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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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bbbbbonnnniiiii

hai ragione, aggiusto cio' che ho scritto sopra ora...

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GASPORT 18-07-2014

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LE DUE FACCE DEL CALCIO SPAGNOLO

REAL E BARÇA RICCHI, IL RESTO SOFFRE

di FILIPPO MARIA RICCI (GASPORT 18-07-2014)

Da un lato, l’infinita ricchezza di Real Madrid e Barcellona, club che fatturano ben oltre i 500 milioni di euro l’anno. Dall’altra, il comunicato della Afe, l’Assocalciatori spagnola, che denuncia che per la stagione 2013-2014 sono addirittura 194 i calciatori di Liga e Segunda (A e B del calcio iberico) che vantano crediti con i propri club. Due facce dello stesso calcio che cercano di non guardarsi. Secondo il documento emesso dalla Afe le squadre che devono soldi ai propri giocatori sono 18 e l’ammontare complessivo del debito pari a 22.839.033 euro. Che diviso per 194 (le denunce) offre una media di 117.726 euro a testa. Rispetto alla stagione 12-13 i club non in regola con gli stipendi dei giocatori sono scesi (erano 24), mentre è aumentato il numero delle denunce (erano 160) e la cifra totale non versata (era 22.836.003).

«I numeri offerti dalla Afe sono assolutamente falsi», hanno tuonato dalla Liga de Futbol Profesional (Lfp). «Non dispongono delle cifre del 2013-2014. Il numero di club denunciati in un anno si è ridotto del 75%, sono solo 6 quelli non in regola con i pagamenti». Lfp e Afe sono in guerra da tempo, i primi a strenua difesa dei club, i secondi dei giocatori, così come da tempo le squadre cercano invano di spezzare la ferrea presa di Real e Barça sulla spartizione dei diritti tv, elemento questo che serve in parte a spiegare le due facce economiche della Liga. Le protagoniste del Clasico si dividono equamente 280 milioni di euro, lasciando alle altre 18 squadre della Liga 325 milioni, e visto che Valencia e Atletico incassano 42 milioni a testa le altre 16 società devono accontentarsi di una media di 15 milioni di euro a testa, poco più del 10% rispetto a quanto percepiscono Madrid e Barça. Che pagano lautamente e regolarmente: si permettono di comprare calciatori per 100 milioni (Bale) o versare stipendi da 20 milioni netti a stagione (Messi).

Le altre si arrabattano come possono, vendendo all’estero tutto ciò che è vendibile (l’esodo dei calciatori dalla Liga, tanto spagnoli come stranieri, è a getto continuo), cercando di produrre canterani decenti che possano aiutare la prima squadra e poi essere monetizzati, acquistando in maniera intelligente, tirando la cinghia. E se le cose vanno male, non pagando i calciatori. E le tasse, perché va ricordato che il debito delle squadre spagnole con il fisco è ancora di quasi 700 milioni di euro. A Real e Barça le stelle, agli altri le stalle. E quando si dice gli altri si può parlare anche dell’Atletico Madrid, miracolosamente campione di Spagna ma costretto a cambiare centravanti con incredibile frequenza (Torres, Aguero, Forlan, Falcao, Diego Costa, tutti venduti all’estero) e ad appoggiarsi ai fondi d’investimento.

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GASPORT 18-07-2014

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In effetti si potrebbe passare dalla M***A al burro (ispanico), caro Arturi!

Preoccuparsi di problemi più seri, no, eh?

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gli abbiamo presta il c/fianco ed ognuno a suo modo ci sguazza

veniamo compatiti consolati

una vittoria questo anno avrebbe un sapore eccezionale.

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...oltre che disorientato dagli avvenimenti di questi ultimi giorni, mi trovo decisamente perplesso sulla reazione della tifoseria dopo l'imposizione dell'incapace-pluriesonerato alla guida della più bella e forte squadra italiana, senza minkiate magari quest'anno poteva anche essere una di quella forti in europa...

dicevo sono senza parole, il 90% della tifoseria non vuole l'incapace, però siamo tutti qui a scrivere ma nessuno a tirargli le uova a vinovo, non sono comparse scritte contro, nulla se non un centinaio il primo giorno e poi il silenzio...e temo, non quello che precede la tempesta...

non dobbiamo poi però lamentarci quamdo gli avversari ci tacciano di essere dei paurosi, i romanisti, napoletani, fiorentini per molto meno hanno spaccato tutto, addirittura gli intertristi si sono sollevati contro la vendita di un giocatore...e noi?..niente...

ho lanciato un appello su tuttosport agli ultras perchè indicessero delle manifestazioni, una protesta forte contro la dirigenza che ci ha fregati tutti e contro la scelta di un omminicchio alla guida della Juve...ho ricevuto un mare di insulti dai caproni ai quali va bene tutto ma di risposte su manifestazioni mirate nessuna...allora quasto vuol dire che i padroni della Juve sanno che possono farci quello che vogliono perchè tanto non siamo capaci a fare nulla...

...che pena che fa l'impotenza...

:S:|.penso

:sventola: :sventola: :sventola: :sventola: :sventola: :sventola: :sventola:

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:S:|.penso

:sventola: :sventola: :sventola: :sventola: :sventola: :sventola: :sventola:

10 messaggi attivi .asd.asd.asd

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Abete sfida Lotito-Agnelli

Ultimi atti del presidente: richiesta danni

per il primo, ineleggibilità per il secondo

Intanto Tavecchio aspetta ancora e apre a

Conte ct: «Per lui parlano i grandi risultati»

di ANDREA SANTONI (CORSPORT 19-07-2014)

Una possibile causa civile per danni di immagine, seguiti a Calciopoli anche nei confronti di chi è stato prescritto in secondo grado. E un avvertimento “elettorale”, sulla ineleggibilità alle cariche federali per “coloro che abbiano in essere controversie giudiziarie contro la Federazione”. Come dire un colpo a Lotito (che rientra nel primo caso, ma non solo lui) e uno ad Agnelli (che ha ancora aperto un contenzioso davanti al Tar del Lazio per 443 milioni contro la Figc), la strana coppia dell’intricata vicenda federale. Giancarlo Abete ieri non era al suo ultimo Consiglio Federale, dato che ne è stato fissato uno ulteriore, l’1 agosto prossimo. Ma il presidente dimissionario ha deciso di affrontare subito un paio di questioni pendenti («che non voglio lasciare a chi verrà dopo» ha spiegato) e assai deliacate. Prima, nel Comitato di Presidenza ha annunciato l’intenzione di attivare gli uffici legali della Federcalcio per verificare la titolarità della Federazione stessa di dare corpo a una azione di risarcimento danni in sede civile per tutti i condannati di Calciopoli, compresi coloro che, in Appello, hanno visto cadere la prima sentenza di colpevolezza per prescrizione. Si tratta di un atto dovuto, come ha spiegato a un dubbioso Lotito, il presidente uscente. Come è noto il 17 dicembre scorso il presidente della Lazio, così come Andrea e Diego Della Valle (e altri 6 imputati) avevano beneficiato della prescrizione del reato di frode fiscale in sede penale (circostanza che non blocca necessariamente l’inter civilistico). Va da sé che Lotito, dominus incontrastato di questa fase di trattative dentro e fuori il Palazzo di via Allegri, potrebbe trovarsi in una posizione paradossale di Consigliere federale costretto a difendersi da sé stesso in un certo senso.

MESSAGGIO AI NAVIGANTI. Passato poi al C.F., tra i tanti temi toccati, Abete si è soffermato a lungo sugli aspetti tecnici delle prossime elezioni, ricordando appunto l’articolo 29 dello Statuto. Senza mai nominarlo, il riferimento all’ineleggibilità è suonato un messaggio destinato ad Agnelli, in odore di entrare nel prossimo Consiglio Federale (la designazione il prossimo 24 luglio). Un passaggio, carte alla mano, che dovrebbe essergli negato dal ricorso al Tar di tre anni fa, con la richiesta alla Figc di un maxi-risarcimento (443.725.200 euro) per la riduzione del fatturato, la svendita dei giocatori e il calo in Borsa del titolo Juve post Calciopoli. Deve aver capito il messaggio, il presidente della Lega di A, Beretta, che uscendo ha voluto puntualizzare: «E’ ovvio che Agnelli ha tutti i pre-requisiti per entrare in Consiglio Federale...».

ATTESE. Detto questo, ieri a Roma c’è stato spazio anche per le valutazioni sempre prudenti di Tavecchio, ancora in attesa di sciogliere le riserve sulla sua candidatura il 25 prossimo: «L’asse Agnelli-Lotito? L’interesse del sistema è che ci sia una pax nella Lega più importante, se questo avviene è un bene per tutti. Il programma però lo stila il presidente, non lo fa la Lega. Conte possibile ct? Se non ha i numeri lui con quello che ha vinto...Ma non è il solo». E Albertini? Bloccato per due ore dall’inesauribile Lotito a fine CF mantiene la sua linea sottotraccia, con Ulivieri e Tommasi, comunque decisi ancora a considerarlo il candidato per il cambiamento.

Palazzo di vetro di RUGGIERO PALOMBO (GASPORT 19-07-2014)

LA PREMIATA DITTA AGNELLI&LOTITO

E IL PIANO TAVECCHIO ANTI-STRANIERI

Ben fatto, almeno per ora. Un complimento a quelli della Lega di serie A è un evento eccezionale, e come tale va celebrato. Niente liti, quasi che finalmente tutti abbiano avvertito la delicatezza del momento, col calcio italiano sull’orlo del baratro. E così, ecco di nuovo in campo la premiata ditta Agnelli&Lotito, due che si fa davvero fatica a immaginarli seduti intorno ad un tavolo a parlare la stessa lingua. E’ invece già accaduto ed ha funzionato, con la moltiplicazione dei pani dei diritti televisivi domestici, aspettando che si realizzi anche quella dei pesci, ovvero dei diritti del campionato per l’estero, una roba che fin qui vale contro gli 850 milioni della Premier League la miseria di 117 milioni di euro a stagione. Raddoppiarli, ora che Agnelli vigila, non dovrebbe essere troppo complicato.

Agnelli&Lotito metteranno insieme i desiderata della Serie A a uso e consumo del prossimo presidente della Federcalcio. Che poi esso sia, come appare assai probabile, Tavecchio più di Albertini, è cosa che a questo punto, non ce ne vogliano i diretti interessati, riveste una importanza soltanto relativa. Conta la squadra e conta soprattutto il modo con cui la Serie A sarà rappresentata nel Consiglio federale. Al di là delle sporadiche e non memorabili presenze di Beretta (ieri eccezionalmente c’era per salutare il battesimo delle bombolette spray che a Nicchi non piacevano), tutto lascia ritenere che i due prossimi consiglieri in quota possano essere Agnelli e Lotito. E’ una ottima notizia e stavolta sarà bene evitare trabocchetti tipo quello delle ultime elezioni in A, quando grazie alla regia di Lotito (che stavolta per il Cf strizza l’occhio a Pozzo) Juve, Roma, Inter, Sampdoria e Fiorentina furono lasciate fuori dalla porta del Consiglio di Lega. Agnelli, che per diventare consigliere federale dovrebbe però chiudere (e farebbe bene) il contenzioso con la Figc alla quale chiede 458 milioni di euro di danni (!) per Calciopoli, prossima udienza presso il Tribunale di Roma il 3 marzo 2015, in Cf finirebbe col limitare gli eccessi dell’ingombrante ma tutt’altro che sprovveduto Lotito. Il presidente della Juventus coltiva un’idea che ci sentiamo di appoggiare e condividere: né l’uno né l’altro dovrà rivestire il ruolo di vicepresidente federale, carica onorifica cui come si sa il presidente della Lazio tiene in notevole misura. Ma che stona, per ovvi motivi. Un obiettivo che lo stesso Tavecchio dovrebbe benedire, affrancandosi così da vicinanze eccessive. Agnelli e Lotito insieme in Cf lo rafforzano e la rinuncia alle poltrone di vice da riservare ad altre componenti (Lega Pro e Aic) si tradurrebbe in un valore (simbolico) aggiunto utile a far quadrare il tutto.

Quanto ai programmi, quello di Tavecchio c’è già, opportunamente secretato e consta di 11 punti. Tra i più importanti, le misure che d’intesa con Palazzo Chigi verrebbero portate avanti per porre un argine all’invasione degli stranieri, qualcosa che certo non potrà essere contenuto nei desiderata di Agnelli&Lotito. Da una parte sfruttando il semestre europeo a guida italiana per rilanciare con forza la questione della specificità del calcio che ha bisogno di proteggere le proprie identità nazionali anche in presenza della consolidata libera circolazione dei giocatori comunitari, obiettivo (nei tempi dovuti) un numero minimo di cinque italiani in campo; dall’altra intervenendo sempre con l’aiuto del Governo sul fronte diluvio extracomunitari o presunti comunitari di più che dubbia origine. Anche se la regia è di un settantunenne, come novità non è poco.

RICHIESTA DI DANNI AI CONDANNATI

Patto per le riforme

l’ultima ipotesi Figc

La mina è Calciopoli

di FULVIO BIANCHI (la Repubblica 19-07-2014)

ROMA. Un patto per le riforme, pochi punti ma importanti e condivisi per uscire, tutti insieme, dalle secche. Anche se la Figc adesso è intenzionata a chiedere i danni di Calciopoli a chi è stato condannato (Moggi, Bergamo, i fratelli Della Valle, ecc.) e questo potrebbe minare l’accordo a cui stanno lavorando in molti, da consegnare poi a Carlo Tavecchio. E se patto ci sarà, già la prossima settimana, il presidente della Lega Dilettanti avrà il via libera e l’11 agosto diventerà il nuovo n.1 della Figc. La Lega di A ha tracciato la strada: Andrea Agnelli e Claudio Lotito, strana coppia ormai consolidata dopo i diritti tv, lavorano ad una piattaforma che, dopo essere stata approvata giovedì prossimo dai presidenti, verrà sottoposta al candidato (o ai candidati). Di cosa si tratta? Format a 18, seconde squadre, rapporti con la Covisoc, più elasticità nel mercato interno, ecc. Tavecchio è pronto a condividere questo piano: martedì incontrerà Macalli («e quel giorno — spiega — si saprà se ci sarà una candidatura unica», la sua) e allora avrà a disposizione un pacchetto di voti intorno al 45-46%, pronto a crescere e superare abbondantemente il 60% con Lega A, Lega B, e arbitri. Galliani, Lotito e Carraro stanno lavorando per lui. Damiano Tommasi, n.1 del sindacato calciatori, potrebbe rappresentare la candidatura di bandiera, «non ci sarà solo Tavecchio» assicurano dal sindacato calciatori. Ma Demetrio Alberini è amareggiato, sa che paga (anche) il fatto di essere stato calciatore. Anche se, con buon senso, parla di “condivisione”. Spiega: «Ci sono due anni a disposizione, c’è tempo di fare qualcosa di importante».

E’ chiaro che il lavoro che aspetta Tavecchio è immane, e molti consiglieri federali non cambieranno: ma potrebbe cambiare il clima. Tavecchio ha pronto il suo programma. Eccolo: affrontare la crisi economica, rilanciare il Made in Italy, mettere un freno agli extracomunitari, creare centri formazione per i giovani, potenziare il settore tecnico, varare una vera riforma dei campionati, riscrivere le norme anti-razzismo, lavorare col Viminale ad un serio piano contro la violenza, migliorare i rapporti con istituzioni e Coni. «Credo nel lavoro di squadra», spiega. Questo patto per le riforme, dopo il 28 luglio, potrebbe avere la benedizione di Malagò. E allora i giochi sarebbero davvero fatti. Mentre nel prossimo consiglio federale (1 agosto), l’ultimo di Abete, la Figc, come detto, chiederà i danni ai condannati di Calciopoli (ma non a tutti, Lotito sarebbe escluso). La cifra? Da quantificare in sede civile.

Ecco l'ultimo passaggio necessario. Vai così, AA... siamo tutti con te!

Stand by me

Ricordo di un'altra estate (con lo stesso cadavere)

P.s.

Manca solo l'appello di Vocalelli

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il Giornale 19-07-2014

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il Fatto Quotidiano 19-07-2014

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IL MATTINO 19-07-2014

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Questi son problemi seri(ssimi). In alto pensano solo a spartirsi la torta.

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Geoff Dyer on The World

Cup's Defining Foul

by GEOFF DYER (NEW REPUBLIC 13-07-2014)

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Traduzione Internazionale n.1060 18-07-2014

Mentre Arturi si preoccupa della M***A allo stadio, si fa strada la cultura...

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Macalli: Agnelli?

La regola dice no

«Esempio: se l’altezza chiesta per avere

un posto è 1,82 e sei 1,78 non entri, punto!»

«Il presidente federale? Prima i programmi, l’età non è il filtro principale»

«Tavecchio deve convincermi, Albertini fuori tempo massimo Bisogna cambiare»

di VINCENZO SARDU (CORSPORT 20-07-2014)

«I programmi, le regole, la serietà delle persone: sono le discriminanti nella scelta di chiunque debba avere un qualsivoglia ruolo. L’età? La linea verde va preferita a parità di doti, è un filtro che arriva dopo gli altri». Mario Macalli, dominus della Lega Pro, davanti alla necessità del calcio di darsi un vertice e una governance dice come la pensa («Ma non è la prima volta che lo faccio», aggiunge) e senza lesinare i fendenti, sia pure dati con classe e motivandoli con abbondanti ragioni. Come quelli assestati all’ipotesi di vedere Andrea Agnelli in Consiglio Federale, in contrasto con l’articolo 29 dello Statuto, come ricordato da Abete venerdì scorso: «La penso così: se per fare il consigliere comunale la regola dice che bisogna essere alti 182 centimetri e uno è alto 178 centimetri, quel ruolo non lo fa punto e basta. Ci sono delle regole, vanno applicate. Non è questione di nomi, di squadre, ma di regole».

Gli schieramenti per il vertice li ha osservati, annusati: ancora senza peli sulla lingua. «Ne ho sentite di inesattezze. Vuol sapere la mia? La Lega Pro non ha dato l’ok a nessuno. Ci dobbiamo ancora parlare con Carlo Tavecchio, che secondo alcuni avrebbe già il nostro assenso; deve presentarci il suo programma, noi abbiamo una lista di cose da consegnargli per capire se e come intende integrarle nel suo programma. Ecco quel che determinerà una nostra decisione che, quindi, ora non c’è».

Tavecchio da un lato, Demetrio Albertini dall’altro. Macalli continua: «Ci ho parlato con Demetrio, lo stimo, è un bravissimo ragazzo. Ma è come se qualcuno l’avesse lanciato in pista dicendo “vai avanti tu che a me vien da ridere”. Avrebbero dovuto candidarlo ufficialmente, con un programma, assicurandosi prima che lui fosse convinto. Ora una sua candidatura apparirebbe fuori tempo massimo e, fra l’altro, lui crede che un ex calciatore in quel ruolo sia visto non proprio bene dalle altre componenti».

Partita politica. Ma che partita è questa, presidente? «E’ una partita nella quale devono prevalere i programmi di riforma. Del settore tecnico, innanzitutto. Poi del settore giovanile, quindi la riforma dei campionati. Pensare al business come fanno alcuni grandi club è legittimo. Ma non si venga da noi a dire che quelli sono i sistemi per rilanciare il calcio italiano. La politica di crescita delle entrate serve, ma a nostro avviso soprattutto serve altro. Le nostre ricette spesso divergono». Ad esempio? «Sulle seconde squadre: una menata pazzesca. Se invece mandassero i loro tecnici, quelli preparati, investimenti e i giocatori in una delle realtà di Lega Pro, otterrebbero lo stesso risultato aggiunto al fatto che ravviverebbero la passione sportiva di un’altra città».

Se le divisioni sono tante, l’intesa non rischia di essere utopia? «Non è difficile capire che si deve remare insieme e dalla stessa parte. A livello di Leghe, penso non si tratti di materia impossibile. Forse con le associazioni è un po’ più complicato. Il bisogno di impostare una nuova strategia sul settore tecnico, tanto per dirne una, tocca posizioni su cui troppi si sono adagiati negli ultimi tempi».

Mannaia e miracoli. Avete appena fatto un Consiglio Federale da cui è arrivata la mannaia per Siena, Padova, Viareggio. Più la Nocerina già giubilata per ragioni disciplinari. «Noi di Lega Pro ci abbiamo rimesso una squadra su 59 (il Viareggio, ndr), il resto era ereditato. Ma anche qui bisogna cambiare. Non basta fare i miracoli per iscriversi a un campionato, occorre garantire la gestione per 12 mesi onorando gli impegni verso tutti, specialmente con erario e tesserati. E non è semplice: chi parte oggi, fino a ottobre ha soltanto spese, nessun introito. O hai la forza per resistere, o vai fuori: sono questi i sistemi di controllo e di rigore che servono, le regole esistenti non bastano: non sono regole nostre, quel poco che possiamo fare da noi lo abbiamo fatto, mi dispiace per chi ci rimette il posto ma la severità va vista come un’ancora di salvezza per l’intero movimento. Chi non ce la fa deve ripartire dal gradino più basso, senza scorciatoie». Ripescaggi? «Ne parleremo il 1 agosto».

Non è un estremismo. Macalli sa di usare concetti forti. «Ma non sono un estremista. Stare per forza tutti insieme non è salutare, non è utile; farlo dopo aver compreso quali sono le cose da fare, quelle che servono veramente, invece sì. Si getta fumo negli occhi della gente parlando di stadi nuovi come la panacea di tutti i mali: balle, chi vuole farselo uno stadio lo può fare. Non dico che non vada fatto, noi peraltro con quelli senza barriere ci stiamo muovendo da tempo. Ma la politica complessiva deve cambiare. Partendo da un vertice che non rappresenti una persona, o qualcuno, ma sia la materializzazione umana di un programma costruito da tanti e riconosciuto da tutti. Allora sì, davanti alle soluzioni serie, non avrò alcun problema a dire ai miei associati di sposare un candidato. Chi sarà? Vedremo. Abbiamo le mani libere, le impegneremo con chi porterà idee buone, efficaci, per il bene di tutti».

IL CASO FIGC-LOTITO-AGNELLI

Abete mette gli avvocati al lavoro

di ANDREA SANTONI (CORSPORT 20-07-2014)

«Ora si diverte solo lui...». Giancarlo Abete l’altro giorno aveva appena finito il suo intervento in Consiglio Federale e Marcello Nicchi, raccontano, non ha potuto fare a meno di chiosare quasi con invidia la relazione mirata del presidente uscente. Come scritto ieri, venerdì scorso Abete prima ha annunciato la possibilità di agire contro i condannati di Calciopoli, compresi i soggetti prescritti in appello (tra questi Lotito), poi ha ammonito indirettamente Andrea Agnelli, ineleggibile a ruoli federali dato il contenzioso da 443 milioni di euro ancora in piedi tra Juve e Figc. Regole, eticità, tutti temi sensibili e da maneggiare con cura, anche dal Coni, che adesso si trova un nuovo fronte aperto e scivoloso oltre alla già intricata vicenda elettorale della Federcalcio.

ATTI E DISTRATTI. Atti dovuti li chiamano tutti adesso. Abete domani darà mandato all’area legale della Figc, supportata da un collegio di consulenti esterni, di sciogliere il “nodo prescrizioni”. Tre le domande: se si debba procedere non solo contro i condannati ma anche contro i prescritti; se i prescritti abbiano fatto ricorso in Cassazione, elemento che li escluderebbe in questa fase da un’azione risarcitoria; se tale ricorso sia stato depositato nei termini utili di legge (entro 45 giorni). Come è noto il 17 dicembre scorso, a Napoli, c’era stata la sentenza in Appello del processo penale di Calciopoli. A differenza di Moggi, Pairetto, Mazzini, De Santis, Dattilo e Bertini, nuovamente condannati a pene diverse, era scattata la prescrizione per il reato di frode sportiva, tra gli altri, per Lotito e i fratelli Della Valle. Nessuno di loro ieri ha voluto commentare l’iniziativa di Abete. Neppure il presidente della Lazio, attivissimo in questo momento nei giochi federali a sostegno di Tavecchio. Del resto la sua vicenda processuale non è ancora conclusa, avendo il suo avvocato, Gianmichele Gentile, presentato ricorso in Cassazione il 15 aprile 2014, dopo il deposito delle motivazioni della sentenza di Appello avvenuto il 13 marzo.

SILENZIO. Nessun commento neppure da parte della Juve, sull’altro versante. Abete in questo caso, ha voluto affrontare un nodo per lui, antico tifoso bianconero, da sempre particolarmente sgradito. Il prossimo 3 marzo davanti alla Corte dei Conti è fissata l’udienza del procedimento della Juve contra la Figc. Ma il possibile ingresso di Andrea Agnelli nel Palazzo del calcio è questione di giorni. E l’articolo 29, che esclude l’eleggibilità a cariche federali per i soggetti che hanno un contenzioso aperto con la Federazione stessa, è un ostacolo oggettivo. Vediamo come e se verrà superato.

GASPORT 20-07-2014

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CORSERA 20-07-2014

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L'imbecillità si dovrebbe perseguire anche tra i giornalisti, vero Arturi?

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Se Abete chiede i danni per la farsa

Calciopoli dovrà spiegare tante cose

di LUCIANO MOGGI (Libero 22-07-2014)

Nel lontanto 2006 feci una promessa a me stesso e agli amanti del calcio: avrei fatto il “guardiano del faro”, sorvegliando coloro che si inventarono Calciopoli per colpire quanti avevano contribuito al trionfo mondiale dell’Italia, distruggendone l’immagine e impedendo loro di ricoprire posti di comando legittimati dalle loro capacità e da raccomandazioni. Mantengo la promessa.

Si legge che l’ex presidente Figc, Abete, abbia affidato agli avvocati la richiesta danni per gli imputati di Calciopoli, l’ultimo atto di un uomo perfido che non ha saputo (voluto?) lavorare per il bene del calcio: lo dimostrano le figuracce della Nazionale agli ultimi due Mondiali. Dovrà spiegare dove gli imputati hanno mancato, visto che la Giustizia Sportiva prima e la Giustizia Ordinaria dopo hanno sentenziato la regolarità del campionato: nessuna partita alterata. Saranno finalmente sentite tutte le intercettazioni e tutti capiranno come Calciopoli non doveva esistere. Si sentirà Abete quando, dopo una partita andata male per la Fiorentina, sussurava al suo vice «siamo rovinati» e anche «non sono venuto allo stadio per non dare nell’occhio». Perché si è sentito rovinato? E perché cercava di nascondersi, tenendo però in allerta il suo vice? Forse cercava di nascondere la sua volontà di salvare la Fiorentina?

Si sentiranno le telefonate di Carraro, allora presidente federale, quando intima al designatore di parlare con l’arbitro Rodomonti perché non favorisca la Juve in Inter-Juve del 28 novembre 2004; si sentirà il designatore spiegare all’arbitro due ore prima della partita quale dovrà essere il suo comportamento, intimandogli: «Questa telefonata deve restare tra me e te, altrimenti ne paghi le conseguenze». In quel match non fu espulso il portiere dell’Inter, Toldo, dopo un fallo da rigore...

Abete dovrà spiegare cosa è “Premiopoli” e perché il Capo Ufficio dell’Ufficio Premi e Lavoro Figc, dr. Vichi, amico di Abete e insegnante dei figli dello stesso presidente, insegnava a qualche amico come aggirare le norme Figc. In un verbale firmato dalle parti si legge: «Parlerò io con il tuo presidente, gli dirò come fare a non pagare il premio». Ci dovrà anche spiegare perché fu impedito all’avvocato Mattioli di aprire un’inchiesta su quell’ufficio dicendogli che lo stesso presentava delle precarietà; ci sono scambi di email tra Palazzi e lo stesso Mattioli che poi fu trasferito all’ufficio Doping. Naturalmente di Vichi non si ebbero più notizie. Sempre Abete dovrà spiegare perché “nascose” tre radiazioni ad un presidente che aveva “comprato” una partita: ricordate la valigetta con 250.000 euro?

Nel frattempo è comparso il Presidente del Coni Malagò, che ha capito le storture della Giustizia Sportiva e l’ha ribaltata. Non si potrà più condannare a piacere gli antipatici e assolvere i simpatici in processi sommari come Calciopoli: ora non sono più gli imputati a dover provare la propria innocenza ma spetterà alla Procura provare la colpevolezza. Così nessuno avrà più il giocattolo in mano come aveva Abete, non ci saranno giocatori finiti in carcere per il calcioscommesse e poi riammessi, non ci saranno più dirigenti radiati da incolpevoli: lo dicono le sentenze, lo affermano le intercettazioni.

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In fuga per il cartellino

SEI GIOCATORI DELLO SHAKHTAR DONETSK NON RIENTRANO

IN UCRAINA DOPO UN’AMICHEVOLE. MA È SOLO MARKETING

OLIGARCHI E PROCURE Sono cinque brasiliani e un argentino,

il loro valore è di 57 milioni di euro: giovani talenti da immettere

sul mercato europeo per abbassare il costo di tutti gli altri

di LUCA PISAPIA (il Fatto Quotidiano 22-07-2014)

Uno spettro da 57 milioni di euro si aggira per l’Europa, e per il calciomercato estivo. Si tratta del valore complessivo, calcolato attraverso le valutazioni di Transfermarkt, dei cartellini dei sei giocatori dello Shakhtar Donetsk che approfittando di un’amichevole giocata ad Annecy, in Francia, non si sono imbarcati con la squadra per il ritorno in Ucraina, dove venerdì comincia il campionato, e si sono resi irreperibili. Sono cinque brasiliani: Alex Texeira, trequartista di 24 anni (valore 17 milioni); Fred, altro trequartista, di 21 anni e solo omonimo del paracarro visto ai Mondiali come centravanti del Brasile (12 milioni); Douglas Costa, ala brasiliana di 23 anni e stella della squadra (17 milioni); due giocatori minori come Dentinho, seconda punta di 25 anni (2.5 milioni) e Ismaily, terzino sinistro di 24 anni (2.5 milioni). Più un argentino: Facundo Ferreyra, punta di 23 anni e del valore di 6 milioni. Questo il prezzo di una fuga che man mano che passano i giorni ricorda sempre meno la drammatica fuoriuscita da un paese in guerra della sua meglio gioventù calcistica, come gli ungheresi degli anni Cinquanta o gli slavi degli anni Novanta, e assume sempre i più i contorni di una studiata mossa commerciale per abbassare o annullare il costo del loro cartellino.

Se il presidente dello Shakhtar, Rinat Akhmetov, ha cercato una via d’uscita diplomatica, scrivendo sul sito ufficiale del club: “È vero, sei giocatori non sono tornati, ma non escludo che possano rientrare quanto prima. Non ci sono pericoli d’incolumità, lo garantisco. Non hanno nulla da temere. E ricordo ai giocatori che hanno firmato regolari contratti che prevedono pesanti penali, da decine di milioni, che devono rispettare. Se non torneranno, saranno loro per primi a rimetterci, ognuno ha una clausola per il trasferimento di decine di milioni di euro”. Il tecnico santone Mircea Lucescu, vecchia conoscenza del calcio italiano che in dieci anni alla guida della squadra più potente di Ucraina ha portato a casa, tra gli altri, 8 titoli nazionali, una Europa League e una storica qualificazione ai quarti di finale di Champions League, non ci è andato tanto per il sottile. E all’Equipe ha spiegato: “È colpa del loro procuratore che è un mafioso, è entrato in albergo alle due del mattino e ha convinto i giocatori a non ripartire, promettendo loro di venderli meglio sul mercato europeo”. Il nome, come spesso accade nei casi più clamorosi a livello internazionale, vedi le varie fughe di Tevez dall’Inghilterra, è quello dell’iraniano Kia Joorabchian, controverso faccendiere del calcio che Lucescu ha spiegato avere la procura delle stelle della squadra come Alex Texeira, Douglas Costa e Fred. E qui la faccenda comincia ad assumere contorni politici abbastanza intricati, come se quelli della Repubblica Popolare di Donetsk non lo fossero già abbastanza. Kia Joorabchian, che non ha la licenza di procuratore Fifa, gestisce la procura di diversi giocatori sudamericani attraverso prestanomi, o puntando direttamente all’acquisto di una consistente fetta del cartellino che poi gira in prestito alle varie squadre, come nel caso di Tevez. Una pratica, quella delle “terze parti”, su cui la Uefa e la Fifa faticano ad accordarsi, con la prima che vorrebbe considerarla fuorilegge e la seconda renderla regolamentare. Joorabchian dal 2004 al 2007 ha gestito l’organizzazione Media Sports Investments, per cui è finito sotto processo in un tribunale brasiliano con l’accusa di riciclaggio prima di uscirne completamente assolto, e il cui misterioso finanziatore secondo un’inchiesta del Times era Boris Berezovsky: ex oligarca e grande nemico di Putin e Abramovich, trovato morto l’anno scorso nella sua residenza inglese.

Al contrario, l’oligarca Rinat Akhmetov, uomo che secondo Forbes vale 16 miliardi di dollari e che dal 1996 ha comprato lo Shakhtar Donetsk, di Putin è grande amico. In Ucraina ha sempre appoggiato il Partito delle Regioni, dalle cui file è uscito l’ex presidente filorusso Viktor Yanukovych, e ora sembra sia tra i finanziatori dei separatisti della Repubblica Popolare di Donetsk. L’anno scorso inoltre Akhmetov era in prima fila, insieme a Ihor Surkis della Dinamo Kiev e altri oligarchi, nell’idea di ricostituire, riunendo le migliori squadre di tutti i campionati nazionali, la mitica Vysšaja Liga: il campionato di calcio dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ora con la guerra civile che infuria lo scacchiere si complica. E chi può, come Joorabchian, ne approfitta inscenando una fuga per la vittoria che se andrà a buon fine avrà l’effetto di deflazionare il calciomercato europeo, immettendo sul mercato giovani talenti brasiliani il cui costo del cartellino potrebbe abbattersi. E con quello spettro da 57 milioni che si aggira per l’Europa dovrà ora fare i conti il calciomercato, dato che rischia di svalutare il cartellino di altri giocatori in vendita.

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A billion reasons to put your

shirt on Manchester United

by SIMON BARNES (THE TIMES 21-07-2014)

Adidas is to pay Manchester United three quarters of a billion quid: effectively bribing the club to wear its gear. Several points arise from this, the most obvious being that if Adidas kit was good enough, Manchester United would wear it without being paid.

The act of paying a club to wear a certain kind of kit is a plain admission that there is not much difference between one shirt and another. The second point is that there is something called Financial Fair Play. If bunging a top club £750 million is fair on, say, Burnley, then I’m Lionel Messi. How can it possibly be fair to one club to be paid so much money for effectively doing nothing? How is that fair to Everton or Tottenham Hotspur, who finished above Manchester United last season?

Uefa’s Financial Fair Play regulations are a move against the Sugar Daddies, the people who chuck their dodgy petro-quids at a football team because they cannot think of any wise, caring, humanitarian ways of getting rid of the stuff. But an old-money club can get equally spurious and gasp-inducing sums chucked at them for just being themselves — and that is supposed to be completely all right. Soon we will be getting to a situation when any league in Europe can only be won by one or two clubs. Oh no, we’re already there, aren’t we? Who needs competition in sport?

Football has turned into Monopoly, in which you march the silver Scottie dog or the old boot around the board, systematically wiping out the opposition. This is the exact opposite model from the United States, where they prefer Utopian-socialism, at least in sport. If you buy a cap to show your love of Seattle Seahawks, the Super Bowl winners, then Houston Texans, who won only twice last season, will get a share. The worst club every year get first pick from the college draft.

Two different systems, but it is not really a political allegory because it is sport, which requires competition. If a sporting monopolist organisation succeeds in putting its rivals out of business, it no longer has a business itself. If you don’t have powerful and meaningful opposition, you have no sport.

In the Ferguson years, Manchester United turned themselves into Giant the Jack-Killer, routinely fighting off the challenges of the second-raters. If the brilliance of Ferguson was one factor, the lack of financial fair play was certainly another.

Is this lack of fairness what we really want? Is football better now that only two or three clubs are trying to win the Premier League? And a handful more seek best-loser’s prize of glorious fourth? Is football a better spectacle, a richer contest, a more vivid search for excellence in a system designed to make the rich get richer while the poor act as fall guys? Fairness, eh? So last century.

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IL RE TAVECCHIO, IL CALIFFO LOTITO

E IL LAVORO DEL CANE DA GUARDIA

di ANDREA MONTI (GASPORT 25-07-2014)

Le chiacchiere stanno a zero. Anzi 18 a 2, che più o meno è lo stesso. L’investitura plebiscitaria della Lega A - inattesa nelle proporzioni ma non nell’esito - consegna di fatto a Carlo Tavecchio la presidenza della Figc. A meno di clamorosi quanto improbabili ribaltoni, sarà lui il timoniere del calcio italiano per i prossimi due anni. Il fronte dei rottamatori che aveva in Albertini e Agnelli i suoi punti di riferimento ne esce rottamato. E senza neppure una vera battaglia.

Va detto con onestà: tra quelli che speravano in un deciso rinnovamento del calcio italiano dopo il disastro mondiale e l’omicidio di Ciro Esposito c’è chi vi scrive. Insieme con il 95 per cento dei lettori della Ġazzetta, una generosa fetta dell’opinione pubblica e la quasi totalità dei social network. Per la verità, la batosta l’avevo messa in conto sin dal primo editoriale, consapevole che l’astuzia dei vecchi manovratori trionfa quasi sempre. E che gli altri, come diceva Flaiano, sono pronti a correre in soccorso del vincitore. Insomma, non serviva un indovino: gli eccellenti articoli di Marco Iaria lo lasciavano chiaramente presagire. Ma un grande giornale dev’essere anche avvocato di cause perse quando ne vale la pena. Incassare la delusione e rimanere nell’onorevole, anche se un po’ solitaria, posizione del cane da guardia è parte del mestiere. Sono sicuro che ci divertiremo. Un po’ meno, temo, il calcio italiano.

Il nodo, conviene ripeterlo, non è rappresentato da Tavecchio o dalla sua età. L’uomo non è affatto il diavolo e ha gestito con successo il settore dilettantistico. La questione riguarda piuttosto la coalizione che lo sostiene. E soprattutto il calcio di serie A che è all’anno zero ma non intende cambiare percorso. Di fatto, da ieri, il principato di Claudio Lotito in via Rosellini si trasforma in califfato. E’ lui che insieme a Galliani, con instancabile energia e centinaia di telefonate, ha tessuto la tela della trattativa, individuato i compromessi necessari, nutrito i voltafaccia più inattesi. Ha rinsaldato la maggioranza che ha giocato il noto scherzetto a Sky sui diritti televisivi e, alla fine, non ha fatto prigionieri: a rappresentare la serie A in federazione saranno Lotito, l’alleato Pozzo e il fido Beretta. All’opposizione, solo la Juve e la Roma divise per altro da una fiera rivalità sportiva. Chapeau, presidente. Come sempre. Più di sempre.

Oggi conosceremo ufficialmente il programma di Tavecchio. Certamente vi rintracceremo buone idee e ottime intenzioni. Il problema è che di propositi lodevoli, sventolati e disattesi, è lastricata la strada che ci ha portato alla catastrofe brasiliana. E’ lecito dubitare che i padroni di ieri, ora califfi, abbiano imparato la lezione e diventino sinceri innovatori. Vedremo. Noi resteremo qui ad abbaiare, giorno dopo giorno. Le somme le tiriamo tra due anni. E altrettanto onestamente, ancora una volta, ci auguriamo di sbagliare.

Ma andate a ca**re... voi giornalisti ipocriti e soprattutto quel ridicolo rappresentante della più becera commedia all'italiana che risponde al nome di De Laurentiis.

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la classe dirigente italiana in toto

politica finanza industria sport etc etc

è indecente

in 20 anni noi non siamo riusciti a creare scegliere incitare una classe decente

non ci tiriamo fuori

non ci creiamo alibi

la colpa è nostra

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Palazzo di vetro di RUGGIERO PALOMBO (GASPORT 26-07-2014)

Consiglio a Tavecchio:

non diventi mai ostaggio di qualcuno

Ora che, piaccia o non piaccia, Carlo Tavecchio è di fatto il nuovo presidente della Federcalcio con diciassette giorni di anticipo sulla scadenza elettorale dell’11 agosto, giova riavvolgere il nastro per un paio di quiete considerazioni. Andrea Agnelli e Claudio Lotito erano stati demandati dalla Lega di Serie A a mettere giù un piano condiviso di desiderata da sottoporre alla propria assemblea prima e alla federazione poi. Avevamo salutato la cosa con estremo favore, ipotizzando un possibile e utile lieto fine, con la presenza di entrambi nel nuovo Consiglio federale della Figc. In realtà, Agnelli e Lotito, chissà mai perché, non si sono incontrati se non giovedì a pranzo, insieme a Galliani, qualche minuto prima dell’Assemblea di Lega. Ciascuno col proprio documento: una paginetta a cura di Agnelli intitolata «Governabilità, reddività ed efficienza al sistema»; comprensiva di tre punti e di un’appendice relativa alla calendarizzazione del programma. Sette pagine, sedici punti e annesso circostanziato schema operativo Lotito. E’ vero che non sempre la quantità fa la differenza, ed è vero anche che la sintesi propositiva della Lega da girare a Tavecchio è stata condivisa da tutti, anche dalle dissidenti Juve e poi Roma, ma è un fatto che alla fine in quel terribile 18-2 c’è anche un po’ di quei due documenti, così diversi fra loro.

Nel Consiglio federale con Lotito ci va Pozzo, proprio come desiderava il presidente della Lazio, mentre Agnelli è (almeno questo) entrato a far parte del Consiglio di Lega. Difficile dire se Agnelli sia stato trombato o se, come lui ha fatto capire, si sia trattato di una rinuncia «per coerenza»; vista la dichiarata avversione a Tavecchio. In questo secondo caso, a nostro modesto avviso, quella rinuncia è stato un errore. Un Agnelli all’interno del Consiglio federale, accanto a Lotito, sarebbe stato più utile. A se stesso ma soprattutto all’intero sistema. Quanto all’idea espressa che un presidente di federazione dovrebbe essere democraticamente eletto attraverso una sorta di primarie, dando voce ai tifosi e agli appassionati, prendiamolo come un umanissimo fallo di frustrazione. Di pareri ai Genny a carogna di cui è purtroppo pieno il nostro calcio ne sono già stati chiesti abbastanza. Considerazione numero due: mettere a confronto i programmi di Tavecchio e Albertini è un esercizio diventato di fatto superfluo, ma c’è qualcosa che merita di essere sottolineato. Riguarda l’inflazione di stranieri nella nostra serie A. Per Albertini l’idea era quella di almeno 8 giocatori italiani (o meglio utilizzabili in nazionale) in una rosa di 25 e via ogni tipo di tetto agli extracomunitari. Per Tavecchio, numero minimo di italiani in rosa come Albertini, tentare insieme all’Uefa di approfittare del semestre UE a guida italiana per cercare di porre un (problematico) freno all’utilizzo indiscriminato di giocatori comunitari, e sul fronte extra ispirarsi al modello inglese, Premier League aperta ai soli calciatori di accertato livello internazionale (elementi che hanno già circolato nelle rispettive squadre nazionali). Col senno di poi, ma anche col senno di prima, una notevole differenza di contenuti. Per noi, con buona pace di Lotito, Pozzo e di tutti quei presidenti di serie A che con gli extracomunitari e più in generale con gli stranieri vanno a nozze, sono migliori quelli di Tavecchio. Che ieri nella scoppiettante Assemblea dei Dilettanti ha detto di non sentirsi un Re Travicello. Anche se avere come grandissimo elettore il presidente della Lazio non è il massimo della vita, e la considerazione, come Tavecchio sa bene, è ampiamente condivisa da Palazzo Chigi, chi scrive è per una serena apertura di credito. La cosa più importante? Mai essere o diventare ostaggio di qualcuno.

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Arbitri: meno fischi, più righe

di PAOLO CASARIN (CORSERA 23-07-2014)

Il gioco del calcio pretende le righe bianche sul terreno; si sente sicuro solo con tracce ben visibili. Se nevica, gli addetti, con la scopa, riscoprono le righe, anche nel più piccolo stadio del mondo: senza la chiara demarcazione delle linee perimetrali e delle aree non ci può essere calcio. Tutto il mondo del pallone che conta sta chiedendo, ora, l’adozione della bomboletta spray: staremo a vedere se la schiuma brasiliana reggerà sui campi bagnati nei giorni di maltempo. Se il cielo prometterà neve, l’arbitro avrà con sé anche uno spray rosso. Al Mondiale i calciatori sono apparsi rassicurati dallo spray sulla punta delle scarpe: anzi, ancora prima che l’arbitro, con destrezza, tracciasse la riga dei m 9,15 per la barriera, erano già premurosamente disposti a retrocedere ulteriormente verso la propria porta temendo, forse, di cancellare lo spray appena deposto. È apparso chiaro che l’arbitro per bloccare, con giro di spray, il pallone e produrre la linea «magica» ha trascurato la precisione dei 9,15: non era importante la distanza, ma l’apparizione della nuova riga. Ci fosse stata una protesta per una barriera tropo vicina! Nulla. Non è che questa novità abbia prodotto più gol da parte degli specialisti nel sorvolare la barriera, ma certamente ha distribuito serenità. Che, insieme con la sicurezza tecnologica sulla linea di porta, ha prodotto un’euforia nei calciatori. Le linee sono la certezza del calcio. Per quanto riguarda quelle perimetrali ci sono gli assistenti, che fanno bene il loro lavoro soprattutto scoprendo che l’attaccante è oltre il difensore di pochi centimetri e perciò fuori dal gioco. Mancando però la linea, gli attaccanti e i difensori protestano spesso, quasi sempre ingiustamente. Bisogna giustificarli: senza la linea, perdono la serenità. Nel 1991 la Fifa provò a tracciare la linea del fuorigioco ai 16,50 metri, per tutta la larghezza del campo. Fino a quella distanza, dal centrocampo, non esisteva il fuorigioco. Oggi, non potendo tracciare la linea del fuorigioco, si cerca di eliminarlo o di attenuarne il peso. Il calcio del futuro avrà sempre più bisogno di linee certe; non potendo eliminare gli arbitri, li inviterà alla leggerezza regolamentare, che li farà gradualmente scomparire. Ormai nel calcio contano più le righe fatte con lo spray delle idee.

Le nuove “tecnologie” della Lega Calcio

di LUIGI GARLANDO (SPORTWEEK 26-07-2014)

Non è stato solo ciò che ha detto, ma come lo ha detto. Con una composta seriosità e una meticolosa selezione delle parole che sembrava alludere a una certa solennità della decisione e all’inizio di una nuova era. Come se si ragionasse sulla Striscia di Gaza e invece Maurizio Beretta, presidente della Lega Calcio, si riferiva a una striscia di schiuma: «È stato ratifcato l’uso delle bombolette spray sui campi di serie A. Quindi si partirà con l’adozione di questa nuova tecnologia (sic), che tra l’altro noi abbiamo chiesto per primi». Noi, menti illuminate.

E non è tanto l’annuncio, quanto la postilla. «Abbiamo anche già discusso degli aspetti logistici. Perché è evidente che queste bombolette non potranno essere portate dagli arbitri come bagaglio amano», spiega Beretta. Eh, no. Immaginate Rizzoli che si imbarca all’aeroporto di Bologna con la bomboletta nel sacchettino trasparente. Lo fermano ai controlli:«Questa dobbiamo trattenerla, non può imbarcarla: supera i 100 ml. Mi spiace». Prova a spiegare l’arbitro: «Guardi che mi serve domani per dirigere Palermo-Juve». Il funzionario suggerisce: «Provi a comprarne una da 100ml al duty free». Rizzoli insiste: «Con 100 ml di schiuma al massimo riesco a tenere a distanza cinque barriere. E se mi esce una partita cattiva? E poi al duty free trovo solo schiuma da barba che non sparisce dopo pochi secondi come questa, che è speciale. Per rimuoverla devo far entrare ogni volta il quarto uomo con il rasoio bilama che mi pela anche l’erba e poi mi ritrovo un campo a chiazze».

Per fortuna Maurizio Beretta ha assicurato: «Dobbiamo minimamente attrezzarci per forniture e logistica, ma sono problemi assolutamente gestibili». E meno male.

Magari non riusciremo a organizzare una dignitosa elezione del presidente federale e a dotarci di un c.t. invidiabile, magari non partiranno neppure stavolta un campionato di seconde squadre che faccia maturare i nostri talenti e un progetto tecnico che rianimi questo nostro calcio comatoso, magari continueranno a restare piaghe aperte quelle della violenza e degli stadi decrepiti, ma con le bombolette spray possiamo farcela. Oh, yes. «Problemi assolutamente gestibili». Alla fine, a colpi di burocrazia, riusciremo a far entrare le bombolette per gli arbitri nei nostri stadi dove, senza la minima fatica, continuano a entrare striscioni infamanti, bombe carta e arsenale vario.

La metafora perfetta di questa estate calcisticamente allo sbando, tra umiliazioni mondiali e dimissioni di massa. La Germania? Un valido progetto tecnico, investimenti opportuni, applicazione paziente e rigorosa: massimo risultato. Noi? Paralizzati davanti a una striscia di schiuma che diventa insormontabile come la catena delle Alpi.

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Che dire?Il topic ha un titolo azzeccatissimo, difatti il marciume continua!E la federpuzzola...puzza!!!

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Di chi sarà lo stadio della Roma

di LUCA PIANA (l'Espresso 31-07-2014)

Già entusiasti per l’ingaggio di Juan Manuel Iturbe, stellina del Verona, i tifosi della Roma possono guardare con maggiore sollievo al futuro, anche dal punto di vista finanziario. La società ha infatti concluso il previsto aumento di capitale, portando nelle proprie casse un gruzzolo di 98 milioni. Gran parte dei quattrini (77 milioni) ce li ha messi la Neep Roma Holding, la finanziaria dove si trovano le quote di controllo dei soci americani e di Unicredit, che continua così a sovvenzionare la squadra giallorossa. A che cosa serviranno queste risorse? E quanto dureranno? Il prospetto dell’aumento di capitale parlava chiaro: una volta restituiti alla Neep i prestiti che la holding stessa aveva effettuato alla Roma per anticipare i soldi dell’aumento e sistemate altre partite finanziarie, in cassa resteranno 21 milioni, che serviranno per coprire il fabbisogno finanziario dei prossimi 12 mesi. Poi si vedrà, anche alla luce degli introiti che potranno venire grazie alla partecipazione alla Champions League. Questi numeri, in ogni caso, fugano i dubbi che erano circolati nella tifoseria sui meccanismi di finanziamento del futuro stadio, che il presidente James Pallotta vuol costruire a Tor di Valle. È lo stesso prospetto dell’aumento a fornire alcuni dettagli: il nuovo stadio da 52.500 posti non sarà infatti di proprietà della Roma, ma con più precisione dei suoi azionisti. E, in particolare, dei soci americani, che stanno costituendo una apposita joint venture con i costruttori Parnasi. Dice il prospetto: «Lo stadio rappresenterà la sede per le partite casalinghe disputate dalla prima squadra», che in quelle occasioni avrà il diritto a «percepire i ricavi derivanti». Per il resto, sarà «autonomo e indipendente» dalla Roma. In sintesi: la società avrà il beneficio di non vedersi gravata dai costi di costruzione ma, in futuro, non potrà nemmeno incamerare la totalità dei ricavi aggiuntivi che verranno dalla nuova struttura. D’altronde, i conti non permettono alternative.

I Caltagirone non sono affatto convinti della bontà del progetto-stadio romanista

Il Messaggero nelle ultime due settimane

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Neanche i Mezzaroma

Claudio Lotito (Panorama 30-07-2014)

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Ci credono solo a Boston ed in qualche circolo pensionati romano.

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Noi, i gran commis

del signor Tavecchio

STRENUA DIFESA Il rinnovamento Figc non è una questione

solo anagrafica. È stata una scelta collegiale. Agnelli ha

sbagliato a credere che la B potesse scegliere diversamente.

di ALESSIO SCHIESARI (il Fatto Quotidiano 26-07-2014)

All’estero corrono il doppio, e non solo in campo”. Anche per Andrea Abodi, 54enne presidente della Lega Serie B, il calcio italiano è lento, da svecchiare. Eppure alle prossime elezioni in Federazione sosterrà la candidatura del 71enne Carlo Tavecchio. Giovedì, Andrea Agnelli ha accusato Abodi di essere stato, con il suo endorsement inaspettato, il cardinale decisivo per l’elezione a papa di Tavecchio. Sembra passato un secolo, non diciotto mesi, da quando il presidente della Juventus voleva Abodi a guidare la serie A.

Cos ’è successo?

Non abbiamo scelto Tavecchio in cambio di una rendita di posizione. Ci sono leghe che contano più di noi, credo fosse giusto uscire allo scoperto prima. E comunque non credo che lo strappo di Roma e Juventus sia così importante.

Sì, ma perché Tavecchio?

Noi siamo imprevedibili. Il rinnovamento non è una questione solo anagrafica. Le idee fresche le puoi avere a 70 anni e non a 40. Quella di Tavecchio è stata una scelta collegiale. Forse per errore ho fatto credere a Demetrio che la B potesse prendere un orientamento diverso.

Da dove deve ripartire il calcio italiano?

I campionati devono essere differenziati. La A è la locomotiva, deve essere messa nelle condizioni di competere con l’Europa, invece perde terreno. B e Lega Pro hanno due funzioni: la prima è scremare le squadre che puntano in alto non solo per i valori sul campo, ma anche per organizzazione e stabilità finanziaria. La seconda è diventare leghe di fascia anagrafica che preparano i giovani al salto di qualità. Nei dilettanti, infine, si vive il calcio amatoriale, quello più vicino alla gente. Solo se queste competenze sono chiare, la filiera funziona.

Si parla di seconde squadre. C’è spazio in questo schema?

Credo che molte funzioni che si vorrebbero attribuire alle seconde squadre, ad esempio far crescere i calciatori in ottica nazionale, possono essere svolte da B e Lega pro. Mi sembra una battaglia per risolvere problemi di parte, non sistemici. Detto questo, si può discutere di tutto. Bisogna però fare in fretta.

Perché gli altri corrono. Cosa ruberebbe a ciascuno dei tre grandi campionati: Premier, Bundesliga e Liga?

È un gioco perverso, il mondo reale non funziona così, ma gioco comunque. All’Inghilterra ruberei la cura del prodotto. Alla Germania la capacità di fare sistema, lì ognuno fa la sua parte. E poi lo scouting, la capacità di valorizzare il capitale umano, anche per i giovani immigrati che finiscono nelle nazionali. Della Spagna invece non prenderei nulla: l’idea di due sole squadre al comando, peraltro con favori e agevolazione, non mi piace.

Sui giovani immigrati Albertini ha detto che la Figc deve fare pressione sul governo per l’approvazione dello Ius soli. È d’accordo?

Sì, l’immigrazione è una ricchezza. E il calcio serve anche ad allargare le vedute.

C’è qualcuno che potrebbe fare da testimonial?

Se il riferimento è a Balotelli la risposta è no. Servono comportamenti, non figurine. Mario ha il diritto di essere ciò che è, noi non possiamo cambiarlo. Avrà modo di maturare, speriamo in fretta. Ma non ha bisogno di un esercito di educatori. A questo pensa già la sua famiglia.

Capitolo nazionale. Chi dovrebbe essere il prossimo ct?

Qualcuno che sappia di calcio, ma anche di vita. Qualcuno che parli coi colleghi di club e che sappia coordinare uno staff di allenatori giovanili.

Come si fa in Premier?

Esatto.

Quindi Mancini?

Non è una questione di nomi. Però sì, lo ammetto, potrebbe avere le esperienze giuste.

In questi anni di magra per il calcio italiano, alcune delle storie più belle vengono dalla serie cadetta, come il Pescara di Zeman. Chi altri ha lavorato bene?

Ho in mente quattro esempi, e mi scuso se lascerò fuori qualcuno. L’Empoli, per come lavora col vivaio. Anche il Novara, nonostante la retrocessione. Il centro sportivo Novarello è tra i migliori d’Italia, hanno in progetto uno stadio e sul fronte illeciti, dopo le responsabilità passate, hanno preso misure importanti. Poi il Cittadella, società piccola ma stabile: stesso allenatore da 9 anni, stesso direttore sportivo da 10. Infine il Bari, che nel giro di pochi mesi è passato da 5 mila a 60 mila spettatori. Il calcio serve a questo, a fare stare insieme la gente.

Cosa manca al calcio italiano?

La formazione. In B ci stiamo provando: diamo 23 borse di studio per l’università dei migliori ragazzi delle giovanili. Intendo migliori a livello umano, non sul campo. E abbiamo introdotto la formazione obbligatoria per allenatori, calciatori e preparatori. Li mettiamo insieme e li facciamo studiare.

Cosa deve sapere un calciatore?

Ad esempio il libro con le regole del calcio. Non ha idea di quanti non le conoscano.

L’ALLEGRO PRINCIPE DI ROMA

Conosce tutti e per tutti si spende. E’ l’uomo di mondo

che più di ogni altro incarna lo spirito della capitale.

Storia e storie di Giovanni Malagò, presidente del Coni

“Una volta fui invitato a colazione a casa di Marina Ripa di Meana, e c’era Craxi, doveva convincermi a sposare Lucrezia”

“Mi piace molto Matteo Renzi. Mi piace anche il fatto che non frequenta i nostri salotti romani. Se ne sta chiuso a Palazzo Chigi”

Malagò è come Roma, la città che più offre e si offre: la grande bellezza, una bellezza assoluta ma confidenziale

“Negli anni Settanta io sfuggii a un sequestro di persona. Fu un momento drammatico per la famiglia. Rapirono mio zio”

di SALVATORE MERLO (IL FOGLIO 26-07-2014)

A volte ci sono immagini talmente rivelatrici che bastano da sole a raccontare un’intera vita. E così a metà dell’intervista accade che mi squilla il telefonino. E’ un amico. Richiamerà, dico. Ma il principe di Roma, che mi sta di fronte, insiste con un irremovibile garbo perché io risponda. Così non faccio in tempo a biascicare un timido: “Pronto?”, che lui, trovando lo scherzo divertentissimo, quasi mi strappa il telefono dalle mani. “Sono il segretario del dottor Merlo, mi dica… Ma no. No. Eh. Sono Giovanni Malagò, sto facendo un’intervista con quel cazzaro di Salvatore”. E a questo punto ride di gusto. E rido anche io perché questo signore alto e brizzolato che sporge dall’altra parte dell’ampia scrivania, l’uomo che tutti dicono incarni l’essenza stessa della mondanità e del potere romano, è snodato e senza protervia, di Roma ha la faccia allegra e l’aria da spensierato ex scavezzacollo. “Da ragazzo vincevo molto al casinò. Monte Carlo, o Venezia, tornando giù da Cortina. A Roma passavo le notti giocando a poker con Carlo Caracciolo, Jas Gawronski, Claudio Rinaldi e Pietro Calabrese”. E mentre pronuncia queste parole lo sguardo gli naviga in un collirio affettuoso. “Poi al mattino, prestissimo, spesso telefonava l’Avvocato Agnelli e s’informava su chi stesse perdendo di più. E rideva. L’Avvocato aveva delle frequentazioni a compartimenti stagni. C’erano gli amici della politica, quelli dell’imprenditoria, gli intellettuali. E poi c’erano quelli che lo divertivano, quelli con i quali era scanzonato al massimo livello”. E qui Malagò sembra rievocare una stagione di scioltezza e intelligenza, “perché c’è naturalmente un’intelligenza mondana”, dice accennando un sorriso che emana sicurezza e vaporosa sostanza. E io immagino un godibilissimo universo composto di sarcasmi da salotto, paradossi per pochi intimi, finezze che dovevano apparire straordinarie forse anche perché evitavano l’offensivo trauma dell’esame esterno. “L’Avvocato si vantava d’essere un gran giocatore di ‘Le carté’. Forse non amava la filosofia del poker, sta di fatto che non giocava mai. Ma quel periodo è passato. Davvero. Finito. Ormai non gioco a carte da anni. Questione di opportunità”. E qui Malagò incassa la testa nel colletto della camicia sbottonata, si fa serio. “Io sono come un bicchiere, con l’acqua al bordo. Se ci aggiungo della roba, l’acqua esce. Dunque se aggiungo qualcosa deve valerne sul serio la pena. Non vado più nemmeno al casinò. Mi dicono che l’atmosfera è cambiata. La qualità delle persone”. Meno eleganza? “Una volta c’era gente che conoscevo. Ora siamo in piena, piena… piena globalizzazione. Per la verità non gioco nemmeno a pallone, come vorrei. Mi manca il tempo. E il tempo, ho scoperto, è il più grande dei lussi. A che serve aver accumulato ricchezze, se poi non te le puoi godere perché non hai tempo e dunque soffri?”.

Sulla sua struttura atletica di cinquantacinquenne ben conservato, sul suo corpo largo da sportivo (“ho giocato professionalmente a calcio a cinque, ho anche giocato i Mondiali, vinto due scudetti e la coppa Italia”), sull’intelaiatura dei tendini e dei muscoli, troneggia un sorriso amichevole, talvolta da fotoromanzo, oppure fissato in alcune espressioni di corruccio che si accompagna a un certo scrupolo nei gesti, in mosse geometriche, cadenzate, alle quali gli abiti stanno appesi con studiata e seduttiva noncuranza. In passato gli sono stati attribuiti flirt con decine di donne, ne ha corteggiate di bellissime, anche Monica Bellucci, pare. E alle donne, donne sportive, ha dedicato un libro, un’elegia della femminilità. “L’universo femminile mi confonde e mi affascina. Da sempre. Se esci con una bella donna, una donna elegante, che ha classe, che è divertente, se è una donna impegnata nel sociale, altruista, che fa sport, che insegna sport… E’ una gioia. Il cammino faticoso verso la scoperta d’un mistero”. Lei si è sposato due volte, gli dico. “Tanto per cominciare dammi del tu”. Okay. Ti sei sposato due volte? “In realtà soltanto una, con Polissena”. Polissena di Bagno, erede dei Malatesta, famiglia dantesca. “Anche se considero gli anni passati con Lucrezia come un matrimonio”. Lucrezia Lante della Rovere. “Abbiamo un rapporto splendido ancora oggi. Tutti noi. La mia prima moglie, Lucrezia, i figli di Polissena, le mie due figlie. Pensa che andiamo in vacanza insieme. Vengono anche i cani, i tre Labrador: Mou, John e Avena”. Hai avuto molti cani? “Ho sempre avuto un cane”. Labrador? “Sempre”. E’ un cane buono il Labrador. Un po’ c*z***e. “Forse è per questo che mi piace”. Ma è vero che Marina Ripa di Meana, la mamma di Lucrezia, voleva costringerti a sposare sua figlia? “Una volta fui invitato a colazione a casa di Marina, e c’era Bettino Craxi, cioè il presidente del Consiglio. Lucrezia non sapeva niente. Ma Craxi comincia a farmi uno strano discorso sui doveri. Insomma era una situazione abbastanza surreale”. E come te la cavasti? “Spiegai a Craxi che non potevo sposarmi perché il matrimonio con Polissena non era stato annullato. Oggi sono signorino”. Non hai una fidanzata? “Ho una relazione complicata”.

Susanna Agnelli ti chiamava Megalò. E forse, azzardo, il soprannome rispecchia la tua gioventù, restituisce l’immagine di un signorino di buona famiglia, con il colletto della camicia alto, la giacca avvitata sui fianchi che se non corre in Ferrari o sui campetti di pallone passa il suo tempo tra le due “c”: casinò e caffè, e poi con le ragazze. O no? E Malagò, per niente increspato: “Per la verità questo soprannome lo usa Dagospia. Non è di Susanna Agnelli. E conoscendo Roberto (D’Agostino) per la verità m’è andata pure bene. I suoi nomignoli sono, come dire, contundenti. La verità è che io ho sempre lavorato, dopo gli studi, nell’azienda di famiglia”. E Megalò, in fin dei conti, non è un nomignolo fastidioso, ci può stare. “Sì, ma niente a che vedere con gli Agnelli. Lupo Rattazzi, il figlio di Susanna, è il mio migliore amico, il mio socio al cinquanta per cento. E questo rende la cifra di tutta la considerazione che ho per lui”. Lupo è il fratello di Cristiano Rattazzi, grande amico di Montezemolo. Ed è così che nasce l’amicizia tra Malagò e Montezemolo, un’amicizia credo vitellonesca, ribalda, che dev’essere stata anche un gioco. Avete fatto molte cazzate insieme? “Tante, forse troppe”. Era un’altra epoca”. E leggi spesso Dagospia. “Come tutti, anche se si vergognano a dirlo”. Dagospia rappresenta bene la Roma del generone, la Roma “godona”, che è forse un po’ anche la Roma del tuo circolo, l’Aniene. “Ma no. L’Aniene è un posto magnifico”. Però D'Agostino lo chiami “Roberto”, siete amici? “Qualche volta lo vedo a Sabaudia, al mare”.

E insomma Malagò è amico di tutti, sorride a tutti, parla con tutti, da tutti si fa dare del tu, per tutti ha una parola buona, a tutti offre e tutti abbraccia. “Mi piace molto Matteo Renzi”, dice. “Mi piace anche il fatto che non frequenta i nostri salotti romani. Se ne sta chiuso a Palazzo Chigi, a lavorare, circondato dalle carte. Offre delle suggestioni, ma dovrà fare delle cose. Bisogna dargli tempo. E’ come se corresse la maratona con uno zaino da dieci chili sulle spalle, i chili del debito pubblico, della gestione dissennata dello stato. E mi piace anche la sua banda di ragazzini temperata dalla saggezza di Graziano Delrio. Che è un uomo molto per bene, e anche un ottimo giocatore di calcio”. Ci hai giocato con lui? “Purtroppo non gioco più”. E a questo punto Malagò fa salire il pantalone sulla gamba, abbastanza da mostrare una larga cicatrice che gli affligge il ginocchio. “Il legamento. Purtroppo. Ma con Graziano vorrei giocare”.

E mentre lo osservo penso che la sua non è la Roma del generone, peritosa e vile, portentosamente piccolo borghese, ma non è nemmeno quella di Campo dei fiori, quella radical chic, la Roma colonizzata dall’ultimo rutto à la page, o quella imbelle e Pasquina, quella curiale e papalina. Perché forse Malagò “è” Roma. Cioè in qualche modo lui è tutte queste cose, e tutte insieme, ma senza esserne davvero nessuna in particolare. Accompagna infatti la sua romanità a una certa, singolare capacità fattiva. Dello sport ha all’incirca un’idea decoubertiniana: è stato eletto presidente del Coni con un programma molto dettagliato, che ha fatto anche pubblicare e che mi consegna con un certo narciso compiacimento. Così quando gli chiedo se Demetrio Albertini ha possibilità di diventare nuovo presidente della Federcalcio, Malagò si fa diplomatico, ma mi fa anche capire che il campione dalla faccia pulita gli piace assai. E quando invece gli chiedo di alcuni presidenti di squadre di calcio, che di mestiere fanno tante e altre cose, e vogliono costruire stadi su terreni di loro proprietà, lui sfodera un fraseggio di straordinario nitore: “Il calcio ha bisogno di meno avventurieri, di meno gente con conflitti d’interesse, di meno gente che entra nel calcio per fare soprattutto altro. Questo sport, oggi in crisi, ha bisogno di una classe dirigente all’altezza”. Allora gli chiedo di Claudio Lotito, il presidente della Lazio, che ha criticato quella legge sugli stadi che invece, secondo Malagò, “è un ottima legge che contiene una parola totemica: pubblica utilità”. Alcuni descrivono Lotito come un avventuriero, per altri invece è un pittoresco di genio. Secondo te? “Andiamo avanti”. E la sua è un’ironia lieve, un’indole che non ha nulla di parassitario e predatorio, un modo di condursi che lo rende indiretto, soffice, etereo, eppure solido. E d’altra parte Malagò da decenni è soprattutto il circolo canottieri Aniene, l’associazione sportiva dove sono iscritti tutti quelli che contano in città, il club di Walter Veltroni ma anche di Gianni Letta. “La mia presidenza lì è ormai soltanto onorifica. Il Coni mi assorbe a tempo pieno”, mi spiega. Eppure all’Aniene lui fu eletto, e poi rieletto, ed eletto ancora. E per conservarlo alla presidenza è stato persino modificato lo statuto societario. Insomma lui davvero è come Roma, la città che più offre e si offre: la grande bellezza, una bellezza assoluta ma confidenziale, a disposizione di tutti.

E la politica mai? “Mai”. Ma sei nato nel 1959, dunque avevi diciotto anni nel 1977. E quelli erano anni di piombo e di politica. “Io stavo lontano da tutto. E poi l’onda della contestazione era passata”. Ma si sparava. “Erano anni brutti. Sfuggii anche a un sequestro”. Non lo sapevo. “Fu un momento drammatico per tutta la mia famiglia. Avevano puntato me, ma rapirono mio zio Tommaso, il cugino e socio di mio padre. Fu trattenuto per novantadue giorni. Una vicenda terribile che precipitò su una famiglia felice, abbastanza allegra. Mia madre è cubana, come forse sai già”. Sì l’ho letto. Parli spagnolo. “Mia madre fuggì da Cuba durante la rivoluzione castrista. Erano molto benestanti. Pensa che seppellirono la fortuna di famiglia nel giardino di casa, presero una tinozza ed espatriarono. Nel frattempo la villa divenne la centrale operativa della nomenclatura russa a Cuba. Incredibile. Mia madre per anni non è voluta ritornare, e noi figli siamo cresciuti con un’idea tra il rimpianto e il fastidio per quell’isola. Da ragazzino giurai che non ci avrei mai messo piede. Poi invece alcuni anni fa, per le nozze d’oro dei miei genitori, siamo tornati tutti. Mia madre aveva nostalgia. E così ho rotto il patto con me stesso….”. E qui Malagò sorride. Dice in un soffio, ironico: “Pensa che ora ho un rapporto personale con Antonio Castro, che è il vicepresidente della Federazione mondiale del baseball e softball”.

Da poco meno di un anno Malagò è presidente del Coni. A sorpresa ha sconfitto i suoi avversari, che erano favoriti. “E anche per via di questo incarico adesso molte cose sono cambiate nella mia vita. Sono diventato un funzionario pubblico, come vedi qui c’è il ritratto del presidente Napolitano. Io vado in giro per l’Italia due o tre giorni alla settimana. Ieri ero a Riva del Garda, il giorno prima ero a Firenze per la World League di pallavolo. Talvolta mi manco molto”. Così, quando ho telefonato a Malagò per chiedergli se aveva voglia di farsi intervistare, alcuni giorni fa, lui mi ha risposto in questi termini, con un lampo d’ironia nella voce: “Sì, con vero piacere. Ma quanto dura? Ti do una notizia: la differenza tra me e il mio amico Luca di Montezemolo è che io lavoro”. E infatti, un’ora prima che il mio telefono si mettesse inopportunamente a squillare in questa enorme stanza che gli fa da studio nella mussoliniana palazzina “H” del Coni, avevo osservato Malagò per parecchi minuti, impegnato, occhiali sul naso, a disbrigare la posta con l’ausilio delle sue efficientissime segretarie. Decine e decine di lettere e di e-mail, inviti, domande d’aiuto, petizioni da firmare, richieste d’incontro, “vedi qui c’è uno che vuole una mia presa di posizione sul divieto imposto alle donne di praticare certi sport nei paesi islamici”… E rispondi a tutti? Le segretarie, all’unisono, con movimento meccanico della testa mi fanno cenno di “sì”. “A tutti”, conferma lui. Poi si rivolge alle segretarie: “Questa lettera è del ministro Giannini?”. E quelle: “Sì”. E lui: “Va bene. Dobbiamo rispondere”. E a questo punto solleva lo sguardo verso di me, all’improvviso, con pupille beffarde, come attraversate da un’immagine incongrua, da un’idea divertente. E dunque, ancora una volta, mi rivela la sua graziosa disinvoltura nel cambiare registro, nel dosare in pochi istanti serietà e civetteria. “Beh lo incontriamo il ministro. Certo. Ma la Giannini resta, vero?”. E io: dipende dalla Mogherini, se va in Europa o meno. “Eh beh. Allora forse la Giannini resta”. Poi ritorna serio, a sfogliare la posta. “Qui ringraziare”, “qui pure”, “qui rispondere affermativamente”, “qui negare”, “mmmm”, “questo è Baldissoni della Roma. Scrivere: ‘Caro Mauro ne parliamo a voce’”. Altro foglio: “Okay”. Altro ancora: “Okay anche questo. Uffa. Va bene abbiamo finito, grazie”. A questo punto si toglie gli occhiali. Mi guarda. “Sono tutto per te”. Si fa per dire.

PANORAMA 30-07-2014

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5193 messaggi

Ma sto malagò è un puttaniere ?

O sbaglio?

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Joined: 14-Jun-2008
11014 messaggi

Ma sto malagò è un puttaniere ?

O sbaglio?

No, ce l'ha nel curriculum: da nato con la camicia in poi

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