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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Moggi & C, colpo di spugna

L’ULTIMO ATTO DI CALCIOPOLI FISSATO IN CASSAZIONE IL 22

GENNAIO. QUASI CERTO L’ANNULLAMENTO DELLE CONDANNE

LA SALVEZZA Il reato cade dopo 8 anni e 9 mesi, sempre che il Pg non

riesca a dimostrare l’associazione a delinquere sia proseguita oltre il 2005

di VINCENZO IURILLO (IL FATTO QUOTIDIANO 29-11-2014)

Non c’è fretta al Palazzaccio per Big Luciano e la Cupola di Calciopoli. Pazienza se la prescrizione galoppa più veloce di un cavallo imbizzarrito e sta per cancellare tutto. O quasi. Nella vana attesa che le parole del governo Renzi si tramutino nei fatti di una seria riforma della prescrizione e dei tempi della giustizia, quella che segue potrebbe essere la storia dell’ennesimo processo eccellente a finire nel buco nero della “intervenuta prescrizione del reato”.

La Corte di Cassazione ha ricevuto il 20 settembre il fascicolo e i ricorsi delle difese degli imputati, tra i quali (accanto all’ex designatore Pairetto e Innocenzo Mazzini) ovviamente spicca quello di Luciano Moggi. In Appello l’ex direttore generale della Juventus si è visto ridurre la condanna a due anni e quattro mesi, tre anni in meno della sentenza del Tribunale presieduto da Teresa Casoria, grazie a una raffica di prescrizioni (tra cui Claudio Lotito e Andrea Della Valle) relative alle frodi sportive, che hanno lasciato in piedi la sola accusa di capo e promotore dell’associazione a delinquere che avrebbe truccato alcuni campionati degli anni 2000. La sentenza della sesta sezione della Corte d’appello di Napoli è stata emessa il 17 dicembre 2013 e le motivazioni sono state depositate a metà marzo 2014. La Cassazione però non ha mostrato particolare urgenza e ha fissato l’udienza al 22 gennaio 2015. Quando, persino nell’ipotesi di conferma delle motivazioni di secondo grado, la Suprema Corte non potrebbe fare altro che dichiarare l’intervenuta estinzione dei reati sopravvissuti. E ci troveremmo di fronte a un quadro paradossale. I capi della Cupola ‘salvi’ grazie alla prescrizione, che cancellerebbe la condanna di Moggi e quelle a due anni di reclusione per l'ex designatore arbitrale Pierluigi Pairetto e per l’ex vicepresidente della Figc Innocenzo Mazzini. Mentre invece alcuni dei gregari, semplici partecipi dell’associazione a delinquere, ovvero gli arbitri Paolo Bettini, Giuseppe Dattilo, Massimo De Santis, siccome hanno rinunciato alla prescrizione, verrebbero condannati in via definitiva (in secondo grado sono stati inflitti dieci mesi con pena sospesa ai primi due, un anno con pena sospesa al terzo).

Il perché è presto detto. Le motivazioni della Corte d’appello presieduta da Silvana Gentile, giudice relatore Cinzia Apicella, indicano la durata dell’associazione a delinquere fino al termine del campionato 2004-2005, e quindi fino a fine maggio 2005. Uno spartiacque che stabilisce ad esempio la prescrizione già scattata in secondo grado per gli imputati semplici partecipi del sodalizio, la cui pena massima (5 anni) è inferiore a quella per i capi e promotori (7 anni). Circostanza che per loro riduce i termini di prescrizione. Questa infatti, quando nel frattempo interviene una sentenza di condanna non definitiva, si determina così: pena massima del reato maggiorata di un quarto. Per farla breve. La prescrizione per il ras Moggi decorrerebbe 8 anni e nove 9 dopo la fine del vincolo associativo.

La conferma di secondo grado la farebbe scattare alla fine di febbraio 2014. Ci sarebbe poco da fare. Il processo per lui sarebbe morto già prima del passaggio delle carte da Napoli a Roma. A meno che la Cassazione non accolga una tesi non priva di un qualche fondamento: l’associazione a delinquere capeggiata da Big Luciano si sarebbe prolungata anche al campionato 2005-2006. C’è un dato certo: i tabulati delle schede telefoniche ‘riservate’ provano che Moggi&C. si sono mantenuti in stretto contatto anche durante quel campionato, anch’esso vinto dalla Juventus. Insomma, il sodalizio si è “sciolto” solo il 12 maggio 2006, con la notifica degli avvisi di garanzia dei pm Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice. In questo caso la prescrizione maturerebbe solo nel febbraio 2015. Il cerino rimarrebbe nelle mani di Moggi, buono per accendersi il sigaro.

LA REPUBBLICA 30-11-2014

Il Fatto di ieri ha scritto che sul processo per Calciopoli s’allunga l’ombra della prescrizione, anzi è quasi sicuro che finirà così. La prescrizione, che gli imputati regolarmente sventolano come fossero assolti, dunque innocenti, è solo l’impossibilità di punire per scadenza dei termini. Basta avere buoni avvocati che sanno tirarla per le lunghe e se vale per l’Eternit perché no per Calciopoli, che di morti non ne ha fatti?

GIANNI MURA

 

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Agents could be the easy targets but

greed and deceit are never one-sided

by TONY EVANS (THE TIMES 01-12-2014)

If football has sold its soul, there is bound to be an agent who took a cut at both ends of the deal. The figures, released last week, confirming that Barclays Premier League clubs spent more than £115 million in fees to players’ representatives are mind-boggling. They illustrate that the game is awash with money. Unfortunately they tell us little else.

The release of such financial details should give an insight into the fiscal workings of the sport. They don’t. Instead of shedding a light on the wheeling and dealing surrounding player payments and transfers, they actually make it more opaque.

Most deals are structured over a period of years. Some of the payments included in the £115 million will have been carried over across a player’s contract. It would be much more instructive to see how much clubs are paying individual agents and their companies and whether the middleman was remunerated by both the buyers and sellers.

The role of an agent has widened. The days when a representative negotiated his clients’ wages are long gone. Those at the top of the business frequently become involved in introducing players to clubs. Some have even developed into de facto directors of football, determining transfer policy with one eye on the potential profit.

Buying and selling players can set up myriad conflicts of interest. For the annual figures to mean anything, much more detail is necessary.

Transfers can be problematic. Clubs sometimes offer the players’ representative a bigger cut of the deal if they can work up a bidding war to ramp up the price. Most owners and chairmen would regard this as good business if it works. Whether it is in the best interests of the player is a difficult question to answer.

The massive uplift in the television deal that kicked in at the beginning of last season is in part responsible for the almost £19 million jump in payments from the previous year. This is despite both the January and summer transfer windows seeing a net spend way below their counterparts in the previous 12 months. Expect agent payments to be even higher next year.

With even modestly sized Premier League clubs having the power to outspend all but a handful of continental powers, fees have leapt up this summer. Modest players come with agency fees in the £1 million range. Bigger names require payments of as much as £4 million to facilitate moves — that is over and above transfer fees and wages.

Almost every owner or chief executive will complain about agents and their role, but it is glib to place the blame for the game’s problems at their door. It seems strange that many clubs will pay the agent’s fee for their players. It is a fairly standard practice. A few chief executives refuse, insisting that if a player needs to dip into his own pocket then he is more likely to question whether the agent is worth the outlay. Most of the time, the payments are part of the overall package of the player’s contract.

Clubs use them to their advantage and moan when they are on the wrong end of the deal. They have a symbiotic relationship that makes it hard to talk in terms of good guys and bad guys. Both sides are often profoundly cynical. Transfers work more smoothly with the right people greasing the deal and those who make a stand against agents frequently end up losing out.

In an ideal world, we would see where this £115 million went: who took the biggest slice, how much of it disappeared offshore and who paid what to whom. The FA and Premier League have the details of the transactions from player contracts. They could tell us who gets paid large amounts despite seemingly having little involvement.

Transparency is in no one’s interests, though. Creating the illusion of openness by releasing these figures once a year is about as far as anyone would want to go. In the end, all parties are glad of the murkiness.

Agents are an easy target and it suits the game’s ruling bodies and clubs to have them as a lightning rod for criticism. Greed and deceit is never one-sided. After all, agents only help with the buying and selling: they didn’t make the decision to take the soul to market.

 

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GAME WITHOUT FRONTIERS

Willing to play anywhere,

even if it is in a war zone

I knew that as a foreigner, a footballer, a westerner, I was a target

by RORY SMITH (THE TIMES 01-12-2014)

Victor Ormazábal never got to have his moment. It would have been the moment to crown the biggest game of the 29-year-old’s peripatetic career, which had taken him far from home and to the very fringes of a war. More than that, though, it would have been the moment to prove football’s palliative power, its romantic soul; a moment to complete one of the most remarkable victories in recent times. At the last, the chance was gone.

This year’s AFC (Asian Football Confederation) Cup final between Al-Qadsia, of Kuwait, and Erbil, from Iraq, held in the sweltering heat of Dubai, had finished goalless. It is not quite the Asian equivalent of the Europa League — it is reserved exclusively for teams from the continent’s “developing” football nations — but it possesses a similar significance. More than 5,000 had made the journey to the United Arab Emirates for the occasion.

When extra time drew to a close and the two sides were still locked in a stalemate, Ormazábal, an Argentinian who has spent much of the past decade toiling in the lower leagues of his homeland and in Spain, was chosen to take Erbil’s fifth crucial penalty. He had joined the team only four months previously, but such was the esteem in which he was held.

That served as testament not just to the ability that caught Erbil’s eye in the first place, but to the circumstances in which Ormazábal found himself. The prospect of a move to the capital of Kurdish Iraq was first put to the midfielder this summer. His immediate reaction, of course, was uncertain. “I had to talk it through with my family,” he says. “But I decided it was a good opportunity. The Asian market is an important one. Not just for South American players — because of the economic situation in Spain, say, there are a lot of Spanish players who now look there [instead of staying in the lower divisions in Europe]. I saw it as a chance to prove myself in another continent.”

His concerns about moving to such an unstable country were allayed by the club, insisting that Erbil was a modern, forward-looking city, an oasis of calm in the chaos. When he landed, that was the city he saw. “It was very peaceful, those first few days, a city where there is a lot of construction, a place they are still in the process of building,” he says. He did not speak Kurdish or Arabic, and has just a few words of English, but footballers are used to such obstacles. “Everyone is very friendly,” he says. “It was hard being so far away and not knowing the language, but they made me feel very welcome.”

Within a week, though, that tranquillity had been shattered. The reports started coming through that the black flags of Islamic State (Isis), having swept through Syria and Iraq, were approaching Kurdish territory. Terrified refugees appeared in the city, bringing with them stories of the insurgents’ unspeakable brutality, tales of murder and enslavement and rape. Erbil, suddenly, became a city haunted by the spectre of jihad.

“You started to see refugees coming into the city, people on the streets,” Ormazábal says. “There were military checkpoints on the road, stopping cars and checking for bombs. You saw the Peshmerga, the Kurdish defence forces, everywhere. We heard that IS were just a few kilometres away.

“Nobody really wanted to tell the players what was happening. Not being able to speak the language, they wanted to protect you from what was going on, to make you believe it was OK. It was only my team-mates who would tell me the latest, and every day I watched the news to see where they were. We knew that people had started talking about an invasion.”

Ormazábal had joined a club already in possession of two Spanish players — Borja Rubiato and Jorge Gotor — but, despite his fears, he decided to stay. “I knew I was in a vulnerable position,” he says. “As a foreigner, a footballer, a westerner, I knew that if there was an invasion, I was a target. My family, back home, were really worried. They saw all the reports of what was happening with Islamic State, they knew they were near to where I was. They did not know what was going to happen, and they were frightened of what might.” He was not the only player in that position. There are others like him whose desire to fulfil their dreams, to earn a living from the game, overpowers their instinct for self-preservation.

Zakho, a Kurdish club based in Dohuk, the city which has been flooded by ethnic minorities fleeing the bloody tyranny of Isis, have a clutch of Brazilians, including the Iraqi league’s leading scorer, Bruno Gaucho.

Perhaps even more remarkable is the story of the cadre of El Salvadorians who arrived in Kurdistan long after the true extent of Isis’s gruesome interpretation of Islam had become clear. Unlike the Brazilians, unlike Ormazábal, they are in Dohuk because, if they wish to play football, they have precious little choice.

Last year, 14 players in the Central American nation were banned for life by the country’s football federation after being found guilty of fixing two of their national team’s games, defeats by Mexico and Paraguay. The sanction means they are forbidden to play in any Fifa-affiliated competition.

The fractured nature of football in Iraq, though, provided them with an opportunity. Kurdistan’s football association is not recognised by Fifa, because it is not a nation state. While the likes of Erbil and Zakho compete in Iraqi competitions, there is a regional league, too, one outside the auspices of the game’s global governing body.

In September, three of the censured El Salvadorians arrived in Dohuk. Christian Castillo and José Mardoqueo Henríquez signed for Zeravani, who compete exclusively in the Kurdish competition. Ramón Sánchez joined the cadre of Brazilians at Zakho; reportedly after being given dispensation to play by a court in El Salvador because the Iraqi League is not fully professional.

All three deny they were “fleeing” their country to escape justice. “I only travelled because Zeravani had already sent me the ticket,” says Henriquez. “It is hard being away from my family, in a country where you do not speak the language.” Judged outlaws by the mainstream game, joining a pirate league was their only option.

They remain; Ormazábal does not. His contract only ran until January, but he negotiated an early release because of the instability in the country, coupled with the fact that there were scarcely any league fixtures in November. His last game for the club was in October, in Dubai; his last act was the moment that never came.

That Erbil made the AFC Cup final was impressive enough. The war in Iraq meant they had to play all of the home legs of their knockout ties abroad, in Qatar and Lebanon. The fate of their homes uncertain, the competition had taken them as far as Vietnam and Hong Kong. “It is hard to think about football in those circumstances,” Ormazábal says. “But it is very popular in Erbil. It is important to keep playing.”

They came within a whisker of not just playing but winning. “I was due to take the fifth penalty,” the Argentinian says, from his home in Buenos Aires. He did not get the chance. Two of his team-mates missed and Danijel Subotic, the Switzerland striker, scored the winner for the Kuwaitis. Ormazábal’s moment never came.

Still, though, he is glad of the experience, glad of what those mornings when he woke to check the news, to make sure the black flags had not come over the horizon, have taught him. “It affected me a lot,” he says. “The country is suffering a lot. The people are suffering. It makes you grateful for what you have. I do not know if I would go back, not until it is more stable, and that may take decades. But I am glad I went, glad I saw what I saw.”

 

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When it comes to making money,

Real have no cross to bare

by GABRIELE MARCOTTI (THE TIMES 01-12-2014)

Last week, Real Madrid released images related to a new commercial tie-up with the National Bank of Abu Dhabi, the biggest financial institution in the United Arab Emirates. As part of the deal, National Bank customers can apply for a Real Madrid-themed credit card that, presumably, will offer the standard loyalty card-type benefits.

Eagle-eyed observers noted that the Real Madrid logo on the newly designed card is different from the one with which we’re familiar. Madrid’s club crest, like those of Espanyol and Real Sociedad, who also have the title of “Real” (Royal) in their full names, features a crown above the logo. It was introduced in the 1920s when the club obtained the equivalent of a “royal warrant” from King Alfonso XIII. The top of the crown, like the top of the Spanish crown, features a cross.

This makes sense, since the Spanish monarchy rules by divine right, like the one in this country. Except, of course, the cross is the ultimate Christian symbol. And evidently Real Madrid’s marketing men may have felt it would make some of their more devout potential customers in a Muslim land like Abu Dhabi uncomfortable. Thus, they simply got rid of it, at least according to Marca, the Spanish newspaper.

Incidentally, it is not the first time that Real have tweaked their club crest for what they imagine to be the benefit of a Gulf audience. Two-and-a-half years ago the club announced a partnership with another Emirate, Ras Al Khaimah, to build a £700 million Real Madrid-themed resort. On that occasion, too, the crest was modified, with the disappearance of the cross. That project was shelved — architectural mock-ups can still be seen on YouTube — but now there is talk of resurrecting it in Abu Dhabi.

Reaction has been somewhat muted. Or, rather, there was outrage from the usual suspects: Fox News referred to Real “caving in” to “Muslim religious intolerance”, while Marca commented that the club “were willing to compromise on aspects of their identity to pursue new fans”.

But far from appeasing devout Muslims in the Gulf, this step actually patronises them. After all, there are Christian churches in Abu Dhabi. If you’re offended by a tiny cross on a piece of plastic in your wallet, surely you would be more offended by practising Christians in your midst? I’m pretty sure most Emiratis who would even consider supporting a football club know that Real Madrid are from Spain and that a majority of Spanish people are Catholics, as is the Spanish royal family, who gave the club its title. They either live with it, divorcing their personal beliefs from their sporting beliefs, or they won’t go near it for that very reason.

Yet the words of Romy Gai, the former commercial director of Juventus, come to mind. “I’m sure the students who founded the club a century ago didn’t realise it, but calling it Juventus was a masterstroke of marketing,” he told me years ago. “The name isn’t rooted in any sort of territorial identity. We have fans who don’t even know we’re from Turin. That makes it easier to sell the brand globally.”

To those who believe that football clubs are, first and foremost, expressions of some kind of local community or identity, his words are blasphemous. Yet they speak to where we are. Local fans who actually attend games are a club’s lifeblood, but less so than they once were, especially at clubs, such as Real Madrid, where they’ve pretty much been tapped out. They aren’t going to attract any more fans to the Bernabéu, they can only make it so big.

And so they chase supporters elsewhere. To a fan in the Gulf or Australia or Nigeria, Real Madrid is the name of a club, not necessarily a team from Madrid. That latter part is unimportant. They live their fanhood via television, the web and social media.

Ishaan Tharoor, writing in The Washington Post, pointed out that a new advert from Qatar Airways, sponsors of Barcelona, exemplifies that universality and rootlessness. It shows a fictional visit to the “land of FC Barcelona” with club stars popping up randomly throughout the ad. The city depicted is aspirational and whimsical, but it is not Barcelona. It’s a mash-up of half a dozen urban settings, some real, some idealised. (The taxis are London cabs, with Gary Lineker at the wheel of one of them.)

It’s a shedding of local identity to acquire some kind of global appeal. Perhaps it’s inevitable. But it’s also somewhat depressing.

 

Once upon a time...

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IL FATTO QUOTIDIANO 01-12-2014

Mondiali Russia 2018, Sunday Times:

‘Quadri di Picasso per corrompere Platini’

 

Quadri dal valore inestimabile, tra cui un Picasso, per convincere il presidente della Uefa e membro esecutivo della Fifa, Michel Platini, a favorire la Russia nella corsa per diventare il Paese ospitante dei Mondiali di calcio 2018. Lo rivela il Sunday Times che cita documenti inediti che sono il risultato delle indagini riguardanti la possibile corruzione durante l’assegnazione della manifestazione per le edizioni 2018 e 2022, svolte dall’House of Commons Culture Media and Sport inglese.

 

Vladimir Putin, secondo quanto scrive la stampa inglese, dopo aver ospitato i Giochi Olimpici invernali di Sochi, voleva assolutamente ottenere anche la più importante competizione calcistica. Per questo si sarebbe mosso per convincere il presidente Fifa, Joseph Blatter, mentre membri del comitato ospitante russo si concentravano su Platini. Secondo i documenti raccolti dalla MI6, l’intelligence britannica, anche Michel D’Hoogle, membro votante belga della Fifa, avrebbe ricevuto da Viacheslav Koloskov, un ex membro del comitato esecutivo russo per l’organizzazione della competizione, un dipinto raffigurante un paesaggio. “Quel quadro è decisamente brutto – ha risposto D’Hoogle a chi lo ha accusato di essersi fatto corrompere – e non ha alcun valore. Inoltre, non ho votato per la Russia“. Dura replica anche dell’ex numero dieci juventino che commenta: “I documenti citati dal Sunday Times riguardo alle mie azioni durante il processo di assegnazione delle competizioni del 2018 e 2022 sono pure invenzioni. La questione, adesso, andrà in mano ai miei legali“.

 

L’Inghilterra era una delle candidate favorite a ospitare la prossima edizione dei Mondiali di calcio. Per questo il parlamento britannico, che ha istituito una commissione ad hoc, aveva deciso di muovere i suoi agenti segreti per spiare i movimenti delle altre concorrenti, tra cui la Russia. Dopo anni di ricerche e controlli, hanno stilato un rapporto che rivela pressioni, tentativi di corruzione e accordi tra dirigenti della Uefa e della Fifa e membri del comitato organizzatore russo e del Qatar (che ospiterà l’edizione 2022 della competizione, ndr). Spunta così la figura dell’attuale presidente russo, Vladimir Putin, tra i burattinai dell’assegnazione del Mondiale. I documenti parlano anche di una sorta di accordo per la fornitura e il commercio di gas tra Russia e Qatar in cambio di un voto di scambio. Una spinta, quella di Putin, che avrebbe coinvolto anche il presidente della Fifa Blatter: “Entrambi – dicono i documenti riportati dal Times – avrebbero alzato il telefono per influenzare il ballottaggio segreto di Zurigo del dicembre 2010″. Il comitato organizzatore di Mosca parla di “speculazioni” da parte del quotidiano britannico e ribadisce di aver agito secondo i principi etici imposti dalla Fifa.

 

THE SUNDAY TIMES 30-11-2014

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Ma io ho sentito dire più volte che Moggi rinuncerà alla prescrizione, vero?

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Ma io ho sentito dire più volte che Moggi rinuncerà alla prescrizione, vero?

 

Non più.

Inizialmente aveva manifestato quell'intenzione.

Già in II grado avrebbe potuto rinunciarvi ma ha desistito (e fa bene, perché il procedimento ad oltranza non è stato cercato dalla sua difesa quanto piuttosto dall'inadeguatezza del castello accusatorio e dai tempi biblici di una giustizia arruffona).

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Scontri a Madrid, ucciso un ultrà

Buttato nel fiume prima di Atletico-Deportivo, faceva parte dei Riazor Blues

di FILIPPO MARIA RICCI (GASPORT 01-12-2014)

Jimmy aveva 43 anni, una figlia di 19 e un bimbo di 4. Era un ultrà del Deportivo, membro attivo de Los Suaves, l’ala dura dei burrascosi Riazor Blues, quelli che nel 2000 in una sconfitta col Milan tirarono l’asta di una bandiera in testa ad Abbiati. Sabato notte si è fatto 600 chilometri per arrivare al Calderon di Madrid, puntuale all’appuntamento che lui e i suoi compari si erano dati, via Whatsapp, con altri ultras per picchiarsi. Alle 9 di una grigia domenica mattina era già in azione, verso le 10 i pompieri subacquei lo hanno tirato fuori dal Manzanarre semicongelato, con trauma cranico e arresto cardiocircolatorio, alle 15 è stato dichiarato morto. Secondo una prima ricostruzione Francisco Javier Romero Taboada ha cercato riparo sul parapetto dell’argine e nel fiume c’è finito per i colpi e le spinte dei rivali.

I PRECEDENTI Undicesima vittima del calcio in Spagna dal 1982. Anche l’ottavo e il nono decesso erano legati ad Atletico e Deportivo. Nel 1998 un tifoso della Real Sociedad in giro con la fidanzata fu brutalmente pugnalato al cuore da un ultrà dell’Atletico in libera uscita (era in carcere per un altro accoltellamento) in un bar vicino al Calderon. Nel 2003 un membro dei sopracitati Los Suaves aveva ucciso con un calcio in pieno petto un altro tifoso del Deportivo che cercava di dissuaderlo dal continuare a picchiare un «avversario » del Compostela. L’omicida fu riconosciuto dalla fidanzata della vittima, ammazzata anche lei a coltellate solo 4 mesi dopo. Questo per dare un’idea del contesto sociale: «Jimmy» non era li per caso.

UNA GUERRA POLITICA L’unica cosa che non poteva prevedere era l’escalation degli incidenti intorno al Calderon: approfittando dell’assenza della polizia vista la distanza dalla gara (oltre 3 ore) e soprattutto del fatto che Atletico-Deportivo fosse considerata gara a basso rischio in termini di violenza ultrà, gli scontri sono stati massicci, si sono prolungati a dismisura e la violenza è diventata incontrollabile. Il calcio ha fatto da scusa per l’organizzazione di una battaglia a sfondo politico: da una parte i «fascisti», Frente Atletico e Ultras Boys (Sporting Gijon), dall’altra i «comunisti», Riazor Blues, Bukaneros (Rayo Vallecano) e Alkor Hooligans (Alcorcon). Gli scontri si sono sviluppati nella zona di svago nota come Madrid Rio: pista ciclabile, pattinatori, giochini per i bambini sulla riva del Manzanarre. Le urla di guerra, di terrore e di dolore dei protagonisti, i fuochi d’artificio, i rumori di tavoli, sedie e bottiglie tirati agli avversari hanno prima svegliato e poi atterrito il quartiere.

LE CIFRE In tanti hanno girato video coi cellulari, la polizia ha impiegato parecchio tempo ad arrivare e ancor di più a frenare la battaglia, chiusasi con due tifosi del Depor nel fiume (uno è tornato su da solo), 14 feriti (7 del Depor, 5 dell’Atletico, 2 poliziotti) di cui 3 per arma bianca, 25 arresti, oltre 200 persone fermate e identificate. Un bollettino di guerra che poteva chiudersi con un saldo ancor più tragico.

LO SHOW E’ ANDATO AVANTI Clamorosamente, la partita è stata giocata normalmente. Poi la Liga e la Federcalcio si sono palleggiate accuse e responsabilità in maniera francamente patetica. Quelli del Frente Atletico hanno cantato, i galiziani hanno dato loro degli assassini, i giocatori hanno festeggiato i gol come se nulla fosse. «Non sapevamo bene cos’era successo », si è giustificato il capitano dell’Atletico Godin. «Era uno di noi», ha detto il deportivista Laure di Jimmy. Frase che ben fotografa i legami ultras-società e stride con le parole dei due presidenti: «E’ gente che non ha nulla a che vedere col calcio», con il numero 1 dell’Atletico Cerezo che ha aggiunto a surreale difesa: «Gli incidenti sono successi lontano dallo stadio». No, erano a due passi dal Calderon, e poi cosa c’entra la distanza? La Spagna che pure ha combattuto con un certo esito il problema degli Ultras (gli scontri sono pochissimi, poco pubblicizzati e decisamente contenuti), si ritrova improvvisamente a fare i conti con una tragedia di grande portata.

IL CASO / UN OMICIDIO GIÀ NEL ’98. IL CLUB: “NON POSSIAMO SCIOGLIERLI”

I neonazisti della curva

quel Frente che sporca

il mito dei colchoneros

di ALESSANDRO OPPES (LA REPUBBLICA 01-12-2014)

Simboli franchisti e neonazisti, bandiere pre-costituzionali con l’aquila di San Juan. E, insieme, un linguaggio lugubre e un atteggiamento violento. Che, per la seconda volta in 16 anni sfocia in tragedia: nel 1998, fu un tifoso basco della Real Sociedad, Aitor Zabaleta, a cadere ucciso per una pugnalata assestatagli da un tifoso ultrà del Frente Atlético, Ricardo Guerra, condannato a 17 anni di carcere. E ancora oggi, i tifosi di San Sebastián che approdano al «Vicente Calderón» sono accolti da vergognosi slogan che inneggiano a quel crimine. C’è una mela marcia, anzi un grosso cesto di mele marce, all’interno della tifoseria “rojiblanca” che si vanta di essere «la mejor afición del mundo». Da più di trent’anni, il Frente Atlético è una mina vagante alla quale il club attuale campione della Liga non è capace di mettere un argine. Ancora ieri, dopo l’ultima tragedia, l’amministratore delegato della società, Miguel Ángel Gil Marín, provava ad archiviare il problema con un «io non sono nessuno per sciogliere il Frente», sostenendo che la maggior parte dei circa 4000 ultras sono «gente molto sana», ma che purtroppo c’è sempre «qualche figlio di p*****a».

Ma forse non sono poi così pochi. Poco più di venti giorni fa, nel loro account ufficiale su Twitter, sullo sfondo di un’immagine di un furgone della polizia avvolto dalle fiamme, proclamavano che «nel Calderón, la legge siamo noi». E ora si è visto che tipo di legge. La storia di questo gruppo estremista (all’inizio con un altro nome, Fondo Sur, che è la curva dove si rinuscono gli ultrà dell’Atléti) comincia già a fine anni ‘60, ancora in pieno regime franchista, alla cui ideologia si ispirano e non fanno niente per occultarlo. La loro pagina web è un’esaltazione continua delle gesta dei loro picchiatori, di spranghe e bottiglie molotov, di treni distrutti e scontri con la polizia durante le trasferte. Per non dire delle «missioni in territorio nemico» nella stessa Madrid, a colpi di bastoni e catene contro gli odiati “merengue” nei pressi del “Santiago Bernabéu”. «Uno, grande, eterno y antimadridista», si definisce il Frente Atlético una volta adottato il nuovo nome nel 1982, dopo che la dirigenza del club, allora guidato da Vicente Calderón, boccia la loro curiosa idea di chiamarsi “Brigata Rossibianca”. Meglio un nome spagnolo, gli fanno notare. Però l’ispirazione alle tifoserie italiane e agli hooligans inglesi è evidente. Con un orientamento, però, di «puro stile nazi », come ammettono loro stessi. Il teschio nero, la croce di ferro del Terzo Reich. Una presenza imbarazzante sulle tribune di uno stadio dove la maggior parte dei tifosi non organizzati sono espressione della classe media e operaia, dell’immigrazione interna, persino dell’intellighenzia di sinistra. Uno di loro, poco prima della fine della partita, ha provato a riportare il buon senso dentro lo stadio: ha raggiunto il settore dei galiziani per uno scambio di sciarpe, applaudito da tutti.

 

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Complimenti a Mura che paragona uno scandalo immaginario (farsopoli) a uno vero (Eternit)

Quando dico che ormai in itaglia i giornalisti NON esistono praticamente più...

Enzo Biagi e Igor Man....da lassù cercate di consigliar meglio i vostri.....successori (successori...parola grossa, la mia!)!

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Complimenti a Mura che paragona uno scandalo immaginario (farsopoli) a uno vero (Eternit)

Quando dico che ormai in itaglia i giornalisti NON esistono praticamente più...

Enzo Biagi e Igor Man....da lassù cercate di consigliar meglio i vostri.....successori (successori...parola grossa, la mia!)!

giornalisti................. politici imprenditori intelletuali artisti.......

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giornalisti................. politici imprenditori intelletuali artisti.......

 

Io direi "sedicenti giornalisti, politici, imprenditori, intellettuali, artisti..."

si "sedicenti"!Perchè i VERI appartenenti a queste varie categorie non ERANO così!

E la maggior parte ormai è passata...a miglior esistenza, purtroppo!

Il tempo dei giganti è roba passata...

ora siamo ai tempi dei nani!E nani che sono alti appena qualche mm!

(pure i puffi, dunque, sarebbero dei giganti rispetto a loro)

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Io direi "sedicenti giornalisti, politici, imprenditori, intellettuali, artisti..."

si "sedicenti"!Perchè i VERI appartenenti a queste varie categorie non ERANO così!

E la maggior parte ormai è passata...a miglior esistenza, purtroppo!

Il tempo dei giganti è roba passata...

ora siamo ai tempi dei nani!E nani che sono alti appena qualche mm!

(pure i puffi, dunque, sarebbero dei giganti rispetto a loro)

 

E trattandosi di Mura, si parla del miglior giornalista sportivo italiano.

Putroppo Farsopoli ha distrutto il buonsenso per partigianeria, becerume e rincoglionimento ma soprattutto IGNORANZA delle prove raccolte dalle difese e nascoste proditoriamente dall'accusa.

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NEL PROCESSO FACCHETTI-MOGGI PARLA PAIRETTO

La difesa chiama Zanetti

Ma Javier non ricorda

di MATTEO BREGA (GASPORT 02-12-2014)

Ieri si è tenuta a Milano una nuova udienza del processo nel quale l’ex d.g. della Juventus Luciano Moggi è imputato per diffamazione nei confronti di Giacinto Facchetti. Sono stati chiamati dalla difesa a testimoniare l’ex designatore arbitrale Pierluigi Pairetto, l’ex direttore di gara Paolo Bertini e l’attuale vice presidente interista Javier Zanetti. «Con Facchetti, come con tanti altri presidenti e direttori sportivi, parlavamo delle griglie per i sorteggi degli arbitri – ha spiegato Pairetto –. Mi chiamava per sapere chi avevamo intenzione di inserire nelle griglie, erano colloqui sereni, tranquilli, senza malizia». La difesa della famiglia Facchetti invece ricorda come le telefonate partite dal telefono di Facchetti verso Pairetto siano state solo due e che in entrambe le occasioni non vertevano sulle griglie.

Capitolo Zanetti A sorpresa è stato chiamato dalla difesa a testimoniare Javier Zanetti. Motivo? Moggi nella puntata del trasmissione tv «Notti magiche» del 25 ottobre 2010 lo chiamò in causa dopo un’intervista: «Sta zitto Zanetti, è meglio per te ed è meglio per l’Inter» Il riferimento era a un’intervista dell’allora capitano. Ieri Javier ha detto di non ricordare e che se in alcune interviste ha parlato di Juve e Calciopoli l’ha sempre fatto «con grande rispetto». Prossima udienza il 2 febbraio 2015: è stato chiamato anche Massimo Moratti tra i testi.

PROCESSO DI MILANO: L’EX ARBITRO

Bertini: «Sì, Facchetti

entrò nel mio spogliatoio»

di FEDERICO MASINI (TUTTOSPORT 02-12-2014)

È andata in scena ieri mattina presso il Tribunale di Milano una nuova udienza per la causa di diffamazione intentata da Gianfelice Facchetti (ieri assente) nei confronti di Luciano Moggi per quanto dichiarato da quest’ultimo durante la trasmissione “Notti magiche” il 25 ottobre 2010 (in sintesi, Moggi affermò che anche Giacinto Facchetti, allora presidente dell’Inter, parlava con i designatori arbitrali, ricordando un episodio legato alla gara di coppa Italia fra Cagliari e Inter della stagione ‘04-05). Il pool di avvocati dell’ex dg bianconero ha chiamato a testimoniare l’ex patron dell’Inter, Massimo Moratti, Javier Zanetti, gli ex designatori Pairetto e Bergamo, gli ex arbitri De Santis e Bertini. Assenti Moratti (che ha inviato un certificato medico), De Santis e Bergamo. L’interrogatorio di Zanetti è durato un paio di minuti: l’argentino, ospite a “Notti magiche”, ha dichiarato di «non ricordare» né di aver partecipato né quanto avvenuto. Il clou dell’udienza - che di fatto sta ripercorrendo i fatti del processo 2006 di Napoli, questa volta con protagonista l’Inter che nel 2011 fu deferita dal procuratore federale Palazzi, condanna però andata in prescrizione - si è raggiunto con la testimonianza di Bertini. Di fronte al giudice monocratico Oscar Magi, l’ex fischietto ha ricordato quanto avvenuto a Cagliari il 12 maggio 2005: «Prima della gara Facchetti venne nel mio spogliatoio dove erano presenti gli assistenti e gli ispettori federali e mi disse che avevo arbitrato 12 volte l’Inter con 4 vittorie, 4 pareggi e 4 sconfitte - ha raccontato - Mi fece una battuta, dicendomi di correggere la casella delle vittorie. A fine partita un guardalinee mi fece notare che era stata una battuta infelice e raccontai telefonicamente l’episodio al designatore Bergamo». La prossima udienza è fissata per il 2 febbraio, ancora convocato Massimo Moratti.

 

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GUINEA EQUATORIALE

UN PAESE PICCOLO PICCOLO

MA DOVE VA LA COPPA?

Grande come l’Albania, ricca di petrolio e gas, ma povera di aeroporti e

alberghi. Come farà ad ospitare dal 17 gennaio la CAN e 16 nazionali?

di FILIPPO MARIA RICCI (EXTRATIME 02-12-2014)

Quattro luglio: la Guinea Equatoriale viene esclusa dalle qualificazioni della Coppa d’Africa dopo una protesta della Mauritania: la Caf (la confederazione africana) conferma che Thierry Fidjeu Tazemeta, 32 anni, giocatore nato in Camerun, non ha le carte in regola per giocare con la Guinea Equatoriale. Quattordici novembre: la Caf annuncia che la Guinea Equatoriale organizzerà la trentesima edizione della Coppa d’Africa.

Scelta inadeguata

Fuori e dentro in poco più di 4 mesi. Soltanto in Africa, viene da pensare. Non solo: oltre al discorso della squalifica saltata c’è molto di più. La Guinea Equatoriale non sembra in grado di organizzare una competizione che nel corso degli anni è cresciuta in maniera esponenziale. Ci sono 16 squadre, servono quattro sedi e lo standard richiesto a livello strutturale è piuttosto elevato. Il Paese governato dalla famiglia Obiang (il dittatore Teodoro «regna» dal 1979) ha salvato la Caf dopo la rinuncia all’organizzazione della competizione da parte del Marocco per i timori legati al virus Ebola, e la Confederazione africana ha chiuso entrambi gli occhi. Perché se è vero che la Guinea Equatoriale aveva organizzato insieme al Gabon la Coppa del 2012, è evidente che due delle quattro sedi prescelte per la Coppa d’Africa 2015 sono gravemente inadeguate.

Senza aeroporti

Tre anni fa si giocò nella capitale Malabo, sull’isola di Bioko, e a Bata, prima città del Paese affacciata sulla costa del continente africano. Ora però servivano altre due sedi e sono state scelte Mongomo ed Ebebiyin. La prima è la città del primo leader del Paese, Nguema, e dello stesso Obiang (fra l’altro zio del centrocampista sampdoriano, al quale aveva chiesto di giocare per la Guinea, ma è un Under 21 spagnolo), e di gran parte dei dirigenti attuali. Si trova a 4 chilometri dal confine col Gabon (circa 6 mila abitanti), le strutture alberghiere sono estremamente limitate e andando a fondo con la ricerca non c’è traccia di un fantomatico aeroporto internazionale citato dalla Wikipedia spagnola. Anche se il sito governativo www.guineaecuatorialpress.com lo dà per fatto (o quasi). Per arrivare a Mongomo da Bata ci vogliono almeno 5 ore di macchina in un affascinante tragitto in mezzo alla giungla.

Si atterra in Gabon?

Ebebiyin, 70 km a nord di Mongomo, è nell’angolo retto nordorientale della squadrata frontiera del Paese, al confine con Gabon e Camerun, ha circa 20 mila abitanti, uno stadio minuscolo, tre strade che arrivano da Bata, Yaoundé e Libreville. L’aeroporto più vicino è (se Mongomo non lo costruisce in tempo) sempre quello di Bata, a 225 chilometri, o in alternativa c’è quello locale di Bitam, in Gabon, a 30 km. Raggiungerla e, in più, risiedervi è decisamente problematico, e non si vede come possano alloggiarvi nazionali che nella maggior parte dei casi contano nelle loro fila professionisti abituati a standard europei.

Senza alberghi

Abbiamo provato a cercare alberghi nelle due città e i risultati sono stati desolanti: a Mongomo c’è una sola opzione, a Ebebiyin nemmeno quella, persino sul sito ufficiale dell’ambasciata del Paese nel Regno Unito. Però la Caf ha deciso che la Coppa d’Africa andava giocata a tutti i costi, e ha scelto di appoggiarsi sullo sconsiderato entusiasmo del dittatore Obiang, che vive delle risorse degli idrocarburi (gas e petrolio) che hanno portato a una crescita economica esplosiva. Obiang per prima cosa ha messo sotto contratto 50 medici cubani: perché in Guinea Equatoriale non ci sono strutture, procedure e personale specializzato per affrontare un eventuale caso di Ebola. Che lo spettacolo vada avanti, a ogni costo. Poi vedremo cosa diranno le squadre che dovranno giocare e alloggiare a Mongomo e Ebebiyin.

 

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Gli assassini della domenica

I TIFOSI DELL’ATLETICO MADRID E DEL DEPORTIVO SI SONO DATI APPUNTAMENTO SU WHATSAPP PER UNA MEGARISSA: UNO

DI LORO ALLA FINE È MORTO. IN PRINCIPIO FURONO GLI HOOLIGANS, OGGI ANCHE IN GERMANIA CI SI TROVA PER PICCHIARE

QUESTI FURIOSI Il giornalista Buford raccontò, dopo averli seguiti di persona, gli scontri di Cagliari per Italia 90 e quelli prima di Inghilterra-Olanda del ‘98

NEGAZIONISMI Se Ancelotti invoca “più repressione”, il tecnico Diego Simeone ha detto: “Queste cose non hanno nulla a che vedere col calcio”

di LUCA PISAPIA (IL FATTO QUOTIDIANO 02-12-2014)

Non mi sarei mai aspettato che la violenza fosse così piacevole (...) Questa, se volete, è la risposta alla domanda decisiva: perché ogni sabato si picchiano?”. Così scrive Bill Buford ne I Furiosi della Domenica (Longanesi, 1991) raccontando gli scontri prima di Inghilterra-Olanda del 1998, con la città messa a ferro e fuoco da migliaia di tifosi. Giornalista americano, Buford decide di seguire gli hooligans nei loro tour dell’odio dal 1982 al 1990, quando a Cagliari partecipa agli scontri con la polizia durante Italia 90. E racconta in prima persona di come per le frange più violente delle tifoserie – nulla a che vedere con quello che sono gli ultras e la loro cultura – la partita sia un pretesto.

L’appuntamento è per gli scontri. Se una volta era necessario il passaparola, o esistevano numeri telefonici cui chiamare dalle cabine per conoscere i dettagli dei rendez vous, oggi che il giro di vite della repressione e il calcio degli sponsor impongono che la violenza si eserciti nel cono d’ombra del fuoricampo televisivo, la Rete ha facilitato questo tipo di appuntamenti. In Europa è diventato uso comune incontrarsi nelle piazze, nelle stazioni ferroviarie, nei parcheggi degli ipermercati, anche diverse ore prima della partita, per darsele di santa ragione. Nessun “modello” straniero si salva. Passata la moda di beatificare quello inglese, ora si guarda alla Germania facendo finta di non vedere le risse nei quartieri distanti dallo stadio, gli accoltellamenti in stazione tra tifosi in viaggio per destinazioni diverse, gli appuntamenti con mazze ferrate nelle foreste. È quello che è accaduto domenica, quando i tifosi dell’Atletico Madrid e del Deportivo La Coruña secondo gli inquirenti si sono dati appuntamento su WhatsApp per le nove della mattina, tre ore prima dell’inizio del match, nella zona di Rio Madrid dietro lo stadio Vicente Calderón. Una gigantesca rissa cui hanno partecipato centinaia di persone armate di bastoni, spranghe, catene e coltelli, dove è morto un uomo di 43 anni: Javier Romero Taboada detto Jimmy, padre di due figli. L’uomo, tifoso del Deportivo, è stato picchiato dai sostenitori dell’Atletico e lanciato dentro al fiume Manzanarre, dove è stato estratto dai soccorritori in ipotermia e con un arresto cardiorespiratorio. Ieri l’autopsia ha rivelato come la causa della morte sia un colpo da oggetto contundente (una spranga di ferro) sulla testa. Lo scontro di domenica è stato anche uno scontro politico: da una parte i fascisti del Frente Atlético, che in Castiglia godono di una certa impunità, dall’altra il gruppo galiziano di sinistra dei Riazor Blues, supportati per l’occasione da membri del gruppo Bukaneros: tifosi di ultrasinistra del Rayo Vallecano, terza squadra di Madrid.

Se la matrice fascista è chiara negli agguati che sono costati la morte di Ciro Esposito prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, e a Genova quando nel 1995 un tifoso di un gruppo di estrema destra del Milan pugnalò a morte il genoano Vincenzo Spagnolo, nel caso degli scontri di Madrid pare invece evidente l’intenzione di entrambe le tifoserie di partecipare a scontri organizzati. Se Ancelotti invoca “più repressione”, il tecnico dell’Atletico Simeone ha detto: “Queste cose non hanno nulla a che vedere col calcio”.

Eppure sono proprio all’interno dei due gruppi gli ultimi due precedenti in Spagna: nel 2003 un tifoso del Depor è ucciso in circostanze poco chiare, probabilmente da un altro tifoso del Depor; nel 1998 Aitor Zabaleta, tifoso antifascista della Real Sociedad, è pugnalato da un tifoso di estrema destra dell’Atletico. La presenza di organizzazioni neofasciste nelle curve è evidente. Lo stesso Buford ne I furiosi della Domenica racconta dell’egemonia del partito neofascista Bnp negli scontri in Inghilterra negli anni Ottanta. Mentre da noi gli inquirenti hanno tessuto un lungo filo nero tra le violenze di Roma in occasione del “derby del bambino morto” del 2004 e della sera del 11 novembre 2007, quando dopo l’omicidio da parte di un poliziotto del tifoso laziale Gabriele Sandri, tifosi di Lazio e Roma si scontrarono con le forze dell’ordine e assaltarono una caserma e un commissariato. Protagonisti, entrambe le volte, furono anche esponenti di estrema destra colpevoli negli anni di numerose aggressioni a militanti di sinistra, immigrati e rom.

Un altro eccellente tentativo di comprensione dei comportamenti delle frange violente delle tifoserie è stato invece fatto da Valerio Marchi ne Il Derby del Bambino Morto (Derive e Approdi, 2005), dove si analizza la continuità tra dinamiche di vita e di violenza quotidiana e scontri negli stadi e, soprattutto, si studia lo stadio come laboratorio di repressione. Prima del G8 di Genova 2001 – spiega Marchi – furono sperimentati negli stadi i gas lacrimogeni CS e i manganelli Tonfa poi usati nelle piazze. Oggi, grazie al decreto Alfano, negli stadi sarà sperimentato il taser: la pistola elettrica che Amnesty International definisce un crimine contro l’umanità e che negli ultimi dieci anni solo negli Usa ha provocato quasi mille morti innocenti. E questo, al di là della conformazione politica delle curve, sempre più confusa e meno tracciabile, è il vero aspetto politico della questione.

LA TRAGEDIA DI MADRID / VARATE MISURE D’EMERGENZA DOPO L’OMICIDIO DEL TIFOSO GALIZIANO

Spagna, pugno di ferro contro gli ultras

di ALESSANDRO OPPES (LA REPUBBLICA 02-12-2014)

Tolleranza zero contro i violenti. Il giorno dopo la tragedia alle porte del “Vicente Calderón”, arrivano i primi provvedimenti per cercare di mettere un argine ai gruppi che minano la pace nel calcio spagnolo. Dalla riunione d’emergenza della Comisión Antiviolencia, a cui hanno partecipato rappresentanti del governo, della polizia, della Liga e della Federazione calcio, emerge un primo pacchetto di dieci misure, che hanno come obiettivo finale l’espulsione «totale e definitiva» degli ultras dagli stadi. Si prevedono tra l’altro l’elaborazione di una lista dettagliata di tutti i gruppi violenti, sanzioni severe per i club che li sostengano, una lotta decisa contro la violenza verbale, la chiusura temporanea di settori delle tribune o delle curve dove avvengano episodi di teppismo, controlli rigidi sulla vendita dei biglietti d’ingresso e sugli spostamenti dei tifosi.

Nel caso degli incidenti di Madrid, appare ora evidente che sono troppe le cose che non hanno funzionato, le manovre di depistaggio realizzate per ingannare la polizia ed evitare una normale operazione di prevenzione. Le forze dell’ordine non erano al corrente dell’arrivo di tifosi dalla Galizia. Perché? Semplice: l’Atlético Madrid ha regalato un centinaio di biglietti al Deportivo; la società galiziana li ha ceduti al presidente delle “Peñas Deportivistas”, la parte pulita della tifoseria locale. Ma poi c’è stato un ultimo passaggio di mano: sono stati consegnati a un rappresentante dei Riazor Blues, i più estremisti. In più, per aggirare eventuali controlli, anziché partire da La Coruña, gli ultras hanno noleggiato i pullman in un’altra città galiziana, Lugo. E così sono arrivati nella capitale senza dare nell’occhio. “Jimmy” Romero, ha rivelato ieri l’autopsia, è morto con il cranio fracassato da un colpo di spranga di ferro. Ora, quando ormai è avvenuto l’irreparabile, è uno strapparsi le vesti generalizzato. Il premier Rajoy parla di un episodio «assolutamente intollerabile ». Ma le parole più sagge vengono da Carlo Ancelotti. Che ricorda come in Inghilterra sia stato fatto «un gran lavoro applicando regole molto dure fino a estirpare la violenza». Dice l’allenatore del Real: «E’ un problema di educazione e di cultura. Lo dico come italiano, come latini che siamo uguali agli spagnoli. Tutti possiamo fare molto di più».

 

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CELLINO L’EVASORE

NON PUÒ TENERSI IL LEEDS

L’italiano non passa il test della Lega inglese per una vecchia condanna fiscale

Se la pena sarà confermata in appello, dovrà lasciare il club entro un mese

di STEFANO BOLDRINI (EXTRATIME 02-12-2014)

Clamoroso a Leeds: neppure il tempo di godersi il 2-0 sul Derby – capolista della Championship (la seconda serie inglese) – e la doppietta dell’italiano Mirco Antenucci, 30 anni e già 7 gol qui, che sulla squadra inglese si è riaffacciata pesantemente la questione-Cellino. Il proprietario italiano del club dello Yorkshire è stato squalificato e condannato a lasciare la presidenza fino al 18 marzo 2015 perché, secondo la commissione etica della Football League, «ha fallito il test di idoneità e probità», dopo la sentenza del tribunale di Cagliari che lo ha dichiarato colpevole di evasione fiscale per non aver pagato il dazio sull’importazione di uno yacht, con una multa di 600 mila euro. Cellino ha due settimane di tempo per appellarsi, ma se la condanna sarà confermata, entro 28 giorni dovrà lasciare il Leeds.

La storia

Il provvedimento della Football League è la nuova puntata di una storia cominciata la scorsa primavera. Cellino ha acquistato il 75 per cento del Leeds attraverso la Eleonora Sports, rilevandolo dalla succursale di Dubai della Gulf Finance House Capital, una banca d’investimenti del Bahrain. Le autorità calcistiche inglesi, che già impedirono a Cellino di acquistare il West Ham nel 2010, hanno cercato di scongiurare anche questa operazione, ma la difficile situazione debitoria del Leeds ha invitato la Football League a gestire con prudenza la vicenda. Il 24 marzo 2014, la commissione etica della Lega squalificò Cellino, impugnando la condanna per evasione fiscale. Il dirigente sardo ricorse in appello e il 5 aprile il tribunale gli diede ragione.

Le parole

Negli ultimi otto mesi il Leeds ha vissuto una vera rivoluzione. Una drastica revisione dei conti avrebbe portato, secondo Cellino, all’abbattimento del debito. Sono cambiati quattro allenatori. Sono sbarcati diversi giocatori italiani. Una girandola, non premiata però dai risultati sportivi: il Leeds è quindicesimo e questa vicenda apre un interrogativo sul futuro. Dagli Emirati Arabi, dove secondo fonti inglesi starebbe concludendo una serie di investimenti, Massimo Cellino ha annunciato che non ha alcuna intenzione di arrendersi. «Non vendo il Leeds. Ma stiamo scherzando? Voglio proteggere i tifosi e non intendo rinunciare, chiaro?», le parole rilasciate al Daily Mail, mentre al Guardian ha dichiarato: «Mi appellerò. Lo devo soprattutto ai tifosi che non meritano questo trattamento. Arricchiremo gli avvocati, ma non posso fare altrimenti. Mi chiedo perché il Leeds sia odiato così tanto». La replica ufficiale del club è stata affidata ad un comunicato: «I nostri avvocati sono già al lavoro. Nulla è cambiato da aprile ad oggi. Questa squalifica può avere effetti destabilizzanti per il club, per i tifosi e per gli sponsor».

Beleaguered of Leeds know you don’t have

to fail a test to be unfit and improper

by RICK BROADBENT (THE TIMES 02-12-2014)

Dirty, dirty Leeds are up to their neck in it again, but amid the muck and Machiavellian simulations, one thing seems clear - the fans love Massimo Cellino.

It sounds bizarre, but Paul Keats, the Leeds United Supporters’ Trust chairman, said Cellino has done more in eight months than previous owners did in 12 years. He said the Sky Bet Championship club needed stability and that all parties had to add honesty and clarity to their public statements. Cellino was “fantastic”.

The Italian’s stabilising methodology involves a dismissive regard for the role of the manager. Hence, the 58-year-old employs coaches, leaving the real football matters to himself. Those who have got to know him since his arrival say he does have a genuinely deep love and good knowledge of the game. Yet none of that tarries with sacking three managers/coaches/stooges this season already.

If he was so fantastic for Leeds then would he have risked the club’s future on Dave Hockaday, a middle-aged man with virtually no coaching pedigree? Would he have appointed Darko Milanic and quickly mused that he did not know why he had done that? Would he have tried to make Neil Redfearn accept an academy coach’s salary for a Championship manager’s job?

Can you really champion a man who sacked more than 36 managers in 22 years at Cagliari as the benchmark for stability? Can you truly say he is the man for clarity and honesty when he has just been barred from running a club for dishonesty while another investigation is about to be launched concerning the clarity of the information he imparted during his last trial?

And just why do Leeds fans think he is the man for the future when his past involves suspended sentences for false accounting at a football club and defrauding the Italian Ministry of Agriculture out of £7.5 million? Oh, and there is another court case coming up about unpaid tax on another boat. And how will these Leeds fans, who were so opposed to the previous owner, Gulf Finance House (GFH) Capital, react knowing that Cellino is in Bahrain sealing a deal asking them to invest more money in the club?

Yet, here is the rub. Leeds fans have been abused, ripped off and mistreated for so long that they are happy to overlook what they regard as tittle-tattle over a yacht. They are more worried about the sinking ship.

They never trusted Ken Bates, who sold the club to GFH in 2012 after seven years as owner. Not after the time Leeds yo-yoed in an out of administration, racking up 25 points in deductions and inducing long-standing suspicion of the club from the local businesses who lost out.

They have seen several teams ripped apart by greed and myopia. I remember sitting there at a press conference in 2003 to defend the sale of Jonathan Woodgate. Terry Venables had a face like haemorrhoids as Peter Ridsdale, the then chairman, did a fine line in flannel. The following year, in 2004, they were relegated from the Premier League.

The club lost £34 million the year before that and had mortgaged their future via a £60 million bond payable over 25 years. The wheels were off. Two years later they were relegated. The rest is a horrible history. It has been Keystone Kops since.

Gerald Krasner sold the ground. Professor John McKenzie almost sacked Peter Reid in the full public glare at a Halifax hotel before backtracking and giving him a short stay of execution. When the Harry Kewell sale turned sour, McKenzie was reduced to waving faxes and making desperate public utterances in an effort to prove he was clear and stable.

In the meantime, players were sold. Leeds might well have made the Premier League long ago had they held on to Robert Snodgrass, Jonny Howson, Bradley Johnson, Max Gradel, Jermaine Beckford, Kasper Schmeichel, Luciano Becchio, Ross McCormack et al. Whenever anyone got vaguely good, they were sold or they fled.

And if Cellino is a convicted fraudster, he is not GFH, the Bahrain bank; Leeds’ previous owner is despised among the fans for its mercenary attempts to flog the club no sooner than they had got it. Now GFH have accused David Haigh, their former employee and Leeds’ old MD, of embezzlement. He has spent six months in a Dubai jail, surfacing to deny all wrongdoing, badmouth GFH and send allegations of his own to the Football League.

There is talk of Iranian money contravening United Nations resolution and spy cameras in the boardroom, designed to catch cocaine snorters. Weary fans will remember the old-time plan to reduce the wage bill by kneecapping Gary Kelly and sprinkling cocaine on Michael Duberry’s pasta. And the former director who was convicted for blackmail. Everyone will also recall this month’s winding-up order, initiated by another former director, over unpaid court fees. That was averted. In the 1970s the Leeds team had a reputation for being cynical, but they had nothing on the fans of a bastardised club.

So, if Cellino brings in some good young Italian players, speaks passionately about the ridiculous wage bill and stands with the fans then who are we to say they have got it wrong?

Many fans actually agree with the owner that there is a Football League vendetta. The presence of Shaun Harvey does not allay their feelings. He was at the club through the dark days, most latterly as chief executive. Now he is the Football League’s CEO.

The League, though, has a duty to employ its rules. Why now? Because Cellino was not honest about what was said in that Italian court and only now has the League seen the full judgement.

It is due to the deep suspicion of the honesty of football bosses that many supporters believe Cellino is getting a hard time. They might think it is the smallest of beer given Roman Abramovich’s past. My colleague, Matthew Syed, recently wrote in The Times: “Abramovich’s billions were gained in an episode described as “the largest single heist in corporate history.” Fans do not really care too much about financial morality if the team is doing well.

Cellino will get through this latest twist, even if it means putting his sons in nominal charge while he runs the club from his yacht.

Worse may follow, though. It is not hard to go to Leeds and find a vibrant rumour mill and there is already the new tax case coming up. If he loses that one then that could really be the end for him.

The Together Leeds consortium, fronted by Mike Farnan, the former Manchester United executive, was ignored by GFH when it sold up earlier this year. Together Leeds is still around.

Will any of it make a difference? Probably not. But a dirty dozen years in what Dickens dubbed “the beastly city” means that the beleaguered of Leeds know better that anyone that you don’t have to fail a test to be unfit and improper.

 

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FINANCIAL TIMES 02-12-2014

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Giusto un parere...ma devi proprio conservare quella firma?Sopratutto visto il personaggio (un vero esempio di squallore, secondo me) che è citato!

Leggendo il suo nome, sono indeciso tra il ribrezzo...e l'andare in bagno a vomitare!!!!

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Giusto un parere...ma devi proprio conservare quella firma?Sopratutto visto il personaggio (un vero esempio di squallore, secondo me) che è citato!

Leggendo il suo nome, sono indeciso tra il ribrezzo...e l'andare in bagno a vomitare!!!!

 

Ok, cercavo l'adorcismo buono successivo... vediamo se funge

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Hmm....già il cognome "Rossi", non mi va più di tanto a genio....un tempo MOLTO lontano con quel cognome avrei pensato a Paolo...ma purtroppo farsopoli è arrivata e quel cognome mi ricorda un altro personaggio, molto meno simpatico...

e siccome ho capito che a te piacciono le firme ad effetto, non ti domanderò, nè cercherò chi sia il giornalista in questione...

non vorrei rimettere il pasto!

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Hmm....già il cognome "Rossi", non mi va più di tanto a genio....un tempo MOLTO lontano con quel cognome avrei pensato a Paolo...ma purtroppo farsopoli è arrivata e quel cognome mi ricorda un altro personaggio, molto meno simpatico...

e siccome ho capito che a te piacciono le firme ad effetto, non ti domanderò, nè cercherò chi sia il giornalista in questione...

non vorrei rimettere il pasto!

 

Ma no, si tratta del Giuseppe Rossi, calciatore della Fiorentina.

E le firme, nell'ultima settimana, sono soltanto scaramantiche (Bruno si augurava l'autorete del Chiello al 93' ed invece giusto allora il Toro l'ha preso in quel posto da Pirlo):

Pubblicherei anche un articolo "trasudante malocchio" di R.Condio della Stampa di ieri, ma lo tengo buono per il beneaurante filotto di partite interessate.

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Un sistema in rosso In 12 anni escluse 110 società. Negli ultimi 5 falliti 30 club

Tocca al Parma, così la crisi prende a calci il calcio

Ma con l’acqua alla gola sono anche Brescia, Varese, Monza e Reggina

di ENRICO TURCATO (IL GIORNALE 04-12-2014)

Una crisi senza fine, destinata a tormentare anche club con storia e tradizione centenaria. Se in Italia il numero di imprese fallite nei primi nove mesi del 2014 supera le 11mila unità (fonte Cribis D&B, società specializzata nella business information), il sistema calcistico italiano non è immune da questo vortice negativo. Non ci sono più soldi e lo si intuisce anche dalla situazione finanziaria dei nostri top club. Se tramite banche, imprenditori, cordate o sponsorizzazioni le grandi società riescono comunque a resistere, le cosiddette provinciali collassano, una dopo l'altra, in un inesorabile domino di fallimenti. Nel nostro Paese, tra il 2002 e 2014, oltre 110 società professionistiche, dalla quarta divisione in su, sono state escluse dai campionati. Analizzando le mancate iscrizioni, si contano più di 30 club falliti negli ultimi 5 anni. Un'enormità.

In ordine cronologico, l'ultimo caso preoccupante è quello che riguarda il Parma. Nonostante le smentite ufficiali del presidente Ghirardi, che non è riuscito a pagare parte delle adempienze retributive entro la scadenza del 15 novembre per mancanza di liquidità, i ducali hanno una situazione economica ai limiti del disperato (si desumono debiti per 30-40 milioni di euro). I tanti infortuni, la delusione per la mancata partecipazione all'Europa League conquistata a maggio sul campo (anche lì per ragioni finanziarie), l'ultimo posto in classifica con sole due vittorie in 13 giornate, hanno depresso un ambiente già angariato. Il Parma (fallito nel 2004 a seguito del crack Parmalat e poi rifondato) a febbraio riceverà una penalizzazione in classifica e a fine stagione, salvo acquirenti o clamorosi investimenti, potrebbe veder finire la sua gloriosa storia, proprio dopo aver festeggiato nel 2013 i 100 anni dalla fondazione.

Hanno l'acqua alla gola anche Brescia, Varese, Monza, Reggina, tutti club che ad agosto sono riusciti a iscriversi all'ultimo istante ai rispettivi campionati (Serie B e Lega Pro) e che si trovano a dover sanare condizioni indebitate. A Bologna, poi, nonostante il recente passaggio di consegne tra la proprietà di Albano Guaraldi e Joe Tacopina, devono ancora essere verificate le reali possibilità dell'imprenditore americano. La scorsa estate sono stati costretti alla resa club storici come Padova e Siena, mentre il Bari è stato salvato dopo il fallimento da un gruppo di imprenditori a cui fa da uomo copertina Gianluca Paparesta.

Da nord a sud, isole comprese, l'elenco delle imprese calcistiche fallite negli anni duemila è impressionante. Si va dal Venezia al Messina, dall'Ascoli alla Triestina, dal Mantova al Foggia. Squadre con decenni e decenni di professionismo alle spalle. Una palese crisi di sistema, che evidentemente non riesce più a reggere oltre 100 club professionistici, tra Serie A, Serie B e riformata LegaPro e che, senza le opportune correzioni, è destinata a mietere nuove blasonate vittime.

 

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Per la figlia del Cav la serie A è la più vista in Europa dopo la britannica e la spagnola

Le balle sul calcio di Barbara B.

Il primato europeo spetta invece alla tedesca Bundesliga

di ROBERTO GIARDINA (ITALIA OGGI 04-12-2014)

C’ è un vizio insopportabile dei nostri politici, e non solo loro. Per giustificare misure impopolari si afferma «ce lo impone l’Europa». Oppure, facciamo come «il resto d’Europa», «lo fanno tutti». Affermazioni spesso assolutamente lontane dalla realtà, per vantare successi inesistenti o giustificare reali fallimenti.

Anni fa abbiamo cambiato milioni di targhe automobilistiche, rinunciando alle sigle che identificavano in quale città girava abitualmente la vettura, sostenendo che era una direttiva dell’Unione europea. Basta compiere un giretto in Francia o in Germania per constatare che non è vero. La mia auto porta una bella «B» prima del numero, per indicare Berlino. Sono sempre curioso di sapere quale inghippo milionario ci sia stato all’origine di questa gigantesca balla.

Oppure, Renzi riforma il Senato sostenendo di copiare il Bundesrat tedesco, ma il pastrocchio che ne è uscito fuori non ha niente a che vedere con la Camera delle regioni in Germania. O asserire che a casa di Frau Merkel si possa licenziare a volontà. L’articolo 18 non esiste ma i dipendenti tedeschi sono tutelati e, nel caso, vengono reintegrati. Pretendiamo di avere il campionato di calcio più bello del mondo, ma i risultati in Europa non lo confermano. E il sistema sanitario più generoso, magari sulla carta, nella pratica la realtà è ben diversa.

Ultima arrivata a citare dati inventati, Barbara Berlusconi per difendere il suo Milan, che non vince più come una volta, perché non ha campioni, e perché gli arbitri non mostrano più deferenza per il club di Silvio. «La Serie A è sempre il campionato più visto dopo la Premier britannica e la Liga spagnola», osa vantare Barbara. Lei può dire quel che le garba, per fare il suo gioco, ma toccherebbe ai colleghi che la intervistano giungere alle conferenze stampa preparati, e smentire le bugie. Oggi, con Google occorrono pochi minuti per ottenere le cifre esatte.

Se le cifre annoiano, basta dare un’occhiata alla tv: gli stadi tedeschi sono stracolmi, quelli italiani semivuoti, a cominciare da San Siro. La Bundesliga, che la signora ha preferito dimenticare, è il campionato con più pubblico prima ancora di Gran Bretagna e Spagna. La Premier League arriva a una media di 35 mila spettatori a incontro, la Bundesliga è prima con distacco a oltre 44 mila, terzi gli spagnoli con 27 mila. I club italiani giungono di un soffio sopra i 23 mila. In Italia, in un intero campionato si arriva a 9 milioni di spettatori divisi tra venti squadre, in Germania con 18 club si sfiorano i 12, più di tutti in Europa.

Il Borussia Dortmund, eterno  rivale del Bayern, primo o secondo, quest’anno è precipitato all’ultimo posto, ma il suo stadio da 80 mila posti è sempre esaurito al cento per cento. Dortmund ha appena 350 mila abitanti (e, per la verità, un grande seguito di tifosi nella Ruhr). Il Bayern si è ripagato il suo stadio fantascientifico in appena 16 anni, e arriva al 99% di posti venduti. In coda troviamo Friburgo, 224 mila abitanti, con 24 mila spettatori. La settimana scorsa, per assistere a una sicura sconfitta dell’Herta di Berlino contro il Bayern, in 76 mila hanno riempito l’Olympia Stadion, quello dei giochi di Hitler nel 1936.

Una questione di secondaria importanza? Certamente, paragonata alle menzogne dei politici, ma sullo sport non si può giocare con le parole: gli spalti sono là a dimostrare quale sia la verità. Si potrebbe cominciare dal pallone per evitare le balle. Se chi rilascia interviste e fa dichiarazioni alla tv sapesse di aver di fronte qualcuno pronto a smentirlo all’istante, eviterebbe il rischio di figuracce. La sicurezza dei politici, di imprenditori o di presidenti di squadre di calcio, e l’arrendevolezza di chi dovrebbe controllarli, è preoccupante.

 

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SICUREZZA / OGGI NUOVO VERTICE AL VIMINALE

Contro gli ultrà idranti colorati

ma nessun club li denuncia

di FULVIO BIANCHI (LA REPUBBLICA 04-12-2014)

Per ora no ai droni, i Predator non servono nei dintorni degli stadi circondati da case. È allo studio del Viminale l’uso degli idranti, con il liquido colorato per identificare i teppisti: un sistema utilizzato contro antagonisti o black bloc. Potrebbe essere utile anche per fermare la violenza e rendere gli stadi — come si augura il ministro Angelino Alfano — accessibili anche alle famiglie. Oggi pomeriggio al Ministero dell’Interno il secondo summit stagionale con il mondo del pallone (più Malagò). Gli incidenti in questo avvio di stagione sono diminuiti, ma ultimamente ci sono stati segnali inquietanti a Bergamo e Roma (tifosi Lazio), in precedenza a San Siro coi croati e in B. La nuove leggi varate in estate, sostengono al Viminale, funzionano: applicato già il Daspo di gruppo in una decina di casi, bloccate per tre mesi le trasferte agli ultrà dell’Atalanta, che ieri hanno protestato durante la partita della Primavera («Liberate gli arrestati», che sono sei). Altre tifoserie sono nel mirino: in caso di incidenti, limitazioni anche per loro. Per chi si comporta bene, la tessera del tifoso di fatto è “congelata”.

Due gli obiettivi: 1evitare scontri lontano dagli stadi (da qui gli idranti) e 2impedire l’accesso negli impianti a bombe carta, fumogeni, petardi. Non sono efficaci i metal detector, gli sniffer o i cani poliziotto. Servono solo perquisizioni ma spesso gli ultrà nascondono i fumogeni nella biancheria intima, nei panini o si servono di donne e bambini. La collaborazione dei club, salvo eccezioni, è piuttosto scarsa col Viminale (ma oggi Alfano non lo dirà): nessuna società si è costituita parte civile contro i teppisti, anche se la Lega di A l’aveva promesso. Vince la paura. Altre misure (spray al peperoncino e telecamere sui caschi degli agenti) sono allo studio. I Daspo in atto sono 5.000.

 

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PANORAMA 10-12-2014

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