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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Soldi a pioggia, se questo è marketing

di VITTORIO DEL TUFO (IL MATTINO 18-12-2014)

Per il riscatto del pomodoro e della mozzarella di bufala, finiti nel tritacarne mediatico della Terra dei Fuochi, la Regione non bada a spese. Così ha destinato una pioggia di fondi (4,5 milioni di euro) a una campagna per rilanciare l’immagine dei prodotti nostrani, colpita e affondata dalla catastrofe dei roghi tossici. E quale migliore testimonial del mondo dello sport? Saranno infatti le società sportive (calcio, basket, pallanuoto e rugby) a utilizzare i quattrini europei per promuovere il made in Campania. Tutto bene? Insomma, mica tanto. È vero che il marketing, come la pecunia, non olet, ma è il metodo che non convince. La storia della Terra dei Fuochi, lo sappiamo tutti, è anche una storia di pasticci e di risorse sprecate: lo sanno bene i coltivatori ridotti sul lastrico che attendono ancora il dovuto ristoro. Si fa davvero fatica, e tanta, a capire per quale motivo a Palazzo Santa Lucia qualcuno abbia deciso di rilanciare l’immagine del pomodoro del piennolo e dei carciofi di Acerra riempendo di soldi le società sportive. Si fa ancora più fatica a comprendere per quale motivo la fetta più consistente della torta, ben 3 milioni e 546mila euro, sia andata alla squadra di De Laurentiis e di Benitez, mentre agli altri club sono finite le briciole. Qualcuno ci spieghi. E ci spieghi anche cosa c’azzecca il buon marketing con un’elargizione a pioggia che sa molto di metodi antichi.

 

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La polizia torna negli stadi

Non è bello ma è necessario

di FULVIO BIANCHI (LA REPUBBLICA.it 21-12-2014)

Il ministro Angelino Alfano, in pieno accordo con il Capo della polizia, Alessandro Pansa, ha deciso: quando sarà necessario, gli agenti torneranno negli stadi. Per isolare i teppisti e dare una mano agli stewards. Non è bello, è vero. E' un passo indietro rispetto al passato quando l'ex Capo della polizia, Antonio Manganelli, aveva tolto i poliziotti dagli stadi, tenendoli nascosti nei dintorni, pronti solo per ogni evenienza. Ma credo che la decisione di Alfano sia giusta: ci sono ancora troppi imbecilli che frequentano i nostri stadi e allontanano le persone perbene. Se questi imbecilli ancora non l'hanno capito, purtroppo bisogna tenere pronti per loro i "reparti inquadrati", vale a dire la Mobile impiegata per l'ordine pubblico. Gli stewards da soli non ce la fanno: alcune curve sono ancora zona franca, in mano ai prevaricatori. C'è il modo di metterli in un angolo, di fare loro rispettare leggi e norme. All'estero chi compra il biglietto, siede regolarmente nel posto assegnato: da noi non sempre è possibile, soprattutto in certi settori. Bisogna abolire la tessera del tifoso (ha fatto il suo tempo ormai) ma isolare sempre più i violenti.

E' vero che quest'anno le cose sono migliorate: meno 9 per cento le partite con incidenti, meno feriti fra poliziotti (-46%) e tifosi (-34%). Merito del giro di vite di Alfano, delle nuove leggi più dure varate ad inizio stagione? Non so. Ho sempre scritto, e lo ribadisco, che non erano necessarie nuove leggi (Daspo di gruppo, 8 anni per i recidivi, eccetera) ma bastava applicare quelle che già c'erano: non sempre succedeva, alcune questure erano distratte. L'episodio di San Siro, la gara con gli azzurri fermata per 10 minuti dai teppisti croati (leggera la sanzione Uefa, come mai?), ha portato ad una maggiore attenzione nei filtraggi e prefiltraggi: lì è stato un caso particolare, volevano far saltare la partita e la questura di Milano forse era stata presa allo sprovvisto. In futuro ci saranno i camper per controllare i soggetti a rischi, che vogliono portare negli stadi fumogeni, bombe carta o petardi pericolosi (e proibiti). Per loro, arresto in flagranza e Daspo. Sovente nascondono questo materiale nella biancheria intima, magari anche di ragazze o bambini. I controlli a campione, speriamo, scoraggeranno questa gente, che da noi è una minoranza, è vero, ma che purtroppo a volte salta ancora fuori. Le telecamere invece hanno ripulito gli stadi da certi striscioni o bandiere vergognosi, che c'erano anni fa e facevano il giro del mondo. Molto meglio quest'anno anche per quanto riguarda i cori razzisti e quelli contro Napoli (le norme Figc che portano solo ad ammende, a meno di gravi recidive, hanno tolto visibilità a chi ne faceva una questione di protagonismo e ricatto). Alfano inoltre ha chiesto ai prefetti di segnalare gli stadi inadeguati: al San Paolo, ad esempio, vengono violate "le norme di sicurezza anche quelle basilari". Chi deve provvedere? Il sindaco De Magistris o il presidente del Napoli, De Laurentiis? Nessuno fa niente. De Laurentiis con la scusa che l'impianto non è suo (per la verità non ha speso molto nemmeno per rinforzare la squadra, che è sua...). Ma al Viminale e all'Osservatorio si sono stancati: in futuro, i club dovranno provvedere, non potranno più nascondersi. Oppure c'è il rischio che alcuni settori dello stadio possano essere chiusi. Certo, al San Paolo non ci va quasi più nessuno ma sarebbe un bel danno, quantomeno d'immagine (sempre che conti ancora). Insomma, nuovo giro di vite di Angelino Alfano. Purtroppo, ripeto, alcune cose erano necessarie se davvero si vuole ripulire gli stadi da certa gentaglia.

 

In realtà la situazione del San Paolo è leggermente diversa: per il Viminale in quello stadio vengono sistematicamente violate tutte le norme di sicurezza, anche quelle basilari.

Dunque il San Paolo dovrebbe rimanere chiuso fino alla messa in sicurezza, altro che rischio per settori. Ed invece si deroga.

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I BILANCI IL SASSUOLO METTE IN FILA LE GRANDI

Rapporto tra ricavi e fatturato netto: emiliani al top

Introiti asfittici, i club troppo legati ai diritti televisivi

Il club di Squinzi dipende dalla Tv solo per il 35% grazie allo sponsor e allo stadio

Le big sono molto attive nello sviluppo di aree marketing. La Juve è in vetta nel volume di affari

di MARCEL VULPIS (CORSPORT 28-12-2014)

Piccolo è sinonimo non solo di bello, ma anche di vincente, soprattutto se si analizza il rapporto tra la voce ricavi (ad eccezione di quelli derivanti dai diritti audiovisivi) e il fatturato dei club di calcio di serie A, al “netto” di plus e minusvalenze da intermediazione di calciatori. La sfida dei prossimi anni sarà rappresentata dall’equidistribuzione delle fonti di ricavo, per ridurre l’esposizione dei conti societari nei confronti delle fluttuazioni cicliche.

Un modello di riferimento arriva dal Sassuolo calcio, controllato dalla Mapei di Giorgio Squinzi (attuale presidente di Confindustria), che presenta un rapporto pari al 66,79 per cento, grazie alla sponsorizzazione del marchio Mapei per più di 15 milioni di euro (includendovi la titolazione dell’impianto casalingo). Un contratto da top club italiano ed europeo, che pone la società emiliana ai primi posti di questa classifica, appena al di sotto di Juventus, Milan ed Inter.

Nei prossimi anni si prevede che l’intervento “mecenatistico” del patron Squinzi possa ridursi, grazie anche allo sfruttamento del Mapei stadium di Reggio Emilia (in fase di riammodernamento). Il Sassuolo del presidente Giovanni Carnevali (fondatore dell’agenzia di marketing Master group) è sulla strada giusta: autofinanziamento del club, senza considerare i ricavi da diritti audiovisivi (al di sotto del 35 per cento). In netta controtendenza con il resto della serie A, dove 10 club (il 50 per cento) dipendono dalla televisione per oltre il 65.

LA TELEDIPENDENZA. Il calcio tricolore, da troppi anni, è legato a filo doppio alla redistribuzione dei diritti tv, in forte crescita nonostante la crisi economica del Paese. Di recente sono stati siglati i contratti con Rai e Telecom Italia (per oltre 50 milioni di euro) per la parte relativa agli highlights e ai diritti Internet (senza considerare quelli legati al mercato estero cresciuti da 117 a 206 milioni per il triennio 2015/18), con una torta televisiva che vale 1,1 miliardi di euro, dopo la conferma, da parte della Lega, dell’advisor Infont.

Nei mesi scorsi, la Juventus ha guidato una singolare “fronda” interna, cercando di ottenere cifre anche superiori da reinvestire sul calciomercato estivo (senza dimenticare l’equilibrio dei conti di bilancio), ma la priorità non sono i ricavi da diritti audiovisivi, semmai l’individuazione di azioni comuni per far esplodere, in Italia e all’estero, la leva delle entrate commerciali e del botteghino. Ad eccezione infatti del club piemontese, del Mapei stadium targato Sassuolo, del rilancio del Friuli sponda Udinese, o del progetto della Roma, il problema principale è quello degli impianti. Senza stadi di proprietà moderni e polifunzionali non possono crescere i ricavi da gare e commerciali. E’ un’equazione matematica, ma in Lega nessuno ne parla. Il problema, fino a qualche mese fa, erano appunto le entrate tv, praticamente l’unico fronte positivo dell’industria del pallone.

Soprattutto, nessuno cerca di attivare azioni comuni per muoversi come un unico soggetto. E’ arrivato in soccorso dalla cadetteria il progetto “B Futura” (la piattaforma consulenziale ideata dal presidente Abodi, per chi intende costruire o ammodernare stadi), ma i presidenti della massima serie perseguono, da troppo tempo, solo i propri interessi, senza considerare l’importanza di una cabina di regia.

JUVE E MILAN “REGINE” DI RICAVI. Ad eccezione del Sassuolo (primo in questa classifica speciale), i club più virtuosi sono quelli top, strutturati con aree marketing/vendite, spesso affiancate da advisor commerciali, come nel caso di Inter e Milan (affidatesi ad Infront).

Il Milan è al secondo posto, con una percentuale del 51,53 per cento, seguito dall’Inter al 50,55 per cento. Subito dietro la Roma (46,51 per cento) e la Juventus (45,95 per cento), che mantiene il primato del volume d’affari. Incassa infatti 128,38 milioni contro i 127,13 milioni del Milan. L’Inter si presenta con 78,12 milioni, mentre il Napoli è fermo a 60,52 milioni di euro (la Roma “americana” al quinto posto con 59,75 milioni). Fiorentina, Lazio e Udinese presentano dati compresi tra i 26 ed i 28 milioni. Sopra il tetto dei 20 milioni sia il Parma (22,27), sia il Sassuolo (21,16). Il resto del plotone è in area 15 milioni di euro di ricavi medi, con percentuali tra il 30 e il 34 per cento. Fanno riflettere le situazioni di Sampdoria e Chievo. I liguri presentano entrate per 9,45 milioni e una percentuale pari al 22,33 per cento (record negativo della serie A), i veronesi hanno una percentuale migliore (26,73 per cento), ma, in termini assoluti, i 9,18 milioni di euro sono il vertice basso del campionato.

Più in generale risulta evidente che la voce ricavi è il punto debole di tutti i club italiani e la situazione è ancor più grave se si considera che i numeri sviluppati comprendono la voce “altre entrate”, dove finiscono i contributi Lega (per esempio i premi della Coppa Italia) o Uefa (come nel caso della Juve, organizzatrice della finale di Europa league), i ricavi da archivi televisivi, le entrate da prestiti calciatori o lo sfruttamento di diritti di immagine.

Non devono infine ingannare i dati assoluti/percentuali del Cesena (in B nella scorsa stagione), totalmente legato ai soli ricavi commerciali (i diritti tv sono praticamente residuali), del Verona (i dati fanno riferimento ancora alla stagione in seconda divisione) o del Palermo (il bilancio esaminato non prende in considerazione la discesa in B), con un 36,57 per cento “contaminato” dalla torta dei diritti televisivi di A.

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Soli o male accompagnati

Perché alla fine vincerà la tecnologia

di PAOLO CASARIN (CORSERA 28-12-2014)

L’autorità esclusiva dell’arbitro fu messa in discussione, per la prima volta, nel 1935 a Chester, nella patria del calcio. Arthur Barton ed Eddie Wood, metà campo per uno, fischiarono i falli da breve distanza riducendo gli errori. Una direzione a due quasi perfetta, subito bocciata: il costo, doppio, fu ritenuto eccessivo. L’arbitro, felice, si riprese l’intera responsabilità, crebbe in popolarità con la diffusione del calcio e accettò solo la compagnia di due guardalinee con compiti limitati.

Nel dopoguerra, la tv era appena nata e non si occupava di calcio; il fuorigioco non si misurava in centimetri; cresceva così il mito dell’arbitro infallibile, per assenza di valutazioni alternative. Il Mondiale 1966, in Inghilterra, fu deciso da un gol fantasma assegnato agli inglesi nella finale con la Germania Ovest dal guardalinee azero Bakhramov tra tanti dubbi; l’arbitro svizzero Dienst, lontano dalla porta, rinunciò alla sua esclusiva autorità. Poi la tv fece crollare la certezza arbitrale, ma mise anche in evidenza l’enorme peso tecnico che gravava sulle spalle dell’arbitro: un uomo solo non poteva valutare, senza errori, un gioco sempre più complesso e dinamico.

Dal 1990 nacquero i veri controllori del fuorigioco: guardalinee con preparazione fisica e mentale atta a cogliere quegli attimi. L’arbitro centrale cedette, con sollievo, il controllo della regola 11: la sua autorità non veniva sminuita. Gioco sempre più veloce e arbitri, per quanto ormai atleti, in difficoltà. Nel 1999 si riprova, in Coppa Italia, l’arbitraggio a due, ma la ripresa televisiva mostra la grande differenza di interpretazione delle regole. Ormai gli errori evidenti dell’arbitro unico stimolarono nuove idee: altri due collaboratori dietro le porte. E Platini precisò: «Due ex giocatori per vedere il gol oppure aggiungiamo due ex arbitri». Sarà l’arbitro che deciderà, ma deve passare da un’impostazione autoritaria alla piena collaborazione. Una rivoluzione.

Ora si arbitra con gli addizionali e la differenza tecnica tra i tre è grande. Sui corner collaborano, ma talvolta sui rigori sono su posizioni opposte. Finisce per prevalere l’autorità dell’arbitro centrale oppure, ancora peggio, comanda il più esperto che, dal fondo campo, decide per il giovane centrale. Ne consegue che oggi gli errori arbitrali in area sono ancor meno accettati: perché non si riesce a decidere bene da pochi metri? Perché ognuno dei tre vive in solitudine un’esperienza comune in quanto guidato ancora da un Dna che prevede un potere esclusivo. Vincerà, lentamente, la tecnologia.

 

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Il progetto Ipotesi lanciata prima della sfida di Supercoppa: non un azionariato popolare, ma un tesseramento per 150mila supporter

«Così saremo più ricchi con i tifosi partner»

De Laurentiis pensa così di elevare il fatturato ma la sua idea fa discutere

Le reazioni Passaretti: «Napoli Club pronti a sostenere il piano». Pisani: «Vera assurdità»

di PINO TAORMINA (IL MATTINO 27-12-2014)

A Napoli il calcio è cosa troppo coinvolgente: come potrebbe andare avanti una società con 150.000 soci? De Laurentiis questo lo sa bene. Infatti, la parola ”socio” non l’ha mai pronunciata. E neppure ”azionariato popolare”. Nel senso che, non ha alcuna intenzione di trasformare il Napoli in una pubblic company oppure dare la possibilità a 150mila persone di entrare nel capitale azionario della società. Aurelio De Laurentiis ha in mente altro: ha in mente qualcosa di assai simile alle formule così di moda al Real o al Barcellona, per esempio, dove non necessariamente chi sottoscrive (chiamiamola così) una quota va poi allo stadio. O prende parte direttamente alla vita della società. Anche perché lo stadio che ha in mente il presidente del Napoli, ha una capienza non superiore ai 30mila spettatori. «Una specie di teatro, un luogo assai privilegiato», ha spiegato a Doha.

Mille euro per diventare ”tifoso speciale” del Napoli. Qualche esempio di come l'azionariato funziona al Real Madrid: 275 milioni di ricavi, 137 la quota annuale dei soci (85.000 che versano un massimo di 136,13 euro all'anno). I soci sono rappresentati in assemblea: 33 rappresentanti ogni 1000 soci. I soci hanno questi vantaggi: acquisto biglietti in anticipo con lo sconto del 40%, sconti sino al 50% per le gare di Champions League, abbonamenti con sconti del 33%, poi convenzioni con aziende (fra cui l'acquisto scontato del carburante).

Per i soci del Barcellona (134.000) invece c'è la possibilità di risparmiare anche sul canone del gas e della energia elettrica. Ecco De Laurentiis pensa a qualcosa di simile: 1000 euro per poi poter beneficiare di una serie di vantaggi (sconti in negozi, sul merchandising, ristoranti, cinema, benzina e altro). Poi magari benefit di vario genere legati più strettamente al Napolie ai suoi giocatori (assistere agli allenamenti, firme personalizzate di autografi e così via). Idee, da sviluppare. Tant’è che lui stesso ha ammesso: «Devo lavorarci: ma con 150 milioni in più, farò fare il salto di qualità al Napoli». Una troika di 30 persone per decidere come intervenire sul mercato: in pratica ogni 5mila soci, ci sarà un rappresentante.

La bozza è questa. Reazioni. Dice l’avvocato Angelo Pisani, legale napoletano di Maradona e presidente della Municipalità Scampia: «Una idea più ridicola non si poteva sentire: ma come si fa a chiedere ai napoletani, in questo momento, di fare un sacrificio economico? E come si può credere che De Laurentiis, uomo decisionista, apra davvero le porte ai tifosi nelle scelte del club?».

Il Napoli ha tantissimi tifosi, è vero, e molti sarebbero ben contenti di poter essere coinvolti in un progetto dove, sia chiaro, De Laurentiis non ha alcuna intenzione di farsi da parte e che nel nostro calcio si fa fatica ad immaginare un progetto di democrazia per così dire «diffusa».

Saverio Passaretti, presidente dell’Associazione Italiana Napoli club (raggruppa circa 150 gruppi organizzati), è entusiasta: «Siamo pronti a recitare la nostra parte: il calcio va in questa direzione ben precisa e sottoscrivere una quota significa entrare a far parte della vita del Napoli. Attendiamo il progetto del presidente».

GASPORT 28-12-2014

POLEMICA A proposito di San Paolo, infuria la polemica tra il presidente Aurelio De Laurentiis e il sindaco Luigi De Magistris. De Laurentiis da Doha aveva detto di volere un manager che si occupasse della questione stadio, il primo cittadino ha replicato duramente: «Seguendo le disposizioni di legge, abbiamo messo il Napoli in condizione di presentare entro il 31 maggio uno studio di fattibilità per la ristrutturazione del San Paolo, che De Laurentiis dice da tempo di avere già nel cassetto. Ci auguriamo quindi che ce lo presenti al più presto in modo da poter consegnare alla città uno stadio all’altezza delle aspettative dei tifosi. Qualora il presidente non facesse seguire alle parole i fatti, saremo ovviamente pronti a garantire comunque un impianto al massimo delle potenzialità». Sullo sfondo, la convenzione d’uso del San Paolo che scadrà il 30 giugno.

Tra DeScemisΠùScemis c'è sempre quella tensione che fa rimpiangere il chiagni&fotti dei tempi andati

 

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Tra DeScemisΠùScemis c'è sempre quella tensione che fa rimpiangere il chiagni&fotti dei tempi andati

 

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"CHIACCHIERE E TABBACCHIERE 'E LEGNO O VANCO 'E NAPULE NUN L'IMPEGNA"  

 

:haha:  :haha:  :haha: 

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Un derby di Coppa Italia primavera tra Juventus e Torino, un campetto a Venaria, venti bestie feroci dietro una rete che gridano “ammazzati!” a un uomo – Gianluca Pessotto – che qualche anno fa tentò davvero il suicidio. Peggio è impossibile, più in basso non si va
la Repubblica, mercoledì 24 dicembre 2014
Un derby tra ragazzi, un campetto di periferia, venti bestie feroci dietro una rete che gridano “ammazzati!” a un uomo –Gianluca Pessotto – che qualche anno fa tentò davvero il suicidio. Peggio è impossibile, più in basso non si va.
È successo sabato a Venaria, cintura torinese, e le immagini le avrete viste su Internet. Derby di Coppa Italia primavera tra Juventus e Torino, finisce 1-0 per i bianconeri. I giocatori stanno rientrando negli spogliatoi, e un gruppo di tifosi granata (età varia, c’è anche gente con i capelli grigi) comincia ad insultare Pessotto. «Gobbo di M***A, devi morire, bastardo, buttati!». Lui si avvicina alla rete di protezione. «Ehi, gobbo di M***A non si dice», prova a rispondere. Questo aizza ancora di più i venti cani rabbiosi, sotto lo sguardo di un bambino che osserva la scena dalla gradinata, inerme.
Da otto anni, Pessotto deve convivere con striscioni e insulti infami, gonfi della peggior violenza verbale possibile: quella che offende la morte e il dolore, della stessa risma di chi dileggia la strage dell’Heysel o la sciagura di Superga. Stavolta, però, i disgustosi autori erano lì di fronte a lui, in carne e ossa, e lo scenario non era uno stadio ma una partita del settore giovanile, dove in teoria dovrebbero crescere gli atleti e gli uomini di domani. Avvilente, un punto di non ritorno. Materiale da codice penale e da trattamento psichiatrico obbligatorio.
«Parole inaccettabili, però il filmato non mostra i nostri tifosi provocati, offesi e derisi da alcuni giocatori della Juventus», dichiara Massimo Bava, responsabile del settore giovanile granata. «Il dramma è che ormai è normale vedere un diciassettenne che segna un gol e poi offende il pubblico avversario», dice invece Antonio Comi, direttore generale del Torino. «Come educatori abbiamo il dovere di impegnarci di più, se no è un fallimento».
Per una volta, forse, non è il caso di chiudere la questione con i soliti, pochi ultrà ingovernabili che non rappresenterebbero il consorzio civile. Pochi, d’accordo, ma se invece quei venti barbari raccontassero benissimo il clima più malato dello sport? Se fossero, come sono, non Ivan il terribile con le cesoie in mano a Marassi, ma personaggi che si possono incontrare ogni settimana in molti campetti del nostro paese? Quelli che insultano gli arbitri alle partite dei bambini (spesso lo fanno anche le mamme), quelli che alla fine danno la caccia all’arbitro per un gol annullato o un rigore non concesso. Quelli che non pagano quasi mai, perché nei campi di provincia non ci sono telecamere e poliziotti: stavolta però è diverso, e i loschi figuri che invitano Pessotto ad uccidersi sono identificabili uno per uno. Non sarebbe una cattiva notizia se nelle prossime ore venissero presi, denunciati, processati. E ovviamente rimessi troppo presto in circolazione, liberi di sfogare tutto il male e il vuoto di cui sono composti.
Maurizio Crosetti
 
 
 
23/dic/2014 22.41.00

Al termine della partita tra Torino e Juventus Pessotto è stato preso di mira dai tifosi bianconeri. I granata però si difendono: "Non vengono mostrate le offese contro di noi".

 

Vergognosi insulti rivolti da alcuni tifosi del Torino al responsabile del settore giovanile della Juventus, Gianluca Pessotto, al termine del derby valido per la Coppa Italia Primavera. Insulti che hanno visto l'immediata condanna da parte del mondo sportivo, compresa la società granata, in seguito alla pubblicazione del video di quella gara.

"Suicidati, buttati, ammazzati, devi morire, pezzo di m...". Così i tifosi del Torino hanno attaccato Pessotto, ex difensore della Juventus che nel 2006, durante i Mondiali poi vinti dall'Italia, tentò il suicidio, buttandosi da un abbaino della sede della Juventus. In ospedale dal 27 giugno, venne dichiarato fuori pericolo il mese dopo, per poi lasciare la clinica a settembre.

"Le parole dette a Pessotto sono inaccettabili e da censurare, senza dubbio" evidenzia il responsabile del settore giovanile del Torino, Massimo Bava, intervistato dall'ANSA. 

Il dirigente granata, però, ci tiene a specificare: "Per amore di verità bisogna dire che quel video non fa vedere, anche se non è una giustificazione, i nostri tifosi a fine partita provocati, offesi e derisi da alcuni giocatori della Juventus". 

Bava avvisa i tifosi del Torino: "Non si deve più ripetere. Ne ho parlato sin da sabato con Pessotto alla presenza di carabinieri e funzionari della Digos, ricordandogli che noi prima di essere dirigenti sportivi siamo degli educatori. Quando si giocano partite così significative, occorre sapere vincere e saper perdere". 

Anche il direttore generale del Torino Antonio Comi segue la stessa linea di Bava: "Questi insulti sono inaccettabili, da censurare, e noi prendiamo le distanze ma, e non vuole essere una giustificazione il filmato non mostra le offese di alcuni loro calciatori nei confronti dei nostri tifosi". 

"Noi siamo educatori prima di dirigenti e serve più rispetto e maggiore responsabilità da parte di tutti" ha aggiunto Comi al 'TG1'. Una questione che difficilmente verrà dimenticata, sopratutto dopo la risposta del Torino. In attesa di prese di posizione da parte della Juventus, Pessotto in primis.

 
 
E ci mancherebbe che i dirigenti del toro facessero i dirigenti, educatori peraltro!
 
Modificato da totojuve

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Mi fa piacere che si parli del qatar saint-germain!Quella squadra ha sempre avuto un che di marcio (vedi il caso Vampeta) anche quando non era dell'emiro....anni fa un giornalista fece uscire un libro "le roman noir du psg" denunciando il mondo del psg!E anni addietro il "sistema psg" venne denunciato da Guy Roux, all'epoca allenatore dell'Auxerre!

Ma in Francia si sa, è solo l'OLympique de Marseille il colpevole e se si fanno inchieste, è solo sull'OM!

E sul psg-qsg invece?Nulla

 

Non so perché...ma questo ha certe similitudine

 

 

Per il resto mi fa ridere (sono ironico) l'articolo sulla presunta "ombra di Moggi"...come no?!Dopo tutto quello che è saltato fuori in questi anni, considero CRIMINALE che si consideri a SPUTARE su Moggi, che si tratti di Luciano o del figlio!

Ah...se fossi io il presidente dell'Ordine Giornalisti....saprei io che fare!

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DA CANALE JUVE

 

Dattilo, Bertini, e i problemi di matematica causati da Calciopoli

Nonostante qualcuno continui a meravigliarsi o peggio ancora indignarsi, senza sapere né leggere, né scrivere, l’argomento Calciopoli rimane comunque di assordante (già, perché anche il silenzio lo può diventare) attualità, e così nella serata di ieri la collega Monia Bracciali ha realizzato in esclusiva un’intervista a Paolo Bertini, ex arbitro fra i condannati in Appello nel processo ordinario, uno dei tre direttori di gara della cupola moggiana, insieme a De Santis e Dattilo, secondo il Tribunale di Napoli.

Più e più volte nel corso di questi otto anni e mezzo ho affrontato tematiche riguardanti quello che è comunemente ricordato come il più grande scandalo del calcio italiano, nonostante basti analizzare a fondo anche solo gli aspetti superficiali della vicenda per rendersi conto di così tante incongruenze (chiamiamole così) che sembra quasi sia stato uno scherzo; ma uno scherzo non è stato, e sarebbe stato bello vedere quali sarebbero state le reazioni di stampa e – di riflesso – opinione pubblica se il contesto fosse stato extra calcistico, se non avesse visto invischiata principalmente la squadra più amata e più odiata dagli italiani. Questa curiosità nasce dal fatto che, come nel caso Dattilo, qui stiamo discutendo di una persona condannata per elementi che definire paradossali appare addirittura poco.

Di mezzo c’è il solito discorso delle sim estere sul quale mai nessuno di coloro chiamati a fare informazione si è azzardato a raccontare le cose dalla A alla Z: attribuzioni a Tizio anziché a Caio, superficialità dei sistemi utilizzati, e vari paradossi come quello raccontato nell’intervista dallo stesso Bertini. Mi riferisco al capo d’imputazione per il quale l’ex arbitro è stato condannato: i contatti con Moggi attraverso la sim estera nell’immediata vigilia di Juventus-Milan, match giocato nel dicembre 2004. Non importa che questa scheda sia stata venduta (a chi non è dato saperlo con certezza) nel gennaio 2005, dunque un mese dopo il presunto contatto che è valso la condanna su questo capo d’imputazione sia per Bertini che per Moggi (per quest’ultimo in Appello è già intervenuta la prescrizione relativamente a quest’episodio).

C’è un passaggio ulteriore e fondamentale nelle parole di Bertini, lì dove parla delle telefonate delle altre società, ma in questo i vari organi d’informazione sono sempre stati molto attenti ad indossare la corazza giusta per difendere le contro-accuse, e dunque rafforzare il sentimento popolare colpevolista: il fatto che era tutto il sistema calcio a muoversi in questo modo, un’indicazione precisa dei vertici della Figc per stemperare gli animi fra società ed arbitri, non va tradotto come un rifugio dietro alla logica del “mal comune, mezzo gaudio”, ma semplicemente significa raccontare una realtà dei fatti differente da quella che è stata prima ipotizzata e poi giudicata nel momento in cui accusatori e giudicanti hanno posto in essere le loro condotte all’interno di uncontesto totalmente errato quale quello dei “canali unici/privilegiati che Moggi e Giraudo avevano con i vertici AIA”. Un falso storico appurato dai fatti, non c’è interpretazione o influenza da tifo in questa circostanza.

Tornando prettamente a Bertini, invece, c’è un ulteriore tassello che vale la pena sottolineare: i vantaggi che gli arbitri avrebbero avuto in cambio di favori alla cupola (fra l’altro favori mai dimostrati ed addirittura esclusi dalla stessa sentenza) sarebbero stati di natura economica con avanzi di carriera e di natura mediatica nel senso che Moggi si sarebbe preoccupato di difendere l’opinione pubblica dei cupolanti per mezzo stampa (questo mezzo stampa sarebbe Il Processo di Biscardi, trasmissione televisiva che, ricordiamo per i più distratti, fu così definita dal Tribunale di Roma nel dispositivo di archiviazione di un procedimento per calunnia lì ipoteticamente realizzato: “è un programma televisivo il cui oggetto principale è proprio quello di suscitare con linguaggio diretto ed espressioni volutamente forti discussioni, spesso pretestuose, tipiche da bar sport. La credibilità oggettiva delle notizie riportate e fatte oggetto di dibattito è riconosciuta come assai bassa, secondo l’ opinione comune, trattandosi non infrequentemente di notizie create o gonfiate per suscitare la polemica. I toni, la sede e la natura degli interventi depongono per essersi trattata di una tipica discussione da bar finalizzata all’ incremento dell’ audience attraverso l’ uso di toni e contenuti platealmente esagerati. Ne deriva che la credibilità dell’informazione offerta e la conseguente attitudine di questa ad essere, in ipotesi, idonea a ledere l’ altrui reputazione sono oltremodo inconsistenti). Bertini è un soggetto che all’epoca dei fatti era già arbitro internazionale, che chiuse quella stagione al penultimo posto nella graduatoria degli introiti degli arbitri di prima fascia, e che fu tartassato da Moggi con dichiarazioni pubbliche pesanti in più occasioni ma soprattutto, come ricorda Bertini, nel post-partita di Atalanta-Milan 1-2 con il secondo gol dei rossoneri al 4′ di recupero a fronte dei tre segnalati, e in particolar modo per non aver espulso Nesta per un fallo che interruppe una chiara occasione da gol.

Ma alla gente tutto ciò interessa poco, ormai la storia ci dice che il diavolaccio è stato punito e il tempo ha cicatrizzato le ferite: non è così, ecco perché ancora, come accennavo in apertura, quattro fessi non riescono a mettersi definitivamente il passato alle spalle, e continuano ad avere problemi in matematica quando si parla di scudetti.

 

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FELIPE ANDERSON E DYBALA

PRIGIONIERI DEI MERCANTI DEL PALLONE

Le procure di Napoli e Piacenza indagano sul marcio del calcio.

Un agente: «Vi spiego come vengono trattati i giocatori»

Un intrigo internazionale «Fondi misteriosi, calciatori venduti in coppia, denaro sporco e dribbling al fisco italiano»

di GIULIO MOLA (QUOTIDIANO SPORTIVO 08-01-2015)

«È arrivato il momento di dire basta a questi trafficanti che trattano i calciatori come carne umana da vendere al miglior offerente. Visto che la Fifa non fa nulla, la magistratura italiana deve intervenire duramente, perché qui c'è gente che ricatta dei ragazzi inermi e tiene sotto scacco pure le società...». Più che uno sfogo è un grido d'allarme. A lanciarlo è un noto agente Fifa (che per evidenti ragioni preferisce mantenere l'anonimato), uno dei tanti che qualche settimana fa si sono riuniti a Milano, ben lontano dai riflettori, per affrontare un problema che riguarda la loro categoria e non solo.

Perché qui di mezzo ci va tutto il mondo del pallone, ormai in mano a gente che col calcio ha poco a che vedere e il cui modo di agire sconfina troppo spesso in attività al limite della legalità: «Voglio essere chiaro, perché si capisca che non stiamo parlando di fumo. E fare anche nomi e cognomi, raccontare situazioni. Noi, agenti Fifa di lunga data, ci siamo visti perché riteniamo scandaloso il fatto che qualcuno voglia abolire l'Albo. I primi, dannosissimi risultati, sono già sotto gli occhi degli addetti ai lavori: assistiamo impotenti al'invasione massiccia di personaggi fuori controllo e competizione, che dettano e impongono le proprie regole. Gente che ha in mano tutto grazie ad una montagna di denaro la cui provenienza è alquanto dubbia. I giocatori e i club non hanno più tutela, anche perché la Fifa non mette al bando questi signori».

È un fiume in piena uno fra i decani dei procuratori. E passa a snocciolare nomi e dettagli riguardanti società create ad hoc nei paradisi fiscali, che incrementano all'infinito il valore dei calciatori, con fatturati che sfiorano i 300 milioni di euro l'anno, più redditi nascosti incalcolabili. «So che ci sono delle indagini in corso, anche in Italia (le procure di Piacenza e Napoli n.d.r). Si parla di frode fiscale e riciclaggio di denaro sporco, ma questa è solo la punta dell'iceberg. Da dove inizia il marcio? Parte da molto lontano, dal Sudamerica. Lì si appoggiano i nostri club per evitare la pressione fiscale. È da lì che proviene un certo Betancourt, che nell'ambiente conoscono tutti. Si definisce come agente uruguaiano, invece è un misterioso personaggio di origine peruviana. Non si fa vedere molto in giro, ma tutti sanno che è lui che organizza certi strani trasferimenti di giocatori da una parte all'altra dell'Oceano. Il meccanismo è semplice: la società che detiene i diritti del calciatore, estera o italiana, riceve dal club che acquista il giocatore i fondi per il trasferimento e ne trattiene una quota. Quindi, di fatto, il giocatore vale meno rispetto a quel che dicono i media. Perché una parte della torta va ai procuratori e ai direttori sportivi, che acquistano e vendono gli stessi calciatori. E così quel denaro dribbla il fisco italiano. Lo stesso Betancourt, qualche mese fa, poi, ha costituito una società in Svizzera, una delle 148 imprese che ha sede nei paradisi fiscali delle Seychelles. Questo dopo che nel 2013, insospettiti da certi strani giri, alcuni deputati argentini avevano chiesto di far luce sull'argomento. Si era mossa la magistratura di Montevideo, bloccata però dal fatto che nello scandalo fossero coinvolti anche politici argentini». Ma chi è davvero questo Betancourt? «Beh, il suo curriculum non è certo limpido. In estate, proprio tramite la sua società, aveva acquisito il 40% del Lugano da Enrico Preziosi, presidente del Genoa. Ma in passato era stato indagato in un'inchiesta sulla prostituzione e in un'altra era stato accusato dal pm Massidda di evasione fiscale (746.000 euro) per alcuni trasferimenti di Suazo, l'ex di Cagliari e Inter. Inchiesta, quest'ultima, chiusa con l'archiviazione. Questo signore ha preteso di concludere l'operazione Hernandez dal Palermo all'Hull City. Una trattativa da 12 milioni complessa e con risvolti inquietanti: perché di quella cifra il 45% dei soldi, ovvero 5,4 milioni è finito al Penarol, solo 3,8 al Palermo e gli altri 2,8 indovinate dove? Nelle sue tasche, ovviamente. Altri proventi avrà intascato, facendo da intermediario nel passaggio di Angel Di Maria dal Real Madrid allo United: un mega-affare da 70 milioni di euro».

La nostra fonte non si ferma. Va avanti nel suo racconto-denuncia: «Ci sono giocatori che vengono spostati come pedine in continuazione e trasferiti senza un perché. Vi faccio un nome, il brasiliano Emerson Palmieri. Lui va a Palermo ma è un oggetto misterioso: per forza! Sapete il curriculum? 16 presenze col Santos! Ma alle spalle c'è la Elenko Sport, agenzia consorziata al Fondo Sonda, un'istituzione finanziaria di proprietà di due fratelli brasiliani che ha fatto la fortuna nel mondo della grande distribuzione. Un miliardo e 200 milioni di fatturato. Hanno pure Felipe Anderson, l'uomo che ha segnato due gol all'Inter e affondato la Samp. Bene, l'intermediario Mendes, nella trattativa dell'estate del 2013 e per la quale Lotito pagò 9 milioni di euro il brasiliano, ha rifilato alla Lazio pure Postiga (tornato quest'anno al Valencia, ndr) e Pereirinha. Questo perché gli agenti che si legano ai fondi lo fanno in maniera scorretta: conflitto d'interessi e monopolio. Figurarsi se uno si preoccupa di dirottare Palmieri a Palermo, serve solo per spostare denari...».

«Il problema con i fondi è molto semplice: vengono gestiti da agenti, tipo Betancourt o Mendes, che mettono i club davanti a scelte obbligate. Vuoi un giocatore? Bene, ma ti devo piazzare anche uno o due giocatori della mia scuderia. Vi assicuro che ci sono società importanti, come Atletico Madrid e Monaco, che sono finite nella tagliola e il calciomercato rischia di pagare pedaggio a una concorrenza sleale. Se si lascia spazio ai fondi, sarà più facile aggirare le norme sul Fair Play finanziario. In Italia dirigenti importanti hanno cercato contatti col fondo internazionale Doyen. Poi qualcuno, per fortuna, ci ha ripensato, mentre altri sono finiti nella rete. Bisogna stare attenti, perché non è chiara la provenienza del denaro. Non è escluso che qualcuno utilizzi i fondi per riciclare denaro sporco». «Molte società italiane continuano ad abboccare. E a restare sotto scacco. Ce ne sono una mezza dozzina. Loro continuano a pensare ad un teorico vantaggio: comprare il giocatore da un fondo può voler dire prenderlo a cifre convenienti. Anzichè spendere 20, paghi 10. I problemi iniziano poi. Devi prendere anche giocatori scarsi, e i calciatori, soprattutto, non saranno mai liberi di decidere il loro futuro».

 

Storie tese ma datate: Giulio Mola copia Pippo Russo.

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PALLONE PULITO

«Vi racconto i segreti dell’antidoping»

Dal caso Concas ai furbetti del calcio, il n˚1 Capua svela quello che

accade dopo le partite: «Specchi in bagno, ma che errore con Acerbi»

di VANNI ZAGNOLI (LIBERO 10-01-2015)

C’è un’ombra sulla favola del Carpi, primo in serie B con 9 punti di vantaggio su Frosinone e Bologna: la positività di Fabio Concas, genovese di 28 anni, esterno brillante, rivelatosi nel 2011 al Varese di Sannino. È il metabolita della cocaina e allora Concas rischia un anno e mezzo di stop, come Maradona nel ’91. È l’occasione per raccogliere la testimonianza di Pino Capua, dal 2001 presidente della commissione antidoping della Federcalcio. Qui racconta 14 stagioni di controlli, ci guida in quelle segrete stanze, offlimits per tutti.

Dottore, le positività negli ultimi anni sono molto rare nel calcio professionistico italiano. Ha il timore che esista un doping sommerso?

«Dobbiamo andare per analisi e numeri, teniamo per noi le sensazioni. Le procedure utilizzate nel calcio e negli altri sport sono dettate dalla Wada (world anti doping agency) e dalla Nado, l’agenzia antidoping del Coni, dunque seguiamo le regole stabilite per il nostro sport nel mondo. E abbiamo il primato assoluto per numero di controlli».

Quanti ne effettuate?

«In Italia 3500-4000 l’anno, dalla serie A al calcio femminile, nel calcio a 5 e in serie D invece sono a cura del ministero della salute, per convenzione».

Ogni tanto sono emerse positività a cannabinoidi e cocaina.

«Sostanze non mirate a migliorare la prestazione sportiva. Si tratta di vizi individuali, di abuso di droghe, nel caso Concas aspettiamo che si compia l’iter delle controanalisi e che si arrivi a giudizio».

Nel 2010 l’ex attaccante Flachi è stato sanzionato con 12 anni di squalifica, perchè positivo per la seconda volta alla cocaina. A giugno scadrà la squalifica di 8 stagioni all’ex portiere Pagotto, ora 41enne, per lo stesso motivo.

«E nel 2006 Bachini fu squalificato a vita. La pena a mio avviso deve comunque permettere una riabilitazione, va recuperato l’uomo: non si può penalizzare così tanto, anche a fronte di due errori compiuti».

Qualche anno fa impazzavano le positività al nandrolone e i calciatori inchiodati dai test proponevano le versioni più assortite: l’ex juventino Blasi, per esempio, diede la colpa a uno shampoo.

«In effetti anche a me sembravano scuse. All’epoca si assisteva all’invasione di anabolizzanti: si contaminavano integratori considerati leciti e la cosa veniva regolarmente smascherata con le analisi all’Acquacetosa. Lì emersero le anomalie dei valori, grazie a mezzi per analisi di altissima precisione. A capo dell’organizzazione c’è il romano Francesco Botrè, il migliore al mondo».

Le positività sono rituali, nell’atletica leggera e nel ciclismo, soprattutto a livello internazionale.

«Al calcio serve lo stesso rigore per far sparire ogni sospetto, però siamo già attrezzatissimi».

Ecco, come avvengono i controlli?

«Ci sono sempre l’ispettore antidoping della federazione medico sportiva, e uno o due rappresentanti federali: all’interno della sala garantiscono la regolarità del test, sono attenti anche alle virgole. Abbiamo 200 rappresentanti federali, fra questi avvocati, ingegneri, persino giudici e poliziotti».

Come avviene il sorteggio dei designati?

«È secretato. Le buste vengono spedite dal Coni e sono aperte a un quarto d’ora dalla fine della partita. Nella stanza ci sono solo l’esponente della federcalcio, il medico della società calcistica e l’ispettore che si prende in carico il prelievo».

Sono sempre 2 per squadra, i sorteggiati?

«A volte anche soltanto uno per ciascuna. Si concorda con il Coni, ente di controllo per tutti gli sport. Alla fine della gara i prescelti vengono invitati nella sala antidoping, per il controllo sulle urine o, più raramente, su sangue e urine».

Controllando il sangue si hanno maggiori garanzie?

«Indubbiamente. Il prelievo sanguigno è iniziato nel 2003, siamo stati i primi al mondo in campo calcistico, e solo il ciclismo ha l’abitudine del controllo ematico».

Qualche curiosità relativa ai test?

«Una volta da San Siro sono uscito alle 2 di notte, per aspettare che Bernardo Corradi, all’epoca attaccante nella Lazio. Ogni tanto scendo anch’io a seguire il controllo. E poi mi occupo delle designazioni dei dirigenti federali incaricati».

Chi apre il contenitore per le urine?

«Arriva sigillato, tocca al medico o al giocatore, alla presenza appunto del dirigente. Il recipiente è naturalmente sterile e viene scelto fra 4 inviati per evitare sospetti. Il calciatore controllato entra nel bagno da solo, però ci sono specchi per evitare qualsiasi tipo di trucco».

In mancanza degli specchi il medico sorveglia per prevenire imbrogli?

«Una volta espletato il test, la provetta è chiusa e sigillata. Viene stilato un verbale con i codici dell’atleta, cosicchè chi si occuperà delle analisi all’Acquacetosa non sappia a chi appartiene quel campione di urine. Neanche si conosce lo sport in questione».

È mai stato invitato a testare un atleta in particolare?

«No. Nè mi sono arrivate delazioni, potrei comunque chiedere al Coni un controllo mirato. Il sorteggio è random».

I laboratori hanno mai sbagliato?

«L’unico caso che mi addolora riguarda Francesco Acerbi, il difensore del Sassuolo tornato di recente in nazionale. Nelle urine si vedevano tracce della ripresa del tumore, venne inizialmente sanzionato questo atleta che non doveva essere fermato: ci siamo ricreduti a distanza di un po’ di tempo, per la gravità della malattia; per qualche giorno, tuttavia, sui giornali era apparsa la notizia come fosse stato positivo».

Albertino Bigon, allenatore dello scudetto del Napoli, racconta che in coppa le squadre dell’Est, negli anni ’70, erano talmente dopate che i giocatori entravano nello spogliatoio sbagliato. Quando cominciarono i controlli antidoping, nel calcio?

«In serie A, all’inizio degli anni ’80. In Europa sono arrivati un decennio prima, dalle olimpiadi di Monaco 1972. Da noi, la vera rivoluzione è stata la creazione della commissione federale antidoping».

Quante sono le sostanze proibite?

«Centinaia e ogni anno la lista viene aggiornata. Il sito del Coni le riporta tutte».

Cosa può sfuggire?

«Considerato anche che non si trovano più positività, serve creare il passaporto biologico. Dunque 3-4 controlli l’anno, per valutare le differenze dei valori a distanza di circa 3 mesi, così si risale a ritroso, per vedere se l’atleta ha veramente utilizzato sostanze proibite».

Quando sarà applicato?

«Noi siamo pronti da 2 anni, in accordo con il Coni vorremmo avviarlo il prima possibile. La Fifa ha già applicato il protocollo ai mondiali in Brasile».

Nel ’98 Zeman disse che il calcio doveva uscire dalle farmacie. Aveva ragione?

«Obbligò a una riflessione, il nostro sport gli deve tanto».

I medici che propinano doping sono sempre molto avanti. Chi sono, invece, i migliori nelle società sportive?

«I nostri sono tutti bravi. Non credo che nessuno consigli farmaci inutili o dannosi, ai 25-30 calciatori che hanno in rosa».

All’estero la lotta al doping è altrettanto profonda?

«Siamo in rapporti con tutte le federazioni: in Francia vengono effettuati 700 controlli l’anno, in Inghilterra 1000, dunque un quarto rispetto ai nostri».

Esistono test per arbitri?

«Non sono previsti».

È la Figc a pagare la federazione medico sportiva per eseguire i controlli. Ogni anno quanto spende?

«Fra il milione e 600mila e il milione e 800mila euro. Cifra senza eguali al mondo».

Agli sportivi che messaggio si sente di dare?

«Qualsiasi sostanza dovesse migliorare la prestazione, nuoce sicuramente alla salute. E dunque da un momento all’altro si può rischiare la vita. Magari non subito, ma sono pericolose».

La Juventus ha avuto sì un po' di problemi con le accuse di doping ma Blasi fu pizzicato quando era tesserato e giocava per il Parma (in prestito dalla Juventus): è ex juventino ma scorrettamente accreditato per il caso di doping in questione.

Ce l'hanno per vizio, disinformare.

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La Juventus ha avuto sì un po' di problemi con le accuse di doping ma Blasi fu pizzicato quando era tesserato e giocava per il Parma (in prestito dalla Juventus): è ex juventino ma scorrettamente accreditato per il caso di doping in questione.

Ce l'hanno per vizio, disinformare.

le colpe sempre della juve

blasi del parma........suona male e passa inosservato

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12 GEN 2015 12:32

 

  SI PUÒ ANCORA PIANGERE SUL LATTE VERSATO - IL PM CHIEDE UNA CONDANNA A 9 ANNI PER GERONZI E CRAGNOTTI PER L’OPERAZIONE EUROLAT - A 15 ANNI DAI FATTI, NEANCHE SI È ARRIVATI ALLA SENTENZA DI PRIMO GRADO Il processo non si è ancora prescritto perché i due sono accusati di concorso in estorsione aggravata, che ‘scade’ in 20 anni. L’accusa: aver appioppato alla Parmalat (debitrice di Banca di Roma, guidata da Geronzi) la società Eurolat (di Cirio, ovvero Cragnotti) a un prezzo esorbitante: 829 miliardi di vecchie lire...

 

(ANSA) - Una condanna a 9 anni ciascuno è stata chiesta dalla Procura di Roma nei confronti dell'ex presidente della Banca di Roma, Cesare Geronzi, e per l'ex patron della Cirio, Sergio Cragnotti nell'ambito del processo per l'operazione Eurolat, settore latte della Cirio.

 

Il pm Paola Filippi ha chiesto, inoltre, una condanna a cinque anni per l'avvocato Riccardo Bianchini Riccardi, ex componente del Cda della società agroalimentare. Agli imputati vengono contestati i reati di concorso in estorsione e bancarotta per distrazione. Il processo riguarda l'operazione che porto' nel 1999 alla acquisizione da parte della Parmalat del ramo lattiero-caseario di Cirio, a un prezzo, giudicato incongruo della procura, di 829 miliardi di vecchie lire.

 

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/si-pu-ancora-piangere-latte-versato-pm-chiede-condanna-92219.htm

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Jovetic in departure lounge after Bony’s £25m arrival

by JAMES DUCKER (THE TIMES 12-01-2015)

 

City expect to confirm the signing of Bony in the next 48 hours and his impending arrival could pave the way for Stevan Jovetic’s departure at the Etihad Stadium.

Under the terms of the deal, City will pay £25 million upfront with another £3 million payable depending on the team’s success in the coming seasons.

For Swansea to receive all of that additional sum, City must win the Barclays Premier League title, Champions League and FA Cup in the next four years and Bony must feature in 60 per cent of the games in those competitions.

There were still issues to resolve surrounding the striker’s personal terms last night, with the player demanding at least £150,000 a week, although a compromise is expected.

The news came as it emerged that City were facing fresh scrutiny after the Frank Lampard farce, in which the club admitted to misleading their supporters and those of New York City, their sister club, over the former England midfielder’s contract last summer.

Uefa is examining whether the creation of a network of global subsidiaries by City’s parent company, City Football Group (CFG), allowed the Premier League champions to underreport the club’s losses for 2013-14.

City were fined £49 million — two thirds of which was suspended — last year for breaching Uefa’s Financial Fair Play (FFP) rules.

Their spending in last summer’s transfer window and this month was also restricted to a total net outlay of £49 million as part of the punishment and they were forced to name a reduced Champions League squad of 21 players, as opposed to the normal 25. City’s failure to meet FFP was heavily influenced by Uefa determining that the sale of “intellectual property” by the club to two companies owned by CFG artificially inflated their income for 2012-13 and, as such, had to be discounted.

Those two subsidiaries — City Football Marketing Limited (CFML) and City Football Services Limited (CFSL) — are now at the centre of Uefa’s new investigation. Manchester City were the main client in 2013-14 of both companies, which together had operating expenses of £36.7 million and combined losses of £25.9 million in the year to May 2014.

City paid a total of £10.1 million in services to CFML and CFSL in the last financial year but one of the central issues will rest on how much of the subsidiaries’ costs of £36.7 million were incurred in business related to the Manchester club. City have indicated that they will co-operate fully with any inquiry by Uefa, interest in which is likely to be considerable given how the lack of transparency over the Lampard fiasco has served to focus attention on the apparent opaque nature of City’s accounts.

Having initially claimed in official statements that Lampard had signed for New York on a two-year contract from August 1 last year, before joining City on loan, it transpired that neither was true.

Lampard had, in fact, signed only a heads of term commitment — in other words, a pre-contract — to join New York from January 1 this year, which was then put back to July 1 after City extended his contract with them.

Bony, on international duty with Ivory Coast at the Africa Cup of Nations, will not be free to play for City until the middle of next month should his country reach the final of the tournament in Equatorial Guinea on February 8.

City have been operating with three established strikers since letting Álvaro Negredo, the Spain striker, leave on a season-long loan for Valencia last summer before a permanent £25 million move, but the club are thought to be willing to listen to offers for Jovetic.

Only an offer of more than £25 million would persuade City to sell Jovetic — who signed from Fiorentina in July 2013 — but the Montenegro forward is attracting interest from Italian clubs.

 

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Fifa, scompare figura del procuratore.

Nessun tesserino per trattare i calciatori

Dal 1 aprile l’Italia sarà chiamata a recepire la nuova regolamentazione voluta da Joseph Blatter

che introduce l'intermediario. Identici i compiti nella pratica. Cambiano formazione e procedure

di DARIO DALCINI (IL FATTO QUOTIDIANO.it 12-01-2015)

 

Ancora una manciata di settimane e la figura del procuratore si congederà dal mondo del calcio. Senza troppi rimpianti, con non poche incognite. Dal 1 aprile l’Italia sarà chiamata a recepire la nuova regolamentazione Fifa, voluta da Joseph Blatter e resa operativa dal comitato esecutivo della confederazione mondiale nel marzo 2014. Liberalizzazione o deregulation, dipende dai punti di vista. L’esito pratico è la scomparsa dell’agente Fifa, che da questa primavera sarà ribattezzato intermediario. I compiti saranno gli stessi di prima: mettere in contatto giocatore e società per accendere, rinnovare o estinguere un contratto di lavoro. Cambiano formazione e procedure. Oggi per intraprendere la professione sono necessari requisiti minimi, dal diploma al casellario penale intatto, oltre al conseguimento di una licenza.

 

Tramite il superamento di una prova bandita dalla federazione nazionale si ottiene un attestato valido per svolgere l’attività in tutti i paesi aderenti alla Fifa. Solo i fratelli dell’atleta e gli avvocati abilitati possono esercitare senza tesserino. L’Italia produce circa 1500 agenti, il doppio e talvolta il triplo rispetto alle altre federazioni. Erano meno di mille nel 2013, appena 500 cinque anni fa: in tempi di crisi la carriera di procuratore è divenuta ambizione dei nostri giovani. Ora rischiano di trovarsi un tesserino da tagliare in tasca e una concorrenza fuori controllo. Stabilisce la Fifa che chiunque potrà essere intermediario di un calciatore: saranno sufficienti una buona reputazione e l’assenza di conflitti d’interesse. Tra le linee guida poste dall’organizzazione con sede a Zurigo il tetto ai compensi dell’agente, che dovrà ammontare al 3% dell’operazione andata a buon fine. Se lordo o netto ancora non è chiaro. Altra novità di rilievo è l’abolizione del divieto del doppio mandato: un intermediario è messo nelle condizioni di assistere contemporaneamente calciatore e società nel corso di una trattativa. Solo una delle due parti provvederà al pagamento.

 

La Figc di Carlo Tavecchio ratificherà la riforma: potrebbe inserire qualche presa di distanza, ma i margini di manovra sono ristretti. “Siamo liberi professionisti ed è giusto spingere sempre più sulla strada dell’autoregolamentazione – commenta Andrea D’Amico, agente di numerosi big del nostro campionato – Chi assicura un calciatore oppure chi lo cura non è iscritto a nessun albo, non vedo perché dobbiamo esserlo noi”. Si rischiano trattative caotiche, sostengono al contrario i più critici, e peggio l’inserimento di personaggi non qualificati, borderline. Maggiore sarebbe anche il rischio di truffe.

 

Inoltre il nuovo regolamento Fifa sancisce che non solo le persone fisiche, ma anche quelle giuridiche possano ricoprire il ruolo di intermediario. Un’occasione invitante per fondi di investimento e gruppi dediti alla speculazione, presenze ormai strutturali ai più alti livelli del pallone. “Blatter e la Fifa hanno scelto l’opzione liberi tutti, la legalizzazione del caos – commenta Luca Vargiu, agente di calciatori e autore del libro Palle, calci e palloni (s)gonfiati – I procuratori sono da sempre visti come il male dello sport nostrano. Sicuramente hanno commesso errori e arrecato danno, ma sarebbe stato meglio qualificare la loro figura e non cancellarla. Bisognava ridurre il loro numero e dare vita a un sistema credibile di controlli”.

 

Ogni inverno l’FA inglese stampa un report per documentare i soldi versati da ciascuna società agli agenti, da noi tutto è sempre avvolto da un mistero che fa pensare male e spesso indovinare. “Fissare una soglia percentuale di compenso rappresenta un passo in avanti, ma rimane il problema delle cifre fuori mandato. Il nero è cresciuto negli ultimi anni senza che nessuno intervenisse. Temo gli avventurieri si sentiranno autorizzati a giocarsi le proprie chance – conclude Vargiu – Piuttosto che avere regole ambigue che nessuno seguiva, la Fifa ha istituzionalizzato la giungla”.

 

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Where football is all about life and death

The killing of a regional player serves as a sharp reminder of game’s problems in Argentina

by RORY SMITH (THE TIMES 12-01-2015)

 It started after the third goal. On November 29 last year, Tiro Federal and Chacarita, two sides in Argentina’s regional league, met in Aimogasta, a sleepy, dusty town in the northern province of La Rioja. There was a quarter of an hour or so to play at the Estadio San Francisco when Tiro made it 3-1. Victory was in sight. It was then that tempers started to fray. An argument broke out between Franco Nieto, Tiro’s captain, and one of the Chacarita players. Scuffles broke out. The helpless referee did what he could to restore order, sending off Nieto, two of his team-mates and five of his opponents. It did not work. As the violence continued, he had no choice but to abandon the game.

Nieto’s wife was waiting for him at the entrance to the stadium, along with the youngest of the 33-year-old’s three children, a daughter little more than a month old. “He was still being insulted as he left the ground,” Nieto’s cousin, Pablo, says.

“They were trying to walk to their car, but a group of people started insulting him. As he got to the car, they started to punch him, to hit him. He tried to defend himself, but it was useless. There were three of them. Then one of them grabbed a rock. He struck him on the head.”

Nieto was transferred to the Enrique Vera Barros hospital in La Rioja, the provincial capital, immediately. That was on the Saturday. He had surgery on his injuries on the Tuesday. He died on Wednesday morning.

“These things destroy your heart,” Jorge Paez, Tiro Federal’s president, said. “They are murderers, possessed by drugs. I am totally sick of football. Today it was Franco. Tomorrow it could be my son, who plays in the same team. We all have to renounce [violence]. I am devastated.”

Three men have been arrested for his murder. Pablo, his heartbroken cousin, claimed that one of his alleged assailants was the player with whom he had the original argument. The police have confirmed only that all three were linked to Chacarita’s supporters’ group; they suspect that, in a small town such as Aimogasta, a comparatively famous figure such as Nieto would have known all three.

There have been suggestions that his medical care was not as effective as it might have been. His relatives and friends staged marches before Christmas demanding severe penalties for his killers. There have been allegations made about Chacarita’s directors, suggesting that they are in thrall to the more violent elements among the club’s support.

There are two remarkable aspects to Nieto’s tragic death. The first is that all of this started not with a professional game, where the stakes and the tension are high, but with a regional, semi-professional match. Both sides would number their supporters in dozens, rather than hundreds. That such teams can still boast a violent fringe with considerable power inside the club is extraordinary.

The second, more troubling still, is how little surprise Nieto’s death prompted in Argentina. He was not a nationally famous man, of course, but he was nonetheless a footballer, killed either by an opponent or by opposing fans. There is some debate about whether the attack was premeditated, but the most immediate trigger seems to have been the game, the argument, the third goal.

That nobody in his homeland is shocked is, as Ezequiel Fernández Moores, the doyen of Argentine football journalism, says, proof of just “how inured this country has become to the endemic violence in football”. Nieto was the first player to die as a result of it, but few in Argentina think he will be the last.

Much of the problem stems from the barras bravas, the hardcore support groups attached to each club, no matter how small. Just as the word ultra in Europe should not be synonymous with “hooligan”, so too the barras are a different proposition again.

“They first started in the days before games were on television,” explains Diego Murzi, vice-president of Salvemos al fútbol (“Let’s Save Football”), a group designed to combat violence in Argentine football. “You have to remember that Argentine football has always been more concerned with winning than playing well.

“In the 1950s and 60s, there was always a suspicion that away teams would be victimised by corrupt referees, that games would be fixed, so groups of fans formed to try and redress the balance, to fight for the club’s interests. These were the original barras bravas.

“Now they are something more. Argentine clubs are social enterprises. They are not owned by individuals or companies, like English teams. That means there are presidential elections, every four years. The candidates need the support of the barras if they are to win power, so they cultivate relationships with them.”

By the time, in the early 1990s, that Mauricio Pochettino was captain of Newell’s Old Boys, the Rosario side, the leaders of the barras were significant figures. “You knew who they were,” the Tottenham Hotspur head coach says. “They would come to the club, they would express their support. No more than that.”

In the years since Pochettino left his homeland, though, that has changed considerably. As Murzi says, the barras have morphed beyond football. A kind interpretation would say that they are business enterprises as much as supporter groups; a less gentle assessment would equate them with criminal gangs. Many are linked inextricably to organised crime.

The largest groups have the concession rights in the parts of the stadiums where they are based and many control entrance to certain sectors, offering guided tours of grounds to tourists. In their sectors, they make money from the clandestine economy, selling drugs and stolen goods.

Murzi describes them as “shock troops” not just for the clubs they support but for gangsters too, who use the barras as foot soldiers and enforcers. Relations are so close that many of the most influential groups now have offices inside stadiums and regular access to training grounds. They meet often with players to express their happiness or otherwise.

There have been numerous accounts in recent years of barras attacking or threatening their own teams because of poor performances. In 2011, the San Lorenzo defender, Jonathan Bottinelli, was brutally beaten by members of his own team’s barra after three fans appeared at the training ground to complain about a run of defeats. Bottinelli asked them to leave and they took exception.

The majority of the violence, though, is directed at other supporters.

Salvemos al fútbol estimates that more than a dozen fans are killed every year and two years ago, the country’s football federation banned all away supporters from attending games. “That has not stopped the violence,” Murzi says. “The key thing with understanding the violence is what we call the cultura del aguante: the culture of resistance.

“Resistance takes two forms. It is supporting your team whatever the circumstance — travelling hundreds of miles to see them, going to watch them even if they’re terrible — but it is also resisting physically, proving that you are stronger, more macho, than supporters of other teams.”

Pochettino — like the Argentine Football Association — believes that the rise in violence in football can be attributed to the rise in violence in society in general, the “delinquency” that has made Argentina such a dangerous place after several decades of chronic economic failure. Murzi, though, believes that there is a distinct connection with football, too.

“There is a link between the violence on the pitch that marked the game in the 1960s and the rise of violence off it,” he says. “It is the cultura del aguante. You have to resist to prove you are a man.”

No wonder, in such a climate, that Argentine football is suffering.  Attendances may be relatively stable — testament, Murzi says, to the enduring passion of the supporters, despite the risks — but the climate of fear is affecting the quality of product on the pitch.

Argentina has long been an exporter of talent. Indeed, it now has more players plying their trade abroad than Brazil. Young players jump for Europe — or the Middle East, the United States, Mexico and Japan — as soon as they can, their clubs reliant on the transfer fees to remain viable concerns. The difference is that, where famous faces would once return to their homeland to see out their careers, few now see it as a responsible option.

“The likes of [Javier] Saviola, [Javier] Zanetti and [Hernan] Crespo could all have come back, but decided not to,” Murzi says. Pochettino, for his part, did not return, either. “It is not just football, it is the whole situation in the country,” he says. “It is very sad. But people are afraid. You do not know how your children will adapt. You have to think about your wellbeing, and your family.”

Football, in Argentina, is no longer worth it. Not for those who can afford to stay away; not even for those who play simply for the love of it. “The violence casts a shadow,” Murzi says. It stretches even to Aimogasta, far from the bright lights, where they mourn Nieto, murdered for playing a game.

 

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Calcioscommesse

Un centinaio di indagati vicini al rinvio a giudizio

di GABRIELE MORONI (QUOTIDIANO SPORTIVO 13-01-2015)

Si avvicina, dopo quattro anni, l'epilogo di una infinita maratona non solo giudiziaria ma anche di costume. Sono 170 i nomi iscritti nel registro degli indagati nell'inchiesta sul calcioscommesse della procura di Cremona. A breve il procuratore Roberto di Martino depositerà il 415 bis con l'avviso di conclusione indagini per un centinaio degli indagati per associazione per delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva: un atto che anticipa la richiesta di rinvio a giudizio. Per le altre posizioni si va invece verso l'archiviazione. Ci sono singoli casi di partite sospette di combine che hanno superato il termine di sei anni e che quindi risultano prescritte.

L'indagine, aperta nel gennaio 2011, ha coinvolto calciatori in attività, ex giocatori, scommettitori e personaggi in qualche modo legati al mondo del pallone. La «cupola» della organizzazione, da cui partivano i finanziamenti, aveva la base a Singapore e il suo capo in Tan Seet Eng, detto Dan.

Nello scorso autunno l'inchiesta si era arricchita a sorpresa di un nuovo filone. Nell'incidente probatorio disposto dal gip Guido Salvini, i periti incaricati di analizzare i supporti informatici (computer, smartphone, tablet) sequestrati a un centinaio di indagati avevano trascritto conversazioni e scambi di messaggi nei quali si parlava anche di manipolazioni di incontri di tennis e di somme di denaro necessarie per corrompere tennisti sia italiani sia stranieri.

IMHO la gazzarra sul calcioscommesse produrrà finalmente i suoi frutti proprio a ridosso del 22 c.m., nella speranza che la notizia da coprire sia quella favorevole a Big Luciano.

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Ultras pronti a uccidere

un arsenale per il derby

In un’auto vicino l’Olimpico sequestrate molotov e altre armi. Preso il proprietario

La Digos: criminali. Le misure del Casms: «Pronti a chiudere le curve di Roma e Lazio»

AD INSOSPETTIRE GLI AGENTI È STATO IL VIAVAI DI GIOVANI INTORNO ALLA VETTURA PRIMA DELLA FINE DELLA PARTITA

UNO DEGLI ORDIGNI ERA CONFEZIONATO CON 50 GRAMMI DI POLVERE DA SPARO E POI RIEMPITO DI GROSSI CHIODI

di MARCO DE RISI (IL MESSAGGERO 13-01-2015)

Criminali infiltrati nelle tifoserie. Disposti a tutto, al peggio. Il derby della scorsa domenica avrebbe potuto rappresentare il salto di qualità nel già sanguinoso repertorio della violenza calcistica. Per fortuna il piano è fallito. Gli agenti della Digos hanno sequestrato bombe molotov, decine di bastoni, e ordigni costruiti inmodotale che «avrebbero potuto uccidere» se fossero esplosi a pochi metri da un passante. Esplosivi confezionati con la polvere da sparo e assemblati con decine di chiodi: vere e proprie bombe che, questa volta, i poliziotti, grazie all’attività di prevenzione, sono riusciti a sequestrare prima degli scontri del dopo partita. Come accade spesso dopo il derby, anche domenica si sono registrati scontri contro le forze dell’ordine, sassaiole, esplosione di ”bomboni” a piazzale Ponte Milvio, trasformato in un campo di battaglia. Carabinieri e polizia hanno eseguito arresti e perquisizioni.

GLI SCONTRI

Se il violento corpo a corpo non è stato ancora più cruento è stato grazie al ritrovamento, durante la partita, di un vero e proprio arsenale nascosto nel bagagliaio di una Fiat 600 parcheggiata vicino ai bar che si affacciano sull’Olimpico, all’angolo con ponte Duca D’Aosta. Gli agenti della Digos, monitorando le tifoserie, si sono resi conto che l’auto veniva sorvegliata da alcune persone. Ecco, quindi, che si sono insospettiti e, mentre si stava giocando la partita, sono intervenuti anche con l’aiuto degli artificieri. Nell’utilitaria erano stati nascosti decine di bastoni, bombe molotov e altri micidiali ordigni. Le ”molotov” erano state confezionante con cura. Si tratta di bottiglie riempite per metà di liquido infiammabile e munite di una miccia. Molto facile immaginare, purtroppo, cosa sarebbe accaduto se fossero state innescate e tirate contro i “nemici” di diversa fede calcistica. Poi, il ritrovamento di un ordigno confezionato con oltre 50 grammi di polvere esplosiva e con una sessantina di chiodi. «Ci troviamo davanti a dei criminali - ha sottolineato il capo della Digos Mario Parente - E’ assolutamente improprio chiamare questi banditi tifosi o ultrà. Queste persone vogliono la guerriglia più cruenta e spesso sedicenti laziali e romanisti si incontrano per colpire le forze dell’ordine. E’ vero, gli ordigni sequestrati avrebbero potuto uccidere».

LE ALLEANZE

Dopo gli ultimi fatti dell’Olimpico, il Casms (Comitato analisi sicurezza manifestazioni sportive» ha proposto al Prefetto di vietare l’ingresso allo stadio a chi non è in possesso della tessera del tifoso. I legami tra criminalità e gruppi ultras di opposte fazioni per colpire le forze dell’ordine sono già stati accertati da vecchie e recenti indagini. Un conferma, dunque, del livello di pericolosità raggiunto. Altri arresti sono stati effettuati nella giornata del derby: due persone trovate in possesso di ordigni proibiti. Si tratta di Donato C., 32 anni, militante nell’area antagonista di sinistra e di Iacopo P. che invece farebbe parte di ambienti della destra eversiva. Ma l’accusa più pesante riguarda Andrea Franceschelli, 23 anni, residente a Spinaceto, il proprietario della Fiat 600 che custodiva le bombe. Il giovane è finito a Regina Coeli con l’accusa di detenzione di materiale da guerra. Il ventitreenne è fuggito dallo stadio ma è stato rintracciato in serata vicino alla sua abitazione e per lui sono scattate le manette. Il Dispositivo di sicurezza predisposto dal questore Nicolò D’Angelo ha funzionato.

 

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E poi c'è lui

 

L’arroganza stile Juve che fa sbagliare gli arbitri
di FRANCESCO DE LUCA (IL MATTINO 13-01-2015)

Poco più di dieci anni fa a Napoli esplose Calciopoli, che avrebbe toccato il punto più alto nel 2006, prima dei Mondiali, con l’attacco frontale dei magistrati Filippo Beatrice e Giuseppe Narducci alla Juventus e ai suoi dirigenti e la denuncia di una “Cupola” che governava la Federazione e soprattutto il settore arbitrale. Antonio Giraudo e Luciano Moggi, quei dirigenti, sono usciti dalla scena calcistica, ma la Juve continua ad essere ritenuta - a ragione - la società più potente.

Prima della gestione di Moggi, c’era già la sudditanza psicologica da parte degli arbitri e continua ad esservi, se è vero che né Tagliavento né i suoi collaboratori Damato e Di Liberatore, arbitro addizionale e guardalinee ben posizionati nella circostanza, si sono accorti del fuorigioco di Caceres in occasione del raddoppio della Juve a Napoli, di quella rete che sull’1-1 ha tagliato le gambe agli azzurri.

Le parole di De Laurentiis su Twitter sono state durissime, con accuse di malafede e/o incapacità indirizzate ai sei arbitri di Napoli-Juve. Probabilmente il presidente del Napoli s’è reso conto di come funziona in questo disastrato mondo: se alzi la voce, in qualche modo sei ascoltato e accontentato, non a caso proprio dal fronte Juve sette giorni fa è stato collegato il dubbio gol assegnato alla Roma a precedenti lamentele dell’allenatore Garcia. O forse non vuole rimanere ad osservare e a subire, anche perché sta per cominciare il girone di ritorno e si decidono i giochi. Il Napoli non è stato esaltante contro la Juve. Ha commesso errori in attacco e in difesa, ma avrebbe avuto diritto ad essere tutelato dall’arbitro perché l’episodio non è stato soltanto uno - il gol di Caceres in fuorigioco - ma ci sono stati anche quelli che hanno riguardato Buffon: il retropassaggio non sanzionato nel primo tempo e il contatto con Koulibaly. Per dirla alla Benitez, spagnolo dotato di humor inglese, «ci può stare quando giochi con la Juve».

E invece no, non ci può stare perché l’arbitro ha quattro collaboratori che devono sostenerlo. Tagliavento ha commesso tanti, troppi, errori nella sua carriera: scatenò l’ira di Mourinho (gesto delle manette) e annullò un gol regolare del rossonero Muntari nel match scudetto con la Juve; faceva parte del team arbitrale che a Pechino affondò il Napoli nella sfida per la Supercoppa 2012 contro i bianconeri. Pur di dare ragione all’arbitro in occasione del gol concesso a Caceres, nel salotto televisivo di Sky Sport hanno ipotizzato la presenza di un azzurro alle spalle dell’uruguaiano e di Chiellini. Certo, gli errori fanno parte del gioco: li commettono de Guzman e Higuain sotto porta, li commette l’arbitro. Ma è inconcepibile la tolleranza che molti arbitri - e tra essi c’è sicuramente Tagliavento - hanno nei confronti dei giocatori della Juve. Che protestano con veemenza, strattonano il direttore di gara, lo invitano ad ammonire gli avversari dopo un fallo di routine e lo sollecitano a concedere punizioni in loro favore. E questo accade spesso, non soltanto nelle partite contro il Napoli. Perché Tagliavento non ha ammonito o espulso Vidal che lo strattonava mentre ammoniva Tevez? Se il metro è questo, sbagliano gli azzurri a rispettare l’arbitro e a non fare gli isterici. Non fu un isolato episodio quello dell’autunno 2012, quando i giocatori bianconeri, perfino le riserve, circondarono il guardalinee Maggiani a Catania finché non fece annullare il gol del siciliano Bergessio: è un atteggiamento tipico della Juve, unica società ad aver trascinato in tribunale la Federcalcio per risarcimento danni post-Calciopoli (cifra ipotizzata 443,7 milioni di euro). Ciò fa capire bene quale pressione sia in grado di esercitare il club bianconero e perché Bonucci, un nazionale, uscendo dagli spogliatoi del San Paolo, con arroganza abbia risposto così alla domanda di un cronista sulle differenze tra Juventus e Napoli: «Noi siamo in Champions e voi in Europa League». Quando si dice lo stile Juve.

 

mavafammocc'a chitemuort

Modificato da Ghost Dog

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E poi c'è lui

 

 

mavafammocc'a chitemuort

 

Questo mischia tutto.

 

Fa un minestrone.

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De Laurentiis: 'Nicchi smentito dalla tv, che errori con la Juve. Voglio la moviola'

 

13 gennaio alle 20:00 (CALCIOMERCATO.COM)
Con un comunicato pubblicato sul sito del club, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis ha replicato così all'attacco di ieri del presidente dell'Associazione Arbitri Marcello Nicchi, che aveva bollato come "istigatrici di violenza" le parole all'indirizzo dell'arbitro Tagliavento al termine della gara con la Juventus:

"Contesto totalmente le accuse di Nicchi nei miei confronti. Anche se non mi sorprende che il capo degli arbitri abbia voluto difendere chi aveva commesso gravi errori. Questa volta le sue dichiarazioni sono in totale contrasto con quanto acclarato ampiamente dalle immagini televisive.I miei tweet sono semplici, essenziali e assolutamente non offensivi, poiché fotografano la realtà dei fatti ampiamente poi condivisa e ribadita da gran parte dei media.

Da Pechino non ho più giudicato alcun episodio arbitrale, così come non hanno espresso giudizi nè tecnico e né squadra. Questa volta però, in una partita così delicata, la macroscopicità degli errori è stata tale che ho ritenuto evidenziarli.Venendo dal cinema sono stato educato per la democraticità e la libertà d’espressione. La critica è sempre costruttiva per migliorare le prestazioni di tutti noi protagonisti inclusi gli arbitri che devono assolutamente, per professione e cultura, essere rigorosissimi nell’imparzialità. Il pensiero personale che ho inteso esprimere ha l’unico significato di evidenziare l’inadeguatezza dell’attuale sistema e la necessità di una urgente revisione dello stesso, come l’introduzione della moviola in campo che da più anni ho sollecitato. Moviola che per altro viene già utilizzata in molti sport professionistici".

Dopo l'1-3 per mano della Juventus, De Laurentiis aveva attaccato l'operato di Tagliavento e dei suoi collaboratori per il fuorigioco non ravvisato in occasione del gol di Caceres, parlando di "incompetenza o malafede". Ecco i tweet incriminati del numero 1 azzurro:

 

Ci siamo stancati! La Juve è una squadra forte, se è anche aiutata dagli arbitri diventa imbattibile (continua)

E' inammissibile che con 6 arbitri non si vedano 2 giocatori in fuorigioco. O è malafede o è incompetenza (continua)

 

 

 

Questi 6 arbitri devono restare fermi a lungo #ADL

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LA VERSIONE DELL'ULTRÀ

HO SPARATO SOLO PER SALVARMI

L’anno scorso a Roma ha ucciso il tifoso napoletano Ciro Esposito.

Per la prima volta Daniele De Santis racconta la sua verità.

di GIOVANNA GUECI (PANORAMA 21-05-2015)

Il 3 maggio 2014 allo stadio Olimpico di Roma è in programma la finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli. Mentre i tifosi affluiscono verso lo stadio, su viale di Tor di Quinto si verificano violenti scontri durante i quali Daniele De Santis, 48 anni, ex ultrà romanista, ferisce il tifoso napoletano Ciro Esposito, 30 anni, che muore 50 giorni dopo, il 25 giugno. Per la prima volta De Santis accetta di parlare e, in questa intervista esclusiva a Panorama, racconta la sua versione dei fatti (che si basa sulla legittima difesa) riguardo alla morte del giovane napoletano. Nei mesi scorsi ha rilasciato una dichiarazione spontanea ai pubblici ministeri, ammettendo di aver esploso il colpo che ha portato alla morte di Esposito. «Nelle intenzioni di De Santis» spiega il suo avvocato, Tommaso Politi, «la notizia doveva rimanere riservata. Invece è filtrata, come al solito in maniera distorta. È vero, la dichiarazione non spiega come quella pistola sia finita in mano sua. Su questo l’unico a poter dire qualcosa è lui stesso. Di certo il processo mediatico non ha aiutato: il pregiudizio è tale che molti faticano a credere alla stessa perizia del Ris, che è assolutamente favorevole alla difesa». La chiusura delle indagini è attesa tra gennaio e febbraio, il processo dovrebbe cominciare entro tre mesi.

Daniele De Santis, come ha vissuto i mesi trascorsi dalla morte di Ciro Esposito? Che cosa ricorda di quel giorno?

Penso sempre a quel maledetto giorno. Sono passati otto lunghi mesi durante i quali, immobile in un letto, non ho fatto altro che pensare. Questa è e rimane una tragedia per tutti. Per la famiglia di Ciro e anche per la mia famiglia. A volte mi domando: se per salvarmi la vita, oltre alle sofferenze fisiche, devo veder soffrire tanto, non era meglio che mi avessero ammazzato?

Si può dire qualcosa a chi è rimasto colpito da quell’episodio? La famiglia di Ciro, innanzitutto, ma anche le persone che seguono il calcio con passione?

Non mi sono mai rivolto alla famiglia di Ciro non perché non abbia provato sofferenza, l’ho provata eccome! E ho provato a immaginare se, anziché a quei genitori, fosse toccato ai miei: proprio per questo qualsiasi parola avrebbe provocato solo rabbia perché, per quanto potessi esprimere rammarico, avrei dovuto comunque chiedere scusa per essermi salvato la vita. Cosa gli avrei detto? Riguardo all’opinione pubblica, purtroppo conosco bene il modo vergognoso in cui verrebbe strumentalizzata ogni mia frase, vista come qualcosa di utile solo alla mia difesa. Troppe logiche evidenze sono state ignorate palesemente, quindi volutamente. Per cui, a me interessa solo che siano i giudici a valutarle. Del circo mediatico a me non è mai fregato niente, a gente che guadagna speculando sulle disgrazie non do altra legna da ardere. Non sarò un chierichetto, ma ritengo che la sofferenza non sia merce da vendere in tv.

Lei non era lì per caso quel giorno. Perché aveva scelto di vivere in quel posto «occupato»?

Vivo lì perché, oltre alle spese per la sopravvivenza, devo accudire i miei cinque cani e con lo stipendio delle Poste, di cui sono dipendente, non ce l’ho più fatta a pagare il mutuo di casa. In cambio, mi occupavo della manutenzione degli spazi e di fare da guardiano.

Lei era a casa sua, dunque. Poi che cosa è successo?

Stava succedendo il finimondo. Sono uscito a vedere, anche perché sui campi occupati stavano giocando a calcio alcuni ragazzini. Si vedevano i fumogeni e si sentivano esplodere i «bomboni». Da casa mia al viale di Tor di Quinto ci sono 150 metri, lungo i quali si passa davanti a un gabbiotto dei Carabinieri. La cosa che ricordo di aver fatto, l’unica che non avrei dovuto fare, è stata raccogliere un fumogeno e rilanciarlo verso un pullman parcheggiato sul controviale che chiudeva completamente l’accesso. C’era già casino, ma non si vedeva bene, un po’ per il pullman, un po’ per i fumogeni. Improvvisamente, sono spuntate almeno 30 persone. Se fosse andata come sostiene chi mi accusa, avrei dovuto sparare al primo che mi capitava, no?

Invece?

Sono stato aggredito, ho cominciato a fuggire e ho preso bastonate e le prime coltellate. Ho provato anche a chiudere il cancello che divide i campi dal viale, dove si trovava la mia abitazione, provando a bloccarlo con le braccia e con una gamba che è rimasta sotto e che, per questo, si è quasi staccata completamente dal corpo, come dicono i referti, rimanendo attaccata solo con qualche brandello di muscoli e pelle. Ho arrancato ancora per qualche metro, poi li ho avuti ancora addosso. Ero convinto di vivere gli ultimi momenti della mia vita.

E subito dopo, lo sparo.

Sì. E se non avessi premuto quel grilletto, sarei morto. Credo che in quel momento nessuno al mondo avrebbe potuto fare altrimenti. Parlare ora, a freddo, non è semplice. E non per strategia. Ho pensato e ripensato a quegli attimi, anche se ricordare tutto in maniera fotografica non è semplice. Ciò che ricordo di più è il dolore violento, un dolore assurdo, e poi il frastuono e l’orda di gente su di me. Comunque l’ho detto ai magistrati, non ho mirato, non volevo uccidere nessuno.

Un passo indietro. In che modo ha iniziato a far parte del mondo degli ultrà?

Se avesse due giorni di tempo glielo racconterei. È un mondo che ho frequentato per oltre trent’anni. Sono abbonato dal 1978 con la Roma, da quando avevo 13 anni. Mi affascinava il fatto che il calcio fosse uno sport così diverso da quello che praticavo io, il karate. Allo stadio conosco tutti e tutti mi conoscono, ma non sono mai stato un leader né ho mai capeggiato un gruppo. Non c’ho mai nemmeno provato. Tra le tante sorprese, dai giornali ho saputo che avrei un soprannome, Gastone. Nessuno mi ha mai chiamato così. Mi chiamano Danielino dai tempi in cui pesavo 50 chili di meno.

Quello degli ultrà è un ambiente libero oppure è condizionato da fattori esterni?

In curva c’è di tutto. E poi negli anni ho visto tendenze politiche diverse, a seconda delle mode. Le mie simpatie politiche le ho sempre tenute al di fuori del mio grande amore per la Roma e chi mi conosce può confermarlo.

È però di pochi giorni fa il riferimento a suoi collegamenti con l’inchiesta Mafia Capitale in base a intercettazioni telefoniche.

Ci mancava solo la mafia. Se non stessi vivendo una tragedia mi verrebbe da ridere. Perché finora ho sentito di tutto: che ero il braccio destro di Gianni Alemanno, che non ho neanche mai visto; che farei parte dei servizi segreti deviati e adesso la mafia. Cose che mi provocano più dolore delle ferite fisiche. Forse chi dice queste cose ci crede o comunque, a forza di dirle, qualcuno ci crederà. Risponderle mi sembra quasi assurdo: lo faccio comunque per chiarezza, specificando che delle persone coinvolte in Mafia Capitale non ne conosco nemmeno una e di quei fatti non so proprio nulla. Ma avete visto dove vivevo? Torniamo alla realtà, per cortesia: vivevo in una specie di casa occupata, facevo il guardiano a dei campi di calcio, conoscevo tutti i ragazzi e i genitori dei ragazzi che andavano a giocarci. Le somme tiratele voi.

È d’accordo sul fatto che le violenze commesse dagli ultrà siano il male principale del calcio italiano?

Di certo non faccio il santo, per cui non negherò che mi sia capitato di fare a pugni allo stadio. Ma la violenza non è prerogativa solo dello stadio. Gli episodi più gravi successi in passato, l’accoltellamento di un tifoso o altri incidenti mortali, sono sembrate sempre cose assurde anche a me. Chi mi conosce bene sa che io, se proprio devo, affronto lealmente le persone e che in vita mia non ho mai usato un’arma, nemmeno un taglierino. Figuriamoci un’arma da fuoco. Diversamente, non avrei aspettato di arrivare a 48 anni per usarla.

Colpisce che lei abbia avuto un passato importante da sportivo. Che esperienza è stata?

Quasi mi dispiace di smontare il mostro a cui la gente si è abituata. Il mio percorso sportivo forse stupirà chi di me conosce soltanto ciò che è stato conveniente dipingere. Sono stato campione italiano di karate, ho anche avuto il diploma al merito sportivo in questa disciplina che ti forma non solo sportivamente, ma anche umanamente, un percorso iniziato da bambino e che ho seguitato a insegnare ai bambini. Uno sport di autodifesa e non di attacco. Sono figlio di un maestro di karate, che mi ha trasferito i valori di questa disciplina come la lealtà, l’autocontrollo, il rispetto dell’avversario, considerando l’uso delle armi uno sminuimento della dignità. Tutto questo è ciò che ho cercato di portare con me non solo nelle gare, ma anche nella vita.

Quali sono le sue attuali condizioni?

Sono cosciente di non poter tornare più a camminare normalmente, anche se non ho mai smesso di lottare per cercare di evitare almeno l’amputazione della gamba. In seguito agli scontri di quel giorno, ho un’osteomielite cronicizzata per la quale, secondo i medici del carcere di Regina Coeli prima e di Belcolle di Viterbo ora, devo essere rioperato. In Italia esistono solo tre centri specializzati in grado di potermi accogliere: a Savona, al Rizzoli di Bologna e a Cortina. Cortina si era resa disponibile anche con il posto letto. Invece, nonostante il Gip mi abbia autorizzato per qualunque ospedale sia in grado di accogliermi, per motivi burocratici il trasferimento dal carcere non è ancora possibile: assurdo, mentre si gioca con la burocrazia lo si sta facendo anche con la mia vita. La mia situazione non è trattata come altre analoghe: il mio fisico è ormai a pezzi a causa dei farmaci assunti senza sosta da quasi nove mesi.

Ha qualche paura?

Certo. La mia prima preoccupazione è stata che alcune mie dichiarazioni avrebbero messo in pericolo l’incolumità soprattutto della mia famiglia anche perché la stampa, molto coscienziosamente, ha pensato bene di rendere pubblici i loro nomi, cognomi e indirizzi. E ancora vi chiedete perché non voglio parlare? Mi hanno messo un’intera città contro, compresi i suoi ambienti più pericolosi. Quindi, prima di mettere a rischio i miei cari con dichiarazioni che verrebbero solo strumentalizzate, ho preferito rimanere in silenzio, almeno fino al processo. Penso che se fossi morto anch’io, oggi probabilmente l’avversario non sarebbe il pregiudizio, ma soltanto chi ha tentato di uccidermi. A volte, quando vengo ferito dalle parole di chi parla senza sapere la verità, vorrei anche solo per un secondo che si fossero trovati nella mia situazione.

Lei parla di pregiudizio.

Sì, il pregiudizio che non ti affronta mai ad armi pari. Specie quando hai la sfortuna di incarnare mediaticamente il perfetto stereotipo di mostro da sbattere in prima pagina. Lì combatti contro la soluzione più comoda per tutti. Non devi stupirti che non ci sia più nessuna logica, che di colpo scompaia anche la più ovvia delle evidenze, come le coltellate che ho preso, fino a quando almeno questa verità non è emersa dalle perizie. Si è dato spazio a qualsiasi ipotesi, anche la più assurda, pur di mantenere il punto. Partendo dal folle gesto di un pazzo scatenato arrivando con disinvoltura all’esatto opposto: l’agguato studiato e premeditato per motivi misteriosi, passando per i servizi segreti e arrivando addirittura a Mafia Capitale. Quando il tuo nemico è il pregiudizio, tutto può accadere e la verità diventa un pessimo affare.

Le indagini, però, hanno messo in evidenza anche elementi diversi da questo.

Per fortuna c’è ancora chi non ha voglia di soluzioni di comodo. Ci sono organi investigativi come il Racis che si fermano solo davanti alla verità (secondo i carabinieri del Racis, De Santis avrebbe fatto fuoco su tre tifosi del Napoli mentre veniva aggredito e ferito, ndr) ed è solo grazie a loro che tutti sono ora obbligati a farsi domande logiche, a cercare formule diverse, meno frettolose, dal definirmi un mostro. Per ora la verità, oltre a chi c’era, la sa solo Dio. Le mie parole servono a poco. Spero davvero che chi avrà l’autorità di giudicarmi non sarà condizionato e che, nel frattempo, gli ulteriori accertamenti della procura chiariscano definitivamente quei momenti.

 

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Modificato da Ghost Dog

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40693 messaggi

 

Quindi se De Santis ha sparato verso una trentina di persone che lo inseguivano, il "povero" Ciro come immaginavo io faceva parte del gruppetto che lo stava picchiando e non era li' per difendere donne e bambini che di solito non accoltellano o prendono a bastonate altre persone

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21395 messaggi

IMHO la gazzarra sul calcioscommesse produrrà finalmente i suoi frutti proprio a ridosso del 22 c.m., nella speranza che la notizia da coprire sia quella favorevole a Big Luciano.

 

:|sefz

E poi c'è lui

 

 

mavafammocc'a chitemuort

 

uno un più

Quindi se De Santis ha sparato verso una trentina di persone che lo inseguivano, il "povero" Ciro come immaginavo io faceva parte del gruppetto che lo stava picchiando e non era li' per difendere donne e bambini che di solito non accoltellano o prendono a bastonate altre persone

avevi dubbi?

per ciro propongo di intitolargli una..........................via

no troppo poco

una ............... piazza

no

una città

si

ciropoli

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