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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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FourFourTwo | October 2013

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Il caso Le squadre di Prima e Seconda divisione vogliono adottare la misura introdotta dall’ex ministro per far ripartire l’occupazione giovanile

Legge Fornero per il pallone: sì ai contratti da apprendista calciatore

Assunzioni dopo tre anni Dopo tre anni le società potranno

decidere se trasformare il rapporto di lavoro in assunzioni definitive

di DARIO DI VICO (CorSera 04-09-2013)

Sta per nascere una nuova figura professionale: l'apprendista calciatore. A prevederla è l'accordo collettivo firmato per i prossimi tre anni dalla Lega Pro (Prima e Seconda divisione) e l'Associazione calciatori (Aic). In buona sostanza l'intesa tra le parti recepisce la novità prevista dalle legge Fornero che ha puntato proprio sull'apprendistato nel tentativo di far ripartire l'occupazione giovanile. Finora le prestazioni degli atleti sono state regolate da un contratto unico che si applica a tutti a prescindere dall'età, con l'apprendistato invece la Lega Pro presieduta da Mario Macalli ha intenzione di favorire le assunzioni grazie al risparmio sul costo del lavoro che si otterrebbe applicando la nuova legge.

L'obiettivo della riforma dei contratti per i giovani è anche quello di responsabilizzare le squadre che nel momento in cui assumono un apprendista dovranno impegnarsi a seguirlo e a formarlo con apposito personale tecnico. Dopo tre anni potranno decidere se trasformare il contratto e assumere definitivamente il giovane o sciogliere il vincolo. Si tratta, dunque, di una liberalizzazione «dolce» che secondo Macalli potrebbe aprire la strada sul breve a 600 nuove assunzioni e sul medio periodo dovrebbe aiutare le squadre a strutturare meglio i vivai e a selezionare i maestri. Oggi un giovane ottiene obbligatoriamente un contratto, giuridicamente uguale a quello dei campioni, dopo che ha giocato un numero minimo di gare ufficiali (attorno a 15) ma il fenomeno degli aspiranti campioncini che diventano degli sbandati e dei falliti già a 24-25 anni preoccupa non poco. Il regime di apprendistato dovrebbe servire a organizzare meglio l'alternanza tra pratica agonistica e frequentazione scolastica (oggi il tasso di abbandono degli studi è elevato) e a mettere in grado i ragazzi di affrontare i pericoli che si presentano nel mondo del pallone, dal doping al giro delle scommesse clandestine.

Ma il mondo dello sport può uniformarsi al resto del mercato del lavoro? La scommessa dei dirigenti di Lega Pro è questa e tra una settimana il presidente Macalli ne parlerà con il ministro del Welfare, Enrico Giovannini. Il comitato scientifico della Lega, presieduto da Victor Uckmar, ha già elaborato le sue risposte: c'è piena compatibilità tra attività calcistica e applicazione della legge Fornero, le squadre possono risparmiare sulla decontribuzione e sugli emolumenti (si pensa a un 20%) e per finanziare l'intera operazione si può far ricorso a un vecchio fondo istituito nel 2000 e che ha ancora una dotazione di 8,5 milioni di euro. Se tutto filerà liscio le squadre potranno cominciare subito dopo a usare il nuovo contratto e a quel punto vedremo se il contagio dalla Prima e Seconda divisione si estenderà alle serie maggiori. La Lega Pro già sta provando a riformare il calcio con le quote giovani, più si usano nelle rose di prima squadra gli under 23 più incentivi vengono versati alla società. «Per salvare il gioco più bello — dicono — è necessario aprire la stagione delle riforme».

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I FATTI NOSTRI

LA BEGA SUPERCOPPA

E IL... RISO CINESE

di TONY DAMASCELLI (TUTTOSPORT 06-09-2013)

Mezzora, qualcosa meno, per ascoltare le parti e più di due ore per decidere quello che in un Paese normale non sarebbe mai finito sui tavoli di una corte di giustizia, semmai in un cortile di condominio periferico. Ma il football italiano abbisogna di farsi conoscere e riconoscere e così ieri pomeriggio a Roma, dinanzi alle sezioni riunite della Corte di Giustizia della federcalcio, dopo due mesi di pensieri e parole, di carte bollate e memorie difensive, la vicenda dei denari della Supercoppa è stata definita, con un finale da zelig: la Corte di giustizia della Figc ha dichiarato "inammissibile" il ricorso della Juventus contro la delibera della Lega di Serie A relativa alla "suddivisione degli incassi della Supercoppa, per difetto della competenza a conoscere della vertenza in capo alla presente Corte".

Tradotto significa: non siamo noi a dover decidere, avete sbagliato ufficio, vi dovevate rivolgere ad altri giudici, qui c’è difetto di attribuzione. Come la vogliamo chiamare questa storia? Che cosa dobbiamo pensare dei personaggi e degli interpreti di questa commedia all’italiana che ha visto sfilare davanti al presidente Gerardo Mastrandrea l’avvocato Gentile con Lotito per la Lazio e gli avvocati Chiappero e Turco per la Juventus, che già hanno pronto il ricorso all’Alta Corte del Coni?

Alla Lazio restano i quattrini, un milione e ottocentomila euro decisi dal consiglio di Lega del ventisette di giugno scorso, assente la Juve; alla Juventus, seicentomila euro, compresi diritti televisivi e pubblicità ma con un’aggiunta preziosa: la Supercoppa si trova al sito del club bianconero, per eventuali visite rivolgersi ai diretti interessati il resto è davvero miseria senza nobiltà. Dall’aprile scorso si sapeva che la sede di Pechino e la data prescelta avrebbero creato ostacoli al programma di allenamenti e amichevoli della Juventus. Non si sapeva nemmeno se la vincitrice della Coppa Italia potesse essere la Roma o la Lazio, dunque nessuna azione prevenuta. Il pilatesco atteggiamento della Lega ha permesso a Lotito, forte del nuovo potere politico assunto nel consiglio con alcune complicità interessate, di approfittare della contemporanea fragile linea politica di Andrea Agnelli che aveva scelto come compagni di schieramento nuovi sodali. La bassa politica ha portato a bassa soluzione che danneggia soltanto la Juventus e il suo presidente che ha messo la faccia e ha perso i soldi a favore di chi si considera vincitore sul codice ma perdente sul campo.La sentenza non è stata affatto ardua, più che ai posteri va consegnata ai poster. Il calcio italiano e la sua giustizia continuano a fare passi da gigante, più che di ranking parlerei di ranch.Un paio di suggerimenti: il primo agli uffici legali dei club, prima di muoversi, come diceva Totò, si informino (già lo fanno). Il secondo ai dirigenti del calcio tricolore: la prossima finale di Supercoppa è prevista per l’estate del duemila e quattordici: nel frattempo verranno giocate diverse partite di campionato, di Coppa, nazionali e internazionali. Ci sarà, dunque, il tempo per riflettere, fare due conti e di evitare la figura che ha fatto ridere anche i cinesi. Ci siamo fatti riconoscere a Pechino. Un bell’applauso. Anzi, un bell’inchino.

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L’INCHIESTA IN ANTEPRIMA

La violenza non abita più lì

Un’indagine condotta su 2.500 persone demolisce definitivamente i luoghi comuni

sugli ultras. Il teppismo non è più padrone degli stadi. Per il futuro si chiedono

meno restrizioni e più servizi per combattere il calo di presenze sugli spalti

di ROBERTO MASSUCCI & NICOLA FERRIGNI (IL ROMANISTA 06-09-2013)

Nell’immaginario collettivo permane ancora quel senso di diffidenza, se non proprio di paura, quando si pronuncia la parola ultrà. A questo termine associamo, quasi d’istinto, immagini forti di scontri violenti negli stadi, di feriti, di guerriglie, di inciviltà. E invece la realtà è un’altra. Lo dimostrano i dati oggettivi, frutto di attente e scrupolose analisi dalle quali è emerso un nuovo modo di concepire l’ultras: figura non più legata soltanto alla violenza gratuita ma anche protagonista della sana tifoseria negli stadi.

Il cambiamento che ha caratterizzato il mondo della tifoseria è stato il risultato di numerosi elementi congiunti di natura socioculturale da una parte e di politica della sicurezza dall’altra. E ogni soggetto che compone il mondo del tifo calcistico ha contribuito in maniera responsabile al raggiungimento del lodevole risultato in termini di abbattimento del rischio scontri allo stadio. A partire proprio dagli stessi ultras che per primi hanno contribuito a dare alla tifoseria una nuova veste: cori, spettacolo, festa e divertimento. La violenza e gli scontri ormai appartengono al passato. Certo sporadicamente qualche evento spiacevole continua a verificarsi, e probabilmente si verificherà ancora, ma nulla a che vedere con le risse sanguinarie che caratterizzavano sistematicamente gli incontri di calcio qualche anno fa.

Un ruolo di primo piano, in questo cambiamento, va attribuito anche alle forze di polizia, alla crescente attenzione nel mettere a punto tutti i sistemi di sicurezza per evitare episodi di violenza durante le partite, Nell’immaginario collettivo abbiamo vive nella memoria le immagini degli scontri agli stadi in cui sembravano schierati due nemici: le forse di polizia da un lato e le tifoserie dall’altra. Con molta probabilità si trattava di contestazioni allo stato, alle Istituzioni, ma oggi tutto questo è cambiato. Sono stati introdotti, ad esempio, gli steward e l’uso della forza da parte della polizia si è quasi azzerato.

L’apertura e la voglia di confronto e di dialogo tra gli ultras e le Istituzioni, così come il desiderio da parte delle stesse tifoserie di fare luce e chiarezza circa la nuova era che caratterizza il tifo calcistico, vengono ampiamente dimostrate e sostenute dalla massiccia partecipazione, spontanea e volontaria, alla ricerca: quasi 2.500 tifosi hanno deciso di aderire all’indagine sociologica compilando il questionario.

Massucci è primo dirigente della Polizia di Stato, Vice Presidente operativo dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive; Ferrigni è direttore del Link Lab della Link Campus University

«Il 27,1% va sporadicamente alla partita per i prezzi elevati»

«Il 60,7% si reca in trasferta con minore frequenza rispetto al passato»

Ai tifosi intervistati è stato chiesto di indicare quale aspetto associano all’idea e alla nozione di "stadio" e, dunque, quello che maggiormente le caratterizza. Circa la metà dei tifosi (42,7%) non ha dubbi nell’indicare la squadra del cuore quale principale associazione; a seguire, i tifosi per i quali il collegamento più immediato è quello con il fenomeno degli ultras (25,8%) e con lo spettacolo offerto dal calcio giocato agli attori che animano le tribune (12,9%). Marginali, invece, le percentuali relative ad altri aspetti indicati, quali il concetto generale di sport (8,6%), il disordine (2,9%) e l’idea dello stadio quale palcoscenico di episodi di violenza (1,6%).

Caro stadio, quanto mi costi…

Ancora una volta la componente economica risulta alla base delle motivazioni che influiscono sulla scelta di non godere spesso dello spettacolo calcistico direttamente dalle tribune dello stadio. Ben il 27,1% degli intervistati, infatti, dichiara di recarsi sporadicamente allo stadio per i prezzi elevati dei biglietti o degli abbonamenti. Ad incidere in maniera significativa sulle scelte dei tifosi vi è anche la nuova normativa in materia di sicurezza negli stadi (15,6%), così come la calendarizzazione delle partite che ne modifica le abitudini di fruizione (15,5%), la distanza dallo stadio (13,5%) e la possibilità di seguire le partite e gli highlights direttamente da casa.

Preferisco la Tv, ma se la normativa fosse meno restrittiva…

La concorrenza della pay-tv si rende più evidente se si analizzano le risposte di coloro che hanno dichiarato di non recarsi mai allo stadio: tra le motivazioni riferite, infatti, prevale l’opportunità offerta dalle piattaforme televisive di seguire da casa le partite di campionato (20,8%), seguita dalle nuove norme che disciplinano la sicurezza negli stadi giudicate drastiche e restrittive (18,9%).

Cara vecchia trasferta…

Gli intervistati dichiarano, inoltre, di recarsi in trasferta con la propria squadra del cuore con minore frequenza rispetto al passato (60,7%) mentre coloro che sembrano non avere modificato le proprie abitudini rappresentano il 28% del campione. Solo l’11,3% degli intervistati, invece, afferma di andare in trasferta molto più spesso rispetto al passato.

Quando si parla di sicurezza degli stadi non si può non affrontare l’annoso problema dell’ammodernamento degli stadi italiani. I nostri sono impianti costruiti molti anni fa con criteri non più adeguati alle attuali esigenze non solo di fruizione della gara ma anche si sicurezza e qualità infrastrutturale. E sono proprio i tifosi che complessivamente nel 52% dei casi giudicano inadeguati gli impianti sportivi definendoli poco (36,7%) o per nulla (15,3%) sicuri. La pensa diversamente invece il 41,2% del campione interpellato che giudica abbastanza (35,8%) e molto (5,4%) sicuri i nostri stadi. Non è in grado di esprimere un’opinione al riguardo il 6,8% dei tifosi intervistati.

Perché perché la domenica mi lasci sempre sola…

Il 55,5% dei tifosi sostiene che il cosiddetto spezzatino ha modificato le proprie abitudini di frequenza dello stadio proprio perché è impossibilitato ad andarci al di fuori della domenica. La nuova calendarizzazione non ha invece modificato le abitudini del 37,4% dei tifosi che continua a recarsi allo stadio con la stessa frequenza del passato.

La normativa sulla sicurezza è stata - e continua ad esserlo - al centro del dibattito tra le tifoserie e le Istituzioni. Le prime perché considerano troppo restrittive le norme che regolano la sicurezza degli stadi, le seconde perché hanno il compito di garantire e assicurare che lo stadio diventi solo un momento di gioia e di festa per gli spettatori.

Molto spesso però accade che di fronte all’introduzione di nuove regolamentazioni i tifosi si siano dichiarati contrari solo perché hanno percepito una riduzione della libertà di azione negli stadi. Obiettivo quindi della seguente domanda è stato quello di verificare se i tifosi conoscessero realmente la normativa sulla sicurezza.

A tal fine sono stati proposti quattro aspetti della nuova regolamentazione sulla sicurezza negli stadi. Per ciascuno di essi è stato chiesto ai tifosi di indicare se si trattasse di una asserzione vera o falsa. Il primo aspetto riguarda il rischio di essere reclusi per un periodo che va dai 6 mesi ai 3 anni per chi viola il Daspo. A questa prima asserzione il 60,5% dei tifosi ha indicato giustamente come vera la definizione.

La normativa sulla sicurezza stabilisce infatti una pena pecuniaria fino a 10.000 euro per chi viola il Daspo ed il 43,8% non ha saputo dire se si trattasse di una possibilità vera o falsa. Ha risposto correttamente solo il 30,6% del campione.

Se potessi modificherei…

All’interno della nuova normativa sulle manifestazioni calcistiche complessivamente il 51,9% dei tifosi modificherebbe poco (24,2%) o per nulla (27,7%) la figura dello steward. Tale considerazione emerge soprattutto tra i tifosi con un più alto titolo di studio (complessivamente per il 54% dei laureati) e tra gli over 65 anni (complessivamente per il 55,6%). A livello geografico non ci sono invece differenze percentuali significative.

L’aspetto per cui i tifosi si mostrano maggiormente intolleranti è la tessera del tifoso. Basti pensare che circa tre tifosi su quattro (74,2%) vorrebbero "abbastanza" (8%) e "molto" (66,2%) modificare tale aspetto della normativa.

Interessante notare che la maggioranza dei tifosi (per niente 38,9% e poco il 18,2%) non sarebbe d’accordo se si escludesse la Polizia dal campo calcistico. Il disaccordo proviene soprattutto dai tifosi del Nord-Ovest (per niente e poco interessati alla modifica della normativa complessivamente nel 60% dei casi) seguiti da quelli residenti al Sud e nelle Isole, "per niente" e "poco" favorevoli alla proposta rispettivamente nel 42,3% e 15,9% dei casi. Lo scorporo del dato per titolo di studio vede soprattutto i laureati e i diplomati non interessati ad escludere la Polizia dal campo di calcio. Il 62,3% sarebbe infine abbastanza (12,2%) e molto (50,1%) favorevole a modificare la normativa relativa all’introduzione dei divieti all’ingresso nello stadio.

L’inchiesta "C’era una volta l’Ultras" è pubblicata dalla casa editrice "Eurlink Edizioni Srl" ed è stata promossa e coordinata dall’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive e realizzata dall’Università Link Campus University ed è stata supportata dalla Figc e dalle Leghe calcio professionistiche.

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SPORT 06-09-2013

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Sembra che Fulvio Bianchi sia stato capace d'effettuare uno scoop ma putroppo sta andando tutto a puttane. Infatti, se per caso esistesse UN giornalista con il coraggio di approfondire i rapporti della Infront invece di quelli carnali della Began non saremmo più ufficialmente in Italia.

SPYCALCIO di FULVIO BIANCHI (Repubblica.it 06-09-2013)
L'ape regina, Infront
e quei 370.000 euro...

Un mega-ingaggio per occuparsi di diritti tv: Sabina Began, l'ape regina, l'ex amante di Silvio Berlusconi(vedi Spy Calcio del 5 settembre), ha un nuovo incarico. Ben pagato: 370.000 euro all'anno. La signora Sabina Beganovic, 39 anni, attrice ballerina, di origine tedesca-bosniaca, ha infatti dichiarato: "Sì, lavoro per una società sportiva estera che collabora con la Infront". Questa la nota rilasciata da Infront Italy:" In riferimento a quanto pubblicato oggi su La Repubblica e altri organi di stampa, Infront Italy smentisce l'esistenza di un rapporto di collaborazione con la Signora Began. La Signora difatti non è stata, né è attualmente dipendente di alcuna società del Gruppo Infront e non ha mai avuto, né ha rapporti di collaborazione diretta o indiretta con Infront e le sue associate". Ma la Began ha parlato di una società "che collabora con Infront". E allora?

Sul suo mega-stipendio, invece, l'ex ape regina non ha voluto dire nulla. "Affari miei". Da noi contattata stamani ci ha detto con gentilezza: "Mi scusi, sono stanca. Non voglio aggiungere altro. Non è il momento di rilasciare interviste. E poi non sono mica famosa, non sono Berlusconi... Vorrei essere lasciata un po' in pace". Ma ci può almeno dire se, secondo lei, Berlusconi si salva? "Pregherò sempre che Dio lo salvi. Dio gli è sempre vicino. E ora, mi scusi: non vorrei dire altro".

Modificato da Ghost Dog

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Dai Balcani al Togo

la guerra è rotonda

DALLA SQUADRA DI SREBRENICA CHE VUOLE SPEZZARE L’ODIO ETNICO, AGLI HUTU E TUTSI RUANDESI

CHE SONO SCESI IN CAMPO INSIEME PER LA COPPA D'AFRICA. MA A VOLTE IL CALCIO È STATO

ANCHE PRETESTO D’ODIO: DAL MUSSOLINIANO “VINCERE O MORIRE” AI GIOCATORI UCCISI DA HITLER

di ALESSANDRO OPPES (il Fatto Quotidiano 08-09-2013)

A Srebrenica, dove nel 1995 si consumò il maggior genocidio etnico della guerra dei Balcani, c'è una squadra di calcio che è molto più di una squadra di calcio. Il Guber, iscritto al campionato bosniaco parallelo riservato alla minoranza serba, ha lanciato una sfida carica di ideali e alimentata da un sogno: sconfiggere l'odio, puntare all'integrazione. È l'unico club multietnico, formato, oltre che da serbi, anche da musulmani e croati. Logico che, quando scende in campo, sia accolto spesso dagli insulti delle tifoserie rivali. “Per vincere il torneo – ha ammesso il direttore tecnico Jusuf Malagic – dobbiamo avere il doppio dei meriti rispetto a una squadra normale”. Ma è un handicap che vale la pena affrontare. Anche se il cammino è lento, e le ferite di una guerra non si rimarginano che col tempo, molto tempo. L'importante è che accada.

Ce l'hanno fatta, e non è poco, anche i ruandesi, che nel 2004, dieci anni dopo il genocidio di 800 mila connazionali, si sono presentati – hutu e tutsi insieme – allo stadio tunisino di Rades per la partita inaugurale della Coppa d'Africa. Qualificati per la prima volta nella storia alla fase finale della competizione. Non poteva esserci occasione migliore per mettere da parte vecchie ruggini, dimenticare il tempo in cui sulle carte d'identità era indicata l'etnia di appartenenza, e i matrimoni misti erano vietati. “Qui non c'è odio né rivalità o risentimenti”, disse in quei giorni con orgoglio Frederick Visima, dirigente di quella che era stata ribattezzata la “squadra della pace”.

Il grido littorio

Lo sport, diceva il barone Pierre de Coubertin, “può essere usato per la pace o per la guerra”. Purtroppo, molto spesso si dà il secondo caso. Ma questo non vuol dire che siano i campi di gioco a incubare il germe della violenza. Quasi sempre è vero il contrario. “Lo specchio non ha la colpa del viso, né il termometro ha la colpa della febbre”, rifletteva saggiamente Eduardo Galeano. La regola è che ci sia dell'altro. Dal disagio sociale, alle esigenze dei regimi politici, che hanno interesse a soffiare sul fuoco dei nazionalismi, portandoli a volte tra le mura di uno stadio. Secondo il filosofo Fernando Savater, il calcio “è un sostituto della nazione, e le partite sono in un certo modo un sostituto degli scontri e della guerra, ciò che contribuisce a risvegliare sentimenti nazionalisti”. Basti pensare all'uso cinico che, di questo sport, è stato fatto da parte dei tiranni. A cominciare da Mussolini, che non risparmiò energie per ottenere l'organizzazione dei Mondiali del 1934 e garantire all'Italia il trionfo finale. Che puntualmente arrivò. “Vincere o morire”, era la parola d'ordine. E allora, meglio vincere. Gli azzurri di Vittorio Pozzo, in un tripudio di saluti fascisti, fecero il bis quattro anni dopo in Francia. Per l'invidia della Germania di Hitler, incapace di rispettare la consegna di Goebbels, secondo cui “vincere una partita internazionale, per la gente è più importante che conquistare una città”. Il Terzo Reich aveva, appunto, più fortuna su quest'altro fronte. Ma le sconfitte calcistiche non le mandava giù. E a volte sapeva come vendicarsi.

La partita della morte

Il 19 settembre 1941 le truppe tedesche avevano occupato Kiev, mandando migliaia di ucraini nei campi di concentramento. Il calcio non si fermò neppure in quei giorni di terrore. E fu soprattutto per la passione sportiva di un collaborazionista ceco, Josif Kordik, proprietario di un panificio. Quando scoprì che, tra i prigionieri che lavoravano alle sue dipendenze, c'erano alcuni dei suoi idoli locali, calciatori della Dinamo e del Lokomotiv, li unì sotto la bandiera di una nuova squadra, lo Start. Ci fu un campionato. E presto arrivò il momento della resa dei conti con i tedeschi del Flakelf, la squadra formata da ufficiali della Luftwaffe. Per i nazisti, vincere era l'imperativo. E invece vennero sconfitti: 5-1 al primo assalto. Tanto che pretesero una rivincita da disputare tre giorni dopo, il 9 agosto 1942, allo stadio Zenith, con la direzione arbitrale di un ufficiale delle Ss.

La chiamarono “partita della morte”, e aveva un senso. Gli ucraini sapevano di dover perdere , ma non vollero sentire ragioni. Finì 5-3 per lo Start. Che subito dopo ne pagò le conseguenze. Il primo a essere torturato e ucciso fu l'attaccante Nikolaj Korotkykh. Gli altri dieci giocatori vennero spediti nel lager di Siretz, quasi nessuno ne uscì vivo. Tutto il contrario di quel che accade nella libera trasposizione cinematografica di questa vicenda, il film del 1981 Fuga per la vittoria, di John Huston.

Conflitto in campo

È vero, il calcio c'entra. Ma solo in parte, e non è la più importante. Se Honduras e Salvador si affrontarono nel 1969 in una feroce guerra-lampo, rievocata in modo memorabile nel libro di Ryszard Kapuscinski (appena 100 ore, dal 14 al 18 luglio) fu per un odio che veniva da lontano. Una rivalità storica tra i due popoli centramericani, in più alimentata, a quell'epoca, dalla propaganda dei rispettivi governi militari. Però sì, la miccia si accese sul terreno di gioco, durante le eliminatorie per il Mundial messicano. Partita d'andata a Tegucigalpa, il 6 giugno. Il regime, che aveva interesse a far ricadere la responsabilità dei mali del paese sui 300 mila immigrati salvadoregni (la maggior parte clandestini) incitò gli hinchas locali a rovinare il sonno agli ospiti: una notte davanti all'hotel, tra insulti e frastuono assordante. Il giorno dopo El Salvador fu sconfitto. Ma i suoi tifosi, in occasione dell'incontro di ritorno, si vendicarono con gli interessi. Violenze, morti e feriti. E salvadoregni vittoriosi sul campo, tanto in patria come – due settimane più tardi – nello spareggio giocato a Città del Messico. Però non era che l'inizio. La contesa si trasferì sui campi di battaglia. Con l'attacco dell'aviazione del Salvador e l'esercito che varcava la frontiera. L'Honduras replicò bombardando i depositi di combustibile del nemico. Alla fine, dopo meno di cinque giorni di conflitto, restarono sul terreno più di 2000 morti (civili honduregni), mentre Tegucigalpa si vendicò con la deportazione in massa degli immigrati clandestini.

Malvinas Argentinas

Quando scoppiò la guerra delle Falkland (o Malvinas), il regime argentino guidato da Leopoldo Galtieri era già in affanno, e Margaret Thatcher gli diede presto il colpo decisivo. La Nazionale albiceleste, in quei giorni, si preparava a difendere in Spagna il titolo mondiale conquistato quattro anni prima a Buenos Aires (fu uno dei maggiori successi propagandistici del generale Videla). Anche nell'82, una vittoria calcistica avrebbe rappresentato una boccata d'ossigeno. Ma non andò così. Il giorno in cui cominciò l'invasione inglese delle isole, il 2 aprile, Osvaldo Ardiles giocava nel Tottenham. Quando, una settimana più tardi, la sua squadra affrontò in trasferta il Leicester City, ogni volta che l'argentino toccava la palla i tifosi locali tuonavano England, England”. Ma, con un encomiabile senso sportivo, dalla curva degli Spurs la replica fu altrettanto sonora: “Argentina, Argentina”. Sostegno commovente, ma non bastò. In quella guerra, il mitico Ossie perdette un cugino, capitano dell'aeronautica, abbattuto da un caccia Sea Harrier inglese. L'Argentina perse la guerra, e la Selección non andò oltre i quarti di finale in Spagna, eliminata dall'irruenza degli Azzurri di Bearzot.

Tigri sanguinarie

Il 22 marzo 1992, qualcosa d'imprevisto accadde sulle tribune del Maracanã di Belgrado, tempio della Stella Rossa. C'era il derby con il Partizan, e le opposte tifoserie si insultavano pesantemente, com'è consuetudine. All'improvviso, sugli spalti della curva nord comparve un gruppo di paramilitari in divisa, le temibili “Tigri” agli ordini di Zjko Razatovic, meglio conosciuto come Arkan. Cominciarono a srotolare alcuni striscioni molto espliciti: “Venti miglia a Vukovar”, “Dieci miglia a Vukovar”, “Benvenuti a Vukovar”. A leggere il nome della roccaforte croata caduta sei mesi prima in mani serbe, i Grobari (i “becchini”, come vengono chiamati gli ultras del Partizan) si unirono per la prima volta in un unico, assordante cantico nazionalista con gli odiati avversari Delije (gli “eroi” della curva della Stella Rossa). Era il battesimo per il potere sconfinato di Arkan, reso possibile dalla “benedizione” di Slobodan Miloševic. Da allora, ebbe mano libera per ingaggiare orde di volontari tra gli hooligans o tra i peggiori criminali rinchiusi nelle carceri belgradesi. Le operazioni di pulizia etnica che guidò, contro musulmani e croati, sono storia. Quando lo uccisero, il 15 gennaio del 2000 nella hall dell'Intercontinental di Belgrado, ci fu persino chi gli rese omaggio all'Olimpico di Roma. Un gruppo di tifosi laziali innalzarono uno striscione con la scritta “Onore alla Tigre Arkan”. Era per solidarietà con il fuoriclasse biancoceleste dell'epoca, Siniša Mihajlovic, amico fraterno del noto criminale di guerra.

Imboscata dei ribelli

Viaggiavano verso Luanda, e non pensavano ad altro che al loro imminente esordio nella fase finale della Coppa d'Africa. L'unica “colpa”, per i calciatori della nazionale del Togo caduti in un agguato l'8 gennaio di tre anni fa, è stata quella di essere espulsi da Pointe Noire, nel territorio della Repubblica Democratica del Congo. Cosa che li costrinse ad avventurarsi in una terra sconosciuta, della quale parecchi – probabilmente – non conoscevano neppure l'esistenza: la provincia di Cabinda, enclave autonoma dell'Angola, ma isolata dal resto del paese e circondata, appunto, dal Congo. Eredità irrisolta di un'epoca coloniale, con tanto di movimento di liberazione ansioso di richiamare, ogni tanto, l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale. Il passaggio del pullman del Togo si rivelò un'occasione ghiotta: i ribelli lo accolsero a raffiche di mitra. Tre morti. E il ritiro immediato della nazionale dalla competizione. Ma in Angola fecero come se nulla fosse accaduto: la Coppa d'Africa prese regolarmente il via.

Da Port Said a Tahrir

La rabbia degli ultras egiziani ha molto a che fare con i sommovimenti della politica. È risaputo che i tifosi più accesi delle due squadre principali della capitale, Al Ahly e Zamalek, furono tra i protagonisti della rivolta di piazza Tahrir che portò alla caduta di Mubarak. Ma erano in prima fila anche il 30 giugno scorso, integrati nel gruppo Tamarrod, durante le proteste in seguito alle quali si è dimesso il presidente Mohammed Morsi. Tre mesi prima, 21 dei loro compagni erano stati condannati a morte per gli scontri del febbraio 2012 a Port Said, seguiti all'incontro tra Al Ahly e la squadra locale del Al Masry: 74 morti nella più grave tragedia della storia del calcio egiziano. Vicenda alquanto sospetta. Non convince fino in fondo la tesi di un'improvvisa esplosione di follia omicida da parte delle opposte tifoserie.

C'è, piuttosto, chi pensa a un'operazione premeditata delle forze di sicurezza, preoccupate di mettere fuori gioco gli ultras, troppo politicizzati e difficili da manipolare.

C'è, piuttosto, chi pensa a un'operazione premeditata del Fatto Quotidiano, preoccupato di compiacere la militanza becera dei tifosi, cooptando quel laido scribacchino di Paolo Ziliani: la speranza che non sia stato riconfermato è l'ultima a morire.

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L'EQUIPE 09-09-2013

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SPORT 09-09-2013

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An Extra Edge

Is football really clean,

or does the sport have its head in the sand?

by COLIN O’BRIEN (THE Blizzard | ISSUE TEN | September 2013)

It might have been at the opposite end of the stadium, but the second it happened, we knew. Thierry Henry had handled the ball before passing it to William Gallas, who duly scored the tap-in, thanks very much. In the 13th minute of extra time in a crucial World Cup qualification play-off against the Republic of Ireland, one of France’s greatest ever players had cheated in front of 80,000 people in the stadium and millions more at home. It was a cognisant breach of the rules, in plain sight and on the record. And I bring it up because of a conversation had just before kick-off.

We were in town for the football. But it being Paris and me being a cycling fan, the talk drifted to the Tour de France. Giovanni Trapattoni’s tactical nous is not exactly a fertile source of pub banter, after all. That summer Lance Armstrong had cheated his way through the last of his Tour de France abominations. There was no evidence revealed as of yet, no lifetime ban or farcical heart-to-heart with Oprah, but you didn’t have to be among the Texan’s closest friends to know that he’d been a drugs cheat all his career. Alberto Contador, meanwhile, went home in the yellow jersey. He looked cleaner than the American, but doubts remained.

The discussion centred around the fact that cycling was a sport for “junkies” — my colleague’s word, not mine — and that everything else wasn’t. Not exactly a nuanced argument, but top marks for directness. I maintained that cycling appeared dirty simply because it was the only sport actually trying to clean up its act up, but he stuck to a “show me the evidence” approach. For anyone interested in the cancer that is performance-enhancing drug use in professional sport, it’s a familiar one.

“I’ve never tested positive,” was Armstrong’s go-to defence. Show me the evidence.

Say what you like about him, but he’s clever. It’s not a denial of drug taking, simply a statement of the fact that he’d never been caught by a drugs test. A familiar note echoed through Henry’s comments after that night in Paris. “Yes, there was a hand,” he said: “But I’m not the referee.” Sure, I broke the rule — but I wasn’t caught.

Later that night, the continued junkie debate was a welcome distraction from the disappointment. And it’s one that I’ve been having on and off with people ever since.

Henry wasn’t the first or the last footballer to cheat on the pitch (and there is, perhaps, a moral distinction to be drawn between an opportunistic, instinctive breach such as Henry’s and a systematic, premeditated programme of doping), but because it was a somewhat personal experience it stuck with me. If a footballer is willing to do that in front of millions just to offer his side the slightest chance of victory, what would he be willing to do behind closed doors?

Every week there’s shirt pulling, fighting, violent tackles, diving, off side goals celebrated… all out in the open. Clear breaches of rules and flaunting of sporting principles. But doping? Hardly ever a whisper. Something’s not right with that.

I don’t mean to say that every single footballer on the planet is up to his gills in performance-enhancers every week, but it seems ridiculous that we’re supposed to believe that in such a bunch of chancers no one’s willing to use illegal substances that will give them an edge in what is the world’s most competitive and lucrative sporting environment.

To illustrate, Norway’s independent anti-doping database dopinglist.com currently has 24 provisional suspensions and nine disqualifications on record from last summer’s Olympics. There were 14 cases in track and field alone, out of 2,231 athletes.

In contrast, Fifa says that it tested 28,587 blood or urine samples in 2011. Of these, just 19 tested positive — five of which were from the North Korean women’s team. There are clear similarities to cycling’s approach to the problem in the 1990s when only the workaday, insignificant among the peloton were ever found to be guilty of infringements.

The Professional Footballers’ Association has 4,000 members in England and Wales and the last high-profile doping case there was when the Portuguese full-back Abel Xavier was banned for 18 months in 2005 while playing for Middlesbrough — for taking anabolic steroids. That’s eight years without a high-profile bust.

The more dope-fluent among you might have scoff ed at Xavier’s choice of poison. Steroids, after all, are so passé.

Sure, they can be handy occasionally, if you’ve got a solid alibi. Armstrong kept a chummy doctor nearby who was always good for a back-dated prescription. But it’s easy to trace and there is a plethora of performance-enhancing drugs out there which are more difficult to test for.

Take GW501516 for example, a drug so trendy it doesn’t even have a proper name yet. It’s a receptor agonist that stimulates enzyme production similar to those produced when exercising and was developed with the aim of treating obesity. When combined with proteins like Acadesine, used to treat leukaemia, it also greatly increases aerobic endurance — and causes cancer. An article in the New Scientist earlier this year warned that the product originally developed by GlaxoSmithKline “rapidly causes cancers in a multitude of organs, including the liver, bladder, stomach, skin, thyroid, tongue, testes, ovaries and womb.” Nothing’s perfect, right?

Despite the dangers, GW501516 made its way onto the black market and is now making headlines. The Russian track cyclist Valery Kaykov has been banned already and there are unconfirmed reports that more bans in other disciplines are to follow. Impressively, for fans of acts of unbridled stupidity at least, Kaykov’s positive test came just weeks after the World Anti-Doping Agency (Wada) actually warned potential cheats that the drug was one of the more dangerous illegal options available to them.

In a bid to protect these athletes from their own ignorance, Wada took the unusual step of releasing an official warning, as they put it: “to ensure that there is complete awareness of the possible health risks to athletes who succumb to the temptation of using GW501516 for performance enhancement.”

Not everything is so risky, of course. A footballer could partake in a simple bronchodilator like Clenbuterol to improve his lung capacity and then, having spoken to Spain’s Contador, found out the most convincing way to blame the drug’s appearance in a urine sample on contaminated food.

Or they could blood dope with transfusions, whereby several units of blood are withdrawn when the body is in optimum condition — preferably while training at altitude, say for instance, at one of those popular summer training camps held away from prying eyes — and reinjected when the athlete needs a boost.

Then there’s Erythropoietin. EPO is a naturally-occurring hormone produced by the kidney that controls red blood cell production. The doper’s dope, the synthetic version increases red blood cell levels in the body, thereby increasing the body’s aerobic threshold. Basically, the hormone travels around in your system until it comes into contact with special receptors in the bone marrow where it starts a chain reaction that creates many more red cells. The EPO-receptors in these new cells are replaced by new receptors which are attracted to iron-transporting proteins. Elsewhere, globin proteins combine with haem molecules — they contain iron — to make haemoglobin, which collects oxygen in the lungs and is then carried by the iron-loving red blood cells to the body’s muscle tissue — fuelling the fire, so to speak.

In athletes, the synthetic EPO allows them to perform at peak level for much longer because the improved supply of oxygen to the muscles delays lactic acid build-up. This is especially useful in a sport in which repeated changes in tempo and bursts of pace without the hassle of recovery time might be useful. Like cycling... or football.

The downside of it is that super-rich blood becomes a dark red gel and when the body’s not running at full tilt there’s a significant danger of a horrible death. Anecdotes abound of cyclists spending the night in their hotel rooms on training machines to keep the blood flowing — after riding for hundreds of kilometres during the day. The upside is that it’s almost completely untraceable.

In recent years, some sports have spent a great deal of money trying to eradicate EPO usage. The biological passport, an electronic record of indicative biological markers in an athlete’s system that can be observed to detect spikes and irregularities with much greater precision than standard urine testing, is proving useful.

Obviously, it’s not yet been adopted by football. In fact, almost no modern doping tactics have been embraced, even if Fifa is in the process of playing catch-up. According to Wada’s president, John Fahey, “team sports players can go their entire career without being tested once.” Not exactly confidence-inspiring.

In a recent statement, the sport’s governing body said, “Fifa is developing plans to introduce this new tool, including a steroid profile through urine and a blood profile, for the… 2014 World Cup in Brazil, where in and out-of-competition tests would be conducted on all participating players.”

This sounds promising from a football perspective, but as fans of other sports will tell you, it still leaves a lot of questions. Questions like when, where, how and who?

If most athletes can avoid testing or at least be warned well in advance, then what’s the point? There’s a crucial ‘glowtime’, the period when a performance enhancing drug (PED) will show up on tests and once you can predict the tester’s movements it’s easy to hide. Then there’s the ‘hematocrit holiday’, whereby an athlete in the know is left out of a squad if his doctors are afraid of his red blood cell levels arousing suspicion. Which makes you wonder if some managers might be ‘resting’ players for other reasons than recuperation.

Any efforts to stem the use of PEDs should be applauded, but the problem with Fifa’s first serious steps towards facing up to the problem is that while they’re inexperienced in the field, the people they’re up against are seasoned pros.

As the Operación Puerto probe in Spain proved, doping cross-pollinates. The man at the centre of the scandal, Eufemiano Fuentes, has repeatedly insisted that while he was stung by cycling investigators, he was never exclusively used by cyclists. It was hoped that the investigation would name and shame several high-profile athletes, tennis stars and footballers, but though investigators currently have 216 blood bags in their possession, Judge Julia Patricia Santamaría ruled that revealing the owners would be a breach of doctor-patient confi dentiality. The Italian National Olympic Committee, Wada and the International Cycling Union are just three of the groups who disagree. They’ve appealed against the decision and Fuentes has already said he’ll name all the owners. It promises to be an interesting list and one that almost certainly includes several highprofi le footballers.

Another interesting list would be the number of “therapeutic usage exemption” issued across all professional sports every year. A TUE justifies the use of banned substances for medical reasons, but they’re commonly used as nothing more than a bureaucratic way to excuse doping. A skin cream for a rash, for example, can contain steroids and produce similar signals to illegal PEDs in tests. So a simple note from the club doctor would make a serious problem go away.

The Premier League’s testing is handled by the FA, which says that it not only adheres to Wada guidelines, but actually exceeds them. Wada disagrees. You decide who to believe, but the records show that the only players to do be caught doing anything wrong in the last two years have been Barnet’s Mark Marshall and Sunderland’s Lewis Gibbons, who tested positive for cocaine use rather than a PED.

On the continent, it’s much the same. The former president of Real Sociedad, Iñaki Badiola, has admitted that the club ran a systematic doping campaign between 2001-07 and has hinted at a connection to Dr Fuentes. Sociedad’s president at the time was José Luis Astiazarán, the current president of the Liga de Fútbol Profesional.

The doctor himself maintains that Real Madrid have an unpaid bill to settle with him, unrelated to doping but surely indicative of a close relationship, and a trusting one too because the Spanish club called the doctor as a witness against the French newspaper, Le Monde. But despite this, the last case dopinglist.com has on file for Spain dates from 2002, when the Athletic midfielder Carlos Gurpegi was suspended for steroid use.

In Italy, the investigating magistrate Raffaele Guariniello pursued Juventus for much of the 2000s over evidence he’d collected that suggested there was a PED system in place in Turin, but little came of it. The trial lasted five years and it proved that Juve and other Serie A sides had used illegal substances in the 1990s. It also found that a Turin-based doctor had almost certainly supplied EPO to a host of bianconeri players but the club escaped punishment because the court couldn’t prove that it had ordered the usage. Video evidence was discovered of Fabio Cannavaro injecting himself while playing for Parma, although he claimed it was vitamins.

The first judge found the club not guilty, the state appealed and in 2007 a revised verdict found Juventus guilty of sporting fraud — after the statute of limitations had expired.

Everyone got away with it. The only person to be caught since is Sassuolo’s Leonardo Pavoletti, who failed a drugs test before a Serie B game last year. Calciopoli, the match-fixing scandal that hit Italian football in 2006, seemed to suggest that Serie A’s problems lay elsewhere and little has been done since to tackle the problem of doping.

The system Fifa plans to implement will be a welcome addition to antidoping measures, but it will mean little to the sport overall if more is not done domestically. Part of the reason that the biological passport system has been so successful in athletics, cycling and other sports is that athletes are now tested all the time, wherever they are in the world.

There are fewer and fewer opportunities to cover up the glow-time and as the punishments become more severe and the odds of being caught shorten, few young athletes are willing to start off on that slippery doping slope.

If any dopers heading to the World Cup only have to worry about being caught in Brazil, they’ll simply tailor their PED regime to ensure that their tracks are covered and the work that Fifa does hand-in-hand with Wada will be for naught.

In 2014, Fifa plans to conduct in and out-of-competition tests on all participating players. It’s a commendable goal, but as Lance Armstrong never tired of saying, he spent his whole career without testing positive. He was protected by his teammates, managers, national coaches, doctors and a network of political allies within professional cycling. Fifa must make sure that no such Machiavellian systems exist within football if they’re going to succeed.

At least one high-profile figure within the game doesn’t seem convinced that Fifa’s anti-doping dealings will be completely transparent. Speaking recently about the measures, the Arsenal manager Arsène Wenger openly doubted the system’s effectiveness. “It is very difficult for me to believe that at a World Cup,” he said, “where you have 740 players, you come out with zero problems. Yet mathematically that is what happens every time.”

Wada’s president John Fahey is more optimistic but added an important caveat to his praise of Fifa after meeting with Sepp Blatter to discuss the matter. “We are very interested in continuing the work on biological profiles,” said Fahey in the Fifa statement. “Wada is very satisfied with the commitment of Fifa on the biological profiles. There is always more which can be done in the fight against doping, but we know Fifa has always been serious in this domain, [but] we think the domestic leagues can complement what Fifa is already doing.”

That’s an understatement. Perhaps part of the reason that little has been done openly to confront the possibility of doping in football is that the stakes are a lot higher than they are in other sports. At the Olympics, the athletes compete as individuals. Fans will celebrate success happily enough, but there’s no commitment to sharing the burden of a heavy loss or the blame for a scandal. Pro cycling’s teams exist at most for a few years and are then replaced by new sponsors and new riders. There’s never the generational, socio-geographic connection that exists between football teams and their fans and the world’s biggest cycling events continue regardless of who rolls up to the start line.

Football, in contrast, is fuelled by emotional and historical bonds between the clubs and the fans and political and financial bonds between the clubs and the leagues. La Liga would mean little without Barcelona or Real Madrid, after all, and the Premier League’s importance would dwindle should a club like Manchester United or Liverpool cease to exist.

The betting scandals that have rocked Italian football over the last decade provide a glimpse of the dangers. Serie A’s decline in recent years has been unquestionably exacerbated and complicated by Juventus’ legal problems and subsequent relegation, as the league became less competitive at home and less influential abroad without the Old Lady’s muscle.

There’s a lot on the table. A few key figures could bring the whole house of cards down — and the powers that be are aware of this and understandably hesitant to test fate. Taking Fahey’s advice to “complement” Fifa’s commitment could bring disastrous consequences, but ignoring the problem threatens a future far more ruinous.

The clubs could start by explaining their dealings with people like Fuentes. Or they could be more open to the idea of allowing greater testing freedom to impartial organisations like Wada. They certainly need to at least join the conversation and admit that, as Wenger suggested, it does seem a little odd that there are no problems in football.

There’s doping in athletics. There’s doping in golf. Cycling was riddled with it. There are six doping cases registered on dopinglist.com from billiard sports and eight related to roller skating. It’s a universal problem, one that grows exponentially with money and fame. And there are none more rich or famous than footballers.

Come al solito, trattando di doping nel calcio, si pontifica in maniera inesatta sul processo di Guariniello contro l'abuso di farmaci...

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TUTTOSPORT 10-09-2013

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A little late for common sense

by ROB HUGHES (International Herald Tribune 11-09-2013)

Two years and nine months after presiding over the small group of men who decided that Qatar was the best place for the FIFA World Cup in 2022, Sepp Blatter said this on Monday: ‘‘After many discussions, deliberations and critical review of the entire matter, I came to the conclusion that playing the World Cup in the heat of Qatar’s summer was simply not a responsible thing to do.’’ Not a responsible thing to do.

The FIFA president is not advocating that his executive committee take the tournament away from the Middle Eastern state. But he said last month, and he repeated this week, that he expected his executive committee to start exploring moving the 64-game tournament to a cooler time of year.

Speaking this time in a question-andanswer interview with the Inside World FootballWeb site, Blatter acknowledged that this shift in the sands of timing would run into opposition, particularly from the powerful European clubs whose seasons have run through the winter since long before the World Cup began in 1930.

‘‘The World Cup,’’ he said, ‘‘is FIFA’s biggest if not only global event. Who are we, the Europeans, to demand that this event has to cater to the needs of 800 million Europeans above all, when there are over seven billion people who populate this planet and of who 6.2 billion are not European, but who must at all times succumb to our diktat?’’ Interesting political rhetoric from the 77-year-old Swiss national.

One question he was not asked in the interview was how many of the world’s leading players are employed by European clubs? Asians, Africans, Americans as well as the Europeans earn their fortunes in Europe. Would FIFA be happy, or remain profitable, if the World Cup went ahead without the star players under contract to the Europeans? Nearly 70 percent of all players who took part in the 2010 World Cup in South Africa belonged to European clubs. This percentage increases with every transfer window. Europe, particularly through the Champions League and the expanding Europa League, offers pay that is the right and the irresistible temptation to global players.

Blatter’s committee has to think beyond the rhetoric. He has apparently changed his mind, having resisted doing so almost from the moment of the decision in December 2010 to award Qatar the tournament.

It is believed that Blatter himself did not vote for Qatar, but for the United States. Michel Platini, who heads the European soccer authority UEFA, openly supported Qatar, and very soon after the vote, he voiced his opinion that the event should be moved from summer to winter.

‘‘We respect your calendar for 150 years,’’ Platini said in August, to mostly English journalists. ‘‘For one month in 150 years, you can change.’’

The difference between Platini and Blatter is that Platini actually played at World Cup level. The Frenchman, and the German Franz Beckenbauer, have repeatedly suggested that regardless of Qatar’s promise to develop technology to cool the stadiums, it would be responsible to play when temperatures were less debilitating.

Debilitating, or downright dangerous? The desert heat of June and July has always been a daunting, and obvious, prospect for players and for spectators.

Yet, for whatever reason, the FIFA executive committee decided to go there over bids from Australia, the United States, Japan and South Korea.

Given where we are now, the summer-to-winter shift seems the leastworst scenario. But when in the winter? Blatter’s observation is flawed. It isn’t just Europe that plays league soccer between September and June. Australia, Argentina and Mexico are some who share a similar preference. FIFA has tried for decades to persuade the world to coordinate the playing seasons so that there is one uniform calendar, quite likely because that would allow the world governing body to maximize its own lucrative, and ever-increasing, tournaments.

But, again, neither FIFA nor the national federations pay the bulk of the players’ salaries. The clubs do.

By coincidence, or perhaps design, the chief executives of 214 clubs, from 53 countries, met at the general assembly of the European Club Association this week.

FIFA’s headquarters are in Zurich. The world’s richest employers of soccer talent debated issues important to their business in nearby Geneva. And their precious players were scattered across the continents playing World Cup qualification games.

The seasons already overlap. The FIFA tournaments do not simply take one month, as Platini and now Blatter imply. There are approaching a thousand qualifying games, a thousand calls on players, a thousand interruptions to the clubs around the world who actually pay the fees, the wages and The medical costs for those stars.

And a World Cup is not a month’s commitment. It involves preparation ahead of the tournament, and players then need time to reacclimatize and to regain their equilibrium, their bodily strength and their motivation.

Imagine telling Rafael Nadal and Novak Djokovic this right after the U.S. Open: ‘‘Thanks fellas, job done in New York. Now we need you on court next week in another time zone, another climate, another brutal showdown on the other side of the globe.’’ It would not be a responsible thing to do.

Blatter now says he has taken stock of more medical advice, although FIFA hasn’t published anything that vastly differs from the warnings (and common sense) available in 2010.

Blatter, though, insisted Monday that FIFA’s rules do not stipulate that the tournament take place in June and July. Qatar, he accepts, bid for it on that basis, but the statute says only that it should take place during those months time ‘‘in principle.’’ ‘‘It does not say that it ‘must’ take place in those months,’’ the president said. He is splitting hairs, but trying, at this late hour, to prevent a catastrophe that seemed obvious long before his committee voted for it.

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LAZIO Sartori, d.s. dei veneti: «A Verona a gennaio»

Berisha, Lotito alla Fifa.

Ma il Chievo lo aspetta

di DAVIDE STOPPINI (GaSport 11-09-2013)

Il Chievo rilancia, la Lazio risponde. La questione è Etrit Berisha, portiere della nazionale albanese per il quale è in atto un contenzioso tra le società che si troveranno di fronte domenica all’Olimpico. Dice Giovanni Sartori, d.s. del Chievo: «Domenica Berisha andrà in panchina con la Lazio? Non potrebbe, perché ha firmato un contratto con noi, sottoscritto nei tempi e nei modi che la legge sportiva internazionale prevede. Lo aspettiamo a Verona a gennaio». I veneti nei giorni scorsi hanno inviato una lettera di diffida alla Fifa. E qui arriva la replica della Lazio, che ha inviato le controdeduzioni a Zurigo. E lo stesso ha fatto Berisha, in una lettera in cui dichiara di non aver mai firmato col Chievo, e che l’accordo depositato in Lega dai veneti sarebbe frutto di un raggiro. La Lazio è sicura: «Abbiamo ricevuto l’ok per il tesseramento sia dalla federazione svedese (di provenienza del portiere, ndr), sia da quella italiana», ha spiegato Lotito. Da Verona, però, filtra stupore nel constatare come la Lega possa aver accettato il contratto della Lazio quando c’era un accordo depositato col Chievo. E soprattutto, i veneti si chiedono come mai la Procura Figc non abbia aperto un fascicolo sul caso. Nell’attesa, oggi Berisha metterà piede per la prima volta a Formello. Primi allenamenti, in attesa dell’Europa League, torneo che «il club mi ha assicurato che giocherò da titolare».

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Calcio Siluro contro la Infront, che finora ha gestito il business. Offerta ufficiale alla Lega

Diritti tv, Img si propone come advisor

di MASSIMO SIDERI (CorSera 11-09-2013)

Arriva a sole 48 ore dall’assemblea della Lega un siluro contro il sistema Bogarelli-Silva che ha governato fino ad ora i diritti tv del pallone: il principale concorrente del consulente Infront, Img, ha mandato ieri al presidente Maurizio Beretta una «Manifestazione di interesse al ruolo di advisor della Lega». Il punto di non ritorno è varcato: significa guerra. Forte della lettera inviata sempre alla Lega da sette club in cui si chiedeva una ricognizione sui benchmark internazionale e sui risultati effettivi di Infront a ridosso della discussione sui diritti delle prossime stagioni a partire dal 2016, Img ha piazzato l’assist chiedendo ufficialmente quale sarà l’iter per partecipare alla selezione del nuovo incarico.

Si è dunque rivelato un boomerang il tentativo di blitz, orchestrato a luglio. Img ricorda che nel precedente bando del 2008 partecipò offrendo un minimo garantito di 860 milioni ma che, nel frattempo, la società «ha rafforzato la sua posizione di leader mondiale». Infront, controllata dal fondo Bridgepoint, aveva vinto al tempo grazie a un minimo garantito più elevato di 910 milioni, una posizione che si appoggia su una lettera di patronage che però nemmeno i club hanno visto. In ogni caso il meccanismo del contratto garantisce a Marco Bogarelli, uomo vicino a Galliani che iniziò a lavorare con lo stesso Riccardo Silva attraverso la Media Partner acquistando i diritti tv del Milan, circa 35-40 milioni annui. La prima fetta sopra i 910 milioni infatti va a Infront. Da una certa soglia in poi inizia invece una revenue sharing. Se si sommano a queste cifre i margini enormi di Silva che con la sua Mp Silva gestisce i diritti tv esteri il risultato strabiliante è che la coppia — che condivide anche l’avvocato Antonio D’Addio oltre a delle garanzie nella società in difficoltà Sportitalia del fratello di Marco, Bruno Bogarelli — è il «team» che sulla serie A guadagna di più. Peraltro in Lega sono attesi i documenti che attestino i business in giro per il mondo di Silva.

In tutto questo, per quanto riguarda il mercato interno dei diritti tv della A che muove circa un miliardo l’anno, sorge spontanea una domanda: con solo due grandi big acquirenti (Sky e Mediaset) che bisogno c’è di un advisor? La ricca Premier League, tanto per fare un esempio, usa un consulente pro tempore (Wasserman) per le aste. Risparmiando decine di milioni di euro.

Canale della Lega se le pay

offrono di meno nel 2015-18

Estero: vendita per regioni?

di MARCO IARIA (GaSport 11-09-2013)

La partita dei diritti tv è come una finale di Coppa del Mondo. Bisogna giocarla al massimo, senza esclusione di colpi. È ciò che succederà a partire da venerdì, giorno dell’assemblea di Lega che segue la lettera di sette club dissidenti (Fiorentina, Inter, Juve, Roma, Samp, Sassuolo e Verona), desiderosi di approfondire la materia prima di prendere qualsiasi decisione sul triennio 2015-18. Analisi di mercato, conferenze con i broadcaster, la messa in discussione del rapporto attuale con l’advisor Infront, con operatori «disposti a garantire ricavi attuali a fronte di una fee più vantaggiosa». Ma c’è una data da cui non si scappa: 30 giugno 2016, scadenza del contratto in esclusiva con Infront, al termine della prima stagione del nuovo ciclo. Visto che è insensato fare i bandi per un solo anno, bisognerà decidere se prolungare il mandato di Infront o risolverlo anticipatamente, con tutte le conseguenze economiche del caso. Venerdì Infront parlerà ai club ed illustrerà la sua proposta.

Anticipazione Il minimo garantito da 900 milioni annui dovrebbe essere confermato in caso di estensione del contratto a copertura del nuovo triennio. Ma la domanda che tutti si fanno è: quanto possono valere i diritti della Serie A in futuro? In un mercato nazionale in contrazione con la pubblicità in calo del 30% e gli investitori esteri in fuga, l’orientamento di advisor e Lega è di cercare di mantenere la struttura dei ricavi attuali, a patto ovviamente di muoversi con tempismo e adeguandosi alle nuove dinamiche. Adesso da Sky e Mediaset arrivano 829 milioni a stagione. Si teme che la seconda, avendo già ridotto i suoi budget, potrebbe non farcela a confermare i 268 milioni medi del 2012-15. Sarà cruciale, ad ogni modo, garantire le giuste esclusive ai diversi soggetti. Se una parte di quegli 800 milioni venisse a mancare, la Lega potrebbe rivolgersi direttamente al consumatore varando il canale della Serie A e puntando su quei 4 milioni di persone che utilizzano la pay tv per vedere il calcio (5 milioni considerando lo sport in generale), cioè la massa critica degli abbonati di Sky e Mediaset (quasi 7 milioni). E un terzo incomodo? Al Jazeera avrebbe potuto già approdare in Italia anticipando l’operazione di Fox sul calcio estero. Però non l’ha fatto. Discovery ha appena preso il Sei Nazioni di rugby (su DMax in chiaro), ma nell’ambito di un’operazione internazionale.

Estero Quanto ai diritti esteri, che ora portano 117 milioni annui nelle casse delle società, tutti sono convinti che si può fare di più. Senza pretendere rivoluzioni (una Lega che ripensi governance e strategie, con i club a fare un passo indietro), un’opzione è quella di spacchettare i diritti per macroregioni, come la Premier, che si rivolge anch’essa a intermediari (tra cui MP & Silva) per vendere le partite fuori confine. A quel punto il miliardo tondo tondo che la Serie A incassa ora può essere messo in salvo per almeno 3 anni.

3 domande a...TULLIO CAMIGLIERI

PRESIDENTE OPEN GATE ITALIA

di MARCO IARIA (GaSport 11-09-2013)

«Va ripensato il prodotto

Sì a una politica centralizzata»

Per saperne di più ci siamo rivolti a un manager che è stato direttore della comunicazione di Sky e ora, con la società di consulenza Open Gate Italia, è advisor di alcune leghe asiatiche.

1 Su quale scenario nazionale si muove la Lega?

«Siamo di fronte a un passaggio epocale. A un certo punto le partite non le vedremo più sulla tv, ma grazie alla banda larga in qualunque posto, su smartphone o tablet. Alcune società temono un cartello Sky-Mediaset ma bisognerà vedere se arrivano operatori stranieri. Inoltre, c’è da considerare che al prodotto calcio sono interessati non solo gli operatori tv tradizionali ma anche chi si muove sulle nuove piattaforme».

2 I diritti esteri della Serie A sono sottovalutati?

«Se intendiamo il valore delle partite non siamo lontani dalla realtà, ma se si riflette su tutto ciò che si può produrre all’interno del calcio italiano e che si può commercializzare all’estero, allora sì. Bisogna confezionare contenuti differenti paese per paese. Si pensi alle comunità italiane nel mondo, o ai luoghi d’origine di chi gioca nel nostro campionato».

3 Cosa deve fare la Lega per ridurre il gap con l’estero?

«Da un lato va ripensato il prodotto, dall’altro va fatta una politica di Lega. Finora le società hanno fatto così: dateci quei soldi subito e basta, poi non ci pensiamo più. Ma il prodotto internazionale va coltivato, i quattrini non arrivano da soli. Sulla Fifth Avenue a New York nel negozio della Nba trovi tutto, l’altro giorno a Roma non sono riuscito a trovare una maglietta del Catania per un regalo. E poi le società dovrebbero sfruttare meglio le loro library, creando portali con vecchie partite e interviste: la storia delle squadre è un patrimonio inestimabile».

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MOGGI NON CI STA

Il bacio di Giuda di Abete

Juventino che odia la Juve

Il presidente Figc: «Sono bianconero». Sarà, ma non ha ancora chiesto scusa per

le sofferenze arrecate alla Signora con Calciopoli. E insiste: «Gli scudetti sono 29»

«La mia fede juventina? Non è un mistero». Ieri, a soli due giorni dal derby d’Italia Inter-Juventus, il presidente della Figc Giancarlo Abete ha deciso di parlare con «Tuttosport», rivelando la sua simpatia per i colori bianconeri. Il numero uno della Federcalcio ha esternato anche sulla questione del numero degli scudetti della Juve: «Se il tifoso ne vuole contare 31 è libero di farlo, così come i tifosi del Torino ne possono contare otto, compreso quello che è stato revocato. È questa la forza del mondo del calcio», ha spiegato, «ognuno può avere le sue opinioni. Io devo rappresentare quella ufficiale, ma se mancassero passione e faziosità il calcio perderebbe uno dei suoi elementi fondamentali. Certo, esistono casi in cui la faziosità deve trovare un equilibrio con la razionalità ».E parlando di Inter, Juventus e numero di scudetti è stato inevitabile tornare su quello del 2006, revocato ai bianconeri e assegnato al club meneghino. «Quando mi è stato posto il problema della revoca non potevo intervenire con un atto politico. La revoca di un titolo deve essere operata in sede di giustizia sportiva e la giustizia sportiva non può più intervenire perché in quel caso è sopraggiunta la prescrizione. Quanto all’assegnazione, quella non fu opera mia, c’era il professor Rossi ...», ha chiarito. Infine ha anche raccontato i suoi rapporti con Gianni Agnelli: «Sono sempre stati buoni. Bisogna sempre distinguere la qualità dei rapporti personali dai contenuti di certe situazioni in cuici si può trovare in posizioni diverse. Il tipo di interlocuzione con il presidente Agnelli è sempre stato lineare e, soprattutto, di qualità dei contenuti, questo senza bisogno di mettere i manifesti, non so se rendo l’idea...».

di LUCIANO MOGGI (Libero 13-09-2013)

La nostra Nazionale ha vinto, si è qualificata in anticipo per il Brasile. I ragazzi ce l’hanno messa tutta per raggiungere l’obbiettivo: bravi loro, bravo Prandelli. Ed hanno vinto proprio in quello stadio dove gioca la squadra che nel 2006 fu condannata alla retrocessione per omaggiare un «sentimento popolare» creato a bella posta per avere almeno un motivo di condanna. Lo disse pubblicamente il professor Mario Serio alla conclusione del processo: faceva parte del tribunale giudicante presieduto da Piero Sandulli, un amico fraterno di Franco Carraro. Due furono gli scudetti tolti alla Juve, ma in quello stadio – sullo stemma della società – troneggia il numero 31 che sta ad indicare gli scudetti vinti dalla società bianconera. In controtendenza con quanto dice Abete: 29.

In altri tempi qualificarsi in anticipo era un avvenimento scontato, adesso è motivo di festa. Il 2006 è ormai lontano, quando la nostra Nazionale trionfava a Berlino contro la Francia. In quella occasione nelle due squadre che si contendevano il titolo mondiale c’erano cinque giocatori juventini più l’allenatore Lippi tra gli azzurri e quattro tra i «galletti». Giocatori di quella Juve che tanta parte ebbe nel portare l’Italia sul tetto del mondo, proprio quella stessa Juve fu retrocessa in serie B da un tribunale sportivo che aveva le sembianze dell’Inquisizione in chiave moderna. Quella squadra fu condannata senza aver mai alterato partite, senza aver taroccato il sorteggio, senza aver avuto rapporti esclusivi con i designatori e dopo aver vinto anche il campionato 2004/05, risultato per altro regolare sia alla giustizia sportiva che a quella ordinaria. E i dirigenti che l’avevano costruita, Giraudo e Moggi, vennero addirittura radiati.

Quante accuse

Tra le maggiori accuse il «sequestro Paparesta» a Reggio Calabria che tanto successo ottenne nel racconto dei media. Non fa niente se sia stato il frutto di una battuta stante l’arbitraggio indecoroso di Paparesta e il comportamento scandaloso di un assistente (Copelli), a cui Meani - dirigente addetto agli arbitri del Milan - un giorno sussurrò: «Stai tranquillo, dirò al Capo (?) che sei uno dei “nostri”». E non importa nemmeno poi che il tribunale di Reggio abbia archiviato la pratica con un «non sussiste» che spiega tutto.

Nonostante tutto ciò, il tribunale sportivo emise una sentenza di condanna con questa motivazione: «Sistema strutturale». Qualcosa di mai contemplato prima di allora nell’ordinamento sportivo. Pensiamo che l’avvocato Zaccone, il difensore della Juve di allora, possa oggi provare un po’ di vergogna di fronte a quanto venuto fuori adesso. Lui che disse di aver letto tutto in una settimana, lui che condivise la retrocessione in serie B con penalizzazione paventando addirittura la retrocessione in C.

Altro che sistema

I difensori di parte degli incolpati hanno impiegato quattro anni per leggere quanto successo e capire quello che Zaccone non aveva capito o fatto finta di non capire. E infatti, alla luce di quanto emerso dal 2006 ad oggi, si può affermare che quel sistema strutturale anche detto «sistema Moggi» non è mai esistito. Mentre è esistito - e ci sono le prove - quello strutturato a danno della Juve, la squadra più forte di quel tempo, e a favore del Milan, l’antagonista numero 1 della Signora. E questo lo sanno bene Carraro e Abete, i capi del calcio di allora (Abete anche adesso), perché loro ne erano gli alfieri. E adesso si scopre che Abete tifa Juve, ma solo perché doveva andare con la Nazionale a Torino e quindi si è lasciato andare a celebrazioni, professando una religione che non gli è propria. Vi siete mai domandati, amici lettori, il perché non mi sia mai arrivata una querela pur avendo scritto più volte tante cose nel merito? Domandatevelo e avrete la verità a disposizione. In tanti devono tacere, soprattutto quelli che sanno cosa è stato fatto a danno della Juve dopo la morte dell’Avvocato e di suo fratello Umberto. Ci sono, purtroppo per loro, delle intercettazioni inconfondibili ad incastrarli. E saranno fatte sentire in tribunale.

In mezzo al campo

Vedere poi in mezzo al campo Abete – badate bene allo Juventus Stadium – che premia Buffon e lo bacia addirittura, fa venire il voltastomaco a chi conosce le cose. Il bacio di Giuda era niente rispetto a quello di Abete a Buffon. Con quel bacio pubblico il presidente federale pensa magari che la gente bianconera possa dimenticare un numero, il 31, e quei titoli che la Federcalcio non ha voluto restituire alla Juve. Non gli è bastato ostacolare tutto e tutti con la famosa formula della «incompetenza», ha avuto anche l’ardire di pestare (meglio calpestare) l’erba di quel campo che tanto ha dato e tanto dà al calcio italiano.

Comunque anche nella Federcalcio al tempo di Calciopoli non tutte le persone erano uguali. Ci piace ricordare il comportamento tenuto dall’avvocato Giuseppe Benedetto, che era stato giudice sportivo della Figc sino al 18 luglio 2006. Dopo la sentenza della Corte d’Appello federale, rassegnò le dimissioni così, apostrofando il commissario straordinario Guido Rossi: «Quale insegnamento i cittadini di domani possono trarre dall’incredibile processo tutto e solo mediatico a cui abbiamo assistito in questi giorni, con una sentenza annunciata, più che dai giudici, direttamente dal popolo? Qualcuno potrebbe farmi vedere dove sta l’illecito? Ne ho ribrezzo, non sono rassegnato, sono semplicemente indignato e siccome voglio stare a posto con la mia coscienza, si trovi un altro giudice, caro Rossi».

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L’Assemblea si annuncia calda

Lega e diritti tv

incassi milionari

degli advisor

In minoranza Sette società, una minoranza, si oppongono alla gestione attuale

L’esempio La Premier insegna che si possono evitare intermediazioni da 40 milioni

di MASSIMO SIDERI (CorSport 13-09-2013)

MILANO — Piccolo quiz-show. Qual è il «team» di serie A che guadagna di più? Facile pensare a una delle big. E invece: la squadra che guadagna di più è quella degli advisor che gestiscono i diritti tv. È questo il vero indizio che i conti del calcio sono proprio nel pallone. Il sistema football, nel suo complesso, è sotto di circa 300 milioni. Persino una corazzata come Mediaset sui diritti tv deve chiudere il bilancio con la penna rossa e rimane in campo solo per questioni tattiche (leggi: Sky Italia). A bilanci fatti gli unici che vivono floridamente sono i superconsulenti, a partire dai due ex soci che hanno mosso i primi passi con Adriano Galliani, Marco Bogarelli (Infront) e Riccardo Silva (MpSilva). Nell’assemblea che si terrà oggi in Lega sarà difficile non parlare della coppia d’oro dopo una lettera di sostanziale sfiducia nel loro sistema arrivata da sette club — Inter, Roma, Fiorentina, Juventus, Hellas Verona, Sampdoria e il piccolo Sassuolo del presidente di Confindustria, Squinzi — e la manifestazione di interesse da parte di Img. Il presidente della Lega, Maurizio Beretta, si era subito mostrato disponibile a un confronto smentendo che si stesse preparando un blitz sebbene nel verbale della precedente assemblea di luglio si parli espressamente delle tempistiche per implementare un canale tv da affidare, chiaramente, a Bogarelli stesso. Si legge, tra l’altro, nel verbale: «Entro la prima decade di settembre nuova proposta di advisoring di Infront alla Lega». Oggi si andrà alla conta? Formalmente i big della lettera (il Milan e il Napoli sono sempre stati con Beretta) sono in minoranza visto che i voti non sono pesati: dunque, 13 contro 7. Difficile comunque pensare che qualche club minore si stacchi dal fronte Bogarelli. Infront non è solo l’advisor della Lega ma anche delle singole squadre per la gestione dell’archivio dei gol (dopo un certo periodo i team tornano in possesso dei diritti) e, per esempio, della pubblicità a bordocampo con minimi garantiti. L’esistenza di questi contratti è poi condizionata all’esistenza di quello principale, cosicché il tutto si trasforma in un meccanismo per gestire le squadre minori. In questi giorni ci sarebbe stato anche un po’ di «calciomercato» per muovere qualche voto. La verità, se si guarda anche a realtà come la Premier League e la Bundesliga, è che sul mercato interno dei diritti tv non c’è bisogno di un advisor che guadagna 40 milioni l’anno per parlare sostanzialmente con 3 soggetti: Mediaset, Sky e Rai. Senza contare che con il modello dei diritti in esclusiva (come in Gran Bretagna) la Lega potrebbe anche strappare a Sky più soldi. Diverso è il caso dei diritti tv all’estero dove entra in gioco Silva. Dopo aver mosso i primi passi con la Mp (al tempo di Bogarelli) e essersi fatto le ossa con il Milan Chanel che oggi possiede, Silva, che ha concentrato tutte le sue attività in Lussemburgo, si muove con i pezzi grossi come Nasser Al-Khelaifi, il proprietario del Paris Saint-Germain a cui l’emiro del Qatar ha affidato Al Jazeera Sport. Lo stesso Silva è comparso nella vendita dei diritti della Premier in Italia, acquistati da Sky per il lancio di Fox Tv. Un’operazione di triangolazione partita proprio dal Qatar.

Finita la pace tv.

Big del calcio alla guerra

OGGI ASSEMBLEA DI LEGA, SUL PIATTO IL NOME DELL’ADVISOR INCARICATO DELLA VENDITA COLLETTIVA DEI DIRITTI. JUVE E INTER CONTRO MILAN & C

ASSE SKY-MEDIASET Finora l’incaricata è stata Infront, vicina a Galliani:

la stessa società che ha assunto l’“ape regina” Began. Gli oppositori sostengono Img

di LUCA PISAPIA (il Fatto Quotidiano 13-09-2013)

Il calcio italiano dopo avere svuotato i granai si appresta a riempire gli arsenali. L’assemblea odierna di Lega a Milano sancirà la definitiva spaccatura tra maggioranza e opposizione sui diritti tv, il cemento delle larghe intese pallonare di questi ultimi anni. Per capire quanto sia importante la tv per il calcio italiano, basti pensare che per le grandi squadre europee solo il 20-30% del fatturato deriva da qui, il resto è matchday (tutto quello che si compra allo stadio e dintorni: dai biglietti alla birra) e dai ricavi commerciali (sponsor, marketing e merchandising). In Italia, dove il matchday è inesistente, i diritti tv superano il 60% del fatturato per Juventus, Milan, Inter e compagnia. Quel miliardo circa che arriva ogni anno dalle tv, neppure troppo se paragonato alla Premier che prende il doppio, e soprattutto mal distribuito se paragonato sempre alla Premier che è molto più democratica, per il calcio italiano è ossigeno primario. E finisce che come in politica, anche qui la televisione diventa il luogo privilegiato del potere.

DA ANCOR PRIMA che la Legge Melandri (2010) imponesse la vendita collettiva dei diritti tv, la società incaricata di gestire la vendita nazionale è stata Infront, quella dei diritti esteri MpSilva: entrambe molto vicine a Galliani. Infront, società per la quale lavora ora l’“ape regina” Sabina Began (370 mila euro l’anno) è creata da Marco Bogarelli, ex proprietario di Media Partners e uomo Fininvest. Mp Silva è di Riccardo Silva, ex socio di Bogarelli. Al di là di stabilire quanto queste società guadagnino effettivamente dai diritti tv – per Infront si parla di decine di milioni l’anno, mentre il bilancio di MpSilva ne farebbe risultare addirittura centinaia – la televisione è potere.

Sul sito della società si legge che Infront gestisce “marketing e sponsoring di Milan, Lazio, Palermo, Cagliari e Genoa ”, ovvero delle squadre che oggi si spartiscono i ruoli di potere in Lega così suddivisi: Galliani (Milan) vicepresidente, Lotito (Lazio) consigliere federale, Preziosi (Genoa) e Cellino (Cagliari) consiglieri. Perché da gennaio, quando Lotito è riuscito a far rieleggere il dimissionario Beretta alla guida della Lega con i voti del gruppo Milan di cui sopra (che all’inizio sosteneva Simonelli, revisore conti Lega e uomo Fininvest, che a luglio aveva ospitato nella sua villa sarda il grande amico di Berlusconi nonché dittatore kazako Nazarbayev , nel pieno del caso Shalabayeva). Con il cerino in mano, escluse da tutto sono rimaste per la prima volta Inter, Juventus, Roma, Fiorentina e Napoli, che avevano sostenuto l’attuale presidente della Lega Serie B Abodi (che a sua volta agli inizi era stato socio di Bogarelli e Silva in Media Partners, giusto per complicare un po’ le cose).

ALL’ASSEMBLEA di Lega di luglio il primo strappo, l’opposizione chiede di vedere le carte e capire perché anche per la vendita collettiva dei diritti tv nel triennio 2015-18 bisogna rivolgersi a Infront, dato che in Italia c’è il duopolio Sky-Mediaset e un advisor è inutile, e forse dannoso proprio perché troppo vicino politicamente. Dieci giorni fa la rottura, Juventus, Inter, Roma e Fiorentina con Verona, Sampdoria e Sassuolo e l’appoggio esterno del Napoli (e quindi Agnelli, Moratti e Tronchetti Provera, Unicredit, Della Valle, Garrone, Squinzi e De Laurentiis) scrivono una lettera di fuoco sul tema diritti tv al presidente Beretta, perché capiscano Galliani e il suo referente Berlusconi . Con questi nomi in ballo sembra uno scontro al vertice di Mediobanca sui destini del paese, eppure stiamo solo parlando di calcio.

Beretta si mostra conciliante ma l’opposizione non molla. E due giorni fa Img, multinazionale americana che nel 2008 aveva perso l’asta per diventare advisor della Lega contro la minuscola Infront, torna all’attacco a sua volta con una lettera a Beretta nella quale si propone come advisor per i futuri contratti di vendita dei diritti tv. Img oltre al dupolio Sky e Mediaset potrebbe rivolgersi anche ad Al Jazeera, finora mai considerata e invece già attiva in mezzo mondo con diritti francesi e inglesi. La caduta di Infront sarebbe perciò paragonabile a quella del Palazzo d’Inverno potere calcistico come lo abbiamo oggi conosciuto, quello con le sembianze di Galliani e i marchi di Mediaset e Sky. Svuotati dalla crisi i granai del derelitto calcio italiano, tremano le larghe intese e straboccano gli arsenali.

SPORT · Lega e società sono ai ferri corti

Calcio e diritti tv, le sette

sorelle giocano al rialzo

di NICOLA SELLITTI (ilmanifesto 13-09-2013)

Calcio italiano, ecco un nuovo big bang. E poco c’entrano stavolta aule di tribunali, sim galeotte, calciatori che truccano le partite. Si litiga per i diritti audiotelevisivi del campionato. Per il nuovo accordo per la cessione del triennio 2015-2018. Guelfi e ghibellini del pallone sono da tempo ad affilare le armi. Perché il tema dei diritti tv è solo il primo atto di una resa dei conti tra i potenti del pallone che si rinvia da mesi. Forse, anni. L’assemblea di Lega prevista per oggi segue la lettera inviata al presidente di Lega, Maurizio Beretta da sette club della serie A (Juventus, Roma, Inter, Fiorentina, Verona, Sampdoria, Sassuolo, con l’appoggio esterno del Napoli) che mettono in discussione il ruolo di Infront - società che gestisce la vendita dei diritti tv del calcio italiano sino al 2016 - in vista della cessione dei diritti televisivi del triennio 2015-2018.

In gioco ci sono i 2/3 del fatturato della serie A. Per i sette club ci sarebbero sul mercato alcuni advisor più competitivi per il nuovo accordo collettivo. Come Img, società che si è già fatta – poco casualmente - avanti con una «manifestazione d’interesse» con il presidente Beretta, dopo la lettera dei sette club. In sostanza, le «nuove sette sorelle» vorrebbero un gioco al rialzo nella ripartizione della torta televisiva, un «piano di sviluppo alternativo» che partirebbe mettendo fuori gioco Infront.

Tra i motivi del ribaltone, il prodotto serie A che non sarebbe adeguatamente sviluppato, con ricavi troppo bassi. Ben sotto il miliardo di euro complessivo garantito dal duo Mediaset-Sky, se non dovesse scendere in campo il terzo incomodo (Al Jazeera?). Masotto osservazione anche il sistema MP Silva che gestisce i diritti esteri della A: appena 127 milioni di euro nelle casse dei club di massima serie (500 per quelli di Premier League). Fin qui, i numeri. Poi, ecco le trame, i giochi di palazzo, secondo consolidata tradizione italiana. Tra le pieghe della missiva c’è una forte critica dei club ai dirigenti che negli anni hanno gestito la Lega. Colpevoli di mancanza di progettualità. Senza una visione di ampio respiro del motore del calcio italiano. Critiche che vanno in particolare al presidente Beretta, eletto lo scorso gennaio dall’asse Adriano Galliani - Claudio Lotito. Le altre big, Juve, Inter, Roma, Napoli, Fiorentina, che avevano appoggiato la candidatura di Andrea Abodi, capo della Lega di serie B, rimanevano fuori dal nuovo consiglio di Lega. Dove fioccavano poltrone per Galliani (vicepresidente), Lotito (consigliere federale), Massimo Cellino ed Enrico Preziosi (consiglieri). Insomma, alla prima occasione, l’opposizione, in testa Andrea Agnelli e Diego Della Valle, si mette in moto.

Puntando diritto su Infront – pagata 35 milioni dalla Lega -, sulla sua familiarità con Fininvest. Minacciando implicitamente di avere la forza di bloccare qualsiasi delibera di Lega, compresa quella sull’advisor. Che, in presenza di un duopolio (Mediaset-Sky) non è di fondamentale importanza. La ricca Premier League conta su una sola consulenza pro tempore, la Wasserman. E vende molto meglio il suo prodotto, soprattutto in Asia, risparmiando milioni di euro. Senza trascurare che i nodi italiani sono strutturali. Che il calcio dipende quasi esclusivamente dagli introiti televisivi, bassi e distribuiti male (40% suddiviso tra i 20 club, 30% bacino d’utenza, 30% risultati). Con le tv che dettano l’agenda alle società. Negli altri Paesi europei, la formula per generare ricavi prevede stadi di proprietà dei club (in Italia si è messa in pari solo la Juve), sponsor, marketing, merchandising. Qualcosa si muove (il Napoli vede crescere il suo fatturato di anno in anno). Troppo poco per un cambio di marcia.

Diritti tv: ecco la proposta che Infront

presenterà oggi all'assemblea di Lega

di MARCO BELLINAZZO (Il Sole 24ORE - Calcio & business 13-09-2013)

Creare una tv autonoma della Lega di serie A che possa offrire “direttamente” ai quattro/cinque milioni di tifosi che oggi acquistano il prodotto calcio dalle pay-tv i 380 match del campionato. Sarà questo il cuore della proposta che Marco Bogarelli, il presidente di Infront Italia, l’advisor della Lega, presenterà all’assemblea che si riunisce oggi a Milano per avviare il percorso di vendita del pacchetto di diritti tv (domestici e internazionali) relativi al triennio 2015-18. Un pacchetto che vale “ancora” il 65% del fatturato della A, per una cifra complessiva di tre miliardi di euro.

Canale Serie A. La riunione di questo pomeriggio si annuncia come una delle più tese degli ultimi anni, soprattutto alla luce della lettera di fine agosto nella quale sette club (Fiorentina, Inter, Juventus, Roma, Sampdoria, Sassuolo e Verona) hanno manifestato al presidente di Lega Maurizio Beretta la necessità di effettuare nuove indagini sulle potenzialità commerciale dei diritti tv del calcio tricolore ed eventualmente di ripensarne le procedure di vendita. Con l’obiettivo, tutt’altro che facile da raggiungere in un contesto economico di recessione, in cui i consumi sono in calo verticale e il fatturato pubblicitario ha subito in due anni e mezzo una contrazione di oltre 3 miliardi di euro, di incrementare i ricavi. La proposta di Bogarelli potrebbe mettere tutti d’accordo, visto che una delle richieste provenienti dalle sette società riguardava proprio lo sviluppo del Canale Serie A. Per il lancio del quale potrebbe bastare un investimento iniziale di 65/70 milioni. La Lega così potrebbe produrre e vendere direttamente le partite, acquistare le frequenze o affittarle e sfruttare tutte le piattaforme tecnologiche (dal digitale terrestre al satellite al web) disponibili. Per l’implementazione del sistema e la “migrazione” dei tifosi occorrebbero almeno 18/20 mesi e dunque la decisione non potrà essere procrastinata a lungo. È chiaro che un piano del genere, di non semplice realizzazione va detto, potrebbe sconvolgere l’attuale assetto del mercato televisivo, e in definitiva potrebbe rappresentare quell’“alternativa” indispensabile per rendere concorrenzale e ancora remunerativo (per i club) il mercato interno. Un mercato in cui i due unici players principali (lo sbarco di Al Jazeera più volte paventato non è all’orizzonte) Sky e Mediaset, che da soli hanno versato nelle casse delle società mediamente 829 milioni a stagione, sembrano orientati a rivedere al ribasso i rispettivi budget. In altri paesi è stata la concorrenza fra broadcaster e aziende tlc (Bt contro BSkyb in Gran Bretagna e Sky contro Duetsche Telekom in Germania) a portare ad aumenti dei fatturati da diritti tv a doppia cifra.

Il ruolo dell'advisor. Nella lettera dei 7 club vi sono altre richieste come la riflessione sul ruolo stesso dell’advisor il cui contratto scade nel 2016 e sulla possibilità di indire una gara per la scelta di un nuovo soggetto come nel 2007. All’epoca parteciparono alla gara 12 soggetti (Mediobanca spa, Innova et Bella, Rai Trade, Sportfive, Lehman Brothers e KPMG, Infront Italy, IMG Media, Octagon Inc., Unipol Merchant, Rothschild, Value Partners e DLA Piper). Dopo una prima fase di verifica furono selezionate tre società: IMG, Infront e Sportfive. Il 1° luglio 2008 il Consiglio della Lega approvò infine la proposta di Infront, unico dei soggetti candidati ad impegnarsi con un minimo garantito di 900 milioni all’anno per tutte le sei stagioni per un totale di 5,4 miliardi (IMG che ha avanzato la sua candidatura anche per il futuro e che ha avviato da poco un processo di dismissioni, all’epoca aveva garantito un minimo di 860 milioni e non per tutte le stagioni): il contratto di advisoring venne poi sottoscritto il 27 gennaio 2009 dopo che la stessa Lega aveva dato l’ok definitivo. Nelle stagioni precedenti all’accordo di commercializzazione collettiva dei diritti tv si raggiungevano mediamente ricavi per 666 milioni a stagione. Nella prima stagione con Infront la cessione ha fruttato 942 milioni di euro mentre l’attuale sarà la prima con ricavi superiori al miliado di euro (829 dai diritti interni per le pay tv, 58 dai diritti in chiaro e 117 dall’estero). Con un incasso medio a stagio e di 986 mioini (+41%).

Diritti tv "esteri". Un altro motivo di attrito riguarda la redditività della cessione dei diritti tv all’estero. Per i 7 club "dissidenti", per la crescita della A "è necessario che la Lega si adoperi per massimizzarne lo sviluppo". Per il triennio 2012/15 c’è stata una gara vinta da Mp&Silva che ha garantito le somme più consistenti: 114 milioni per la stagione 2012/13, 117 per la stagione 2013/14 e 120 per la stagione 2014/15. Le altre offerte erano stato depositate da B4 (che aveva offerto 96 milioni ad anno), da IMG (che avev offerto in media 92,5 milioni), Kentaro (90 milioni annui), Pitch (90 di media), Ufa (85) e Sportfive aveva presentato un’offerta più articolata con un minimo garantito base di 92 milioni a stagione. Anche su questo fronte per il prossimo triennio si potrebbe passare alla vendita "diretta", se le nuove offerte non saranno ritentue soddisfacenti dell’assemblea. Oggi Infront diffonderà un’indagine affidata su richiesta della Lega a un soggetto indipendente (Value Partners) sull’appeal del calcio italiano basata sul confronto con la Premier (che nell’ultima stagione ha incassato all’estero 450 milioni e in quella attuale li raddoppierà) e la Bundesliga. Leghe che operano però in contesti macroeconomici più favorevoli. Nello scenario della pay Tv, per esempio, in Italia il quadro è molto sfavorevole: livello prezzi al cliente finale è basso (24 euro contro i 52 in Gran Bretagna per un pacchetto calcio-base) e la dinamica degli abbonamenti negativa. Dall’indagine emerge, tra l’altro, il rischio di un’ulteriore perdita di attrattività delle serie A in mancanza di interventi di recupero della qualità del prodotto come gli stadi e di iniziative promozionali più efficaci.

Che battaglia in Lega

Oggi si riparte

con i diritti tv

Ma è solo l’inizio

Infront fa la sua proposta: 900milioni garantiti

Le sette sorelle mirano però alla crisi di governo

di MARCO IARIA (GaSport 13-09-2013)

È la madre di tutte le battaglie. Oggi in assemblea di Lega si torna a parlare di diritti tv. Ma, a pensarci bene, è paradossale che si litighi non su come spartirsi i proventi, bensì sulle modalità di vendita e sul ruolo dell’advisor. L’obiettivo - incassare più soldi possibile - non dovrebbe essere comune a tutti e 20 i club? Evidentemente c’è qualcos’altro dietro la ritirata sull’Aventino di Fiorentina, Inter, Juve, Roma, Samp, Sassuolo e Verona. E in filigrana traspare anche dalla lettera con cui hanno chiesto maggiori approfondimenti sul nuovo ciclo di commercializzazione 2015-18. Parole come «progettualità », «crescita», «sviluppo innovativo » rimandano alla volontà delle sette di mettere in crisi il governo della Lega, così com’è uscito dalle elezioni di gennaio che hanno riconfermato Maurizio Beretta alla presidenza e messo fuori dal consiglio Juve, Inter, Roma e Fiorentina.

Differenze Se la ricerca di una nuova strategia politica e commerciale della Lega fa da collante alla protesta delle «sette sorelle», i passaggi intermedi, come quello di oggi, non prevedono necessariamente una coincidenza di interessi. Prendiamo il mandato di Infront. La Sampdoria fa sapere di non aver nulla contro l’attuale advisor, mentre bianconeri, nerazzurri, giallorossi e viola ritengono più utile rinunciare al minimo garantito, evitare di spendere ricche commissioni (35 milioni per il miliardo annuo a Infront) e cercare di trarre il massimo da una vendita diretta. «Anche perché spiegano con il minimo garantito non si ha a che fare con un advisor, ma con un intermediario ». Dubbio già dissipato nel 2008 dal professor Irti.

Beretta Se la fatidica quota 7, necessaria per bloccare qualsiasi delibera, verrà a mancare, verrà messo ai voti già oggi il rinnovo del mandato a Infront? Beretta usa toni concilianti: «Questo è un appuntamento di fondamentale importanza per avviare una procedura che abbia il massimo della trasparenza e il totale coinvolgimento delle società, sapendo che l’interesse comune è di valorizzare al meglio i diritti tv». Il presidente della Lega ha già incassato la disponibilità degli a.d. di Sky e Rti (Mediaset) Zappia e Giordani a venire in assemblea per una ricognizione sul mercato nazionale. Il punto, però, è un altro. Il contratto con Infront scade il 30 giugno 2016, cioè al termine della prima stagione del prossimo triennio. Visto che è impossibile vendere i diritti per un solo anno, si dovrà scegliere se prolungare il mandato a Infront o chiedere la risoluzione anticipata pagando però una penale. A meno che non sia fattibile, come suggerisce qualcuna delle «sette sorelle», predisporre i bandi e servirsi di Infront fino al 2016 e poi far partire una nuova consulenza.

Conferma Oggi Marco Bogarelli esporrà la sua proposta ai club, compreso il prospetto costi-ricavi di un canale Lega. Nonostante le turbolenze del mercato interno, Infront dovrebbe continuare a garantire i 900 milioni annui che nel 2008 gli hanno fatto vincere la prima sfida, con Img ferma a 860. Quella stessa Img, ora in vendita, che ha inviato una nuova manifestazione di interesse scrivendo: «Riteniamo di poter offrire alla Lega servizi di qualità volti alla massimizzazione dei proventi a fronte di una struttura remunerativa molto competitiva». Verranno ascoltate le offerta di Img e Sportfive? Gli avvocati dei club avranno oggi il loro daffare a scandagliare i contratti in essere per capire i margini di manovra.

Quanto vale un cross di Schelotto?

La serie A al ballo dei milioni

Oggi l’assemblea di Lega sui diritti tv:

Agnelli e Moratti alleati contro Galliani-Lotito

IL FRONTE RIALZISTA Incordata con la Juve club storicamente nemici come Inter e Fiorentina

COPPIA AL POTERE Milan e Lazio per lo status quo. De Laurentiis gioca su due tavoli

APE REGINA La Began, già legata a Berlusconi, lavora per l’advisor Infront

di GIGI GARANZINI (LA STAMPA 13-09-2013)

Mille milioni di euro l’anno. Duemila miliardi delle vecchie lire. E’ quanto incassano dalla cessione dei diritti televisivi le società produttrici dello spettacolo calcio. Novecento da quelli a uso domestico e cento da quelli venduti all’estero. Sono pochi o sono tanti?

Per noi calciomani da salotto che dinanzi a certe cifre i conti li facciamo innanzitutto con l’emicrania, la risposta è, dipende. Se parliamo di un lancio felpato di Pirlo l’abbonamento non si discute: se parliamo di un cross di Schelotto, non è detto che il budget familiare se lo possa permettere per sempre. Ma noi non siamo che consumatori, e i prezzi com’è noto li fanno i produttori, e magari i distributori. I quali produttori e distributori da oggi in Lega cominceranno a litigare di brutto, per via che secondo alcuni il cross di Schelotto è pagato il giusto, secondo altri potrebbe valere molto di più. Soprattutto all’estero, dove c’è evidentemente un buon numero di Schelotto-Fans-Club.

Il fronte rialzista è guidato dalla Juventus, e comprende Inter, Fiorentina, Roma, Sampdoria, Sassuolo e Verona. Annovera dunque il presidente di Confindustria, dominus del Sassuolo, e assembla personaggi di primissimo piano che non risultano tra di loro in rapporti di fervida amicizia. Le cronache raccontano che Agnelli e Della Valle così come Moratti e Della Valle non usano mandarsele a dire. Agnelli e Moratti non ne parliamo, ma al di là che gli affari sono affari si sa che ormai si scrive Moratti ma si legge Thohir e questo in prospettiva semplifica le cose. L’altro schieramento fa capo invece alla coppia detentrice del potere attuale Galliani-Lotito, con il presidente del Catania, Pulvirenti, nel ruolo di emergente. In medium, direbbe Lotito che proprio nei momenti difficili si aggrappa al suo strepitoso latinorum, dovrebbe starci la virtù. E invece ci sta De Laurentiis, oppositore storico al sistema, che di virtù ne ha tante, di idee nuove pure, magari più cinematografiche che calcistiche ma in fondo perché sottilizzare visto che sempre di spettacolo si tratta. Ha però anche quei toni e quegli atteggiamenti da grillo parlante non particolarmente indicati per convogliare grandi simpatie sul personaggio.

E sì che, sostengono i costruttivi, questo sarebbe il momento di unirsi, non di dividersi. In fondo qualche buon segnale di resipiscenza il calcio di club ultimamente lo ha lanciato, a cominciare da un più responsabile adeguamento all’ottica del fairplay. Si è anche ricominciato, proprio quest’estate, ad importare campioni, come Higuain, come Tevez, come Gomez, dopo stagioni di sole esportazioni eccellenti. Forse toccherebbe al presidente di Lega, Beretta, farlo presente, ed è scontato che ci proverà. Peccato che la sua posizione, dopo tutta una serie di dimissioni annunciate e poi rientrate negli anni, sia debolissima. E che la sua parte in commedia sia quella del re travicello. Abbarbicato, ma pur sempre travicello.

Ci salveranno le vecchie zie, buttava là in questi casi il grande Leo Longanesi e pazienza se non era una mezzala. Dati i tempi e i costumi che ne conseguono, l’unica che ci, li, può davvero salvare è un’ape regina. Anzi è l’ape regina per eccellenza, Sabina Began, che per la modica somma di 370 mila euro l’anno cura le relazioni esterne di Infront, la società incaricata di gestire i diritti. I cultori dei conflitti d’interesse ad ogni costo insinuano che già la sua presenza e a maggior ragione la sua prebenda diano adito a sospetti, per via dei trascorsi con lo statista. Che non li senta Lotito, già pronto a levare gli occhi al cielo e ad esalare il suo omnia munda mundis.

Carissimi nemici. Alleati

AGNELLI e MORATTI: dagli scontri per

Calciopoli al fronte comune per i diritti tv

Oggi assemblea di Lega sui proventi televisivi:

Juve e Inter guidano la cordata che pretende nuove norme

di ANTONINO MILONE & STEFANO SCACCHI (TUTTOSPORT 13-09-2013)

TORINO. Alla vigilia del derby d’Italia, oggi Inter e Juventus giocheranno una partita insieme: sul “terreno di gioco” della milanese via Rosellini è in programma un’infuocata battaglia per aggiudicarsi il “trofeo” dei diritti tv. Ma le radici della strana alleanza politica tra Massimo Moratti e Andrea Agnelli vanno ricercate in quella guerra elettorale che a gennaio li vide coalizzati nello spingere Andrea Abodi sullo scranno più prestigioso della Lega. Quella volta il blitz di Claudio Lotito e Adriano Galliani fece prevalere lo status quo , con Maurizio Beretta confermato numero 1. Non bastò, perché Inter e Juve furono pure escluse dal governo della Lega, in compagnia di Roma e Fiorentina: grandi famiglie del sistema economico italiano fatte fuori, mentre il blocco dei vincitori occupava tutte le poltrone. Ma qualcosa, presto, potrebbe cambiare.

TREGUA L’assemblea odierna, anche se catalizzerà l’attenzione sul duello tra i club a suon di milionate sparse, sarà utile pure a santificare un patto. Oddio, forse a pranzo Moratti e Agnelli non saranno mai beccati assieme, visto e considerato che le scorie di Calciopoli impediranno che almeno una sana rivalità sportiva venga spazzata via. Però il segnale va colto, anche in vista di ciò che potrebbe accadere, col presidente nerazzurro chissà quanto fuori dai giochi: e se fosse l’ultima Inter-Juve col simpatico sorriso del patron in bella vista, il mutamento dei rapporti col club bianconero resta un dato certo. Se non sarà pace dopo la guerra, insomma, la tregua lascia ben sperare.

FRECCIATE Eppure, ancora oggi in molti si stupiscono. Della serie: ma chi l’avrebbe mai detto che Moratti e Agnelli si sarebbero di nuovo guardati negli occhi? Quando il nerazzurro sfogava la sua delusione in quel «Calciopoli è stata una grande presa in giro per il calcio italiano»; quando lo juventino replicava a chi, a suo dire, non sapeva gioire dei successi propri, instillando nel dibattito una stilettata tutt’altro che nascosta: «Le sue parole sono inutili». O quando il bianconero concentrava il tema calciopolaro (e Moratti) in una semplice espressione: «Mi annoia». E come dimenticare quando, a fine gennaio 2011, il patron interista rispose così: «Mi dispiace aver annoiato il Giovin Signore»? Amavano beccarsi, i due, a suon di frecciatine che gonfiavano ancor più il petto del popolo zebrato, il quale tuttora si sente scippato di due scudetti vinti sul campo. Ma il passato si può cancellare?

GALLIANI: «OGGI PARLO» Beh, l’ipotesi è ardita, ma quella che si sta consumando è comunque una storia diversa. E pazienza se solo il denaro ha avvicinato gli estremi opposti. Così oggi Juve e Inter, insieme a Roma, Fiorentina, Sampdoria, Sassuolo e Verona, daranno battaglia dopo aver firmato una lettera, indirizzata alla Lega a fine agosto, per chiedere una svolta nel sistema di vendita dei diritti, ora affidato a Infront (mercato nazionale) e Mp Silva (estero). Sull’accordo tra le 7 sorelle e la controparte nessuno scommetterebbe un centesimo, anche perché il recente passato ha determinato divisioni evidenti. «Lascio a chi ha casse di risonanza dire le proprie opinioni, io queste casse non le ho e parlerò solo in assemblea davanti ai colleghi. A buon intenditor...», ha detto Galliani. Una spaccatura (che ha avuto il suo peso anche nella discussione sui ricavi della Supercoppa tra Juve e Lazio) sfociata nelle bordate degli ultimi giorni contro i due advisor, senza contare le polemiche seguite all’assunzione di Sabina Began e al dilemma dei ricavi dall’estero. Nerazzurri, bianconeri e i compagni di cordata chiedono un approfondimento sulla possibilità di aumentare gli introiti televisivi (che attualmente garantiscono un miliardo di euro) e una collaborazione con le emittenti per capire come migliorare il prodotto. Il clima, al netto della coalizione Juve-Inter, potrebbe essere più teso oggi nella sala delle assemblee di via Rosellini che domani a San Siro. Dove in un derby d’Italia insolitamente giocato tra alleati, magari l’obiettivo coglierà una stretta di mano tra ex nemici. Poi ognuno proseguirà per la sua strada, ma quello sì: sarebbe lo scoop del secolo.

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Le donne non si toccano nemmeno con un Lilian

IL GIORNO 15-09-2013

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FIFA declara guerra a Europa

La intención de Blatter de alterar el Mundial

de Catar 2022 atenta contra las grandes ligas

por JOHN CARLIN (EL PAÍS 15-09-2013)

“El capitalismo lleva dentro de sí las semillas de su propia destrucción”.

Karl Marx

Mire donde se mire, la mediocridad de liderazgo es alarmante. Uno tiene la sensación de vivir en un mundo a la deriva, en el que las grandes decisiones se toman según fluya la corriente, sin brújula moral o visión práctica de las cosas. Pero si buscamos un individuo y una organización que lo resume todo, que ofrece una metáfora en carne y hueso del desconcierto general, nada mejor que Sepp Blatter y la FIFA.

Fijémosnos en el ejemplo más reciente de estupidez e irresponsabilidad que nos ofrece el máximo organismo del fútbol internacional y su presidente. Esta semana Blatter por fin reconoció que la decisión de disputar el Mundial de 2022 en Catar había sido “un error” y que se había actuado de manera “no responsable”. Brillante. Tardó dos años y nueve meses en digerir lo que había resultado obvio a prácticamente todo el resto del planeta salvo a los 14 miembros de la FIFA que votaron en diciembre de 2010 a favor de la candidatura catarí y a los habitantes de aquel diminuto y desértico país. Obvio también lo tiene que haber sido, en el fondo, para aquellos como Zinedine Zidane o Gabriel Batistuta, que recibieron importantes cantidades de dinero para ejercer de embajadores a favor de la candidatura catarí, o incluso para amigos íntimos de Catar como el Fútbol Club Barcelona, que depende del patrocinio de Qatar Airways para cubrir los sueldos de Lionel Messi, Neymar y el Tata Martino.

Jugar un Mundial en temperaturas que pueden llegar a superar los 50 grados centígrados es demencial. Se habló de utilizar aire acondicionado en los estadios, con quién sabe qué efectos sobre la salud de los jugadores. Pero, ¿y los aficionados? ¿su salud? Como decía Cayetano Ros en este diario el martes, es imposible refrescar todo un país. Con lo cual no le ha quedado más remedio a Blatter que declarar que el Mundial de 2022 debe cambiarse de junio a noviembre, cuando hace menos calor en Catar. Bien. Pero, si se hubiera dicho bien claro en aquel momento que un voto a favor de Catar significaba un voto a favor de celebrar el Mundial en la mitad de la temporada europea, ¿hubiera ganado Catar? Con toda seguridad, no. Entonces, ¿por qué no se dijo en 2010? Una de dos. O espectacular incompetencia o corrupción. La segunda posibilidad la propagó el exvicepresidente de la FIFA, Jack Warner, cuando acusó al propio organismo en mayo de 2011 de aceptar sobornos de Catar para celebrar el Mundial.

Puede que haya sido una calumnia (Warner nunca fue ninguna monjita de la caridad), pero lo que todo el mundo sabe es que la FIFA, desde tiempos de Joao Havelange, huele que apesta. El propio Blatter sugirió el año pasado en un diario suizo que hubo “irregularidades” en la adjudicación del Mundial de 2006 a Alemania. En cualquier caso, lo que sabemos con más claridad que nunca tras el fiasco catarí es que la FIFA está organizada por ineptos irresponsables que están llevando al organismo a su propia destrucción.

En un intento de acelerar el harakiri, en un contexto en el que una creciente proporción de aficionados considera el fútbol entre selecciones de interés secundario, como una irritante interferencia en el asunto serio de los partidos entre clubes, Blatter ha declarado la guerra a las grandes ligas europeas. Ya han señalado los ingleses y los alemanes que no van a admitir que el Mundial de 2022 se dispute en invierno, partiendo sus temporadas en dos. Otros les seguirán.

Blatter cree que ganará la guerra. En sus declaraciones esta semana dijo: — “Europa debe comprender que ya no gobierna el mundo, y que los antiguos grandes imperios no pueden imponer sus deseos”.

Bonito espíritu global, pero un error. Quizá en lo único que manda hoy Europa es en el fútbol. La anual Liga de Campeones es donde se disputan los Mundiales que ejercen la mayor fascinación sobre el mayor número de aficionados, y donde se juega un fútbol más apasionante y de mayor calidad que el que vimos en Sudáfrica en 2010 o Alemania en 2006.

La cuestión no va a ser tanto si se disputa el Mundial de 2022 en invierno o en algún país que no sea Catar. La cuestión va a ser si de aquí a cuatro o cinco años la FIFA y el fútbol internacional de selecciones en general habrán caído en un proceso inexorable de extinción. Si no han empezado a caer ya.

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L'invasione degli ultranapolisti #PizzaConnection

il Fatto Quotidiano 14-09-2013

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In Australia cascano male male male #matchfixing

THE AGE 16-09-2013

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THE AGE 17-09-2013

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Mark Halsey: fan abuse creating

suicide risk among football referees

by JOSH BURROWS (THE TIMES 16-09-2013)

Abuse of referees may cause an official to commit suicide, according to Mark Halsey, the former Premier League match official, who retired from the job at the end of last season.

Halsey, 52, says that the rise of social media and the increasing popularity of the Premier League are responsible for putting referees under unbearable pressure.

In his autobiography, Added Time, Halsey recalls the abuse he was subjected to following Manchester United’s 2-1 defeat of Liverpool at Anfield in September last year — a match during which Jonjo Shelvey was sent off and United awarded a penalty — and says that similar vitriol will cause burn-out, nervous breakdowns or worse.

“Given some of the episodes of recent seasons, it will not be long before a referee has a nervous breakdown,” he writes. “I also believe that if we do not do something to help referees with mental health and stress issues, then we could even see a suicide.”

Recalling the death threats he received on Twitter after the game at Anfield, Halsey adds: “I wondered how anyone would react if it was their family, or their little seven-year-old daughter asking: ‘Daddy, why do people want us to die?’ You tend to get a bit upset.”

The tweets, both of which referred to Halsey’s throat cancer diagnosis in 2009, were widely condemned by other Twitter users and a Liverpool fan was later cautioned by police. However, while Halsey received support from Premier League managers and friends, he says his former employers were less forthcoming.

“I got little from my bosses apart from a call from Mike Riley, the head of the PGMOL [Professional Game Match Officials Limited], and one from the Select Group manager Keren Barratt asking if I wanted to come off my next game at Southampton.”

Referees should be seen and not read

by MATT DICKINSON (THE TIMES 17-09-2013)

It started, as perhaps these things do, with an innocent cup of tea some years ago. Mark Halsey arrived early at Stamford Bridge to officiate at a Chelsea game. José Mourinho invited him in for a chat. A few months later it had developed to full-blown hugging, with Mourinho embracing Halsey after the Community Shield. Halsey delighted in that squeeze and the whispered post-match compliment in his ear.

Quite how the relationship blossomed so fast between referee and notorious referee-baiter we may never know, but it flourished even after Mourinho left England. When Halsey’s wife, Michelle, was found to have myeloid leukaemia, the Portuguese paid out of his own pocket for Halsey and his family to stay at a five-star hotel in the Algarve.

“Obviously,” Halsey said, “I wouldn’t have gone if he’d still been at Chelsea. But what can you say? He’s been an absolute inspiration.” How touching. Only a cynic could look at such a close friendship and think it brought into question both men’s professional judgment. Only a nasty sceptic could doubt a referee who thinks it appropriate to accept thousands of pounds’ worth of gifts.

As for setting up a conflict of interest? Perish the thought. Halsey insisted that enjoying frequent hospitality from Mourinho while recovering from his own lymphoma did not place him in a difficult position even if their professional paths crossed. “Certain people might think it’s an issue but, for me, no,” Halsey told one interviewer. “José knows that when I cross that white line, I referee a football match fairly between two teams.” All of this, and more, is being retold in Halsey’s autobiography, Added Time, which is being serialised to reactions of alarm and disbelief.

We imagine our best referees to be strong men who have reached the top because of their sound judgment and fierce independence. The needy Halsey destroys that idea, hanging on every compliment, chumming up to the leading managers.

It was not just Mourinho. We learn how Halsey thought nothing of ringing and texting Sir Alex Ferguson, another managerial buddy. When Ferguson lauds a Halsey performance at Anfield as brave, the referee is thrilled. He does not pause to think that Ferguson would praise a blind official with a Chelsea season ticket if he has just dismissed Jonjo Shelvey.

It gets worse, as Halsey rings Ferguson to ask him publicly to defend Mark Clattenburg, who was being investigated at the time for alleged racist abuse of John Obi Mikel (Clattenburg was cleared). Ferguson obliges. Yet still Halsey expects us to see nothing untoward in this relationship. “I may have spoken to him a lot and shared texts, but he knew when I crossed that white line there were no favours,” Halsey writes.

Short of examining every match he officiated, we will have to take Halsey’s word for that. However, we would much rather not be left wondering.

Criticising referees is not something anyone should rush to do. Their job is thankless without the rest of us making life harder. Yet hard questions are bound to be asked in the light of Halsey’s book and its alarmingly blasé revelations. It has spread paranoia. It has made fans wonder how a leading referee can be so lacking in judgement. It has made fans of smaller clubs wonder afresh if the top sides benefit from power and influence.

Frighteningly, Halsey seems never to have stopped to consider how any of this would look — then or now — as he breached his professional code.

His former employers at PGMO (Professional Game Match Officials) insist that Halsey was an extreme case, an especially matey official who flouted their protocols in a way that has shocked them. His recent retirement solves that problem.

They say that Mike Riley, the general manager, makes plain before every season that direct contact between officials and managers/players is strictly off-limits except during match days.

They point out that referees are banned from asking any favours, even signed shirts — though they may want to monitor at least one present official who has that unfortunate habit.

They point out that the vast majority of referees quietly go about a very difficult job without a puppyish longing to be everyone’s best friend.

They can claim that those officials who write books, and present such an unappealing face of the profession, are not typical.

Before Halsey, we had Graham Poll revealing in Seeing Red how he once begged Zinédine Zidane for his shirt DURING a Champions League tie, asking the maestro: “Am I good yet?” We had Jeff Winter in Who’s the B****** in the Black? telling how he added time to his last game at Anfield so that he could savour the occasion before his final whistle. When the Kop applauds a 4-0 home victory, Winter asks: “Did they know it was my final visit? Was the applause for me?” Halsey’s book joins this inglorious genre, the “referee memoir”, notable only for its staggering self-delusion. The more we read of Added Time, the less we want to know.

He tells us that he stopped one half of a United game early because he was bursting for a number two. How he and Fergie laughed. Refereeing “banter”, you conclude, should stay between referees. Officials are not encouraged to speak, and now we know why. They should do the job and head home, preferably without stopping to hug Mourinho or text Ferguson on the way.

Following this clear professional code was too much for Halsey, who not only made his famous friends in the dugout but has now bragged about it. In doing so, he has raised worrying questions about appropriate relationships, whether referees are blinded by fame, and whether the rich and powerful benefit.

Halsey writes like he is speaking up for a silent profession. The gratitude of his former colleagues may be less than universal.

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INFLUENZE NEFASTE

Milan, la sconfitta

è solo per gli altri

CALCIO E POTERE L’atteggiamento dei rossoneri in campo, i tentativi di

evitare la disfatta con tutti i mezzi sono un riflesso del mondo morale di B.

di MASSIMO FINI (il Fatto Quotidiano 17-09-2013)

Torino-Milan, sabato. Il Toro a una manciata di secondi dalla fine sta vincendo 2-1. Uno dei giocatori granata, Larrondo, è a terra da qualche minuto, infortunato. I tecnici del Torino hanno già chiesto l’interruzione del gioco per soccorrere il giocatore (che poi uscirà in barella) e sostituirlo, ma l’arbitro ha fatto continuare perché col Milan tutto all’attacco l’azione è viva. Non lo è più quando la palla finisce in fallo laterale. A questo punto una delle regole morali del calcio vorrebbe che i giocatori rossoneri si fermassero per permettere soccorso e sostituzione. Invece rimettono rapidamente la palla in gioco e dall’azione nascerà il rigore che porterà il Milan al pareggio. Atalanta-Milan, Coppa Italia ‘89-90. Il centravanti del Milan, Borgonovo, è a terra, infortunato, nell’area di rigore bergamasca. Stromberg, che è in possesso della palla, la mette fuori per permettere i soccorsi al giocatore milanista. La mette fuori all’altezza dell’area di rigore dell’Atalanta, non la calcia lontano. Stromberg è svedese, è un giocatore estremamente corretto ed è certo che, come vuole un’altra regola morale del calcio, i milanisti restituiranno il pallone agli avversari. Ma non andrà così. Rijkaard invece che a un giocatore atalantino, la passa a Massaro che la butta al centro dell’area, se ne impadronisce Borgonovo, rialzatosi, che viene atterrato. Rigore. Sul dischetto va Baresi, capitano e bandiera del Milan. C’è tutto il tempo e il modo per rimediare alla grave scorrettezza dei rossoneri sbagliando apposta il rigore. Ma dalla panchina arriva l’ordine di Sacchi. Baresi segna fra gli ululati del pubblico atalantino. Grazie a quel gol il Milan passerà alle semifinali. Verona-Milan, ultima di campionato. Il Milan perde la partita e l’ultima speranza di aggiudicarsi lo scudetto. Allora si vedono i giocatori rossoneri, compreso l'algido Van Basten, che invece di accettare sportivamente la sconfitta, si tolgono le maglie, le buttano a terra, le calpestano, si abbandonano a scene isteriche e penose.

1991, quarti di finale di Coppa dei Campioni Olimpique Marsiglia-Milan. Il Milan aveva vinto la Coppa nei due anni precedenti, avrebbe potuto accettare con una certa serenità la sconfitta che si stava profilando (gol di Waddle). Non si può vincere sempre. A cinque minuti dalla fine si spegne uno dei quattro riflettori dello stadio. Il nobile Maldini, il nobile Baresi e altri giocatori circondano l'arbitro: con ampi gesti indicano il riflettore spento, c’è troppo buio, non si può giocare, la partita va ripetuta (si vedevano perfino le monetine che i tifosi del Marsiglia stavano gettando sul campo per irridere a quella vergognosa sceneggiata). L’arbitro, ovviamente, non gli dà retta. Allora Galliani, in collegamento con Berlusconi, ordina il ritiro della squadra.

UNA COSA INAUDITA, grottesca, che non si è mai vista nemmeno nei più scalcinati campetti dei campionati minori Figc. Il Milan si beccherà una squalifica di un anno. Questa incapacità di accettare la sconfitta, di cercare di evitarla anche ricorrendo ai mezzi più sleali, è un riflesso del mondo morale di Berlusconi, di cui abbiamo poi avuto ampia testimonianza nella sua attività politica (“Bastava il Milan per capirlo” scrissi per l’Europeo nel gennaio 1995). Il calcio, si sa, è una metafora della vita. Nel mondo morale di Berlusconi c'è anche che col denaro si può comprare tutto: Guardie di finanza, testimoni, giudici. E anche di questo la storia del “suo” Milan è stata testimonianza. Quando aveva già i tre olandesi e sapeva di non poterlo far giocare, acquistò Savicevic, allora uno dei migliori giocatori del mondo, solo per toglierlo alle altre squadre. Con lo stesso scopo acquistava giocatori importanti senza farli giocare. Il nazionale De Napoli, in due anni, vide il campo, in tutto, per sette minuti. Ma il caso più emblematico è quello di Gigi Lentini. Nel 1992 Lentini, talentuoso ragazzo del vivaio granata, aveva portato il Torino al terzo posto in campionato. Ma Berlusconi lo voleva a tutti i costi. Gli fece offerte sempre crescenti che Lentini rifiutò: nel Torino era entrato a otto anni, dal Torino aveva avuto la fama, alla gloriosa e sfortunata società granata era legato da fortissimi vincoli affettivi, il denaro non era tutto. Ma Berlusconi portò l’offerta, fra ingaggio e acquisto del cartellino, alla sbalorditiva cifra di 64 miliardi e il ragazzo, figlio di una famiglia di operai delle Banchigliette, cedette. C’è chi dice che i miliardi siano stati “solo” 30, ma ha poca importanza. Berlusconi non aveva comprato le gambe di Lentini, che non potevano valere né 60 né 30 miliardi, gli aveva comprato l'anima dimostrandogli (a lui e al vasto mondo giovanile che ruota intorno al calcio) che i suoi ingenui sentimenti di ragazzo non valevano nulla di fronte al potere del denaro. Naturalmente la cosa andò a finir male. Lentini, frastornato nel nuovo ambiente, ebbe uno stupido incidente automobilistico, calcisticamente si rovinò, non servì al Milan né il Milan a lui. E questo mi ricorda una malinconica canzone di De André, Il Re fa rullare i tamburi. Luigi XIV, “in cerca di nuovi e freschi amori”, mette gli occhi sulla sposa di un suo generale. Lo corrompe promettendogli di farlo maresciallo di Francia. “Ma la Regina ha raccolto dei fiori, celando la sua offesa, e il profumo di quei fiori ha ucciso la marchesa”. E in questa favola gotica, in questa violenza e prepotenza puramente distruttrici, a perdere, si riassume l’influenza nefasta che Silvio Berlusconi ha avuto nella vita del nostro Paese.

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Il piano di Andrea Monti. In arrivo Ġazzetta Gold edizione nativa su tablet a pagamento

Ġazzetta dello Sport al rilancio

A novembre il nuovo sito, nasce il redattore unico carta-web

di CLAUDIO PLAZZOTTA (ItaliaOggi 17-09-2013)

La Ġazzetta dello Sport avrà ricavi sicuramente in calo almeno nei prossimi cinque anni. Ma il direttore Andrea Monti non si lascia deprimere dai conti, e cerca nuove strade con il piano di sviluppo 2013-2015, consultato da ItaliaOggi. In novembre ci sarà il lancio del nuovo sito ġazzetta.it, ma a breve verrà chiusa la edizione cartacea locale «Napoli e Campania» causa scarsa diffusione e scarsa raccolta di pubblicità.

Al quotidiano sportivo diventerà operativa, soprattutto, una nuova organizzazione del lavoro, che porterà alla nascita del cosiddetto «giornalista unico» (niente più distinzioni carta-web), e alla creazione del sistema a pagamento Ġazzetta Gold, per l’edizione nativa su tablet, che in prospettiva sarà quella dove lavorerà la gran parte della redazione. Si valuteranno pure opzioni sul fronte televisivo, per programmi o addirittura canali a marchio Ġazzetta.

Come spiega Monti nel documento presentato alla redazione giovedì scorso, le diffusioni della Ġazzetta cartacea diminuiscono inesorabilmente del 10% all’anno, e pure i ricavi pubblicitari scendono del 20-30%, senza che vi siano segnali di una inversione di tendenza. Su internet, invece, i contatti crescono del 10% e la raccolta del 15-20%. Serviranno, però, almeno cinque anni perché vi sia un equilibrio tra quanto si perde su carta e quanto si guadagna sul digitale. «Perciò i ricavi del sistema Ġazzetta, nei prossimi cinque anni, saranno in calo. Le attuali operazioni di efficienza (leggi tagli, ndr) servono per conservare margini, ma non lasciano spazio per investimenti signifi cativi, se non nell’area digitale. E questa opportunità», scrive Monti, «va sfruttata pensando a un nuovo rapporto tra giornale e siti».

Sul cartaceo, il pubblico pagante si sta restringendo a un target più maturo, e qui «serve un salto di qualità nei contenuti, aumentando la incisività della linea editoriale, senza timori».

Twitter ha notevoli potenzialità promozionali nei confronti del cartaceo, e si chiederà all’Azienda «di investire con decisione nello sviluppo di risorse ad hoc».

Il nuovo sito ġazzetta.it, operativo il prossimo novembre, avrà una «verticalizzazione dei contenuti che consentirà a ciascuna area del giornale di governare al tempo stesso i contenuti che produce per il cartaceo e sul digitale». In pratica, ciascuna sezione del giornale dovrà pensare e realizzare il proprio canale e relativa home page. Sarà compito del superdesk e del desk digitale quello di intercettare le breaking news, governare il processo e realizzare l’home page generale.

Col nuovo sito si punterà tantissimo a penetrare il mercato smartphone, quello dove si registra lo sviluppo più capillare e impetuoso.

Poi c’è il progetto Ġazzetta Gold, a pagamento, per i tablet. «Nessuno, in prospettiva, comprerà la Ġazzetta in edizione digitale solo per lo sfogliatore», prevede Monti nel suo piano, «ma saranno disposti ad abbonarsi per entrare in un club esclusivo».

Su Ġazzetta Gold ci sarà accesso al live degli eventi, ai canali video delle squadre di calcio, offerta di grandi eventi in streaming, con la creazione di una ampia community, programmi di fi delizzazione, premi, offerte scontate, ecommerce. Ġazzetta Gold sarà quindi un mondo chiuso a pagamento con un canone fisso annuo, e la emissione di una tessera che faciliti e-commerce e consenta, in prospettiva, anche di acquistare la copia cartacea in edicola. La edizione nativa per tablet, perciò, «sarà un prodotto unico in continuo aggiornamento, al quale la gran parte delle forze redazionali, in prospettiva, sarà chiamata a contribuire».

Entro il primo semestre 2014 sarà pronto lo studio di fattibilità circa opportunità e rischi connessi allo sviluppo televisivo del brand Ġazzetta, «al di là dello sforzo già programmato per la web tv». Di sicuro, «non disponendo di significativi contenuti live, una Ġazzetta in tv non potrebbe che basarsi sull’apporto convinto della redazione», scrive Monti, «e del suo patrimonio professionale, puntando decisamente sull’opinione, i retroscena, le inchieste, le storie». Da decidere se produrre singoli programmi, stringere partnership con player già esistenti, o partire con un canale tv autonomo.

Per portare a termine tutti i progetti sarà necessaria una riorganizzazione del lavoro, entro aprile 2014, con l’utilizzo intenso del telelavoro dalle sedi distaccate. Tutte le edizioni locali, entro sei mesi, avranno una loro declinazione digitale, mentre vi sarà una accelerazione dei tagli alle trasferte, rinunciando a coprire eventi non essenziali. La redazione del settimanale Sportweek, infine, si occuperà pure della edizione serale digitale della Ġazzetta, e degli added digital contents destinati a Ġazzetta Gold.

Gravissima crisi in rosa. Per lo spumante e' ancora presto.

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The big fix is in

Global match-fixing has the power to destroy much of the modern sports world.

by DECLAN HILL (THE AGE 18-09-2013)

''My life is over. All I have fought for has come to nothing. The club itself has been crushed under the dirt. The people whom I trusted have betrayed me. We were fighting against them with slingshots and they had mortars.''

Robert Kutashi was a good man. He was a journalist-turned-football coach who had been appointed to head the anti-match-fixing efforts of the Hungarian League. On February 28, 2012, the Hungarian police announced they had arrested dozens of players for fixing, including six from Kutashi's own team.

The next day - March 1st at 4.10pm - Robert Kutashi called up a friend at a Budapest newspaper and spoke those words. Then he went to a tall apartment block in the 14th district of Budapest. The building, ironically, overlooks a bankrupted soccer stadium and is next to a casino. Kutashi went to the top floor, took out his mobile phone from his coat, which he then folded neatly on the floor. Then jumped.

If Robert Kutashi were the only victim of this wave of match-fixing that is engulfing the world of sports, it would still be a tragedy. However, he is just one of many. There is a long trail of bribes, extortions, sexual blackmail, kidnappings, attacks, murders and suicides linked to match-fixing around the world.

There have been match-fixing controversies in dozens of different countries and last weekend in Australia came news of a fresh scandal allegedly linked to the same people who were involved in the match-fixing in Hungary that drove Kutashi to his death.

There is something going on in modern sport that we have never seen before. Here is an explanation.

Fixing and corruption in sport has a long history. At the site of the ancient Olympics in Greece, built in 776BC, there is a row of the remains of statues dedicated to their gods. The statues were built with fines paid by athletes and coaches who had been caught cheating. So there has been corruption in sport for at least 2800 years.

However, this generation is facing something almost entirely new. It is a form of match-fixing that is linked to the globalisation of the sports gambling market, and it is as if someone has taken match-fixing and injected it with steroids.

This new type of fixing has the power to destroy much of the modern sports world. Because of its international popularity, football is most at risk. However, this new kind of fixing has also embedded itself in tennis, cricket, Japanese sumo wrestling, horse racing, Taiwanese baseball, US college sports and a host of other athletic events. This new form of fixing will, unless fought, sweep aside many sports and leave them dead and destroyed.

If we take the entire sports gambling world, most of the familiar forms of gambling are relatively small. Las Vegas has only a tiny share of the total world sports gambling market (less than 1 per cent).

The illegal sports gambling market of North America is far larger than Las Vegas. It is often run by American organised crime syndicates like the La Cosa Nostra.

However, again when compared to the total world sports gambling market, it is relatively small.

If we take those two markets - Las Vegas and the US onshore, illegal markets - and then add in the offshore North American sports gambling sites (located in Costa Rica and the Caribbean), then add in the big British and Australian sports gambling companies such as Ladbrokes, William Hill and Betfair, and also the European sports national lotteries, you would have less than 40 per cent of the total world sports gambling market.

The rest of the sports gambling market is in Asia. The Asian sports gambling market is huge. It dwarfs the combined European and North American markets. Most of the Asian market is illegal, often run by the Chinese equivalents of Al Capone. And because much of it is illegal, it is difficult to give an accurate estimate of its total size.

A senior executive of the World Lottery Association, the umbrella-group of legal government-run gambling companies, claimed the total amount of the illegal sports gambling world, with most of this market being in Asia, is approximately $90 billion.

Other estimates have gone even higher. Officials at Interpol - the international police organisation - have claimed that the total world sports gambling market is worth $1 trillion.

In the past 30 years, this vast, illegal gambling market has corrupted sport across the continent of Asia. There are a few honourable exceptions of Asian sports leagues which are corruption-free.

They are the genuine exceptions. The fixing in Japanese sumo wrestling is so bad that recently the organisers had to cancel the national championship. The only other time that these championships have been cancelled was in 1946 just after the Second World War and the American bombing raids that flattened many Japanese cities.

The Taiwanese baseball league has had so many scandals linked to gambling match-fixing, it has now been reduced to only four teams. Pakistani cricket is a byword for this type of activity.

Much of Asian sport is drenched in similar types of corruption. The Chinese football league is a national disgrace. Those are the words of the former Chinese premier Hu Jintao, who declared in the autumn of 2009 that there was so much match-fixing and corruption in their football league that it embarrassed China.

There are similar circumstances in football leagues across the region: South Korea, Vietnam, Hong Kong, Indonesia, Cambodia, Laos, Thailand, Malaysia and Singapore have all faced similar scandals in their own leagues.

In Malaysia, the corruption was so bad that following a national police investigation in 1994, one cabinet minister estimated 70 per cent of matches in their leagues were corrupted.

When there was an attempt to clean up the very corrupt Singaporean-Malaysian joint football league, the two countries came close to a diplomatic incident. The Malaysians claimed the league was so corrupt because the gamblers in Singapore were fixing a lot of the games; the Singaporeans said the league was so corrupt because the criminals in Malaysia were fixing a lot of the games. Neither could agree so the league was disbanded because of the corruption.

It is this gang of match-fixers from Malaysia and Singapore who are now travelling the world to fix games.

Asian fans are not stupid. They know what is going on. They are not happy about all the corruption in their sports. In fact, they are very angry. So they turn their allegiances to teams in other leagues where they think the contests are not corrupt. This is part of the reason why fans in China are now wearing Manchester United or Houston Rockets shirts.

Far more importantly, the punters in that vast illegal Asian gambling league are switching their bets from the local sports, with all their inherent corruption, to international sports. They are betting on events from ATP tennis matches to North American ice hockey games to tiny games in semi-professional Australian soccer.

There are also a number of companies who place monitors at these matches. The companies send their people to the games where they stand on the sidelines with their mobile phones or laptops reporting back to the illegal gambling market in Shanghai or Johor Bahru or Manila.

They are not just reporting on the big Premier League, La Liga or Serie A games. They are reporting on games that are tiny in size: Canadian soccer games played in front of 200 people, Finnish baseball games, German table-tennis tournaments.

For example, in July 2008 in Copenhagen, Denmark, the annual Tivoli Cup took place.

The Tivoli Cup is a youth tournament for Danish teams. It is a big tournament, but most matches are played in parks and watched by a couple of dozen people, parents and, that year, four Chinese monitors reporting on the games back to the gambling market.

In other words, the illegal gambling market in Asia is so powerful that it is worthwhile to monitor games of Danish teenagers playing football matches in the park.

Later that same year, in an indication of both the power of the market and the ruthless criminals who control much of it, two Chinese gambling monitors who presumably decided to double-cross their bosses were found tortured to death in their apartment in northern England.

What are the Asian fixers doing? They too are not stupid and they are trying to do to European and North American sports leagues what they so successfully did in their own leagues: corrupt them.

Now the fixers are coming to Europe, Latin America, Africa, North America and Australia and forming alliances with local criminals. It is an ideal marriage. The Asian criminals get access to the teams and players; the local criminals get access to the lucrative Asian gambling market.

Here is how they work. The Asian fixers have a ''runner'' who works as their agent. These agents hire a local ''project manager'' - usually a team official - coach, manager or senior player. The key quality of a project manager is that they have to have lots of credibility and power on the team.

The runner gives the project manager a sum of money to start to persuade the players to join the fix. The project manager knows which players are most likely to take part in a fix. In a more complicated variation, the runner will arrange the transfer on to the team of various players who have worked fixes before.

In Finland, the world's biggest match-fixer, Wilson Raj Perumal, who is suspected of masterminding the rigging of professional soccer matches in the Victoria Premier League, helped bring in eight Zambian players who would then win or lose games on his command.

Once the fix is set up, the runner phones the Asian fixers with the information on how the fix will be played. This is not just which team will win or lose but more complicated choreography. For example, if a team can lose the first half, but end up winning the game, they can earn 20 to 30 times their money.

Then these fixers - with their years of experience - ''fix'' the Asian gambling markets. Using agents and sophisticated tactics they hide their activities from the bookmakers.

In one fix in a 2009 match played in a minor soccer league in Canada, they had a globalised network of fixers, runners and players stretching across nine countries and three continents.

In this way, they have fixed soccer games in at least 60 countries, including the United States, El Salvador, Guatemala, Zimbabwe, Malta, Cyprus, Greece, Turkey, Finland, Hungary, Serbia, Croatia, Macedonia, Albania, Italy, Germany, Austria, Switzerland, Slovakia, the Czech Republic, Belgium, Singapore, Malaysia, China, Hong Kong and Canada.

They fixed matches at every level from youth-level football tournaments to the lucrative Champions League to, according to Europol, the Europe-wide police organisation, hundreds of international matches.

The problem is that few inside the sporting world are actually taking this issue seriously. There are, of course, lots of conferences, lots of speeches, lots of high ideals, but very little action.

Even Australia's own legislation is tough on paper, but it still needs to be backed up with rigorous enforcement on the streets and the stadiums.

Until the sports world decides to get tough on this issue, stand by for more match-fixing controversies and more victims like Robert Kutashi.

Declan Hill is an international investigative journalist who infiltrated an Asian match-fixing gang for his book The Fix: soccer and organised crime.

His next book, The Insider's Guide to Football Corruption, based on his doctoral thesis from the University of Oxford, will be published next month.

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DE LAURENTIIS Le pompe di benzina

targate Napoli sulla strada per Pomigliano

di ANTONIO CALITRI (il Fatto Quotidiano 18-09-2013)

Aurelio De Laurentiis s’inventa la benzina azzurra. Lo spumeggiante produttore cinematografico prestato al calcio dove, alla guida del club napoletano, ha ottenuto importanti risultati, tra una lite con il sindaco Luigi De Magistris che non gli vuole cedere lo stadio San Paolo e una diatriba internazionale sulla seconda divisa mimetica della squadra, da ottobre avrà anche il carburante napoletano e 20 stazioni azzurre sul territorio regionale. Grazie a una sponsorizzazione mai vista prima in un club calcistico italiano. Sponsorizzazioni di società petrolifere ce ne sono sempre state anche negli ultimi anni con il marchio Tamoil controllata dalla famiglia Gheddafi stampata sulle divise della Juventus e quello Erg dei Garrone sulle maglie della Sampdoria. Ma non si era mai vista una stazione di servizio a strisce bianconere oppure blucerchiata.

Grazie all’accordo di sponsorizzazione tra Scc Napoli ed Energas, uno dei principali distributori di gas per uso residenziale d’Italia (100 mila clienti finali) che ha deciso di entrare anche nella distribuzione stradale di carburante, entro ottobre ci saranno le pompe di benzina del Napoli Calcio. Venti stazioni distribuite tra le province di Napoli, Caserta e Avellino che entro ottobre debutteranno con il primo circuito a marchio Energas affiancato dal loco della Ssc Napoli e tutte colorate di azzurro, proprio come la divisa del club. Un’operazione di marketing che ha trasformato il network di pompe bianche in una rete di distributori azzurri che verrà lanciata con una raccolta punti per ottenere i gadget del club, un concorso a estrazione immediata di biglietti per assistere alle partite, un sito e una card “Energia Azzurra”.

Un’operazione che permette al club di De Laurentiis di segnare anche il territorio. La prima stazione sarà sulla strada che collega Pomigliano d’Arco a Castello di Cisterna. Ma la scommessa di De Laurentiis e della Energas potrebbe presentare anche dei rischi con le stazioni che, nel caso di risultati non più soddisfacenti, oltre a essere boicottate dai tifosi potrebbero anche essere oggetto di atti vandalici. Così come potrebbero diventare preda facile di tifoserie avversarie.

Ottimismo e civiltà

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