l’esasperazione dell’antica rivalità nasce da lì,

dall’euforia estiva di Guido Rossi, che il 26 luglio del 2006 con un semplice

comunicato stampa emesso in serata (e nessun atto ufficiale) cucì sulle maglie

dell’Inter lo scudetto strappato da quelle della Juventus, appena condannata

dalla giustizia sportiva. Non c’era fretta e - come gli dissero gli stessi

saggi a cui si era rivolto l’ex consigliere d’amministrazione nerazzurro

all’epoca commissario federale - non c’era nessuno bisogno di attribuire quel

titolo. Lo decise d’imperio, Rossi, innescando una faida tifosa che

virtualmente non finirà mai. Perché sei anni dopo sappiamo molte più cose. Per

esempio che anche l’Inter - l’ha scritto il procuratore federale Palazzi - si

era macchiata di qualche violazione e, addirittura, di quell’articolo 6

(illecito sportivo) che per la Juventus era stato ottenuto sommando una serie

di articoli uno. Sappiamo, insomma, che al di là di quanto gravi o illecite

fossero le condotte dei dirigenti nerazzurri non si poteva considerare l’Inter

“illibata”: condizione imprescindibile (lo scrivevano i saggi a Rossi) per

l’assegnazione dello scudetto. La Juventus rivorrebbe quello scudetto o, per

lo meno, vorrebbe che non restasse nella bacheca dell’Inter che non ha nessuna

intenzione di restituirlo. Stando così le cose i bianconeri saranno sempre

arrabbiati. E se un tribunale o un presidente federale dovesse decidere di

intervenire, ribaltando la situazione, gli arrabbiati diventerebbero gli

interisti. Una via d’uscita che accontenti tutti non esiste. O meglio, non

esiste più, l’ha distrutta Guido Rossi nell’estate del 2006.

-------

E ora la Corte d’appello

I legali Juve puntano a una decisione sul titolo dei giudici ordinari

di GUIDO VACIAGO (Tuttosport 24-03-2012)

TORINO. Dopo che il Tnas, ultimo passaggio della giustizia sportiva, se n’è

lavato le mani con un’altra dichiarazione di incompetenza (dopo che

incompetente si era dichiarato il Consiglio Federale della Figc il 19 luglio

2011), la Juventus ha portato la battaglia per il titolo 2006 in sede di

Giustizia ordinaria. E se il ricorso al Tar è sicuramente quello più eclatante,

con i suoi 444 milioni di danni richiesti alla Figc per i danni provocati da

Calciopoli e i suoi derivati alla Juventus, il prossimo passaggio specifico

sullo scudetto 2006 potrebbe viversi in sede di Corte d’Appello.

DOPPIA PISTA Perché il ricorso costruito dall’avvocato Michele Briamonte,

parte proprio dalla dichiarazione di incompetenza del Tnas e permette - in

linea toerica - alla Corte d’Appello di Roma di entrare nel merito della

vicenda e arrivare ad annullare l’assegnazione dello scudetto all’Inter. La

CdA è una via parallela al Tar. Rischia di vedersi demolito il lodo: tre,

infatti, sono le ragioni per le quali la Juventus chiede l’annullamento del

lodo del Tnas (nella parte rescindente delle 92 pagine di documento). Il lodo

è nullo perché non si è pronunciato nel merito quando doveva pronunciarsi,

perché è stato violato il diritto alla difesa della stessa Juventus, perché è

chiaramente contraddittorio quando afferma che il diritto (in questo caso lo

scudetto 2006) è disponibile per la Juve e non è disponibile per la Figc.

Tutte ragioni buone, per i legali della Juventus, per annullare quel lodo. A

quel punto (e passiamo alla cosiddetta parte rescissoria), la Corte potrebbe

anche decidere se, effettivamente, lo scudetto del 2006 era da revocare sulla

base della relazione Palazzi (quella che riconosce all’Inter e ai suoi

dirigenti la violazione dell’ex articolo 6, ovvero di illecito sportivo, ma

salva i nerazzurri con la prescrizione).

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Tuttosport

24-03-2012

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Repubblica

SERA

23-03-2012

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GaSport

24-03-2012

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RIPARTENZE di LUIGI GARLANDO (SW SPORTWEEK 24-03-2012)

LA VIA CRUCIS

NERAZZURRA

CLAUDIO RANIERI: Quest’anno è una passione

Prima stazione. L’Inter cade a Pechino. Il Milan ha precettato i

reduci dalla Coppa America, Moratti ha lasciato i suoi in spiaggia.

Galliani ringrazia e alza la Supercoppa.

Seconda stazione. Lucio prolunga fino al 2014. Metà agosto: all’età di

Cristo, 33 anni, il difensore firma per altre tre stagioni. Fino al

2014 arriverà anche Cambiasso, che all’epoca avrà 34anni. Dopo il

Triplete avevano prolungato anche Stankovic e Zanetti, che giocherà

fino a 40 anni (2013). Servirebbe rinnovare, ma non i contratti.

Terza stazione. Arrivano Forlan e Zarate. All’ultimo giorno di

mercato. Gasperini aveva chiesto altro, attaccanti esterni: Palacio e

Lavezzi. Aveva chiesto anche di trattenere Eto’o e di lasciar partire

Sneijder. L’Inter trattiene Sneijder e fa partire Eto’o.

Sincronizzarsi no?

Quarta stazione. L’Inter cade a Palermo. Moratti spiega che la colpa è

della difesa a tre. Lo spogliatoio recepisce: il mister conta come il

due di picche.

Quinta stazione. L’Inter cade a San Siro col Trabzonspor. E con la

difesa a quattro. Sesta stazione. L’Inter cade di nuovo a Novara.

Sembra non rialzarsi più.

Settima stazione. La croce passa a Ranieri. Il tecnico romano, detto

il Cireneo o l’Aggiustatore, si carica sulle spalle il peso del

rilancio.

Ottava stazione. L’Inter si rialza nel derby. Il Cireneo rimonta il

Golgota come il miglior Chiappucci: 7 vittorie di fila. L’Aggiustatore

ci sa fare, sembra.

Nona stazione. L’Inter viene portata a Roma. Schernita e punita con

quattro frustate: Borini, Juan, Borini, Bojan. Una corona di spine

sulla testa degli ex re del mondo.

Decima stazione. L’Inter cade due volte a San Siro. Davanti a Novara,

ultimo in classifica, e Bologna. Per raforzarsi, ha appena lasciato

partire un brasiliano di qualità (Thiago Motta), rimpiazzandolo con un

infortunato (Guarin) e un giocatore di B (Palombo). Mistero della fede.

Undicesima stazione. Cambiasso piange in panchina. Sostituito tra i

fischi di San Siro, con il Catania in vantaggio di due gol, il vecchio

Cuchu nasconde il volto in una tuta. La sua immagine rimane impressa

nel sudario e poi esposta alla Pinetina.

Dodicesima stazione. L’Inter cade definitivamente in Champions. Un

errore di Lucio,quello che ha prolungato fino al 2014, in coda al

match col Marsiglia, costa la dolorosa eliminazione dagli ottavi di

Coppa Campioni.

Tredicesima stazione. Moratti li manda tutti a quel paese. Alla fine

del primo tempo di Inter-Atalanta 0-0, una zoomata sulle labbra del

Pres mostra un bel “vafa”. E non ce l’ha con l’arbitro.

Quattordicesima stazione. L’amaro calice di Torino. L’Inter si

presenterà in casa della Juve, acerrima nemica di campo e tribunali,

con 15 punti in meno. La Pasqua di resurrezione dell’Inter quest’anno

cade alta. Molto alta.

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Vallanzasca e il rapimento dei Tulipani

di SEBASTIANO VERNAZZA dalla rubrica NON CI POSSO CREDERE! (SW SPORTWEEK 24-03-2012)

Di recente in pay tv, su Sky Cinema, è passato Vallanzasca - Gli

angeli del male, film di Michele Placido con Kim Rossi Stuart nelle

vesti di Renato Vallanzasca, criminale di culto degli anni 70.

Rapinatore, omicida, ergastolano. Il film si basa su Il fiore del male,

autobiografia scritta dal bandito assieme al giornalista Carlo

Bonini. Nella versione cinematografica di Placido manca il capitolo 21

del libro, quello dedicato a Gullit e Van Basten.

Sì, perchè nel lontano 1987 – durante la "vacanza" successiva

all’evasione dalla nave che doveva portarlo in un carcere sardo –

Vallanzasca, milanese e milanista, progettava di rapire Gullit e Van

Basten. L’aveva chiamata Operazione Tulipano. «Pensavo che Milano 3,

dove i due avevano inizialmente trovato casa, fosse il luogo ideale.

Per tenersi in forma, la mattina presto andavano a fare footing. Avrei

dovuto soltanto indossare una tuta da ginnastica e al posto del

walkman… un mitra».

Non solo soldi: «Mi è capitato di chiedermi se sarei stato in grado

di cambiare il corso del campionato. E il fatto di essere miei ostaggi

avrebbe spinto Marco e Ruud a svelare qualche altarino nascosto del

grande calcio? Di quelli a cui il procuratore Guariniello non potrà

mai arrivare?».

E qui siamo al paradosso e/o all’ironia spinta: Vallanzasca voleva

rapire Gullit e Van Basten per i miliardi del riscatto e per dare una

mano alla magistratura. Ma dài, Renato.

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Mourinho possiede un senso patrimoniale del calcio. Ritiene che può succedere

solo ciò che lui desidera che succeda. Ignoro il nome con cui si definisce

questo tipo di personalità in termini psicologici, però si avvicina a quello

dei ragazzini viziati che ottengono sempre quello che vogliono e non accettano

mai un no. Mourinho appartiene alla singolare razza di quelli che non perdono

mai. La sconfitta deriva dalle cospirazioni degli altri. È un modo patetico di

affrontare la sua professione, che però gli rende benefici. Questo tipo di

personalità genera adesioni incrollabili perché offre ai suoi il comodo

rifugio dell'alibi.

voleva descrivere murino, ma ha descritto alla perfezione anche moratti e i prescritti

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IL DISARMO DEI CAMPIONI

Giocatori con la pancetta, allenatori senza gloria: la generazione degli anni 80 schiacciata dalla nostalgia

di BEPPE DI CORRADO (IL FOGLIO 24-03-2012)

Non è il corpo che li tradisce. Quello li rende simpatici, comuni, normali. E’

l’attaccamento al passato, l’ostinazione a sentirsi ciò che non si è più da tempo,

la pervicacia con cui non ci si arrende all’idea di essere un ex. Paulo Roberto

Falcao che allena il Bahia e alla prima uscita s’incrocia nel derby di Salvador

con il Vitoria allenato da Toninho Cerezo è l’immagine di una generazione

schiacciata da se stessa. Grandi diventati piccoli. Perché il derby di Bahia è

poco. E’ male. E’ tre gradini sotto il minimo che il passato calcistico di questi

meriterebbe di avere. E’ l’immagine che arriva attraverso lo specchio di una

intera epoca pallonara che per molti è il massimo del massimo e che oggi non può

far altro che abbandonarsi alla nostalgia del ricordo. Falcao, Cerezo, Junior,

Socrates, Zico, Burruchaga, Maradona, Gentile, Cabrini, Tardelli, Altobelli,

Rossi, Krol, Rummenigge, Schumacher, Boniek: gli anni Ottanta del calcio mondiale

sono considerati il decennio più incredibile, ricco e talentuoso di sempre,

eppure non c’è uno solo di questi che abbia mantenuto nella carriera post campo,

le aspettative che aveva da giocatore. Grandi, immensi e poi deludenti. Si salva

Michel Platini, che aveva preso la stessa strada incerta e che poi ha svoltato

con la testa: è diventato presidente dell’Uefa, diventerà presidente della Fifa.

Più intelligente di altri, più rapido a capire che in fondo quel periodo dorato è

stato irripetibile e che provare a riciclarsi sempre e solo grazie alla nostalgia

alla fine t’intrappola nella caricatura di te stesso. Gli altri no. A cominciare

da Maradona che ha anche allenato l’Argentina agli ultimi Mondiali, ma ne è

uscito distrutto. Adesso è a Dubai, allena l’Al Wasl, si gonfia il portafoglio,

ma non più il petto. Perché lo sa che una panchina nel campionato degli Emirati

Arabi Uniti non è il futuro che ci si aspettava da lui, perché se sei stato il

più grande di tutti i tempi puoi passare ad altro o rischiare di trasformarti in

uno normale. Diego ha scelto la seconda, poi ha declinato più di quanto fosse

logico aspettarsi. Falcao e Cerezo stanno lì, vicini.

Con loro anche Socrates che non c’è più, ma prima di non esserci aveva preso

comunque lo stesso percorso: una specie di lungo e lento tramonto visibile

fisicamente con la pancetta in più e i capelli in meno e visibile anche

umanamente. Lascia stare che la morte cancella tutto. Socrates rimarrà un mito,

sì. Però scalfito da se stesso: nel 2004 disse sì al rientro in campo a 50 anni,

in Inghilterra, con i dilettanti del Garforth. Due giorni dopo l’uscita arrivò la

spiegazione: “Trovata pubblicitaria”. Lui complice di tutto ciò che aveva sempre

contestato. Il calciatore filosofo, il “dottore”, “O’ Magrao”, oggi quasi nonno

con una carriera infinita alle spalle, con una vita ora tranquilla, con una

laurea in Medicina, un master in medicina dello sport, due Coppe del mondo

giocate, ma mai vinte, cinque squadre nella vita, tornato alla notorietà da

regalarsi e regalare a dei signori inglesi sconosciuti, ma pronti ad aprire il

portafoglio per aggrapparsi a un titolo di giornale. Socrates l’anticapitalista,

a innaffiare il seme del capitalismo contemporaneo: lo spot. Che poi la sua vita

era sempre stata una magnifica contraddizione. Ha fatto quello che ha voluto,

sempre. Ha giocato, dicendo che avrebbe smesso nel 1986. Poi ha cambiato idea: in

campo fino al 1989 e oltre ancora. Ha fatto il medico. Poi è tornato al calcio

per andare in panchina. E’ tornato a studiare per prendere un master in medicina.

Poi di nuovo sui campi di pallone per fare il medico sociale, il fisioterapista,

pure il presidente. Ogni ruolo possibile e immaginabile in una società calcistica

è stato di Socrates. Però ha anche inciso un disco, ha fatto l’impresario

teatrale. Ha scritto sui giornali brasiliani, ma anche arabi. Poi s’è stancato ed

è passato a commentare le partite alla tv. Ha sempre parlato male del governo del

suo paese, poi gli hanno proposto un ministero per dare il suo contributo e lui

l’ha rifiutato; gli hanno offerto la candidatura a presidente della Federazione

calcio brasiliana perché aveva sempre detto che era quella la rovina del “futebol

do Brasil”, ma ha lasciato prima tutti col fiato sospeso e poi ha detto: “No

grazie, preferisco starmene a casa. È un trucco, volete fregarmi”. Unico

giocatore a essere nobile, borghese e proletario nello stesso tempo. Unico vero

fuoriclasse brasiliano a non aver mai vinto niente, ma capace di dire che il suo

Brasile, quello del 1982 e del 1986, “è stata la più bella squadra mai vista in

un campo di pallone”.

Forse è vero. Anzi, per molti è così, e non solo in Sudamerica. Sentite nei bar,

o nei salotti, o nelle discussioni da intellettuali pallonari: si racconta ancora

e sempre di Italia-Brasile 3-2 al Mondiale 1982 come della vittoria più

importante della storia del nostro calcio. “Battere quel Brasile lì? Vuoi

mettere”. Per la vulgata non regge neanche Italia-Germania 4-3 e quindi neanche

tutto il resto del resto del resto. Eppure quel Brasile incredibile, quello

appunto di Cerezo, Falcao, Junior, Socrates, Zico trent’anni dopo è un ricordo

che imbarazza il presente: non ce n’è uno solo che sia invecchiato bene.

A Cerezo la vita gli è andata bene fino a un certo punto: ha guadagnato, s’è

divertito, ha giocato, ha vinto. Se l’è meritato, Toninho il Tappetaro, come lo

chiamavano a Roma perché sembrava un venditore di tappeti. Dei brasiliani della

sua epoca è quello che ha vissuto di più: Brasile, Italia, poi il Giappone e

ancora il Brasile. Ha sempre vissuto il presente senza guardarsi indietro, s’è

spremuto fino a 42 anni, poi non ha avuto rimpianti: “Fino a quando ti reggono le

gambe e hai voglia devi giocare, altrimenti poi ti penti”. A lui le gambe gli

hanno retto più dei capelli, fino a fargli accettare un contratto da una squadra

brasiliana di serie C, l’América della sua Belo Horizonte. Compenso: duecentomila

lire al mese. Praticamente nulla, nemmeno il rimborso spese. Però c’era uno

stadio, uno spogliatoio, l’odore del grasso delle scarpe, il pubblico sulle

gradinate. In fin dei conti il contorno conta soltanto prima di entrare in campo,

quando si pensa all’atmosfera, al risultato, al premio. Poi poco. Poi quasi il

vuoto. Brutto: allena, sì. Allena la modestia. Il derby con Falcao è un colpo

anche alla storica doppia battuta dei fratelli Vanzina. “Secondo te, come starà

passando il capodanno Toninho Cerezo? Secondo me dorme, perché è un

professionista”.

E poi: “Voto a Falcao?”.

“Otto”.

“Errore, nove”.

“Errore tuo, io a Falcao gli do dieci”.

Passato, eccolo. Il presente è altro. E’ duro. Per loro e per gli altri. Zico,

per esempio, oggi allena l’Iraq: praticamente non esiste. E’ uno che in campo ha

avuto l’unica sfortuna di essere contemporaneo di Maradona e Platini, altrimenti

sarebbe stato il migliore della sua epoca. Diego, maledetto Diego. Michel,

maledetto Michel. E’ infame il calcio: ti fa grande, ma se c’è uno più grande di

te, ti rimpicciolisce. Ti dimentica. Ti lascia lì, impalato: il totem

dell’incompiuto, la sinfonia che a un certo punto s’interrompe perché il maestro

non ricorda più le note. Così tu puoi essere Zico, puoi essere l’erede di Pelé,

il più bravo della Nazionale brasiliana più bella di sempre. Però c’è Maradona e

sei fregato. C’è Platini e dal numero due passi al tre. E dopo il tre sei ƭottuto,

perché il quattro è sempre fuorigioco. La vita di Arthur Antunes Coimbra va così

da sempre. Dicevano: si riscatterà da allenatore. Balle: il destino l’ha

dribblato. Allenatore, sì. Per il nome, per la fama, per comodità. Kashima

Antlers, Nazionale giapponese, Fenerbahce, Bunyodkor, Cska Mosca, Olympiakos, ora

l’Iraq: qualcosa alla Milutinovic, più che alla Zico, da girovago nobile, più che

da talento puro invecchiato. Da uno così, con la classe che aveva, con i numeri

che faceva potevi aspettarti di più. Dovevi.

Il fallimento della generazione d’oro coinvolge anche lui. E gli altri. Torni a

quell’Italia-Brasile 3-2. Riavvolgi il nastro, guardi e ascolti. Proprio Zico che

parla: “Purtroppo nel calcio vince anche la squadra peggiore. Il 3-2 dell’Italia

è una brutta sconfitta per noi, ma siamo contenti di aver mostrato un bel

calcio”. Bene, ok. Poi quei peggiori vinsero il Mundial, si trascinarono un paese

intero, il nostro. Trent’anni dopo quella Nazionale è ancora l’unica degna di

essere ricordata. Non si capisce il perché, eppure è così. Abbiamo vinto un altro

Mondiale, quello del 2006, ma l’opinione comune, la critica, la massa, tutti

insomma, considerano la Coppa del mondo di Spagna ’82 un’altra cosa. Migliore.

Tesi bizzarra, ma molto in voga. Tesi da costante nostalgia pallonara che fa

rabbrividire perché dimostra soltanto una cosa: che l’opinione collettiva si

forma per convenzione, più che per convinzione. Perché ci si identifica con

l’epoca, quindi. Perché, in sostanza, oggi il nostro paese è guidato da chi quel

Mondiale l’ha vissuto nell’era della gioventù, cioè la più bella, la più

sognante: il ricordo piacevole della prima notte d’amore coincidente con la

vittoria sull’Argentina; la notte prima degli esami che è anche quella di

Italia-Germania 3-1 e dei campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del

mondo. Come a dire: la nostalgia di se stessi modifica il sentimento popolare.

Siamo così, in fondo: egoisti ed egocentrici al punto da piegare il giudizio su

un evento al nostro ricordo personale. Così è in un paese dove

Zoff-Bergomi-Cabrini-Gentile-Collovati-Scirea-Conti-Tardelli-Rossi-Oriali-Graziani

è una filastrocca che culla i sonni di quaranta-cinquantenni che non ritengono

possibile che il calcio abbia superato l’82.

E invece anche loro sono tutti parte, tranne Zoff, di una foto che è invecchiata

male. Ha perso colore e forse anche senso. Provate a trovare uno di questi che

sia stato un campione dopo: nella vita post campo, nessuno di loro, è stato

numero uno come lo fu al Santiago Bernabéu la notte dell’11 luglio di trent’anni

fa. La retorica non si accorge che guardare sempre indietro ha trasformato quella

generazione in un gruppo di eroi sbiaditi: è come se quei campioni abbiano

vissuto nella costante riproposizione delle immagini che li vedono protagonisti.

Gentile e Cabrini hanno tentato la carriera da allenatori: non è andata. Il primo

ha avuto buoni risultati con la Nazionale Under 21 e poi? Nulla. Il secondo

neanche quello. Lo stesso discorso vale per Tardelli: ma come? L’immagine simbolo

di quel decennio d’oro, l’uomo dell’urlo più bello dell’intera storia del calcio,

non ha avuto una carriera post calciatore all’altezza di quel ricordo. Anche lui

è stato un ottimo allenatore dell’Under 21 e poi basta. Oggi fa il secondo di

Trapattoni nella Nazionale irlandese. Anche Conti, anche Altobelli, anche

Graziani, anche Antognoni: un intero gruppo di lusso rimasto vittima di un

ricordo. Bello, ma sempre ricordo. Vale anche per Paolo Rossi: commentatore

televisivo, sì. Nell’ultimo periodo è tornato personaggio, protagonista, noto,

forse anche felice. Ma Pablito avrebbe dovuto essere ancora di più. Forse li

avremmo dovuti lasciare un po’ in pace. Invece no. Il vizio della nostalgia è

sempre là in agguato. Alimentato sempre e comunque dall’opinione collettiva

dominante che appartiene alla generazione che festeggiò nel 1982 e che quindi

continua a pensare al passato cancellando il futuro. Il bello è che il futuro

cancellato è stato quello dei personaggi e dei protagonisti. Brasiliani, italiani

e poi gli altri: Ruud Krol era un grande. L’erede di Cruyff non come ruolo, ma

come spessore, come carisma, come stile. Una figurina d’oro degli anni Ottanta:

oggi allena gli Orlando Pirates, in Sudafrica. Idem Zibì Boniek: con i campi

smise nel 1988, a 32 anni. A 34 era già allenatore: Lecce. Lo prese il presidente

Franco Jurlano per farlo cominciare dall’alto. Dalla serie A. Cominciò bene e

finì male, con una retrocessione. Nel periodo in Salento ci fu anche un episodio

curioso. Era la settimana santa e la società pugliese ogni Pasqua riuniva i

giocatori in chiesa per una messa e per la benedizione. Quell’anno un calciatore

si rifiutò di partecipare alla celebrazione. Era Pietro Paolo Virdis: Boniek lo

punì, scoppiarono le polemiche, fu tirata fuori la sua fede. La società appoggiò

l’allenatore, ma le cose non andarono bene ugualmente. In panchina, Zbigniew non

ha mai avuto fortuna: dopo Lecce, Bari, Sambenedettese, Avellino. Ha collezionato

più sconfitte che vittorie, ha messo in fila due retrocessioni e una promozione,

ha subito due esoneri. Una volta, invece, non ha neppure cominciato. Forse senza

saperlo nemmeno, Boniek è stato l’allenatore rimasto meno tempo in un club:

cinque ore. Arrivò a Pisa per guidare la squadra del presidente Romeo Anconetani.

C’era l’accordo, c’era l’entusiasmo, c’erano i presupposti per cominciare un

progetto. Invece no. La società diramò un comunicato: Zbigniew Boniek non era già

più l’allenatore del Pisa, prima che avesse avuto il tempo di cominciare. “Il

presidente mi vietò di scegliere i miei collaboratori, così ruppi tutto e tornai

in albergo. I dirigenti bussarono tutta la notte alla mia porta per convincermi a

restare. Non aprii. Niente panchina, tornai a rilassarmi tra i cavalli”. Poi

arrivò la televisione: prima spalla del telecronista a Telemontecarlo per le

partite internazionali, poi opinionista alla “Domenica sportiva”. Lì è tornato a

far correre la lingua, come faceva in campo. Spesso ha colpito nel segno, ogni

tanto ha fatto male. E’ rimasto come quando giocava insieme a Lato in nazionale e

ne combinava di tutti i colori, oppure come quando faceva fare sempre bella

figura a Platini. Il francese lo lanciava e lui andava a prendersi il pallone

anche quando sembrava che finisse fuori. Poi dribbling, cross, gol. Di Michel,

ovviamente. L’unico che s’è salvato. L’unico che è invecchiato d’aspetto, non di

testa, l’unico che s’è salvato da se stesso. E dagli altri.

Modificato da Ghost Dog

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Capitale e Montepaschi

Banca e pallone

L’eterno richiamo di Siena

di FEDERICO DE ROSA (CorSera - Roma 24-03-2012)

C'è stata un'epoca in cui la difesa dell'ortodossia era così radicale che mai un

romano avrebbe potuto varcare la soglia del «tempio» di Rocca Salimbeni. Non era

una consuetudine ma una regola, scritta nello statuto della più antica banca

mondo, il Monte dei Paschi di Siena.

Solo i senesi potevano assumere cariche o salire ai vertici. Una regola che ha

resistito a lungo.

Ancora oggi il presidente del Monte deve avere residenza o domicilio nella

provincia di Siena. E' l'unico retaggio rimasto in una città che, pur restando

gelosa del suo campanile, negli ultimi anni ha ceduto molti spazi ai forestieri.

E ha costruito sulla direttrice per Roma una corsia preferenziale. In cui

circolano soprattutto azioni e palloni. Le azioni, naturalmente sono quelle del

Monte, i palloni invece del Siena Calcio, la squadra di Massimo Mezzaroma, il

romano più noto a Piazza del Campo.

Una notorietà che il quarantenne imprenditore capitolino divide con Francesco

Gaetano Caltagirone. Il costruttore romano è un «dominus» a Siena. Rastrellando

sul mercato azioni su azioni prima ha messo insieme il pacchetto singolo più alto

tra i soci privati del Montepaschi, poi ha conquistato la vicepresidenza della

banca in cui una volta solo i senesi potevano entrare. Una volta. Da Roma viene

anche il nuovo amministratore delegato della banca, Fabrizio Viola. Il patron del

Messaggero, della Cementir, della Vianini e molto altro ancora adesso si è

disimpegnato da Rocca Salimbeni. Ha lasciato la vicepresidenza e

contemporaneamente venduto sul mercato un robusto pacco di azioni.

Oggi gli è rimasta una piccola partecipazione e non sembra puntare a una nuova

stagione a Siena. Dove a presidiare la sua quota ha lasciato lo storico braccio

destro, Mario Delfini, e Massimiliano Capece Minutolo. Ma per un Caltagirone che

esce ce ne è un altro che entra. La scorsa settimana tra i nuovi soci della banca

è spuntato a sorpresa Edoardo, fratello di Francesco Gaetano, diventato socio con

lo 0,5%. Che possa preludere all'apertura di un nuovo canale di business?

Difficile. Il fratello a Siena non è che ne abbia fatto. È vero che aveva

immobilizzato svariati milioni di euro per comprare azioni della banca, ma si è

fermato lì. Non ha fatto altri investimenti nella zona. Eppure il legame con la

città era forte al punto da far celebrare il matrimonio della figlia Azzurra con

Pierferdinando Casini a Siena.

La vicinanza con la Capitale ha subito indotto gli analisti e gli osservatori,

quando nei giorni scorsi a Siena girava voce che un industriale farmaceutico

stesse trattando con la Fondazione per entrare in banca, a pensare al «romano»

Francesco Angelini. In realtà si tratta del gruppo Menarini anche se

l'imprenditore capitolino era stato sondato per capire un suo eventuale interesse.

È anche vero che neppure Mezzaroma ha tirato su palazzi o asfaltato strade a

Siena, pur facendo questo di mestiere. Ad avere un proprietario «forestiero» al

Siena ci hanno fatto l'abitudine. Mezzaroma è il terzo. La squadra l'ha rilevata

nel 2010 dall'avvocato romano Giovanni Lombardi Stronati, il quale l'aveva

comprata a sua volta da un napoletano, Paolo De Luca. A vendergliela era stato

Claudio Corradini, romano al quale era stata ceduta dal concittadino Max

Paganini. Mezzaroma, come sempre capita nel calcio, è amato e odiato in città.

Dipende dal risultato.

Il filo è sottile, anche se il fatto di essere il presidente che ha prima

salvato poi portato il Siena in A lo rende «quasi» un intoccabile. Quasi. Perché

quando si tratta di toccare gli interessi della città, sembra che gli spazi

all'improvviso si riducano. Prendiamo la storia dello stadio. È da quando ha

messo piede a Siena che Mezzaroma vuole costruirne uno nuovo. Ne ha parlato,

discusso, ha valutato in lungo e in largo il progetto con il Comune. Ma ogni

volta il traguardo viene spostato più avanti.

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Il caso Pessotto

"Al prossimo coro fermiamoci"

Prandelli: "Stop alle partite per queste offese". Baldini si scusa

di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 24-03-2012)

«Vorrei abbracciare Pessotto, ed è la seconda volta in poche settimane. Ma

vorrei anche alzarmi e andarmene dallo stadio».

Cesare Prandelli non è solo il commissario tecnico della nazionale, è anche

un uomo di valori, un innamorato dello sport. Ha conosciuto, nella sua

carriera di giocatore, la terribile notte dell´Heysel e sa che la follia e il

dolore possono fare irruzione in campo e rovesciare tutto. Possono anche

uccidere. Ma questa non è follia, non è stupidità di pochi. I cori contro

Pessotto, e gli ululati razzisti, sono una vergogna per il genere umano, un

cancro che il calcio deve estirpare con il coraggio di gesti estremi, e

denunce.

«Dovremmo avere tutti molta più voglia di reagire», dice Prandelli. Forse,

c´è un modo solo: «Smettere di giocare, interrompere le partite in presenza di

certi fatti inauditi. Bisognerebbe parlarne in una delle prossime riunioni tra

i capitani della serie A, però questa scelta non può essere lasciata solo ai

giocatori. Riguarda la coscienza di ognuno». Perché la misura è colma,

nonostante il silenzio di troppa gente. «Mi sento stanco, sono stufo di queste

cose. Lo ripeto, dobbiamo reagire».

E qualcosa di nuovo è già successo. Dopo i cori terribili contro Pessotto di

parte dei tifosi giallorossi, durante la finale di Coppa Italia primavera

all´Olimpico, la Roma ha emesso un comunicato ufficiale: «Peccato che la

bellezza della vittoria sia stata sporcata da alcuni eccessi di tifo di

cattivo gusto. Al dirigente della Juventus Gianluca Pessotto, il direttore

generale della Roma Franco Baldini ha già porto personalmente le sue scuse».

Non accade spesso, anzi non accade mai, che un club prenda le distanze dai

propri tifosi più beceri, anche se all´Olimpico si è trattato di qualcosa di

assai più grave di «alcuni eccessi di tifo di cattivo gusto». Quello che

giunge dalla Roma, quindi, è un segnale positivo, in attesa che la prossima

volta ci si dissoci in maniera ancora più netta, e si dica una parola ancora

più forte. Tipo: quella gente, a casa nostra non la vogliamo. E magari

potrebbe farlo la stessa Juventus, che continua a pagare multe per i cori

razzisti contro avversari di colore.

Vittima per la seconda volta di questi terribili episodi, Pessotto preferisce

non commentare. Aveva scelto il silenzio anche dopo che a Bologna era stato

esposto quello striscione allucinante. È probabile che in alcune menti malate

sia scattato un meccanismo di emulazione, non si spiega altrimenti l´attacco a

Pessotto durante una partita di calcio giovanile, davvero quanto di peggio si

potesse immaginare.

Gli autori dello striscione di Bologna, fotografati e filmati, non sono stati

mai identificati né indagati, mentre per il club emiliano è scattato il

deferimento da parte della Procura federale. Eppure non dovrebbe essere

difficile cacciare i razzisti dal calcio, le misure di pubblica sicurezza non

mancano, le tecniche d´indagine nemmeno. Quella che latita, semmai, è la

volontà dei presidenti e delle istituzioni sportive. Le scuse di Baldini e il

comunicato della Roma possono rappresentare un punto di partenza, però

occorrono provvedimenti più severi, e questo non spetta solo al calcio. Ma è

compito delle società isolare i teppisti e gli ultrà più vigliacchi e

intolleranti, invece di continuare a vivere di connivenze restando sotto

scacco, esponendosi al ricatto delle curve in cambio di protezioni, trasferte

pagate, biglietti omaggio e commercio dentro e fuori gli stadi. Una strada

possibile, anche se drastica, la indica proprio il ct della nazionale: dire

basta, e interrompere le partite quando le persone diventano indegne.

___

Buongiorno di MASSIMO GRAMELLINI (LA STAMPA 24-03-2012)

Forza Roma

Con un’iniziativa senza precedenti ma speriamo molte conseguenze, il direttore

generale della Roma ha chiesto pubblicamente scusa al dirigente juventino

Gianluca Pessotto per i cori degli ultrà romanisti durante la finale di Coppa

Italia juniores: «Oh Pessotto, buttati di sotto». La nuova linea del disgusto

era stata dettata da uno striscione apparso nella curva del Bologna: «Pessotto

simulatore, si è buttato o era rigore?». Per fortuna Lucio Dalla ha fatto in

tempo a non leggerlo.

Il tifo calcistico è il bidet degli umori umani e la storia degli sfottò è

costellata di slogan che auspicano la morte dell’avversario (la politica vi si

è adeguata solo di recente, come testimoniano certe magliette e certe

vignette). Ma nel caso di Pessotto si è andati molto oltre, canzonando un

evento realmente accaduto: l’ex giocatore del Toro e della Juve - uomo

sensibile, colto e perbene - nel 2006 tentò il suicidio al culmine di una

crisi depressiva. Per non precipitare nello sconforto bisogna aggrapparsi al

comunicato della Roma.

Non so se dipenda dalla crisi economica, dal governo tecnico o da un

improvviso sussulto di decenza, ma lo spread della vergogna si sta abbassando

e il fatto che qualcuno ricominci a indignarsi e a scusarsi per lo schifo

circostante, anziché giustificare sempre ogni eccesso in nome della libertà e

dell’omertà, appare al momento l’unica lampadina accesa nel buio che c’è. Se

poi la Roma butterà fuori dallo stadio quei farabutti, la lampadina diventerà

un faretto.

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JUVE-INTER

La partita dell’odio totale

che non c’entra col calcio

Domani derby d’Italia tra migliori nemiche del campionato

Da Juliano-Ronaldo a Calciopoli solo ira e strani complotti

di FABRIZIO BIASIN (Libero 24-03-2012)

Domani, in serata, c’è quella partita là, quella che la chiamavano derby

d’Italia perché Juve e Inter fino al 2006 erano le uniche mai scese in B, poi

i bianconeri si son fatti un giro al Purgatorio del pallone e da allora lo

chiami ancora derby d’Italia ma solo per banale comodità mediatica.

Piaccia o non piaccia quella tra zebre e biscioni è la partita dell’odio, del

veleno, del «tu sei più ladro di me», del «sapete solo rubare », dell’«attenti

che qui finisce tutto a schifìo». Allo Juventus Stadium c’è chi si gioca lo

scudetto (i bianconeri) e chi solo l’onore (i nerazzurri), eppure quando si

arriva alla disfida tra Agnelli’s e Moratti’s la classifica conta nulla e

prevalgono ragionamenti machiavellici, presunti complotti, rogne sotterranee,

impicci da leggenda metropolitana che a confronto il mistero di Ustica è una

storiella col lieto fine.

I tifosi della Signora schierano l’armatura pesante e partono all’attacco con

i terribili aneddoti spacca-Inter. I nerazzurri, in ordine sparso, hanno:

truccato passaporti (specie quello di Recoba), fatto pedinare Vieri e pure tre

o quattro arbitri, unto le ruote di qualche fischietto tipo Nucini cui hanno

persino offerto un posto di lavoro, fatto affari con l’allora inibito

presidente del Genoa Preziosi, vinto la Champions perché anche gli arbitri

internazionali son stati bisunti a dovere, comprato Ibra ma solo perché la

Signora era stata presa a mazzate dalla giustizia sportiva. Per non parlare di

quelle intercettazioni scomparse perché si sa, le telefonate le gestiva la

Telecom e la Telecom era Tronchetti Provera e Tronchetti Provera ha il sangue

neroblù. E lo scudetto del 2006? Quello è dell’Inter solo perché certe

sozzerie sono andate in prescrizione, e nessuno dice che l’Inter in B c’è

andata per davvero, negli Anni 20, ma si è salvata per qualche strano miracolo

e tanti altri fatti e fatterelli che a scriverli tutti non basterebbe tutto il

giornale.

Ma gli interisti mica stanno a guardare, proprio no, e rilanciano con la

storia dei designatori Bergamo e Pairetto compagni di merende bianconere, con

quella di Moggi che andava in svizzera ma mica per comprare il Toblerone,

semmai per smazzare schede telefoniche non rintracciabili, di Agricola che

pompava i giocatori tipo canotti al mare, di tesserati che venivano minacciati

e altri spediti in Nazionale per decisioni divine, di rigori incredibilmente

non assegnati tipo quello capitato a Ronaldo quando fece il frontale contro

Iuliano nel 1998, di mercati pallonari controllati da forze oscure che

impedivano a Moratti di vincere coppe e scudetti, di tante altre diavolerie

indicibili che il calcio non era uno gioco, ma una roba per gente senza

scrupoli.

Mai uno che dica: «La Juve vinceva perché era la più forte, l’Inter s’è messa

a vincere perché è diventata la più forte». No, colpa dei complotti. E il

bello è che chi ha letto qua sopra, a prescindere, crede che un elenco di cose

sia vero e l’altro completamente falso. Questione di punti di vista. . .

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THE RISE AND FALL OF

PANTALEO CORVINO

Fiorentina's sporting director was once fêted as one of the

best of his kind. But as Adam Digby reports, Pantaleo Corvino

has seen his fortunes go south in recent times.

by ADAM DIGBY (IN BED WITH MARADONA | Tuesday, March 20, 2012)

art.scoperto grazie a Studio

One hundred and eight words. In any walk of life it is not very much, the

briefest of brief statements, barely more than a quote really. Yet on Monday,

March 19 – in the aftermath of their one-sided loss to bitter rivals Juventus –

that is the number of words chosen by Fiorentina to tell the world that they had

reached a mutual agreement with their Sporting Director, Pantaleo Corvino, that

his contract would not be renewed once it expires at the end of the season. While

many football fans have no time for men in that position and would consider those

few choice words to be more than enough when dispensing with such a persons

services, those who follow Serie A football closely would consider it perhaps

something of a slight on the 62 year old.

Despite the statement going on to say Corvino had the clubs “complete confidence

for many years,” and thanking him for helping the Viola “to play a leading role

at the top level both in Italy and on the international scene, ” it really did

not say enough about the impact the departing director had had on both Fiorentina

and indeed Italian football in general since he took his first real role in

Calcio way back in 1988. Since then he has delivered some of finest talent the

country has seen, both from within Italy as well as discovering some widely

coveted foreign imports. It is largely down to the Lecce native that players such

as Fabrizio Miccoli, Mirko Vucinic and Stevan Jovetic – to name just three – have

become household names.

His story begins with lowly Casarano, a tiny side in Puglia who are now known as

Virtus Casarano after bankruptcy and playing amateur football in Serie D, the

peninsula’s fifth tier. Back then however, they were enjoying the best period in

their history, playing in what is now the Lega Pro Prima Divisione and Corvino

would prove to be just as shrewd then as he ever was. Despite the obviously

scarce financial resources that came with the territory of being at a club based

in a stadium that holds just 6,200 people and is rarely sold out, he would manage

to somehow attract the best players from the region to the modest provincial

outfit.

Using the talent spotting and negotiating skills he has always seemed to possess,

Corvino, during his ten year stay with the club would see Dario Levanto, Cosimo

Francioso and Dario Passoni all wear the Rossoblu shirt before enjoying

relatively impressive careers. Current Inter reserve ‘keeper Paolo Orlandoni

would prove to be another smart acquisition before one theme that would run

throughout the directors career began; Antonio Cassano would be offered a trial

with Casarano only to see them choose not to sign him, meaning the Italy star

became the very first ‘one-that-got-away’ from Corvino. He would not be the last.

Before missing out on ‘Il Gioiello di Bari Vecchia’ however, he had captured his

first bargain, yet another trend that would span the next three decades. Released

by Milan despite scoring 28 goals and helping their Giovanissimi Nazionali

(Under-15) team to win the national championship, Fabrizio Miccoli could not find

room at his beloved Lecce and was convinced by Corvino to play for Casarano

instead. There he scored 21 goals and won the Berretti (Under 19) title as well

as making his debut in what was then Serie C1, aged just 16, scoring eight goals

and catching the eye of Ternana, moving there before eventually earning his

subsequent moves to Juventus, Benfica, Fiorentina and, eventually Palermo.

Corvino would move on too, unlike Miccoli he did find room at Lecce, where he

would deliver not only genuinely quality players, but also create environments in

which some big name coaches would thrive, whether to resurrect ailing careers or

indeed launch themselves into the wider conscience through their work with the

Salentini. The first real partnership of the directors career came almost

immediately as he trusted the coaching role to Alberto Cavasin who would win the

Panchina d'oro as Serie A’s Coach of the Year in 2000.

He would earn the award for a 13th place finish in a season where Cristiano

Lucarelli would score fifteen goals in a squad which, thanks to Corvino’s

continued excellence, would include Francisco Lima, Juárez and goalkeeper Antonio

Chimenti. He would sell Lucarelli and replace him with Javier Chevantón – who

would score 46 times in 87 appearances for the club – while also bringing Bruno

Cirillo, Guillermo Giacomazzi and, in one of his best ever moves, youngster

Valeri Bojinov.

The Bulgarian would become the youngest ever foreigner to play in Serie A when

he made his debut aged just 15 years and 11 months in 2002 in a Lecce side by

then coached by Delio Rossi who was unable to avoid relegation after replacing

Cavasin, but led the side straight back to the top flight at the first

opportunity. This was the coach’s first position of note and he would not

disappoint, then as now working well with young players and Bojinov in particular

would thrive and, having paid virtually nothing to sign the player, Lecce would

earn €13 million when they sold the striker to Fiorentina in 2005.

His value was perhaps so inflated after a stellar 2004-05 season in which

Corvino entrusted the team to Zdenek Zeman, becoming the first top flight

director to believe in the outspoken Czech after his anti-doping claims which saw

him become something of a pariah among Italian footballs established order.

Neither man would regret the move as Lecce played some wonderful football that

season, finishing 11th and scoring more goals than any team except Champions

Juventus, whose tally of 67 was just one more than Zeman’s team.

Bojinov himself would net thirteen goals – a total which remains his career high

even today – while the latest Corvino find, Mirko Vucinic would do even better,

scoring nineteen times and ending the season as the fifth highest scorer in the

league. Another Eastern European striker that the director signed for almost

nothing would make an even larger profit for the Southern side, Roma eventually

paying a total of €15. 75m for the Montenegrin who left in 2006.

A year earlier however and both Zeman and Corvino left the Stadio Via del Mare

with the director finally seeming to have landed at a big club as he joined

Fiorentina, one of Italian football’s famed ‘Seven Sisters’. The Viola would

enjoy, after the effects of the Calciopoli scandal dissipated, what would prove

to be one of their most successful periods ever under his guidance. Bringing in

Cesare Prandelli, who had proven his qualities at Parma, Corvino would build a

hugely impressive young squad which would not only qualify for the Champions

League but thrive in it, reaching the Last Sixteen of Europe’s elite competition.

They lost there to a highly contentious Bayern Munich goal which was clearly

offside and also reached the Semi-Final of the UEFA Cup with a squad laden with

talent. From goalkeeper Sebastian Frey, reliable defenders such as Alessandro

Gamberini, Corvino provided numerous roleplayers for Prandelli, but also a

sprinkling of stardust too. Milan cast off Alberto Gilardino was a shrewd signing,

but so too were Riccardo Montolivo, Juan Manuel Vargas and Valon Behrami, all

playing major roles in some simply superb teams at the Artemio Franchi.

Once settled comfortably in the Renaissance city, he felt confident enough to

give in almost completely to his penchant for telling the press names of players

he almost signed, the habit becoming something of a running joke. Having admitted

to narrowly missing out on the likes Nemanja Vidic , Charles N'Zogbia and the

Brazilian playmaker Diego, Corvino confessed to La Ġazzetta dello Sport that his

biggest mistake actually came while he was still at Lecce:

“There is no doubt that my most significant regret as a Sporting Director was

[Dimitar] Berbatov. I had him when he was just 18 years old. He had even taken a

medical but I left the meeting to sign off another transfer, and when I returned

I found only my understudy. The player and his father had gone because of our

failure to give him a car and an apartment. This is a huge regret for me as I saw

then what was later spotted by Tottenham and Manchester United. "

Back to deals he actually completed however, as Corvino once again made huge

profits on players such as Felipe Melo, bought from Almeria for €13m and sold

just a year later to Juventus for €25m after a quick contract renegotiation that

showed incredible acumen from the director. That same business savvy was evident

when he managed to make a €2.4 million profit on a hugely disappointing Pablo

Osvaldo and a similar amount when moving Luca Toni on to Bayern Munich. The

arrival of his latest Balkan superstar-in-waiting, the technically brilliant

Stevan Jovetic appeared to be a crowning moment for Corvino who – with his book

of Eastern European contacts every inch as bulging as his ever-expanding

waistline – was on top of the world, the faithful Viola supporters printing

t-shirts in his honour and telling the world just how great he was.

Then just like that, the sky fell in on him, the club and everyone connected

with Fiorentina. The Della Valle family, who took over the club when it went

bankrupt under previous owner Vittorio Cecchi Gori, became disenchanted after a

seemingly endless argument with the City council over plans for a new stadium. It

led to the whole project (for want of a better word) feeling incredibly stalled

and it would only get worse as Corvino stumbled, making bad decisions for perhaps

the first time ever. His signing of Adrian Mutu turned out to be a disaster – the

player would be first branded “a baby” and then be banished from the club by

Corvino after his latest failed drugs test – and he seriously destabilized an

already struggling squad. He then sold Frey and Gilardino, all the while unable

to agree a new deal with captain Montolivio which will see the clubs former

talisman leave for free this coming summer.

Add to all that the disastrous appointment of Siniša Mihajlovic as coach as well

as signings like Santiago Silva, Gianni Munari and Houssine Kharja and suddenly

his release by Fiorentina looks extremely unsurprising. His stock has fallen even

faster than the Viola have dropped down the table, the team now looking every

inch the relegation battlers they seem set to become only eighteen months removed

from that crushing disappointment against Bayern. While his exit in June is

undoubtedly the best thing for all concerned, it remains to be seen what the

future holds for both him and Fiorentina.

Should another club choose to take him on, it is somewhat ironic that a man who

built his career on restoring sheen to damaged reputations of men such as Miccoli,

Zeman and Gilardino would then face the challenge of working quickly to rebuild

his own image. Repeating the near-miracles he performed in Lecce and Florence may

yet prove to be beyond him as Pantaleo Corvino becomes proof positive that Will

Rogers was on to something when he said; “It takes a lifetime to build a good

reputation, but you can lose it in a minute. ”

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Calcio e business,

ecco il "RealMadridLand" di Dubai

Hotel di lusso, spiaggia esclusiva, installazioni sportive e persino un

museo sulle leggende merengues: è costato 1 miliardo di euro e sorgerà

su un'isoletta artificiale in località Ras al-Khaimah (negli Emirati Arabi)

il Real Madrid Resort Island, l'ultima trovata di Florentino Perez

L'apertura è prevista per il 2015, attesi un milione di turisti l'anno.

di GIUSEPPE BASELICE (FIRSTonline 24-03-2012)

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Da Villarreal a Ras al-Khaimah. Dall’ennesimo danno d’immagine

procurato dall’ultima crisi di nervi di Josè Mourinho, al tentativo di risanarla,

l’immagine, attraverso un’operazione di marketing che finora solo la Ferrari

aveva fatto, con il Ferrari World inaugurato nel 2011 ad Abu Dhabi.

Costerà l’astronomica cifra di 1 miliardo di euro al Real Madrid

la costruzione del Resort Island nel golfo degli Emirati Arabi:

un’isola artificiale da 50 ettari, già soprannominata RealMadridLand, la cui

apertura è prevista per il 2015 e nei piani del presidente Florentino Perez

porterà ulteriore lustro al marchio del club della famiglia reale spagnola, il

più titolato in Europa con nove Coppe dei Campioni in bacheca, proprio

nell’anno in cui festeggia i 110 anni di vita e sta dando la caccia a una storica

decima vittoria Coppa dei Campioni (l’ultima è arrivata esattamente dieci anni

fa, in occasione del centenario).

Proprio come aveva fatto la Ferrari due anni fa, tra montagne

russe e simulazioni di Gp, anche la squadra spagnola ha scelto l’opulento

e suggestivo palcoscenico dei Paesi arabi, e punterà su attività altrettanto

spettacolari e polivalenti: il Real Madrid Resort Island infatti non sarà

una semplice cittadella per esibire il marchio della Casa blanca, ma un

vero e proprio complesso turistico con parco a tema, porto,

spiaggia, hotel e ville di lusso, museo, installazioni sportive e

persino uno stadio da 10mila posti per eventuali esibizioni di

Cristiano Ronaldo e compagni.

“Appena apriremo le porte del resort – ha dichiarato trionfalmente il

presidente delle merengues Florentino Perez -, il visitatore entrerà a

far parte della leggenda di questo club, il più grande della storia del calcio”.

Le stime parlano di circa 1 milione di avventori attesi ogni anno, che

potranno comodamente raggiungere la località dall’aeroporto di Dubai,

che dista meno di un’ora dalla località di Ras al-Khaimah.

Il progetto è dunque ambizioso, come testimonia d’altra parte l’ingente

investimento, degno della società calcistica che per il sesto anno

consecutivo è risultata la più ricca del pianeta con un budget da 480

milioni di euro, superiore persino ai 460 milioni dei rivali del Barcellona.

Non poteva dunque che fare le cose in grande, il Real Madrid, premiato

dalla Fifa come squadra del secolo e non nuovo a spese folli anche per

assicurarsi i grandi campioni che hanno fatto la sua storia, partendo da

Di Stefano per arrivare a Zidane (presente giovedì alla presentazione

e pagato nel 2001 alla Juventus la bellezza di 77 milioni di euro) e

Cristiano Ronaldo, sbarcato nella Capitale iberica tre anni fa per quasi

100 milioni di euro.

In attesa che Mourinho si dia una calmata e riporti a Madrid qualche coppa

degna di questo nome, il Real si è già portato avanti: tanto di trofei da

far vedere, in fondo, non ne ha pochi.

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L'Olimpico che non basta e

la dimenticanza della Lega

di GIOVANNI CAPUANO dal blog Calcinfaccia 24-03-2012

La vicenda della finale di Coppa Italia che il Napoli vorrebbe spostare da

Roma malgrado regolamento, precedenti e buon senso lascino poco spazio a

soluzioni alternative, spiega bene il caos e l'improvvisazione che reggono il

calcio italiano. Non esiste un motivo ragionevole per cui lo stadio Olimpico

di Roma non possa ospitare la finale unica così come avviene dal 2008, quando

il format della Coppa Italia è stato modificato prevedendo proprio che l'atto

conclusivo si disputi nella Capitale alla presenza del Presidente della

Repubblica (o in sua assenza di un'alta carica dello Stato).

Troppi pochi biglietti a disposizione? Scusa risibile visto che lo stesso

impianto ha retto l'urto di quattro finali e in tre di queste era in campo

addirittura una squadra di Roma (i giallorossi nel 2008 e 2010 addirittura

contro l'Inter e la Lazio nel 2009 contro la Sampdoria). L'Olimpico è

ufficialmente registrato per una capienza massima di 72. 428 spettatori e in

Italia solo il Meazza di Milano ha numeri maggiori: 80. 018 ma non ancora la

certificazione a cinque stelle dell'Uefa come invece Roma.

Se il problema è il contingente di biglietti a disposizione delle tifoserie

la differenza è minima considerato che, al netto dei 10mila tagliandi che

resteranno nelle mani della Lega calcio per essere immessi in parte nel

circuito di vendita, Juventus e Napoli avranno a disposizione circa 30mila

biglietti e a San Siro - per pura ipotesi - si potrebbe al massimo arrivare a

34mila. Se passasse la linea di De Laurentiis sarebbe come dire che, qualora

il suo Napoli fosse arrivato in finale di Champions League, l'Uefa avrebbe

dovuto spostarla dalla sede di Monaco di Baviera perché l'Allianz Arena tiene

69.901 spettatori (quasi 3mila meno dell'Olimpico).

Anche la National Arena di Bucarest scelta per la finale d'Europa League non

sarebbe stata gradita con i suoi 55.200 posti a sedere estendibili fino a

63mila. E la stessa Uefa si sarebbe sbagliata nel 2009 ad assegnare

all'Olimpico la finale di Champions League tra Manchester United e Barcellona.

Impossibile da sostenere razionalmente. Dire poi che la finale potrebbe essere

spostata all'estero (Londra o Parigi) sfiora il ridicolo e in ogni caso si

tratterebbe di locations che al massimo garantiscono la capienza di Milano.

Impossibile anche sostenere che esistano ragioni di opportunità. Al massimo

il discorso poteva riguardare le sfide con Roma o Lazio in campo come avvenuto

nel 2008, 2009 e 2010. Allora fu opposto che la scelta della Capitale era

considerata strategica per restituire lustro alla Coppa Italia e si era

giocato senza andare troppo per il sottile con anche qualche caduta di gusto

di troppo.

Per tagliare la testa a qualsiasi velleità basterebbe allora leggere il

regolamento della Tim Cup così come pubblicato dalla Lega di Serie A cui la

Figc ha delegato l'organizzazione della manifestazione. All'articolo 3 comma 9,

si legge: "La finale si svolge in gara unica, in uno stadio individuato, a

suo insindacabile giudizio e prima della disputa della gara di andata delle

semifinali, dall'Organizzatrice". Fine di ogni discorso se non fosse che nella

'bacheca' dei comunicati della stagione 2011-2012 della Lega non si trova

traccia dell'ufficializzazione della scelta dello stadio Olimpico di Roma come

sede della finale della Tim Cup. Nulla nè nella scorsa estate - quando fu

pubblicato il tabellone - e nemmeno a ridosso delle semifinali d'andata come

prescrive il regolamento.

Solo nel comunicato stampa del 22 marzo in cui si informa che nel sorteggio

'pro forma' la Juventus è stata scelta come società ospitante è scritto che la

finale è "in programma allo stadio Olimpico di Roma". Si dice anche che prezzi,

modalità e canali di vendita dei biglietti saranno resi noti il 27 marzo e la

prevendita scatterà il 2 aprile. Par di capire che nessuna di queste

indicazioni sarà rispettata e che a margine del Consiglio di Lega si tenterà

un blitz per spostare altrove la partita. Il motivo resta misterioso. L'unica

certezza è il caos che regna sovrano.

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De Laurentiis, il manager casinaro

che volle farsi re di Napoli

di GIUSEPPE CERETTI (Il Sole 24 ORE.com 24-03-2012)

A dar retta a chi segue gli affari della casata, le fortune di Aurelio De

Laurentiis poggiano oggi quasi per intero sul calcio Napoli. Quattro anni di

bilancio in attivo hanno prodotto al gruppo di famiglia dal 2007 al 2010

profitti per 25 milioni, quasi tutti ricavati dal pallone e non dalla

declinante sorte dei cine panettoni.

Tuttavia pur sempre di spettacolo si tratta e il nostro presidente mostra di

trovarsi a proprio agio nelle vesti indossate nell'ormai lontano 2004, quando

rilevò la disastrata società in C1. Come se in virtù del patrimonio genetico,

avesse fatto questo mestiere per tutta la vita. Non a caso il nostro rivela

una stoffa d'attore di primissimo piano, miscelando nella stessa maschera la

scintillante tradizione della commedia partenopea con l'aplomb di un ricco e

consumato imprenditore che s'è fatto le ossa sulle sponde d'Oltreoceano.

In quest'ultima veste non perde occasione per spiegare al volgo e all'inclita,

certo con robusto fondamento, che il mondo del calcio così come lo conosciamo

è al capolinea. La struttura dirigente della Confindustria calcistica è una

sorta di residuato, un ferrovecchio tenuto insieme per convenienze di basso

profilo. Imprenditorialità e modernità sono concetti sconosciuti non solo nel

calcio italiano, ma anche in Europa con modelli di gestione arcaica gestiti da

burocrati che poco sanno di football e ancor meno di managerialità. Fifa e

Uefa sono bersagli che non cessa di colpire, da Blatter a Platini, invitato

qualche giorno fa «a connettersi e usare il nuovo iPad».

La serie A? Inutile assembramento di società quasi tutte sull'orlo del

tracollo. La serie B? Inutile e basta. Le Nazionali? Solo d'intralcio alle

società, sarebbe sufficiente una nazionale composta dai giovani, abolendo la

Under 21. Tali saldi concetti sono espressi da mister De Laurentiis nelle

suggestive forme che abbiamo imparato a conoscere.

La fuga da una riunione di parrucconi a bordo di una motoretta guidata da un

giovincello (scusa, me lo dai un passaggio?) è degna del grande Totò. E poi le

sue sceneggiate televisive, con le giuste pause, ben attento alla migliore

inquadratura, con quello sguardo un poco altero che si piega a un sorriso

benevolo.

«Lavezzi è uno spirito libero, scapigliato, lo amo e lo adoro, casinaro come

me». Eccolo il De Laurentiis attore che si rivolge al pubblico partenopeo che

sa bene come solleticare, identificandosi nell'idolo, in quel puledro che va

lasciato galoppare lungo le praterie dei campi di calcio. È il manager,

l'imprenditore di genio che lascia intravvedere il volto della sregolatezza.

Il nuovo re di Napoli del pallone è detentore di un super-Io che ci ricorda un

altro presidente con il quale non a caso coltiva freddi rapporti.

Lo "spirito libero" conosce tuttavia altrettanto bene i tempi e i modi della

sceneggiata alla quale non si concede secondo i rituali di tanti suoi

predecessori, dispensatori di santi piovuti dal cielo con gli elicotteri.

Quelli, sussurra il nostro, hanno mandato in malora il calcio a Napoli. Il mio

modello è altrove, in una società costruita inserendo pezzo dopo pezzo,

mattone su mattone. Così nella serata più buia della storia recente allo

Stamford Bridge si rifiuta di concedere alla sua squadra il beneficio della

matricola di Champions vittima della propria inesperienza. «Lei è un

provinciale, mio caro Pablito Rossi - replica all'attonito campione del mondo

che lo intervista - Queste teorie sono balle, non offro alibi a

professionisti». Eccolo il De Laurentiis che scompagina le carte del mazzo e

che rifiuta il gioco facile della giovane vittima predestinata, tanto cara

alla Napoli milionaria. Balle, signori miei, dice l'Aurelio. La realtà è che

sette anni fa su questo palcoscenico recitavano le comparse di serie C, ora ci

sono le prime donne della Champions. Quindi si deve ripartire subito, per

nuovi traguardi.

Questo continuo rilancio fa comunque sì che ogni passo in avanti del Napoli

diventi un'impresa e ogni fermata solo un incidente di percorso nel cammino

alla conquista dell'Europa. Si tratta ora di capire per quanto ancora De

Laurentiis riuscirà a fare ricorso a questa carta di credito senza scadenza

che s'è costruito. In questa stagione restano il terzo posto in campionato e

la Coppa Italia. Comunque sia da un siffatto, scaltro protagonista attendiamo

sempre il gesto che non t'aspetti, meglio, il coup de theatre.

Buon campionato a tutti.

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Ascoli, 18:13

CALCIO, PESCARA: SILENZIO STAMPA ZEMAN CONTRO ARBITRI

"Finchè non verranno rispettate le regole del calcio, mister Zeman non parlerà". Così il Pescara calcio ha comunicato al termine di Ascoli-Pescara (3-0 per i bianconeri) il silenzio stampa del tecnico boemo. Nel mirino della società abruzzese l'azione del primo dei tre gol dell'Ascoli: ad avviso del Pescara c'era una posizione di fuorigioco di Soncin sul lancio di Sbaffo. In gol era poi andato Papa Waigo

Il moralizzatore :|

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GaSport

25-03-2012

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laTentazione

SPOSTARE LA FINALE DI COPPA ITALIA?

ECCO PERCHÉ PUÒ ESSERE UN AUTOGOL

di MARCO IARIA (GaSport 25-03-2012)

La Lega di Serie A — o meglio, le 20 società che la compongono — ha la

tentazione, a volte, di farsi del male da sola. Non ci stupiscono, quindi, le

parole dell'altro ieri di Aurelio De Laurentiis: «La finale di Coppa Italia a

Roma? Decidiamo io e Agnelli, la sede potrebbe essere anche un'altra: Londra,

Parigi o Milano». Promemoria per chi si fosse perso le puntate precedenti: in

mezzo ai tanti mali del calcio italiano, sempre più indebitato e retrocesso da

«ristorante di lusso a pizzeria» (copyright di Galliani), l'atto conclusivo

della Coppa è diventato un gioiello dal 2008. Da quando cioè, con

un'intuizione di Matarrese, si decise di giocarla in una sede unica, nella

capitale d'Italia, coi 70 mila dell'Olimpico e il presidente della Repubblica

gran cerimoniere della premiazione. Insomma, un evento nazionalpopolare.

Tra una scazzottata e un'udienza in tribunale per decidere come spartirsi i

soldi delle tv, la finale di Coppa a Roma era una delle poche certezze. Ora il

patron del Napoli, dopo che la macchina organizzativa è già partita con tre

riunioni alle spalle, ha messo tutti sull'attenti. Successe più o meno la

stessa cosa lo scorso agosto, con Inter e Milan seccate per la trasferta di

Supercoppa a Pechino, come se il nostro movimento potesse permettersi di

snobbare quel mercato.

Immaginatevi Platini che cambia idea perché a una delle finaliste di

Champions (o a tutte e due) la sede prescelta non garba. È qui il punto debole

della Lega: il regolamento recita che lo stadio è «individuato, a suo

insindacabile giudizio e prima dell'andata delle semifinali,

dall'Organizzatrice». Se il management della Lega godesse di una certa

autonomia (benedetta governance...), il problema non si porrebbe nemmeno.

Lunedì, in Consiglio, sarà sciolto il dubbio e Roma quasi sicuramente verrà

confermata. Quella di De Laurentiis pare piuttosto la provocazione di chi non

accetta piani pre-confezionati e vuole assecondare l'ondata di richieste della

tifoseria.

Il cambio di sede costituirebbe un grave precedente, non giustificato da

problemi di ordine pubblico (l'Osservatorio e la Questura hanno confermato di

essere in grado di gestire l'evento, che pure presenta le sue criticità). E

sai che figuraccia istituzionale: Beretta ha invitato Giorgio Napolitano con

una lettera spedita a febbraio, in più la Lega rischia di mandare

definitivamente in malora i rapporti col Coni, proprietario dell'impianto. Per

cosa poi? Il Meazza garantirebbe 2-3 mila posti in più a società. Vale la pena

rovinare tutto?

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MisFatto satira & sentimenti

il Fatto Quotidiano 25-03-2012

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CALCIOSCOMMESSE

Marco Erodiani:

Ecco come truccavamo le gare

Il titolare dell’agenzia di scommesse sospettato di

essere uno dei capi dell’organizzazione si confessa:

Per combinare un risultato bastano tre giocatori

di LUCA CARDINALINI (il Fatto Quotidiano 25-03-2012)

Per i magistrati cremonesi era uno dei capi dell’organizzazione che aveva nel

combinare partite di calcio, la propria ragione sociale. Massimo Erodiani, 38

anni, già titolare di due agenzie di scommesse (oggi vendute), ora aiuta la

moglie nella tabaccheria di sua proprietà e pensa di andarsene via. La

giustizia sportiva – giocava da portiere in una società minore di calcio a 5 –

lo ha radiato, quella penale lo ha arrestato il 1 ° giugno scorso, tenuto 11

giorni in carcere e poi rilasciato. Per la prima volta decide di parlare.

Abituato a maneggiare cifre – 1,2 , over 2,5, risultato esatto 2-4 o 3-1 – a

rovinargli il sonno, oggi, è un altro numeretto, un poco più lungo: 416. È

l’articolo del codice penale che punisce l’associazione a delinquere, in

questo caso finalizzata alla truffa sportiva.

Quando ha saputo la prima volta di partite “fatte”?

Di molte partite si sapeva effettivamente il risultato prima ancora che

iniziassero. Voci che girano tante in agenzia, a volte si lasciano cadere,

altre volte no.

Come è entrato in questo giro?

Conoscendo Marco Pirani. Si sapeva di un dentista di Ancona che riusciva a

combinare delle partite. Pirani era stato un dirigente dell’Ancona, aveva

molte amicizie nell’ambiente calcistico, era uno scommettitore serio e

puntuale, anche per conto di alcuni tesserati, i quali non possono nemmeno

entrare nelle agenzie

Quando l’ha conosciuto?

Pagandogli la vincita, per Ascoli-Livorno, finita 2-3, maggio 2009.

Ultima di campionato, il Livorno vinse in rimonta.

(Ride). Il risultato è 0-0 al 45 °. Per arrivare alla combine, durante

l’intervallo viene tagliata la rete di una porta e il secondo tempo inizia con

sei minuti di ritardo. Nella squadra marchigiana giocano Giallombardo e

Sommese, in panchina c’è Micolucci. L’A-scoli fino a una decina di minuti

dalla fine vince 2-1, poi la doppietta di Tavano. Dai risultati degli altri

campi l’Ascoli sapeva di essere salvo anche perdendo, il Livorno conquista i

play off. Pirani aveva scommesso il risultato esatto. Scommessa quotata a 28

ma alla fine scesa a 12.

Quanto guadagnò Pirani quel giorno?

Tanto.

Fu Pirani a presentarle Marco Paoloni?

Sì. Me lo presentò come uno scommettitore accanito, giocava dai 10 ai 20 mila

euro al giorno.

Dice che lei, capito la sua malattia di scommettitore, gli apriva

linee di credito per farlo indebitare sempre di più, con ricariche su

posta pay.

La prima settimana vinse 34 mila euro, pagati 24 in contanti subito e 10 a

credito sulla card per continuare a giocare, la seconda settimana 51, 31

pagati con assegni, 6 in contanti e 10 a credito per giocare. Dalla terza

settimana, è stato un disastro.

A quanto ammontava il debito di Paoloni con lei?

A 126 mila euro. Per questo iniziò anche a millantare combine, con gli zingari,

i bolognesi, gente che investivano parecchi soldi nelle partite e che non

dimentica.

Altri colpi andarono a segno.

Certo. Cosa devo dire? Inter-Chievo over doveva essere ed over è stato,

Palermo-Napoli over, Bari-Lazio X primo tempo e 2 finale. Atalanta-Piacenza è

stata venduta tre o quattro volte, a gruppi e da gruppi diversi. Era combinata

anche Siena-Sassuolo, 4-0, over con reti imbarazzanti. O Novara-Cremonese, di

cui finora non si è mai parlato.

Quindi erano in parecchi a sapere, anche tra i giocatori…

(Ride) Lei che dice?

Quanti giocatori servono per “fare” una partita?

Dipende. Per “farla” a perdere, ne bastano tre: il portiere, il difensore

centrale e un centrocampista.

Quando seppe del coinvolgimento di Signori, le cadde un mito?

Sinceramente no. Nel nostro ambiente si sapeva che a Bologna comandava

Signori. Certo erano voci, ma quando un giorno Bellavista mi disse che

dovevamo andare a Bologna per incontrare un personaggio importante, non ebbi

dubbi.

Lo zingaro Ilievski ha raccontato di un incontro, avvenuto all’uscita

autostradale di Ascoli, con lei in compagni di tre sosia di calciatori

del Lecce…

Ad Ascoli non c’è uscita autostradale, c’è quella di San Benedetto del Tronto.

Ilievski venga in Italia e si faccia interrogare.

Racconta anche del contatto via Skype con Daniele Corvia, dai risvolti

tragicomici.

L’accordo era per l’over di Genoa-Lecce, vollero parlare con Corvia in ritiro

a Genova. Uno degli zingari poi mi raccontò che quando gli chiesero di fargli

vedere il tatuaggio sull’avambraccio, il tizio chiuse subito la chat. Paoloni

utilizzava il profilo di Corvia, col quale aveva giocato insieme nelle

giovanili della Roma.

Lei ha fatto 11 giorni di carcere. Si aspettava l’arresto?

No, anche se vivevo nella paura anche fisica. All’ispettore che mi portò

dentro dissi che mi stava quasi levando un peso di dosso.

È vero che lei, nei giorni prima, andò dai dirigenti della Cremonese?

Andai dal direttore generale della Cremonese, Turotti, raccontandogli prove

alla mano chi fosse il loro portiere, mi disse che già lo sapevano. Non volevo

minacciare o ricattare nessuno, solo recuperare miei soldi e far emergere la

verità. Venne venduto al Benevento, società paradossalmente ignara di tutto ma

che ha pagato più della Cremonese. Strano.

Come se ne esce? C’è chi parla di confiscare i beni dei calciatori e

dei tesserati coinvolti nel calcio scommesse.

Basta la radiazione. È gente che non ha mai lavorato. Se gli togli le migliaia

di euro al mese, li annienti.

Sono stati annunciati nuovi imminenti arresti. Dov’è il fondo di questo pozzo?

Se vanno avanti arriveranno ai direttori sportivi e poi alle società. Finora è

stato scoperto il 10 % del marcio, non di più.

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SETTEGIORNI

DI CATTIVI PENSIERI

di GIANNI MURA (la Repubblica 25-03-2012)

IL SILENZIO DI BERETTA

E LE PAROLE DI BALDINI

Dove va il calcio? La domanda è frequente ma la risposta può attendere.

Eccone una più di attualità: di chi è il calcio? Qui le risposte sono tante,

variegate e già pervenute. Il calcio è di chi va in campo, non ci fossero i

giocatori non ci sarebbe spettacolo. Il calcio è di chi lo finanzia, senza i

soldi non ci sarebbero squadre. Il calcio è dei tifosi che lo scaldano con la

loro passione, senza di loro gli stadi sarebbero vuoti. Se stiamo alle ultime

vicende sulla prossima finale di Coppa Italia, il calcio è della Juve e del

Napoli, le finaliste di una sfida che da mesi era stata fissata all´Olimpico

di Roma. Troppo piccolo, ha sentenziato De Laurentiis, mica è detto che si

debba giocare proprio lì, si possono studiare con la Juve altre soluzioni. E

perché, di grazia? Si tratta del secondo stadio in Italia per capienza, ed è

chiaro che il Napoli in finale attira più spettatori del Siena. Se in Spagna,

che va di moda, un´ipotetica finale fosse fissata a Bilbao e ci arrivassero

Real Madrid e Barcellona, nessuno chiederebbe il cambio di sede. Chi ha il

biglietto ci va e chi non ce l´ha sta a casa, le cose sono sempre andate così.

Tra l´altro, De Laurentiis dovrebbe saperlo, per i napoletani Roma è una sede

molto comoda e vicina, come sarebbe San Siro per quelli della Juve. Il mio

cattivo pensiero su tutta la manovra è che si stia cercando di spremere il

massimo dalle tasche dei tifosi. Nessuno scandalo, abbiamo visto finali di

Coppa in giro per il mondo, dalla Libia agli Stati Uniti. Ma basterebbe dirlo

chiaro invece di perdersi in manfrine. La presidenza di Lega, diretta

interessata, intanto che fa? La cosa che le riesce meglio, tacere. E bravo

Beretta, 4.

Non tace invece Franco Baldini, che si scusa pubblicamente con la Juve per i

cori su Pessotto. Giusto, perché quando si imposta un percorso sull´etica poi

non si può far finta di nulla. Il voto è 7, non altissimo perché lo considero

un dovere: un dirigente deve metterci la faccia, anche se non è direttamente

responsabile di quei cori, anzi se ne è sentito ferito come ogni persona di

buon senso. Non tutti, al posto di Baldini, l´avrebbero fatto, questo almeno

va detto.

A proposito di voti, leggo su "La Stampa" che il direttore di "Marca" a

Mourinho ha dato 1. Mi par di sentire il coro delle italiche vedove: e chi

sarà mai il direttore di "Marca"? Per me, è uno che, a differenza di Mourinho,

fa bene il suo mestiere. Intendiamoci, quando vuole anche Mourinho sa farlo,

ma forse gli sta stretto. E´ un comunicatore di notevole talento, ed è un

peccato che lo sprechi. Dare del figlio di pũttana a un arbitro che non ha

fischiato due rigori enormi (sempre Arbeloa) contro il Real appare un po´

ingeneroso. Pepe, che non ha mai brillato per profondità del pensiero, dà del

figlio di pũttana all´arbitro a partita finita e si becca due turni di squalifica.

Ozil uno, Sergio Ramos la fa franca grazie a un errore di trascrizione

nei referti, Ronaldo se la cava perché sì. Il preparatore Rui Faria, al quarto

rosso in quattro mesi, becca due turni. E´ uno che si scalda facilmente e lo si

può capire meglio con un anagramma: basta spostare una vocale e le sue

generalità mutano in "Ira Furia". A Mourinho va malissimo, solo un turno,

il martirio è rinviato.

Il mio amico Santiago Segurola, prima firma di "Marca" ora anche presenza

settimanale sulla "Ġazzetta", scrive che Mourinho non sa convivere

con la sconfitta. In realtà, nemmeno col pareggio. Ne bastano due dopo

undici vittorie di fila, il vantaggio sul Barcellona che scende da dieci a sei punti,

ancora tanti, e via con gli insulti e le sceneggiate. "As", altro quotidiano

di Madrid, commenta la moviola e dà ragione all´arbitro. Il 79 per cento dei

lettori di "As" e "Marca" ha definito inadeguate le sanzioni contro il Real.

Complimenti all´obiettività, qualcuno deve pure averla se la dominatrice della

Liga non va oltre il pareggio contro una squadra che aveva collezionato un

punto solo nelle ultime cinque partite.

Se la giustizia calcistica in Spagna è blanda, quell´altra è invertebrata

o inveterata, quando si tratta di doping. Intercettazioni difettose, così

la Dominguez potrà correre a Londra. L´operazione Galgo esce bucata

come un palloncino e la Spagna dei tribunali continua a mostrarsi molto

bonaria quando si parla di doping. Voto 2. La nostra, al massimo, è lenta.

Il 27 febbraio 2011, alla fine di Foggia-Gela (2-2) c´è una rissa in campo.

Il Gela ha buttato fuori il pallone perché c´era uno del Foggia a terra, il

Foggia non restituisce pallone e cortesia e pareggia. Il giudice sportivo si

pronuncia e poi passa il fascicolo alla procura federale. Le sanzioni in merito

sono state decise e comunicate pochi giorni fa. Voto 4.

Modificato da Ghost Dog

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