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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Pallone, mattone

EVASIONE

Conte tra i soci e Del Vecchio tra i testimonial.

Per super appartamenti a Dubai mai consegnati. La Gdf indaga...

LA STORIA VA AVANTI DAL 2006 E 148 COMPRATORI INFURIATI HANNO GIÀ VERSATO

IN TUTTO 50 MILIONI. PER ENTRARE IN UN GRATTACIELO ANCORA IN COSTRUZIONE

di MICHELE SASSO (l'Espresso | 23 maggio 2013)

Per loro "la Dolce Vita" doveva essere un sogno dorato: una torre da sceicchi tra i grattacieli di Dubai City, nella mecca dei nuovi ricchi. Peccato che quel condominio a sette stelle e ventiquattro piani sia rimasto un miraggio: al momento ha inghiottito 50 milioni di euro, pagati da 148 investitori in cerca di appartamenti prestigiosi e profitti garantiti. Li avevano illusi con visite al cantiere, volando negli Emirati Arabi in compagnia di star dello spettacolo e calciatori da serie A. Ma a convincerli a entrare nell'affare era stata anche la presenza di un nome vincente tra gli azionisti dell'iniziativa: Antonio Conte, l'allenatore della Juve appena riconfermata campione d'Italia. E dietro le quinte c'è un altro personaggio influente, l'ex senatrice del Pdl Maria Claudia Ioannucci, una protetta del faccendiere Valter Lavitola. Ora invece su tutta questa storia di mattoni e palloni molto gonfiati indaga la Guardia di Finanza, che la ritiene quantomeno frutto di una evasione fiscale milionaria.

Il progetto è partito nel 2006, nel pieno della bolla immobiliare mondiale: 280 alloggi vip con tanto di piscina. Puntava tutto sullo stile di vita esclusivo di Dubai marina: "Sofisticato ambiente e impareggiabile lusso", si può ancora leggere nel sito costruito per attrarre i benestanti clienti italiani. Ma oltre al prestigio di abitare di fronte al mare c'era l'allettante promessa di un'operazione sicura e di un guadagno garantito dalla società di Luca Mulino, la Ellebiemme di Treviglio, specializzata proprio nel mercato scintillante degli Emirati. A Mulino le relazioni non mancano: è sponsor del Monte-Carlo Film Festival e partner dell'ambasciata italiana negli Emirati Arabi per la festa del 2 giugno. Nonostante il prezzo che va dai 4-5000 euro al metro quadrato per appartamenti che costano fino a 600 mila euro, i clienti sono stati numerosi: ben 148. Per sedurli, sono stati organizzati viaggi dimostrativi in compagnia di testimonial come Marco Columbro e l'ex calciatore della Roma Marco Del Vecchio. Tre giorni di soggiorno in hotel a cinque stelle con tanto di visita del cantiere, shopping e gita nel deserto tutto compreso. «La proposta era interessante e così ho deciso di buttarmi: ho versato 197 mila euro per 50 metri quadrati», racconta Stefano Viaro, imprenditore di Padova in attesa della consegna. In più nel contratto d'acquisto era previsto che i proprietari avrebbero goduto di una rendita mensile per cinque anni. «Ma quella rendita era una specie di truffa: si gonfiava il prezzo dell'immobile (anche quintuplicato rispetto al valore di mercato) e poi si restituiva una piccola parte del denaro incassato sotto forma di rendimento. Era come mandare un biglietto di scuse a un negozio appena svaligiato», spiega uno degli acquirenti. «Uno specchietto per le allodole», dichiara un professionista romano anche lui andato a vedere con i propri occhi le fondamenta, perché «finora nessuno ha intascato un centesimo di quanto previsto dalla clausola di recesso e soprattutto neanche un appartamento è stato mai consegnato». Oggi la "Dolce Vita" venduta come «una città maestosa dentro la città» è bloccata all'undicesimo piano per problemi di staticità, litigi tra i soci e grane economiche, nonostante quasi 50 milioni di euro sborsati dai compratori.

La Guardia di Finanza di Bergamo ha cominciato a indagare sul grattacielo dei sogni per motivi fiscali. I contratti erano firmati dalla Dubai Business, mentre i versamenti dagli ignari compratori italiani non andavano direttamente nel Golfo del petrolio ma finivano a Londra. Gli investigatori hanno ricostruito l'intreccio degli azionisti che controllavano la Dubai Business. Come "l'Espresso" è in grado di rivelare, un quarto appartiene alla Victory iniziative immobiliari srl, nata nel 2007 con sede nella centralissima via Vittorio Emanuele a Milano. E di questa società Antonio Conte all'epoca era amministratore unico e titolare, assieme al fratello minore Daniele, del 17,5 per cento delle quote. Nel 2008, in piena campagna vendite, è l'allenatore bianconero a risultare al timone della sigla: solo nello scorso luglio ha ceduto interamente le azioni al fratello.

Invece la fetta più consistente (l'80 per cento) di questa società milanese appartiene alla Victory Investments Ltd che ha lo stesso indirizzo londinese della Dubai Business: Holywell Row 27. Il resto della compagine è diviso tra l'Antonio Scarpetta spa di Anacapri, Italia Tre della famiglia bergamasca Longhi e due società estere: la Gary Commercial Limited di Belize City e la Dreams Buildings di Londra. Un sistema di coperture e intrecci societari per nascondere i reali proprietari che la Guardia di Finanza riesce però a decifrare. Con una scoperta sorprendente: Mulino, insieme a Bernardo Sannino e Renato Santoro della Ellebiemme sono gli amministratori di fatto della scatola vuota londinese, nata all'estero per evadere il fisco per oltre 4 milioni di euro. «È un classico caso di esterovestizione: formalmente la società era in Gran Bretagna ma di fatto gestita dall'Italia perché lì non avevano dipendenti. I contratti, i bilanci e le fatture li facevano a Treviglio grazie a timbri e carta intestata creati ad arte», spiegano le Fiamme Gialle. Così si scopre anche che le società del marchio Ellebiemme di Treviglio e Roma sono state cancellate, ma rimane in piedi la capogruppo (Ellebiemme service) con una quota del 19 per cento ancora in mano alla ex parlamentare Maria Claudia Ioannucci.

Docente di diritto e senatrice dal 2001, la sua fortuna cambia quando viene presentata dall'allora direttore dell'"Avanti" Valter Lavitola a Silvio Berlusconi: nel 2011 la Ioannucci viene catapultata nel consiglio di amministrazione delle Poste italiane. Un'amicizia importante quella di Lavitola, in grado di chiedere al premier poltrone e incarichi. Lo stesso faccendiere ne parla nella lettera scritta al Cavaliere e sequestrata dai pm di Napoli. Nella missiva riassume le operazioni svolte per Berlusconi: dalla campagna mediatica per la casa di Montecarlo in uso al cognato di Gianfranco Fini, fino alla compravendita dei parlamentari durante il governo Prodi. E aggiunge: «Lei mi ha promesso di collocare la Ioannucci nel cda dell'Eni ma mi ha concesso il cda delle Poste, non mantenendo la promessa di darle la presidenza di Banco Posta». Un destino comune quello dei due amici Lavitola e Ioannucci, che nell'estate del 2011 si prodigano per le vacanze in Sardegna del presidente di Panama, Ricardo Martinelli, mettendo a segno un accordo tra le Poste italiane e quelle panamensi. Oggi la carica della Ioannucci nelle Poste è in scadenza mentre le avventure immobiliari dei suoi soci Mulino, Sannino e Santoro hanno subito un duro colpo: la Procura di Bergamo ha chiesto il rinvio a giudizio per le imposte evase dal 2008. Ma Mulino non si dà per vinto e continua a rassicurare gli ignari proprietari sul futuro della "Dolce Vita" rimasta incompiuta: «I loro soldi non sono andati persi ed entro la fine del 2013 i lavori riprenderanno».

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Donne, miliardi e follie

l’ultimo oligarca del calcio

La vita spericolata di Rybolovlev, n.1 del Monaco

di NICOLA LOMBARDOZZI (la Repubblica 17-05-2013)

L’ombra del Cremlino, una ex moglie inviperita, e un intero cast di modelle nude nella vasca da bagno. C’è un po’ di tutto questo nella storia dell’uomo che ha choccato il calcio europeo e fatto felici i tifosi del Monaco, la nobile ma decaduta squadra del Principato appena promossa nella Ligue1 francese. Il miliardario russo Dmitry Rybolovlev, che ha acquistato il team solo sei mesi fa mentre ancora giocava in seconda divisione, ha versato 60 milioni in contanti all’Atletico Madrid per acquistare Falcao, l’attaccante più in voga del momento. E non si fermerà. Lo ha detto: «Questo è solo il punto di partenza». Altri cento milioni sono già pronti e molte tifoserie tremano. In Italia, in Francia e anche in Russia. Trattative brevi e contante alla mano. «Vogliamo solo il meglio», dice, lanciando la prima sfida in casa agli emiri del Qatar padroni del Paris Saint-German, fresco di scudetto.

E non deve stare tranquillo nemmeno Claudio Ranieri, eroe già dimenticato, della promozione. Anni fa nel pieno della sua avventura al Chelsea fu spazzato via dall’arrivo del primo miliardario russo sbarcato nel calcio che conta, Roman Abramovich. Anche a Monaco adesso c’è voglia di scelte spettacolari e il tecnico romano ha tutte le ragioni di temere una sorta di personale maledizione russa. Il ciclone Rybolovlev non ha intenzione di fermarsi davanti a niente. Fa parte dell’avanguardia dei cosiddetti “oligarchi da esportazione” incaricati di divertirsi tenendo alta l’immagine della Russia nello sport internazionale. Come Abramovich appunto, ma anche come Alisher Usmanov patron dell’Arsenal di Londra. O come il più originale Mikhail Prokhorov che ha scelto il basket comprandosi i New Jersey Nets del luccicante campionato Nba.

Spartizione dei ruoli studiata, pare, da Putin in persona. Ad altri, come a Suleyman Kerimov padrone dell’Anzhi di Makhachkala, o come al presidente dittatore della Cecenia, Kadyrov, con il suo Terek di Grozny, tocca invece il compito di lanciare il calcio in Russia. E soprattutto di far dimenticare al mondo il clima di terrore che ancora regna nelle repubbliche del Caucaso.

Del resto la biografia di Rybolovlev, 46 anni, medico di Perm sugli Urali, è simile a quella di quasi tutti i super ricchi di Russia. Tutte rigorosamente divise in tre capitoli: quello relativo all’ingegno, quello dei misteri, e quello degli incredibili eccessi. L’ingegno sta nel fatto che, in pieno sfascio del-l’Urss, il giovane medico Rybolovlev inventa un sistema di cura basato sulle onde magnetiche. E convince tutte le fabbriche della zona a mandare i dipendenti da lui. Non chiede denaro ma materie prime che poi rivende. Quanto basta per accumulare il primo milione di dollari, trasferirsi a Mosca per studiare marketing, lasciare il camice e darsi ai grandi affari.

La parte oscura è sempre la stessa. Con tanti soldi in Russia negli anni Novanta si compra di tutto. Rybolovlev diventa padrone della Uralkali (Il Potassio degli Urali) fabbrica di fertilizzanti fondata da Stalin e poi acquisisce senza ostacoli fabbriche, società e aziende del settore diventando una specie di monopolista in materia. Il tutto senza molti scrupoli ma con le giuste protezioni. Arrestato come mandante dell’omicidio di un piccolo imprenditore locale viene subito scarcerato.

E poi arrivano gli eccessi. Troppi, per l’ex moglie che dopo un’orgia nel bagno con famose modelle ottiene sei miliardi di dollari di “buonuscita”. La collezione miliardaria di Picasso e Van Gogh. L’acquisto, direttamente da Donald Trump, della Maison de l’Amitie, una gigantesca villa in Florida con finiture in oro e diamanti. E dell’isola greca di Skorpios, pagata in contanti agli eredi di Onassis.

E poi un piccolo record. L’acquisto per la figlia Ekaterina, 24 anni, di un pied-à-terre a Manhattan: 88 milioni di dollari, la cifra più elevata mai pagata per un appartamento, nella storia di New York. Intervistato, papà minimizzò: «Un regalino. In fondo a lei piace New York. Ci va almeno una settimana all’anno». Capite le paure dei presidenti rivali?

CALCIO E POTERE

Monaco contro Paris

MOSCA VS. QATAR

Con i soldi di un magnate russo, Montecarlo sfida il Saint

Germain, finanziato dall'emiro Al Thani. E non è solo pallone

IL PICCOLO REGNO HA UN REGIME FISCALE FAVOREVOLE.

E GLI ALTRI CLUB LO ACCUSANO DI CONCORRENZA SLEALE

di ALESSANDRA BIANCHI (l'Espresso | 30 maggio 2013)

La sfida è lanciata e la rincorsa alla grandeur perduta è cominciata. Il Monaco calcio è tornato in quella Ligue 1, la serie A francese, che ha vinto sette volte (l'ultima nel 2000). La squadra un po' italiana del tecnico Claudio Ranieri (e di altri due connazionali, il portiere Flavio Roma e il difensore Andrea Raggi) è uno splendido biglietto da visita per il Principato che vive di immagine ed eventi mondani e sportivi come il Gran Premio di Formula 1 o il torneo di tennis. Tantopiù se la squadra cara al principe Alberto, primo tifoso, forte dei rubli di un Paperone venuto dal freddo, potrà giocare la partita del dualismo con Parigi e coi petrodollari del munifico Qatar che controlla il Paris Saint-Germain.

Montecarlo versus Parigi, pur se grazie a denaro straniero, può diventare un marchio da esportare nel mondo, soprattutto se veicolato dal calcio, il più globale tra gli sport. E può aiutare il principe in quell'incessante operazione-simpatia per il suo Regno che è sempre passata dall'incrocio tra glamour, jet set, miliardi e personaggi. Compresi gli eroi degli stadi. Alberto, da quando ha assunto la responsabilità del trono, non manca di sfornare progetti per proiettare il Principato nel futuro. L'ultimo è stato ufficializzato da poco: cinque ettari da costruire sul mare per regalare spazio (e soldi) a una Montecarlo che scoppia. Ma accanto alle operazioni urbanistiche, ai protocolli firmati per uscire dalla black list dei paradisi fiscali, alla beneficenza e all'interesse suscitato da tutti i componenti della nobile famiglia, serviva il pallone. Perché la Formula 1 dura un weekend, il tennis una settimana. Il calcio fa parlare tutto l'anno. Se vincente, con quel più di ammirazione che provoca il successo.

La squadra era in declino fino al giorno in cui un Babbo Natale passato in anticipo ha portato il regalo sognato da ogni tifoso. Era il 23 dicembre 2011 quando un uomo dalla fortuna smisurata, Dmitry Rybolovlev, ha deciso di comprarsi il club caduto in serie B attraverso la sua Monaco Sport Investment. Il principe Alberto si mette in disparte, pur concedendosi sempre un "droit de regard" su ogni decisione. Rybolovlev promette di investire almeno 100 milioni di euro in quattro anni, compra subito una quindicina di giocatori per 35 milioni e in un anno e mezzo riporta la squadra in serie A.

Applausi? Da parte dei sostenitori senza dubbio. Non dall'insieme del calcio francese che vede apparire all'orizzonte un concorrente pericoloso, troppo ricco e oltretutto avvantaggiato da un regime fiscale benevolo. Le alte tasse che il governo del presidente François Hollande ha imposto a chi guadagna più di un milione di euro impediscono a club blasonati come il Lione o il Marsiglia di acquistare campioni perché la crisi tocca anche "piedi d'oro". Così la Lega francese ha appena varato un provvedimento che obbliga le società iscritte al campionato ad avere la residenza in Francia a partire dal 2014-2015 pena l'esclusione dal torneo. E A Rybolovlev sono stati chiesti 200 milioni di euro per regolarizzare la posizione del club. Naturalmente il magnate ha fatto ricorso al Consiglio di Stato e la battaglia legale è solo all'inizio.

Duecento milioni sono tanti anche per un Paperone. E sono esattamente la cifra che il russo, sulle ali dell'entusiasmo per i primi successi, ha messo a disposizione per rafforzare la squadra. In attesa di capire come andrà a finire, si sta muovendo con una campagna acquisti faraonica e degna dell'élite del calcio mondiale. Quasi preso, pare con un ingaggio di 10 milioni l'anno, dall'Atletico Madrid il colombiano Radamel Falcao, sogno proibito di molti. E si vocifera di altri giocatori top come Tevez del Manchester City, Moutinho del Porto, Sanchez del Barcellona. Senza contare che il tecnico della promozione, pur ufficialmente confermato potrebbe essere sostituito da un altro italiano, molto più caro, come Roberto Mancini.

Ma chi è l'uomo che ha deciso di sfidare Parigi e ricalcare nel mondo del pallone le gesta del connazionale Roman Abramovic, patron del Chelsea? Quarantasei anni, nativo di Perm (Russia europea orientale), Rybolovlev negli anni Novanta ha fatto fortuna nel campo dei fertilizzanti di potassio, di cui possedeva fino al 2010 l'industria Uralkali. Alla fine del 1996 viene arrestato perché accusato di essere il mandante dell'omicidio della direttrice generale di un'azienda chimica. Il tribunale lo rilascia perché il principale testimone ritira la sua accusa. Nella lista di "Forbes" è classificato al numero 119 tra i ricchi del pianeta grazie a un patrimonio di oltre 9 miliardi di dollari. Un mese fa ha acquistato per la figlia Ekaterina l'isola di Skorpios, che fu dell'armatore Aristotele Onassis, per 100 milioni di euro. Non nuovo a colpi di mercato immobiliari, Ryblovlev si era già comprato l'ex villa di Donald Trump a Palm Beach per 100 milioni di dollari e un attico superterrazzato a Central Park per 88 milioni di dollari (il prezzo più alto mai pagato per un appartamento a New York): anche quest'ultimo un regalo per l'amata figlia Ekaterina che vive con lui a Montecarlo dopo il divorzio dalla moglie Elena. La quale ha ottenuto 6 miliardi di dollari di risarcimento per le ripetute infedeltà del marito: l'ultima, un'orgia nella vasca da bagno con alcune modelle.

Allo stadio lo si vede spesso con Ekaterina (l'altra figlia, Anna, vive a Ginevra con la madre). E quando il 5 maggio la promozione del Monaco è diventata ufficiale, accanto a lui c'era il principe Alberto sulla tribuna dello stadio Louis II che ha una capienza di 18 mila posti con una media di 10 mila presenze a partita. La promozione nella Ligue 1 lo ha fatto entrare di diritto tra i personaggi di cui in Francia si parla spesso. E, al solito, la satira rappresenta la consacrazione. Qualche giorno fa è diventato una marionetta con la faccia di gomma assieme ad Alberto nel fortunato programma "Guignols de l'Info" in onda su Canal Plus. E gli autori hanno già promesso un seguito. Di materiale ne avranno in abbondanza a partire da agosto, quando riprenderà il campionato. L'assalto al trono del Paris Saint-Germain dell'emiro Al Thani, fresco vincitore del titolo, già affascina la Francia. E non sarebbe che l'inizio. Il russo ha ambizioni ancora più grandi, come conquistare, prima o poi, la Champions League. Nell'entourage del principe Alberto si fregano le mani e fanno notare: «Se investe così tanto, è sicuramente per vincere». L'anno prossimo, spalti gremiti al Louis II con una serie di tifosi-vip residenti a Montecarlo come il tennista Novak Djokovic chiamato di recente a dare il calcio d'inizio della partita contro Clermont. Il punto europeo più alto della storia monegasca fu la finale di Champions League perduta nel 2004 contro il Porto di José Mourinho. Sognare un'altra finale ora è più facile.

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BUONGIORNO

Balo e Buu

MASSIMO GRAMELLINI - La Stampa - 21-05-2013

Vorrei la pelle nera per potermi concedere il lusso di ripetere le parole pronunciate ieri a Torino dalla ministra Kyenge, che con equilibrio encomiabile ha scollegato i fischi a Balotelli dalla questione ben più seria del razzismo. Persino un buonista politicamente corretto come me desidererebbe ogni tanto che il centravanti della Nazionale fosse biondo con gli occhi azzurri per poterlo mandare senza sensi di colpa a quel paese. (Anche se, e non bisogna mai dimenticarlo, a un biondo con gli occhi azzurri nessuno indirizzerebbe certi buu). Capisco il trauma della sua infanzia e le ferite sottili dell’adolescenza, quando la famiglia adottiva gli organizzava feste con gli amichetti e lui spariva in camera sua a sfasciare giocattoli, traboccante di rabbia esibizionista nei confronti di un mondo che lo considerava diverso. Però la vita gli ha restituito tanto - in affetti umani, doti sportive e beni materiali - o comunque abbastanza per rendere necessario, e dignitoso, uno scatto di qualità che gli faccia smettere almeno in campo di assumere atteggiamenti da bamboccio indolente, strafottente e provocatorio.

Sia chiaro: la balotellaggine di Balotelli non giustifica i buu. Ma neanche i buu giustificano Balotelli, né possono essere utilizzati da quest’ultimo per continuare a fare i propri comodi indossando i panni della vittima. Le vittime sono i neri sfruttati, discriminati e irrisi. Balotelli può essere il simbolo di un’Italia giovane, aperta e multirazziale, l’unica in grado di tirarci fuori dai guai. Oppure può diventare l’ennesimo prodotto del vittimismo italico: il vero sport nazionale. A lui, non alle curve, la scelta.

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Parla Lilian Thuram, campione e autore di un libro sul tema
“TIFOSI DA PUNIRE
SENZA SE E SENZA MA”

di ANAIS GINORI (la Repubblica 23-05-2013)

«Il gioco non deve, e non può continuare ad ogni costo». A suo tempo, quando viveva in Italia alla fine degli anni Novanta, Lilian Thuram era bersaglio di cori razzisti negli stadi, quegli stessi buu che oggi perseguitano Mario Balotelli. «Ora però mi pare di intravedere una graduale presa di coscienza sul problema, sembra persino che stia finendo una ambiguità dei dirigenti sportivi rispetto a questi episodi», commenta Thuram che alla battaglia contro il razzismo ha dedicato Le mie stelle nere, appena pubblicato da Add editore e del quale discuterà al Festival di Repubblica a Firenze, il 9 giugno.

Di quale ambiguità sta parlando?
«Qui non si tratta di dare opinioni su quel che è accaduto ma di stabilire regole chiare. Ci sono cori razzisti? Bene, anzi male: si sospende la partita, come è stato giustamente deciso durante Milan- Roma. Lo considero un ottimo segnale e speriamo sia d’insegnamento per tutti gli arbitri. È stato positivo anche che i giudici sportivi abbiano chiesto una sanzione per la curva Sud della Roma, con la sospensione di un turno. So benissimo che gli interessi economici sono tanti, le esigenze del business premono. Ma lo spettacolo non può continuare ad ogni costo».

Dunque serve maggiore repressione?
«Tutte le persone che sono dentro il mondo del calcio devono riflettere a quali sono i modi migliori di punire questi atteggiamenti dei tifosi. Intanto parlarne, denunciare ogni singolo episodio di intolleranza, come accade oggi, è già un modo di cambiare le mentalità. E’ un lungo cammino. A poco a poco, le società, gli arbitri, i giocatori, la stampa saranno costretti essere inflessibili. La repressione deve essere accompagnata dal dibattito pubblico e da un cambiamento culturale: nessuno nasce razzista ».

Intanto Balotelli vuole abbandonare il campo in caso di nuovi insulti e sostiene che è “inumano” impedirglielo.
«Il problema non è decidere se lui ha diritto o meno di disertare il gioco ma eliminare le condizioni che possono provocare una tale scelta. Anziché richiamare Balotelli al suo dovere di rimanere in campo, l’arbitro deve sospendere la partita, o comunque prendere i provvedimenti necessari contro i tifosi che lo insultano. Non spetta certo alle vittime del razzismo far rispettare le leggi. È compito di un garante superiore, ovvero dell’arbitro in campo e poi del giudice sportivo dopo la partita. Se ci saranno misure severe ogni volta che accade, Balotelli non avrà più ragioni di abbandonare la partita».

Il ministro per l’Integrazione, Cécile Kyenge, sostiene che i cori contro Balotelli non sono sempre dovuti al razzismo. C’è il rischio di vittimizzare troppo il calciatore?
«Mi sembra l’ennesima ipocrisia. Certo, bisogna fare chiarezza su ogni episodio, capire quali sono i contenuti degli insulti, senza generalizzare. Esiste il diritto di contestare un giocatore per la sua prestazione sportiva, comunque con rispetto. Ma quando i tifosi fanno a Balotelli il verso della scimmia significa una cosa precisa: si tenta di riproporre una visione storica, una presunta inferiorità di alcune razze».

Il fatto che il campione del Milan abbia comportamenti poco sportivi, talvolta provocatori, complica ulteriormente la faccenda?
«Ci sono tanti giocatori che non si comportano bene ma non vengono attaccati per il loro colore della pelle. Bisogna avere l’onestà di riconoscere che la maniera di contestare un calciatore nero non è la stessa di quella che tocca a un giocatore bianco. Le parole hanno un significato. Se si fa buu, imitando il verso della scimmia, oppure si dice “sporċo neġro”, allora si sta facendo riferimento al colore della pelle. Provare a dire, come ha fatto Zeman, che Balotelli è contestato per colpa dei suoi atteggiamenti, e non per razzismo, è molto pericoloso: non si può mascherare la discriminazione con motivazioni caratteriali o soggettive. Il razzismo, invece, è qualcosa di oggettivo. Semplificando al massimo si può definire come il tentativo di classificare le persone in base al colore della pelle».

Balotelli ha dovuto aspettare 18 anni prima di poter essere “italiano”. La mancanza dello ius soli nel nostro paese rende più difficile il cambiamento culturale?
«Sarebbe più corretto dire che Balotelli era già italiano e ha ottenuto la cittadinanza solo a 18 anni. La nazionalità non si passa attraverso il sangue. Spero che l’Italia approverà la legge sullo ius soli. È una scelta di buon senso. Anche chi è contrario non sa spiegare bene perché, ha argomenti spesso confusi. La verità è che ognuno di noi ha bisogno di essere riconosciuto dalla propria comunità. La cosa peggiore che possa capitare è sentirsi esclusi. L’esclusione provoca la rabbia. Dare la cittadinanza a chi, nei fatti, è già italiano è un modo di costruire una società più giusta e pacifica».

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Los padres de menores que dejen

el Barça deberán indemnizar al club
La entidad azulgrana solicita a la FIFA un estado de excepción

ante los vetos a jugadores de las categorías inferiores y

reclamará a todos los canteranos firmar un nuevo contrato
“En 2011 hubo unos 13.000 traspasos de menores”, explica un árbitro del TAS
“Debe contar la formación deportiva y académica”, dice un responsable del Barça

por JORDI QUIXANO (EL PAÍS 23-05-2013)

Dos fisuras legales castigan a La Masia. Por un lado, este verano se repetirá la fuga de futbolistas a la Premier League —tres hasta el momento— por las que el club solo cobrará los derechos de formación. “Hemos creado un nuevo contrato para protegernos a partir de ahora”, señala Toni Freixa, portavoz azulgrana. Y, por el otro, hay media docena de menores que están vetados por la FIFA porque no cumplen con los requisitos. Por eso, el Barça envió hace dos meses un extenso informe al organismo europeo para solicitar un estado de excepción. “Es una normativa tan restringida que solicitamos que tengan en cuenta otros factores”, desvela Jordi Mestres, responsable del fútbol formativo.

Resulta que la FIFA atendió a dos demandas anónimas y mantiene bloqueadas las fichas de seis jugadores azulgrana menores de edad. Dos del Cadete A, dos del Cadete B y otros dos del Infantil A. “El problema es que en 2011, por ejemplo, se hicieron unos 13.000 traspasos de menores”, explica Angelo Cascella, árbitro del TAS de Lausana y experto en derecho deportivo; “la intención de la FIFA es proteger a los menores de abusos contractuales”. O, lo que es lo mismo, prohibir los traspasos de menores con tres excepciones: si los padres cambian de domicilio al país del nuevo club por razones no relacionadas con el fútbol; si la distancia es menor de 50 kilómetros con la frontera y el club también está a menos de 50 kilómetros de la frontera; y, ya si se trata de un jugador de la Unión Europea de 16 a 18 años, se obliga a proporcionar formación escolar, además de alojamiento, un tutor… Normas (las dos primeras) que no cumple el Barça y que dejan en la grada a un francés, un nigeriano con pasaporte holandés, un camerunés y tres surcoreanos. “Con los coreanos no tienen razón porque fue su federación la que nos los envió pidiendo que los formáramos”, explican desde el club; “por lo que nos esforzamos en hacer más amistosos o jugar torneos”. Abunda Mestres: “Y sorprende que estos mismo chicos sí puedan jugar con su selección”.

El Barça, preocupado por la situación, creó una comisión jurídica con los servicios internos del club [pero ninguno es especialista en derecho deportivo] y decidió enviar un informe para solicitar el estado de excepción. “Tienen que tener en cuenta la educación, la formación deportiva y académica, instalaciones, cuidados pedagógicos, psicólogos…”, enumera Mestres. “Muchos de estos chavales están mejor aquí que en su casa. Así que pretendemos que la normativa lo acabe reconociendo”, añade Freixa. Por el momento, la FIFA no ha respondido. “Aunque quizá también apliquen esta norma a otros clubes que ofrecen más o menos lo mismo”, apuntan desde el Barça.

También quiere protegerse el club de las deserciones veraniegas. Por eso, la directiva aprobó un nuevo contrato para los menores —toda vez que el Tribunal Supremo creó jurisprudencia al no dar validez a las cláusulas de indemnización firmadas por menores de 18 años—, donde se nombrará subsidiarios a los padres. O, lo que es lo mismo, en caso de que el chico se marche contra la voluntad del Barcelona, los progenitores deberán afrontar una sanción económica. “Una indemnización que será lo que el club se ha gastado en su formación y, además, el concepto de expectativa de llegar a ser profesional y su valor en el mercado. Porque Messi, por ejemplo, con 16 años, ya era un fenómeno”, cuenta Freixa; “y ya veremos qué nos dice el tribunal más adelante. Pero somos optimistas”. Aunque en el club también hay voces críticas: “Esta fórmula no nos beneficia porque somos más fichadores que exportadores. Igual no se van los tres mejores al Arsenal, pero habrá ocho que no podremos fichar”.

Por eso, el Barça, en los próximos meses, hará pasar a todos los canteranos por las oficinas para firmar el nuevo contrato. “Pueden decir que no", señala Freixa; “pero será una declaración de intenciones”. Una medida que, sin embargo, no evitará el exilio [este año se van el cadete Canós, y los juveniles Pleguezuelo y Josimar, que actualmente no juegan por decisión del club], atraídos por El Dorado económico; el Barça paga en juveniles un máximo de 18.000 euros —la media del Villarreal se queda en 1.500 euros—, al tiempo que en Inglaterra el tope salarial está en 125.000 netos. “No queremos llegar a esas cifras; son menores de edad”, entiende Mestres. “No hay que intentar competir”, amplían del club; “el problema no es que se lleven talento, sino que no se gestione el excedente que tenemos”.

Además de la sanción a los padres, la salida del jugador reportará dinero al Barça en derechos de formación (siempre que haga una oferta de renovación 60 días antes de que finalice el contrato). “Los parámetros de pago están estipulados por la FIFA, que van de los 10.000 a los 90.000 euros por año, dependiendo de la categoría y gastos de formación —se prorratea—, y se paga desde los 12 a los 21 años. Y si un club no está conforme, puede acudir al TAS como última instancia”, recuerda Cascella. “Pero hay que reclamar ese dinero”, explican desde el Barça, orgullosos porque en tres cursos se han recaudado dos millones; “y David Barrufet [exportero de balonmano] se ha sumergido en ese mundo como miembro de los servicios jurídicos del club”. Un mundo donde manda el dinero o la ley del más fuerte. Y el Barça, por si acaso, se acoraza.

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Anche in italiano un articolo di qualche settimana fa già segnalato


Internazionale 1001 | 24 maggio 2013

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«Inter e Telecom

pagate Bergamo»

Dossier: si esprime il tribunale di Firenze

di GUIDO VACIAGO (TUTTOSPORT 24-05-2013)

TORINO. Con un’ordinanza, legata a una sentenza non ancora definitiva, il giudice Luca Minniti della Seconda Sezione Civile del Tribunale di Firenze ha proposto una conciliazione fra l’ex designatore Paolo Bergamo e l’Inter, che - secondo quanto ricostruito nel processo Telecom - aveva commissionato dei dossier illegali su di lui. E in linea con l’analogo “caso Vieri ” (fatto pedinare tra il 2001 e il 2002 e al quale il tribunale di Milano ha riconosciuto un danno di un milione di euro), il magistrato ha sottoposto alle parti l’ipotesi di risarcimento della stessa cifra. O le parti troveranno un accordo su questa base oppure il 4 dicembre sarà lo stesso giudice a procedere.

DOSSIER Le parti, per essere precisi, sono così composte: insieme con Paolo Bergamo, hanno richiesto un risarcimento danni anche Mariano Fabiani , ex dirigente del Messina, Salvatore Racalbuto , ex arbitro, e Nestore Reuca , marito dell’ex segretaria della Caf Maria Grazia Fazi ; dall’altra parte ci sono: l’Inter, la società Polis d’Istinto che fisicamente eseguì pedinamenti e indagini, Telecom Italia e Pirelli. La vicenda è nota ed emerge dagli atti del processo Telecom, nell’ambito del quale Luciano Tavaroli , ex responsabile della security dell’azienda telefonica, ha spiegato come i dirigenti dell’Inter lo contattarono attraverso Tronchetti Provera e, di fatto, gli commissionarono una serie di indagini sull’ex arbitro Massimo De Santis , indagini che coinvolsero anche Bergamo, Fabiani nonché i dirigenti della Juventus (secondo quanto ricostruito sempre nel processo Telecom da Caterina Plateo , segretaria di Bove , vennero tenuti sotto controllo i tabulati di alcuni numeri della sede). Indagini che produssero un dossier consegnato all’Inter e ribattezzato “Operazione Ladroni”.

SI PROCEDE Bergamo, assieme a Fabiani, Racalbuto e Reuca, aveva chiesto al tribunale i danni. E ieri ha sostanzialmente vinto il primo round: il giudice ha infatti respinto tutte le eccezioni avanzate dall’Inter, dalla Telecom e dalla Pirelli, a partire dalla prescrizione (invocata dalla società nerazzurra) e dall’incompetenza territoriale (la Polis d’Istinto aveva sede a Firenze e quindi il Tribunale ha considerato «assolutamente corretta l’instaurazione della domanda»). Inoltre il giudice, citando la sentenza Vieri, manda un segnale preciso. Il bomber, infatti, si era visto riconoscere il danno subito dai pedinamenti dell’Inter. Viceversa, l’ex arbitro De Santis, si è visto respingere dal tribunale civile di Milano un’analoga richiesta danni. A questo punto, il giudice Minniti aspetta il 4 di dicembre per sapere se la conciliazione fra le parti è avvenuta, altrimenti deciderà lui.

IL PROCESSO D’APPELLO

E oggi gli imputati di Napoli

rinunciano alla prescrizione

di GUIDO VACIAGO (TUTTOSPORT 24-05-2013)

E’ IL PROCESSO che vogliono gli imputati. Paradossi di Calciopoli, una vicenda così assurda che stamane vedrà una scena per certi versi surreale: molti degli imputati si alzeranno in piedi e annunceranno di voler rinunciare alla prescrizione e chiederanno di essere giudicati dopo un dibattimento. Gli ex arbitri Massimo De Santis, Paolo Bertini e Antonio Dattilo, gli ex designatori Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto potrebbero usufruire della prescrizione per tutti o buona parte dei capi d’imputazione e, in alcuni casi, vedersi assolti. Ma vogliono che la loro innocenza o estraneità ai fatti emerga in modo chiaro e venga sentenziata senza scorciatoie. Insomma, il processo d’appello di Calciopoli a Napoli si celebrerà in modo completo, anche perché pure Moggi (per il quale la prescrizione scatterebbe a marzo 2014) rinuncerà - se necessario - alla prescrizione. In compenso, il processo non partirà oggi come previsto. Un problema di notifiche che ha riguardato, fra gli altri, l’amministratore delegato della Fiorentina Mencucci ha reso necessario un rinvio della prima udienza. Oggi, il giudice renderà noto il calendario: ci si potrebbe ritrovare in aula il 21 giugno, per continuare con due udienze a luglio e poi a settembre.

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SPORT 24-05-2013

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Contro i circensi spagnoli che vogliono bucare il pallone a Gibilterra

di JACK O’MALLEY (IL FOGLIO 24-05-2013)

Londra. A beneficio degli smemorati neolatini, dei burocrati di Bruxelles e del Palazzo di Vetro, della dinastia regnante di Madrid, dei tecnousurpatori della Uefa, della cantera catalana e della paella valenciana, vorrei ricordare che nel trattato di Utrecht, firmato pure a Siviglia (1713), si concede alla Corona britannica “l’intera e totale proprietà della città e del castello di Gibilterra, assieme al porto, alle fortificazioni e ai posti militari contenuti, per sempre, senza nessuna eccezione o impedimento”. For ever. Per sempre. Por siempre. Chiaro? Evidentemente no, considerata la maramaldosa opposizione spagnola all’indipendenza calcistica di Gibilterra. Quel paradiso britannico ai margini dell’inferno iberico ha una delle federcalcio più antiche del mondo, e chiede semplicemente di essere riconosciuta e partecipare, con le sue squadre dopolavoristiche, ai tornei dell’Uefa. La Spagna però, che di politica estera ha smesso di capirci qualcosa dal 1600, si oppone. Non è nemmeno chiaro agli spagnoli, si direbbe, che il trattato in questione ha fermato le ambizioni egemoniche dei francesi sull’Europa, quindi noi oggi, per onorare un minimo senso di realismo, dovremmo sederci attorno a un tavolo ideale, io con un bicchiere di brandy, voi con una caraffa di sangria, e brindare al fatto che thanks God non mangiamo lumache. Gibilterra dovrebbe ispirarci sentimenti di gratitudine eterna per il gran compromesso europeo, quello che ha stabilito un equilibrio basato sull’immortale criterio del male minore, invece ispira stupide obiezioni al riconoscimento della squadra nazionale di quel gioiello dove trentamila compatrioti in partibus infidelium fieramente fanno affari in sterline e s’apostrofano nella lingua della Regina. Mi commuovo per quell’enclave del mio cuore che si protende in un mare che non è solo vestrum: è la nostra ala che si distende sulla fascia, il nostro centrocampista in fase di inserimento.

Non riconoscere questi fatti basilari è da nevrotici e cocciuti, per questo non mi aspetto che nell’assemblea di oggi la Uefa venga meno alla sua tradizionale irragionevolezza e conceda alle giubbe rosse di Gibilterra la sua squadra nazionale. La Spagna minaccia addirittura di ritirare il Barcellona e il Real Madrid dalle competizioni europee. Uh, che paura. La Champions League diventerebbe un salone del libro senza Saviano, un festival di Sanremo senza Celentano, un’aula di tribunale senza la Boccassini, praticamente un sogno. Ma la minaccia spagnola non è soltanto una boutade a sfondo simbolico. E’ l’egemonia calcistica dilagante di un paese che da anni tiene, inspiegabilmente, tutti gli altri sotto il tallone ed ebbro del suo potere vuole fermare 30 mila patrioti che potrebbero giocarsela sul campo giusto con San Marino e Andorra. Quando i potenti esercitano l’arroganza invece che la clemenza c’è da preoccuparsi. Poi uno si lamenta se siamo tentati dall’uscita dall’Europa. I gibilterresi hanno già espresso con uno schiacciante referendum la loro appartenenza, lo hanno fatto anche i maltesi di origine genovese, i marocchini, i meticci che parlano Llanito e tutti quelli che popolano questa meraviglia che segna la fine del mondo. Se la Spagna avesse un briciolo di rispetto per l’autodeterminazione dovrebbe cedere metà del suo territorio nazionale, ma evidentemente le ragioni popolari non interessano, così come non interessavano ai burocrati delle Nazioni Unite che decenni or sono proponevano soluzioni assurde alla disputa giustificandole con gli “interessi” di Gibilterra, come se i funzionari sopranazionali conoscessero gli interessi che invece sfuggono agli stolti abitanti della Rocca. Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, altrettanto vero è che con i prepotenti l’appeasement non serve a nulla. Forza Gibilterra, facciamogliela vedere ai circensi che il calcio è pur sempre roba che abbiamo inventato noi.

AGGIORNAMENTO (15.30): Poche ore fa l'Uefa ha accettato ufficialmente Gibilterra tra i suoi membri, promettendo alla Spagna che le due squadre non giocheranno mai nello stesso girone di qualificazione. Qua si stappa una bottiglia di brandy. @jack_omalley

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24/05/13 - 19.38 Genoa, Preziosi non va in tribunale

Doveva essere il giorno di Enrico Preziosi chiamato a testimoniare nell'udienza del processo, che vede imputati quattro ultrà rossoblù accusati di violenza privata per aver preteso la consegna delle maglie durante Genoa-Siena del 22 aprile 2012. Ma questa mattina il presidente rossoblù non si è presentato in tribunale, adducendo come giustificazione "un Cda straordinario della società Giochi Preziosi". In aula, invece, erano presenti come testi citati dall'accusa i calciatori Cesare Bovo, Giandomenico Mesto, Marco Rossi e il medico sociale del Genoa Pietro Gatto. Intanto è stato fissato al prossimo 5 luglio l'inizio del processo al presidente rossoblù Enrico Preziosi e all'amministratore delegato del Genoa Alessandro Zarbano per il mancato versamento dell'Iva relativo all'esercizio 2011. Le udienze si terranno davanti al giudice Luisa Carta. Questa mattina, intanto, la Fondazione Genoa ha presentato in Comune uno studio di pre-fattibilità finalizzato alla riqualificazione dello stadio Ferraris. Il progetto prevede 26mila metri quadrati di spazi esterni, 39mila mq di parcheggi complessivi, soluzioni architettoniche innovative come due nuove torri di accesso pedonale, 28 skybox e un parco urbano di 18mila metri quadrati tutto intorno.

Francesco Gambaro

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CALCIOPOLI: IL PROCESSO D’APPELLO SLITTA AL 3 LUGLIO
Anche Moggi chiede i danni all’Inter
E De Santis rinuncia alla prescrizione

di GUIDO VACIAGO (TUTTOSPORT 25-05-2013)

TORINO. Il processo non è partito, ma Calciopoli fa discutere lo stesso. Un errore nelle notifiche ha impedito che ieri, nell’aula 316 della sesta sezione del tribunale di Napoli, si tenesse la prima udienza dell’appello del processo penale che ha per protagonista Luciano Moggi. Ma in compenso la giornata napoletana è stata utile affinché l’ex arbitro De Santis, difeso da Paolo Gallinelli e condannato in primo grado a un anno e 11 mesi, annunciasse la sua rinuncia alla prescrizione. La prima di quella che diventerà una lunga serie, perché molti altri imputati hanno questa intenzione e la ufficializzeranno quando il 3 luglio alle ore 11 riprenderà il processo. Quasi sicuramente, infatti, chiederanno di non dribblare il giudizio con la prescrizione anche gli ex arbitri Racalbuto, Dattilo e Bertini, insieme agli ex designatori Bergamo e Pairetto. Tutti vogliono il dibattimento per poter fare ulteriore luce su una vicenda con ancora troppi lati oscuri. Tutti vogliono arrivare al riconoscimento della loro innocenza o dell’estraneità ai fatti senza la scorciatoia della prescrizione. Una scelta coraggiosa e controcorrente, che dimostra come gli imputati di questo processo siano convinti della loro innocenza.

SCENARIO E questo scenario che va prospettandosi ha in qualche modo sorpreso il collegio giudicante composto dalla presidente Silvana Gentile, e dai giudici Roberto Donatiello e Cinzia Apicella. Con la maggior parte degli imputati nella posizione di avvalersi della prescrizione, infatti, il processo avrebbe potuto esaurirsi in poche udienze. E senza entrare nel merito. Il dibattimento, dunque, ci sarà. E molto probabilmente sarà condito dalle telefonate dimenticate dagli inquirenti, ma scoperte durante il primo grado (e per l’appello potrebbero emergerne di nuove). Il giudice si è riservato di decidere se accettare la richiesta di produrre nuove carte e in particolare di ascoltare l’audio di alcune chiamate: prima vogliono leggere le carte, ma proprio l’avvocato Gallinelli ieri mattina ha prodotto la sentenza d’appello del rito abbreviato dello stesso processo, nel quale l’ascolto delle telefonate è risultato decisivo per l’assoluzione dei dieci arbitri coinvolti. Il processo, nel quale l’accusa sarà sostenuta dal procuratore generale Antonio Ricci, inizierà dunque tra un mese abbondante e andrà avanti per una o due udienze prima della pausa estiva e riprenderà a settembre, con la possibilità di arrivare a sentenza prima di Natale.

ECCEZIONI Ma nel frattempo, Luciano Moggi inizierà un altro procedimento. Anche l’ex dg juventino, infatti, chiederà i danni all’Inter, alla Pirelli e alla Telecom per il dossieraggio illegale condotto nel 2003, accodandosi a quanto fatto da Paolo Bergamo, Mariano Fabiani, Salvatore Racalbuto e Nestore Reuca che hanno già vinto il primo round presso il Tribunale Civile di Firenze, dove il giudice Minniti ha respinto le eccezioni delle società chiamate in causa e ha proposto una conciliazione a favore di coloro che hanno chiesto i danni. Spiega l’avvocato Silvia Morescanti: «L’Inter puntava molto sulla prescrizione, che non è stata riconosciuta, perché nei tribunali civili la prescrizione scatta da quando si ha notizia ufficiale del reato, non da quando il reato è stato commesso. Pirelli e Telecom in pratica si “palleggiavano” Tavaroli sostenendo che non lavorava per loro all’epoca dei fatti. Il giudice ha proposto una conciliazione fra le parti. Ovvero ha stabilito una cifra da versare come risarcimento danni ai miei assistiti. Se accettassero, il 4 dicembre il giudice sancirà l’accordo in modo definitivo, altrimenti spetterà al giudice stabilire il danno. Intanto, Luciano Moggi mi ha dato mandato per aprire un’altra causa che riguarderà gli stessi fatti, ma si costituirà come un procedimento diverso. In pratica si tratterà di un processo molto simile, ma che correrà parallelo».

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Aria di rigore.
Germania über alles

Bilanci in ordine, stadi pieni, investimenti nel settore giovanile.

Anche nel calcio, come nell’economia, i tedeschi dettano le

regole e la linea a un’Europa sempre più succube
di LUIGI CAVALLARO (ALIAS 25-05-2013)

Che il consenso popolare verso l’assetto «germanocentrico» dell’Unione europea si sia negli ultimi due anni gravemente incrinato è fin troppo evidente. Le ricette di lacrime e sangue imposte alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e naturalmente all’Italia hanno reso manifesto perfino ai ciechi che cosa abbia significato concepire l’integrazione in assenza di meccanismi di compensazione fiscale capaci di costringere i Paesi in surplus (con in primis giusto la Germania) a riciclare i propri avanzi commerciali, in modo da evitare che l’onere dell’aggiustamento delle bilance commerciali ricadesse esclusivamente sui Paesi debitori. E gli enormi costi in termini di perdita di reddito, disoccupazione e sofferenza sociale patiti da questi ultimi stanno chiamando al redde rationem una classe dirigente che, appena dieci anni fa, scommetteva incoscientemente (o forse in malafede?) sulla possibilità che gli squilibri causati dai differenziali di produttività tra i vari Paesi dell’Unione inducessero uno scatto di reni in direzione dell’unificazione politica. Oggi quella scommessa è miseramente fallita: salvo le anime belle, non c’è più nessuno che, parlando seriamente, non ammetta che l’eurozona, al momento, è unmorto che cammina e che tutti i Paesi che ne fanno parte stanno già pensando – chi più, chi purtroppo meno – a come salvarsi quando deflagrerà definitivamente.

Può sembrar strano, ma è precisamente questo il contesto entro cui inquadrare la finale di Champions’ League, che due squadre tedesche – Bayern Monaco e Borussia Dortmund – si disputeranno stasera sotto l’arco diWembley. Sì, perché fin dal fischio finale dell’ultima eliminatoria (quella che ha visto il Bayern strapazzare i fantasmi del Barcellona, dopo che il Borussia aveva prevalso di un soffio sul Real Madrid) è stato tutto un coro volto a magnificare i «brillanti risultati» del calcio tedesco: bilanci in ordine, stadi pieni, condivisione dei guadagni derivanti dai diritti televisivi, investimenti nella formazione dei giovani. Un coro pressoché unanime e naturalmente bipartisan, in armonia con le «larghe intese» che governano le sorti del nostro Paese. E il cui obiettivo, nemmeno tanto recondito, è di avvalersi dell’immaginario calcistico per rilanciare quel «modello tedesco» di integrazione europea che registra consensi in picchiata tra le masse. Non è certo la prima volta che l’ideologia dominante ricorre all’immaginario calcistico per veicolare i propri contenuti: lo stolido insistere sull’importanza del «fuoriclasse», che nella communis opinio conta sempre assai più dell’organizzazione collettiva della squadra, ne costituisce forse ilmiglior esempio. Tuttavia, i peana levatisi a favore dell’«esempio tedesco» non esaltano il genio individuale a scapito dell’efficienza del gruppo, non foss’altro che nel Bayern o nel Borussia non c’è nessuno che possa stare alla pari di un Messi o anche solo di un Ibrahimovic. Il leit-motiv è piuttosto un altro e punta a consolidare quell’orrore per il «debito» che i tedeschi hanno inscritto fin nella loro lingua madre. Si tratta infatti di suscitare un immaginario adeguato al tempo della crisi dell’accumulazione capitalistica: quel tempo in cui, per dirla con Marx, «il denaro trapassa improvvisamente dalla sua figura aerea, arzigogolata dal cervello, di misura dei valori a quella di solida moneta ossia mezzo di pagamento», e in cui quel «subitaneo trapasso del sistema creditizio a sistema monetario», che oggi chiamiamo crisi finanziaria, «aggiunge il terrore teorico al panico pratico, e gli agenti della circolazione rabbrividiscono dinanzi al mistero impenetrabile dei loro propri rapporti». «Il debito è colpa», ci dicono al riguardo i tedeschi, che com’è noto racchiudono entrambi i concetti in un’unica parola (Schuld). E lo stesso ci ripete l’Uefa, almeno da quando, nel maggio 2010, si è dotata di un nuovo sistema di regole per disciplinare l’accesso alle competizioni europee: un sistema denominato «Financial Fair Play» e che, attraverso la cosiddetta Break-even rule, punta a far sì che, per ciascuna squadra, il saldo economico d’esercizio (cioè la differenza fra costi e ricavi) non possa risultare negativo per un importo complessivo stabilito in 45 milioni di euro per il primo biennio di applicazione della regola, ma destinato progressivamente a scendere negli anni successivi.

Si tratta, com’è evidente, di un meccanismo del tutto analogo al «Patto di stabilità» che governa ferreamente l’Unione europea, imponendo tetti massimi al rapporto deficit/Pil e debito/Pil e costringendo i Paesi non in regola a dismettere il patrimonio pubblico e a tagliare le spese pubbliche e i salari: semmai qualcuno ne dubitasse, potrà utilmente esercitarsi ad accostare le sorti toccate negli ultimi due anni alla Grecia e all’Inter. Ma siccome l’ideologia propria di una forma di vita ormai in crisi irreversibile non può che ammantarsi di «falsa coscienza», l’anatema contro il debito e il lavacro delle sue colpe doveva pur accompagnarsi alla promessa di una redenzione futura. La quale ultima, nelle parole dell’attuale presidente dell’Uefa, Michel Platini, ha assunto – manco a dirlo – una forma pressoché sovrapponibile all’utopia walrasiana del perfetto mercato concorrenziale, che ha ispirato (e ispira) gli idéologues dell’Unione europea: vale a dire, l’utopia di un campionato in cui, grazie alla regola del Fair Play finanziario, «diminuirà la differenza tra grandi e piccoli club», così da spezzare la monotonia di quelle competizioni che «si giocano sempre e soltanto fra due o tre squadre» e da «rendere la competizione interessante e avvincente per la gente che paga».

Un Paese di Bengodi, insomma, di cui – dicono gli apologeti – la Bundesliga sarebbe già concreta prefigurazione: non solo per ciò che concerne i bilanci in attivo, ma soprattutto per gli investimenti nei settori giovanili e lo sbarramento eretto nei confronti di certi personaggi equivoci, dalle oscure origini e dai molti denari, che hanno fatto le fortune e talvolta le sfortune delle squadre di Premier League (e che ogni tanto fanno capolino anche dalle nostre parti). Non è perciò un caso che l’Uefa abbia affiancato all’introduzione della Break-even rule due regole come la possibilità di detrarre dal computo dei costi le spese per settori giovanili, attività sociali e costruzione di infrastrutture e, rispettivamente, l’obbligo di coprire le perdite mediante apporto di nuovo capitale, con esclusione di prestiti dei soci (i soft loans così celebri in Inghilterra) e/o di operazioni di maquillage contabile: si tratta all’opposto di complementi necessari affinché tutti noi, reprobi peccatori indebitati, possiamo finalmente avviarci verso quella salvazione annunciata già da Lutero a Wittemberg e adesso da Frau Merkel a Berlino. In effetti, pochi dubbi possono sussistere sulla crisi dell’industria calcistica europea. Limitando lo sguardo ai quattro anni fra il 2006 e il 2010, i dati raccolti in una recente inchiesta di Giancarlo Teotino e Michele Uva (Il calcio ai tempi dello spread, pubblicata per il Mulino) ci dicono che, a fronte di un incremento rilevante dei fatturati delle squadre di vertice (frutto in larga misura della crescita di oltre il 60% dei ricavati dei diritti televisivi), è aumentato in modo più che proporzionale l’onere dei costi per il personale (+67%). Conseguentemente, è aumentato il peso percentuale di quest’ultimo rispetto ai ricavi (dal 54% al 64%), il che ha provocato un’ulteriore riduzione dell’utile di gestione: nel 2010 oltre il 56% delle società calcistiche delle cinque leghe più importanti d’Europa ha chiuso in perdita e nel 29% dei casi la perdita ha superato il 20% del fatturato.

Tutto ciò ha accresciuto il debito complessivo dei club e ha impoverito il loro patrimonio. La Spagna ne è forse la migliore dimostrazione: il relativo equilibrio economico esibito da Real Madrid e Barcellona si deve infatti alla vendita individuale dei diritti televisivi delle loro partite, che permette alle due squadre di vertice della Liga di incassare la fetta più consistente del totale dei ricavi ascrivibili a questa voce, ma per tutte le altre squadre la situazione è pressoché fallimentare, al punto che, all’inizio della stagione 2011-2012, tutti i calciatori sono scesi in sciopero per reclamare il pagamento di oltre 50 milioni di euro di stipendi arretrati a favore di 200 loro colleghi. E l’Italia non sta certo messa meglio: negli ultimi quattro anni, il risultato netto complessivo dei club della Serie A è precipitato da -150 milioni a -300 milioni, l’indebitamento lordo è cresciuto da 1.893 a 2.659 milioni e il patrimonio netto si è ridotto da 403 a 150 milioni di euro. Il tutto nonostante che il ritorno alla contrattazione collettiva dei diritti televisivi abbia mantenuto in crescita costante i relativi ricavi.

A fronte di questa situazione, si dice, la Germania rappresenta un’eccezione virtuosa. I club tedeschi hanno adottato i principi di una sana gestione economica (cioè, capitalistica): niente mecenati bizzosi come presidenti-padroni,ma strutture societarie prevalentemente fondate sull’azionariato diffuso; niente spese folli per accaparrarsi esotici fuoriclasse, ma solo buoni (e talora ottimi) giocatori, i cui stipendi che procedono di pari passo con l’aumento delle entrate; niente piagnistei per invocare benefici fiscali, ma oculati piani d’investimento a lungo termine per l’ammodernamento degli stadi e l’implementazione delle strutture giovanili; soprattutto, ci assicura Platini, niente campionati già decisi alla prima giornata, ma tornei più incerti e aperti, a conferma che l’equilibrio economico-finanziario garantisce una competitività più diffusa. Come non desumerne che la partita di stasera – primo derby tedesco in una finale di Champions – non stia raccontando dell’alba di una nuova era?

In verità, a saperli leggere, i dati raccontano ben altro. Ci dicono, ad esempio, che non è vero che la Bundesliga sia un modello di equilibrio competitivo: basti pensare che, negli ultimi vent’anni, il titolo è stato vinto per undici volte dal Bayern e per cinque volte dal Borussia Dortmund. Certo, accade praticamente lo stesso in Premier League (tredici volte ha vinto il Manchester United, tre volte ciascuno Arsenal e Chelsea) e in Serie A (sette titoli per la Juve, sei per il Milan e cinque l’Inter), e accade perfino di peggio nella Liga (sei vittorie per il Barcellona e quattro per il Real Madrid negli ultimi undici anni). Ma che accada anche in Germania conferma che quella di Walras è niente più che un’utopia e che il mercato capitalistico funziona costantemente all’ombra della marxiana legge della centralizzazione dei capitali.

Ancor meno i dati supportano l’idea che l’oculata gestione economica abbia garantito ai tedeschi chissà quali brillanti performance sportive. Il ranking Uefa, ossia la classifica che tiene conto dei risultati ottenuti dai club nelle competizioni europee, vede la Germania solo al terzo posto, immediatamente alle spalle dell’Inghilterra e – udite udite! – dell’indebitatissima Spagna. Appena tre anni fa, perfino l’Italia stava davanti ai tedeschi. Le squadre tedesche hanno vinto la Champions League appena sei volte (contro le tredici delle spagnole e le dodici delle italiane e delle inglesi) e altrettante volte l’Europa League (contro nove volte delle italiane e sette delle spagnole e delle inglesi). Ma soprattutto, l’ultima vittoria tedesca in una competizione europea per club risale al 2001; per il resto, la Germania si è distinta per sconfitte, avendo perso per nove volte nelle finali di Champions e per due volte in quelle di Europa League.

Una performance sportiva così deludente (sì, perché Mourinho ha ragione: «non c’è spettacolo nella sconfitta») non conferma soltanto il carattere squisitamente ideologico dell’improvvisa infatuazione per il calcio tedesco, ma consente di spiegare perché mai la norma delle squadre vincenti sia stata finora letteralmente antitetica rispetto al dogma della «finanza sana»: più o meno quanto era antitetico il gaudente Keynes rispetto al pallosissimo von Hayek. Il combinato disposto della sopravvenuta libertà di circolazione dei calciatori e della scoperta dell’oro dei diritti televisivi ha reso infatti l’insieme delle società di calcio come un gigantesco contenitore preposto unicamente a trasferire ai calciatori la gran parte delle entrate. Più precisamente, il fatto che ci fossero proprietà del tutto indifferenti alla realizzazione di utili a breve e disposte a spendere qualunque cifra pur di vincere ha generato un duplice modello di gestione dei club: da una parte, le squadre orientate a primeggiare nelle competizioni di prima fascia di livello nazionale e internazionale, che necessitavano di impiegare giocatori di elevata qualità (cioè costosi o costosissimi); dall’altra parte, le squadre orientate al trading sui propri calciatori e che allenavano giovani talenti del proprio vivaio o raccattati facendo scouting all’estero allo scopo di «lanciarli » per poi rivenderne il cartellino. Che si trattasse di un sistema decisamente labour-oriented non è difficile da comprendere: se un presidente di un club di prima fascia non era disposto a pagare ingaggi astronomici ad un Messi o ad un Ronaldo, ne spuntava un altro subito pronto a farlo, il che costringeva tutti a stare al passo e garantiva crescenti opportunità ai giovani emergenti. Si spiega così che la fetta più cospicua degli introiti favolosi dei ricavi del calcio sia finita in questi anni nelle tasche dei giocatorimigliori: in un modello del genere, tutto il reddito prodotto dal lavoro resta al lavoro e non c’è spazio per alcuna remunerazione del capitale. Se ne accorsero quasi subito i dirigenti di quelle squadre grandi e talora meno grandi che, a metà degli anni ’90, sull’onda della liberalizzazione seguita alla sentenza Bosman e dell’esplosione degli incassi tv, pensarono di poter fare profitti col calcio e si diedero a favoleggiare di merchandising e costruzione del brand: dopo pochi anni finirono seppelliti dai debiti e fallirono miseramente. Già, perché la relazione postulata dagli analisti tra fatturato e successi sportivi non è che un banale truismo: la catena causale muove in realtà dagli stipendi pagati, che sommati ai titoli vinti riescono a produrre fatturati consistenti, rendendo così sostenibile anche un elevato indebitamento. Il Barcellona «quantistico» di Guardiola, Messi, Xavi e Iniesta ne ha costituito indubbiamente la migliore dimostrazione. È del tutto consequenziale che in un sistema del genere il calcio tedesco non potesse riportare (come di fatto non ha riportato) alcuna vittoria di prestigio: una spesa per stipendi inferiore di venti punti percentuali rispetto alla media europea e l’abitudine di distribuire utili agli azionisti non sono «virtù» se non per il capitale. E dunque non è un caso se la revanche capitalistica impostasi nell’eurozona abbia alla fine preteso di riscrivere a propria immagine e somiglianza anche le regole che presiedono alla formazione delle gerarchie calcistiche: il calcio è l’inconscio sul prato verde della società e non era possibile che l’ordine del discorso dominante patisse una così smaccata sovversione nell’immaginario collettivo. Sotto questo profilo, anzi, non sfuggirà la potenza simbolica di questa finale tedesca celebrata nel tempio del calcio britannico: conferma una volta di più che l’inglese è la lingua madre del capitale, ma è l’etica protestante che gli dona il soffio dello spirito.

«Calciatori e tifosi degli altri Paesi, unitevi!», verrebbe fatto di concludere. E tanto per cominciare, stasera, spegnete la tv.

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i nostri antenati

che fortunatamente non erano manichei

avrebbero detto

est modus rebus

ossia il calcio tedesco non è ne da copiare ne da gettare

come tutto va succhiato il buono e gettaton il cattivo

ma questo non è da tutti

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Derby Coppa Italia: città blindata, trovati

sacchi con bastoni, asce e lance vicino a stadio Scattate le chiusure intorno all'Olimpico. Centinaia di agenti in strada. Alemanno: «Facciamo fare bella figura a Roma»

ROMA - Tafferugli e lacrimogeni nel pre partita. Ma più delle scaramucce preoccupano bastoni, sassi, asce e decine di rudimentali lance sulla punta delle quali svettano affilati coltelli: è l'arsenale di armi bianche trovato sabato sera nella Capitale, nascosti in sacchi di plastica neri sotto il nuovo Ponte della Musica, a due passi dal Foro Italico. Altri due sacchi con pietre e bastoni sono stati rinvenuti sotto il Ponte Duca D'Aosta, vicino allo stadio Olimpico, dove domenica alle 18 si gioca la finale derby di Coppa Italia tra Roma e Lazio. Gli oggetti, una ventina, sono stati ritrovati durante le bonifiche a della polizia.

ARMI PERICOLOSE - Un armamentario agghiacciante, nascosto con l'evidente intento di armare squadre di ultras violenti, pronti a ferire gli avversari. Se anche soltanto una di queste armi avesse colpito un tifoso inerme, avrebbe potuto provocarne la morte. L'appello di De Rossi ai tifosi - «Ragazzi, lasciate a casa i coltelli» - è stato ignorato. La polizia aveva individuato sabato due giovani che, dopo aver abbandonato due zaini, erano fuggiti. Insospettiti dalla strana manovra, i poliziotti hanno ispezionato quel tratto dell'argine del Tevere, dove hanno rinvenuto zaini e sacchi contenenti - oltre a bastoni, mazze e picconi - anche una scatola con materiale infiammabile. I controlli sono poi continuati anche prima del match e durante tutta la partita: nelle zone intorno allo stadio Olimpico, le forze dell'ordine hanno rinvenuto poco prima del fischio d'inizio anche una roncola, vari petardi e «bomboni» vicino a Ponte Duca d'Aosta.

LACRIME PRE PARTITA - Vigilia tesa, dunque, intorno all'Olimpico, dove nel primo pomeriggio si erano registrati tafferugli tra forze dell'ordine e tifoserie, con lancio di lacrimogeni. Eppure dentro lo stadio, dopo i fischi e i petardi per il rapper coreano Psy, gli animi sembrerebbero più calmi. Spettacolo di colori nelle due curve all'ingresso in campo di Roma e Lazio. Curva Nord tutta biancoceleste - con un grande striscione al centro -, fumogeni giallorossi in Curva Sud. I tifosi della Roma fanno esplodere anche alcuni petardi mentre sventolano decine di bandiere.

«NON ROVINIAMO FESTA» - «È una grande festa per la nostra città e non dobbiamo turbarla né rovinarla». Questo l'appello del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, rivolto ai tifosi che domenica partecipano alla finale di coppa Italia tra Roma e Lazio. «Le elezioni vadano come devono andare - ha detto il primo cittadino subito dopo aver votato in un seggio alla Balduina -, però domenica pomeriggio facciamo fare una bella figura alla città di Roma». E a fine partita, dopo l'1-0 che ha sancito la vittoria della Lazio, la tifoseria giallorossa ha lasciato mestamente lo stadio, senza apparenti nervosismi.

coltelli--140x180.JPG?v=20130526174433Lame affilate sulle lance rudimentali trovate a Roma (foto Proto)

ZONA BLINDATA - Nella mattinata di domenica erano scattate le chiusure nella zona dello stadio Olimpico per il derby Lazio-Roma. Chiuso lungotevere tra piazza Maresciallo Giardino e piazzale Ponte Milvio. Deviate diverse linee bus. E, sempre dalle prime ore del mattino, tutta l'area dell'Olimpico era stata presidiata da camionette di carabinieri e polizia e auto dei vigili urbani: in strada sono impegnati ben 2000 agenti.

Redazione Roma Online

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COSENZA E DINTORNI

Lunga e diritta la strada

di Bergamini verso la morte

DA SUICIDIO INSPIEGABILE A OMICIDIO ORCHESTRATO: LA

STORIA DI UN CALCIATORE SCOMPARSO A 27 ANNI E LA VERITÀ

CHE AFFIORA DOPO BUGIE LUNGHE UN QUARTO DI SECOLO

PROTAGONISTI: LA EX FIDANZATA, MESSA INCINTA DAL

GIOCATORE; LE STRANE RICOSTRUZIONI DI UN CARABINIERE

E LA VERSIONE DELL’AUTISTA CHE LO AVREBBE INVESTITO

di MALCOM PAGANI & ANDREA SCANZI (il Fatto Quotidiano 27-05-2013)

Il calciatore del Cosenza Denis Bergamini vide per l’ultima volta il mare il 18 novembre 1989. Ai bordi di una statale calabrese, con lo Ionio davanti agli occhi, l’ex fidanzata Isabella Internò al suo fianco, i suoi compagni in ritiro a cento chilometri di distanza e la pioggia sulla testa. Suicidio dissero carabinieri e magistrati. Suicidio improvviso giurò Isabella. Un movimento inconsulto. Una frase: “Ti lascio il mio cuore ma non il mio corpo”. Un tuffo “di quelli che si fanno in piscina” sotto le ruote di un autocarro. Del suo corpo, trascinato secondo le prime ipotesi per quasi 60 metri dall’Iveco carico di 138 quintali di mandarini guidato dal signor Raffaele Pisano, non sarebbe dovuto rimanere quasi nulla. Quando suo padre Domizio scese dalla provincia di Ferrara per il riconoscimento, vide Denis e capì. Un ematoma grande come una moneta sopra l’occhio sinistro, le scarpe pulite, i capelli pettinati, l’orologio con il quadrante e il cinturino in perfette condizioni, il volto sereno. Il corpo, escluse le gravi ferite nella zona del bacino, quasi intatto. Un quarto di secolo dopo, niente è come prima. Esistono ricerche della verità che diventano ragioni per continuare a esistere. Per 24 anni, tra un depistaggio e un omissione, Domizio Bergamini non si è stancato di inseguire una ragione. Ha viaggiato, domandato e speso tutto quel che aveva per restituire al figlio l’onore sporcato da illazioni, condizionamenti e maldestre bugie. Il calcioscommesse, la droga, i loschi giri che in assenza di un movente plausibile, avevano incastonato la morte di suo figlio in una cornice obbligata.

Le indagini private

Ha trovato un avvocato, Eugenio Gallerani, in grado di indagare con coraggio e ostinazione sulle bugie. Gallerani ha incontrato persone che dimenticata la paura, scrostando dal tempo i sedimenti, hanno parlato. Ha messo insieme i tasselli, ottenuto la riapertura dell’inchiesta, dipinto un quadro alternativo. Bergamini non si suicidò, ma, stabilirono i Ris nel 2011, in una messinscena macabra, sotto le ruote del camion, finì già cadavere. Sullo sfondo di un sud immutabile, ancestrale, in cui l’onore, se violato, porta a un solo risultato. Isabella Internò è indagata dalla Procura di Castrovillari per concorso in omicidio volontario. Avrebbe voluto Denis per sempre. Ma Bergamini, di quella ragazza tenace “come l’attak” conosciuta quando lei era ancora minorenne, non voleva più saperne. Lei chiamava, lasciava messaggi in segreteria, pretendeva l’esclusivo dominio su Donato, l’eroe della curva del Cosenza. “Se non posso averlo per me, preferisco che muoia”, disse alla moglie di un ex compagno di squadra. E Denis morì, in una settimana in cui nulla, fino al primo pomeriggio del 18 novembre, sembrava averlo turbato. Si era allenato regolarmente, aveva rilasciato interviste sull’impegno tra il suo Cosenza e il Messina, aveva scherzato, come era solito fare, sui guadagni di quella professione che dalla bassa padana lo aveva portato centinaia di chilometri più in basso, al centro del vecchio stadio San Vito, a sfiorare la serie A: “Diventerò miliardario di questo passo”. Uno stato d’animo diverso da quello che Isabella (20 anni all’epoca dei fatti) raccontò nel descrivere gli ultimi istanti di vita di Bergamini: “Voleva lasciare l’Italia, imbarcarsi da Taranto per le Hawaai (sic), diceva di essere stanco del calcio”. In banca, al momento della morte, Bergamini aveva 52 milioni. Nel portafogli però, nel momento in cui secondo la Internò avrebbe voluto abbandonare il Paese, gli ritrovarono solo 700.000 lire. Le aveva in tasca quando poco dopo le 15,30 del 18 novembre, dopo aver ricevuto una telefonata in albergo che ricorda l’ex compagno di stanza Michele Padovano “lo sconvolse”, Bergamini lasciò il cinema Garden di Rende dove il Cosenza guidato da Gigi Simoni era solito recarsi per affogare la noia del ritiro. Pur conoscendo a memoria la sala da almeno due anni, Denis chiese al massaggiatore dove fosse il bagno e poi si allontanò (il compagno Sergio Galeazzi vide due figure nella penombra) per una commissione che in origine, non sarebbe dovuta durare che pochi minuti. Invece Bergamini si allontanò dal Garden, si mise al volante della sua Maserati, passò a prendere Isabella Internò con la quale la relazione era finita da tempo (lo conferma Gigi Simoni, solo omonimo del tecnico, ex portiere del Cosenza e miglior amico di Denis) e percorse cento chilometri in direzione di Taranto. Arrivò a Roseto di Capo Spulico, venne fermato da una pattuglia dei carabinieri per un controllo e poco dopo, probabilmente costretto a scendere con la forza dall’auto, venne ucciso. Francesco Barbuscio, il carabiniere oggi deceduto che intimò l’alt a Bergamini e poi lo ritrovò cadavere sul ciglio della statale, fu lo stesso militare che redasse la prima planimetria del luogo, omise dettagli essenziali per comprendere la dinamica della morte di Bergamini, tralasciò di interrogare testimoni essenziali e ratificò i particolari più improbabili del decesso. Non si chiese mai, Barbuscio, la ragione di quel corpo in condizioni quasi perfette. Le sue deduzioni, magicamente, coincidevano con le deposizioni dell’autista dell’autocarro Pisano e di Isabella Internò. La giustizia assolse Pisano dall’accusa di omicidio colposo e fino al colpo di scena della sua iscrizione nel registro degli indagati, si sdraiò per due decenni sulla verità di Isabella Internò.

Fine (drammatica) di un rapporto

Denis e Isabella avrebbero potuto avere un figlio. Lei abortì in una clinica londinese nel 1987, dopo 5 mesi e mezzo di gravidanza. Denis avrebbe riconosciuto il bambino, ma si rifiutava di sposarla. Un’intollerabile violazione della liturgia, un affronto per la famiglia di Isabella. In Inghilterra andarono insieme, poi il sentimento, tra alti e bassi, si inquinò irrimediabilmente e nell’estate del 1989, Denis aveva già un’altra relazione con una ragazza delle sue parti. Ci sono spazi da cui fuggire è impossibile. Gabbie senza chiave. Abissi in cui la riemersione non è prevista. Denis era nel gorgo. Tormentato. Braccato. Minacciato. Nelle pieghe della memoria, tra le pagine scure di una storia più nera di un noir, si scorgono uomini che lo prelevano da un ristorante per un chiarimento brusco al riparo da sguardi indiscreti, vestiti bruciati, sinistre sceneggiature degli ultimi istanti così perfette da risultare fittizie. Prima di gettarsi sotto le ruote del camion di Pisano, secondo Isabella Internò, Bergamini non si curò della meteorologia. Pioveva, ma la giacca di Bergamini rimase sul sedile posteriore della Maserati: “Il giubbino non mi serve, fra poco ti accorgerai perché non mi serve, anzi ora vedrai perché non mi serve”. Non gli serviva perché quando venne sormontato dal camion, in posizione supina, Bergamini era già morto. Almeno un’ora e mezza prima di quanto venne dichiarato. L’Iveco, senza alcun danno visibile derivante dall’impatto, gli passò sopra per un solo metro. Sarebbe partito da Rosarno, secondo il “diario di bordo”, ma dalle risultanza successive, al percorso dichiarato, mancavano 54 chilometri. Da dove proveniva davvero? Dove andava? A chi avrebbe dovuto consegnare i mandarini Raffale Pisano, dato per morto per anni a causa di un’utilissima omonimìa e poi “resuscitato” e con un figlio, poi assolto in primo grado, coinvolto in un’inchiesta sulle affiliazioni alle cosche locali? Misteri, dubbi, zone d’ombra. Nella casa di Denis vennero ritrovati i biglietti di auguri per Natale, compilati con un mese di anticipo. Bergamini era un ragazzo preciso, amava la vita, non aveva alcuna intenzione di uccidersi. Forse, resosi conto del pericolo, tentò di fuggire. Se avesse ricevuto un colpo di arma bianca in zona iliaca, forse in grado di recidergli l’arteria, viste le condizioni del bacino, non si sarebbe mai potuto rilevare. Per simbolismo, nella ridda delle supposizioni, si ipotizzò che fosse stato evirato. Non accadde, ma gli elementi a disposizione, alterati all’origine, per troppo tempo non consentirono analisi ulteriori. Il torace mostrò imbrattamenti (terriccio e oli pesanti) che non collimavano con il manto stradale. Forse Bergamini venne ucciso in una piazzola quasi adiacente al luogo in cui venne ritrovato e poi spostato in avanti per dare verosimiglianza all’accaduto. Il professor Francesco Maria Avato, medico legale di Ferrara, incaricato di una perizia nei giorni immediatamente successivi dal decesso, si incaricò scolasticamente di mettere in evidenza le cinque fasi di un investimento tipico, ciascuna caratterizzata “da peculiarità morfo-lesive”. In nessuno delle cinque tipologie poteva inserirsi il presunto impatto di Bergamini con il camion, semplicemente perché l’impatto non era mai avvenuto. A distanza di 24 anni rimangono le domande. Il cui prodest così presente nella lunga notte italiana. Perché il carabiniere Barbuscio dichiarò il falso? Perché Isabella Internò, nonostante il balletto di dichiarazioni in evidente contrasto tra loro, venne creduta? Perché le intercettazioni disposte dalla Procura di di Cosenza nel 1994 non vennero mai effettuate dalla questura? Perché, perché, perché. Carlo Petrini, l’ex pallonaio di Milan, Roma e Bologna, il Pedro diventato scrittore di tanta dolorosa memorialistica sul fango del dio pallone si occupò a lungo del caso Bergamini scrivendo un volume per Kaos edizioni che individuava nei loschi affari intorno al Cosenza dell’epoca la chiave per leggere nella giusta luce la morte di un ragazzo di 27 anni che pochi mesi prima avrebbe potuto trasferirsi alla Fiorentina, ma preferì rimanere a Cosenza per un’ultima, fondamentale stagione di maturazione. Petrini aveva capito molto ma non tutto. Non aveva compreso a cosa possono portare amore, delusione, risentimento e rancore, quando come nei romanzi di Sandor Marai, si incontra la “donna giusta”. Al funerale di Denis venne tutta la città. Il parroco, i tifosi, gli amici. Fumogeni, cori, voci. Isabella piangeva e gridava perché.

L’AVVOCATO

“La messinscena per mascherare

il vero assassinio”

Nell’autopsia il corpo era intatto. I vestiti puliti, i capelli pettinati.

La fidanzata parlò di un tuffo di Denis contro il tir, e gli investigatori

raccontarono che era stato trascinato 59 metri lungo l’asfalto

di MALCOM PAGANI & ANDREA SCANZI (il Fatto Quotidiano 27-05-2013)

Eugenio Gallerani, ferrarese, è l’avvocato della famiglia Bergamini. “Mi è stato chiesto di leggere gli incartamenti dopo una manifestazione dei tifosi di Denis a Cosenza, nel 2009, a venti anni dalla scomparsa. C’era anche stata una interrogazione parlamentare. Non promisi niente, se non che avrei letto tutto con attenzione. Lo feci. E le stranezze erano troppe”.

Per esempio?

Bergamini non aveva motivo di suicidarsi: giocava in serie B, era a un passo dalla A. Perché? E perché a 100 chilometri dal ritiro, abbandonato all’improvviso e accompagnato dalla ex fidanzata che aveva lasciato da mesi? Al mattino, durante gli allenamenti, era tranquillo. Aveva rilasciato interviste sulla partita del giorno dopo. Stava bene.

Fino alla telefonata che riceve alle 15, in camera, davanti al compagno di stanza Padovano.

Lì il suo stato d’animo cambia, ma nessuno potrà mai dire con chi stesse parlando.

Bergamini è stato ucciso 24 anni fa. In pochi ne hanno parlato. Tra questi, alcuni giornalisti sparuti, Chi l’ha visto e Carlo Petrini nel libro Il calciatore suicidato.

Petrini aveva capito che non era suicidio. Credeva che il movente fosse legato al calcioscommesse e più ancora al traffico di droga. Non so se sia così.

La Procura di Castrovillari ha iscritto l’ex fidanzata Isabella Internò nel registro degli indagati per concorso in omicidio volontario. Semplificando, sembra profilarsi l’ipotesi del “delitto d’onore”.

La Procura sta svolgendo le indagini. Quando ho depositato la mia indagine difensiva, il 13 giugno 2011, dopo più di un anno di ricerche e accertamenti, la mia richiesta di riapertura era di omicidio volontario da parte di ignoti. Ho cercato di essere il più possibile oggettivo, scontrandomi con troppe – chiamiamole così – inesattezze.

Della vicenda Bergamini, inquieta proprio la quantità di errori. Forse addirittura depistaggi.

Da tre anni, con mia moglie, mi dico che il delitto Bergamini sembra celare più segreti del caso Borsellino. Proprio per questo sono aperto a ogni ipotesi.

Pare acclarato che Bergamini fosse già morto prima di essere investito dal camion.

Si poteva evincere già dall’autopsia del Professor Avato, effettuata un mese e mezzo dopo la morte. Il corpo, zona addominale a parte, era intatto. Non c’erano fratture, i vestiti erano puliti e come nuovi, i capelli addirittura pettinati. La fidanzata parlò di un tuffo di Denis contro il tir, tipo piscina, e i carabinieri raccontarono di un corpo trascinato 59 metri lungo l’asfalto. Dinamiche palesemente inverosimili. Denis era già sdraiato quando il camion gli passò sopra.

E la zona addomimale?

Impressionante. Totalmente devastata, non c’era rimasto quasi niente.

È possibile che l’investimento sia servito per celare le ferite di un coltello proprio nella zona addominale?

Potrebbe essere stata una messinscena per mascherare la dinamica della morte di Denis.

La Internò avrebbe “concorso” all’omicidio. Quindi non era sola. Ha idea di chi fosse con lei? Amici? Parenti?

Rispondere spetta alla Procura.

Lei lavora dal 2010 a questo caso. É stato più volte in Calabria, ha incontrato molte persone. Quali sono state le novità emerse in maniera inconfutabile?

Tre. Che Bergamini non aveva nessuna intenzione o motivo di suicidarsi. Negli ultimi giorni aveva capito che qualcuno a Cosenza gli voleva male. E che Denis aveva lasciato Isabella Internò da qualche mese, quindi non aveva alcun motivo di trovarsi con lei nel luogo in cui è stato assassinato, a 100 chilometri dal ritiro.

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La giornalaccio rosa del Mezzogiorno 27-05-2013

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Strano che il giornalaccio rosa del mezzogiorno se ne sia accorto solo ora che le accuse riguardano i galletti.

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Olanda, in tv documentario sul doping nella Juve anni ’90 (con troppe omissioni)

Domenica scorsa in prima serata un'intera puntata dal titolo emblematico: "Il tradimento di sangue nella finale di Champions del '96". Tante accuse, altrettante inesattezze e nessun cenno sull'assoluzione piena nei processi alla società bianconera celebrati in Italia

di Lorenzo Vendemiale | Il Fatto Quotidiano - 28 maggio 2013

Commenti (19)

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Nuove accuse di doping alla Juventus di metà anni Novanta. Arrivano dall’Olanda, dove hanno dedicato un’intera puntata di Andere Tijden Sport (Sport d’altri tempi, un famoso programma televisivo prodotto dall’emittente NOS) alla finale di Coppa dei Campioni del 1996, vinta dalla Juventus contro l’Ajax per 5-3 dopo i calci di rigore. E al presunto uso di doping da parte dei giocatori bianconeri. La trasmissione è andata in onda domenica scorsa con un buon successo di pubblico: oltre un milione di telespettatori, con punte del 17% di share. Ma le accuse, in realtà, più che nuove sono vecchie. Nel documentario scorrono le immagini della partita in cui – come racconta George Finidi, ala nigeriana di quell’Ajax – “i giocatori della Juventus correvano, pressavano, non ci facevano pensare. Di solito lo puoi fare per 20 minuti, non per 90, anzi 120. Non era normale”. Qua e là si vedono frammenti del processo, le testimonianze un po’ confuse di Vialli e di Montero.

Il clou della puntata, però, è rappresentato dalle interviste agli italiani. Raffaele Guariniello – il magistrato della Procura di Torino che condusse l’inchiesta – ricorda “le grandi difficoltà nell’investigazione” dovute alle reazioni dei tifosi e agli interessi che ci sono intorno al mondo del calcio. “E’ più facile trovare un pentito nei processi di mafia che in quelli di doping”, spiega il pm. Ma a finire in prima pagina sono state soprattutto le dichiarazioni di D’Onofrio, il perito all’epoca incaricato di esaminare i campioni di sangue dei giocatori bianconeri: “C’era un trend da parte di diversi giocatori ad avere alti valori di emoglobina in certi periodi dell’anno, tra aprile e giugno del 1996. Il sospetto è di aver utilizzato qualcosa per incrementare questi valori”. “Come l’epo?”, chiede il giornalista. “Come l’epo. O, con minor probabilità, emotrasfusioni”, risponde D’Onofrio. Che però, contattato dal fattoquotidiano.it, aggiunge: “Da parte mia non ci sono nuove accuse: ho solo chiarito gli aspetti scientifici della perizia, peraltro ampiamente già discussi nel dibattimento processuale”.

La tesi portata avanti dall’emittente olandese è chiara: non solo abuso di farmaci al confine della legalità, ma anche un impiego sistematico di doping, che invece non è mai stato provato nelle aule di tribunale. Lo dimostra già il titolo, emblematico, della puntata: “Il tradimento di sangue nella finale di Champions”. Dove a più riprese si parla di “squadra drogata” e “gioco sporco”. I diretti interessati intervistati, ovviamente, sono di diverso avviso. Pietro Vierchowod, che giocò da titolare la finale, rivendica con orgoglio quel successo: “Io mi sono sempre comportato bene, ho vinto in modo pulito. Se gli altri hanno fatto qualcosa – e io non ho mai visto nulla – non mi interessa”. Nel documentario ci sono anche delle brevi dichiarazioni di Antonio Conte. Il tecnico bianconero (allora perno del centrocampo della Juventus) ricorda la gioia della finale. Poi gli viene chiesto dello scandalo doping: lui non fa una piega, sembra voler rispondere ma chi gli è accanto gli consiglia di non farlo.

Ha risposto alle domande dei giornalisti, invece, Sandro Donati, ex allenatore della nazionale italiana di atletica e grande esperto di doping, autore del libro Lo sport del doping: chi lo subisce, chi lo combatte. “In questo caso è tutto molto chiaro – afferma Donati nel documentario –, perché diversi giocatori hanno valori alti. Le probabilità che tutti gli atleti abbiano naturalmente, senza l’aiuto di farmaci, questi stessi valori nello stesso periodo sono pari a zero”. Anche qui, però, arriva una specifica: “Il mio ragionamento era più complesso – spiega Donati a ilfattoquotidiano.it - Nel processo non è stato possibile dimostrare l’uso di doping oltre ogni ragionevole dubbio. Il mio convincimento personale è che la Juventus abbia fatto qualcosa, ma lo stesso discorso vale anche per altre squadre: il doping all’epoca era molto diffuso, purtroppo il calcio è sempre stato intoccabile. Io volevo parlare di questo. Invece gli olandesi puntavano solo a dimostrare che la Juventus aveva vinto la finale contro l’Ajax in maniera disonesta. Tutta la trasmissione è impostata su intenti nazionalistici da strapazzo”.

Nel documentario, infatti, si parla delle super prestazioni della Juventus di Marcello Lippi; delle centinaia di tipi di farmaci trovati nell’infermeria bianconera; delle carenze dei laboratori antidoping italiani (che non hanno mai riscontrato alcun caso di positività per i giocatori della Juve) . Ma dimenticano di specificare con chiarezza che, almeno per ciò che concerne l’uso di doping, il processo si è concluso con la piena assoluzione della società bianconera. Un’omissione non da poco, dettata forse dal rammarico per una finale persa in maniera bruciante.

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MALOUDA VA VIA DOPO

UN ANNO DI

MOBBING

Il francese punito da Abramovich per aver rifiutato il trasferimento:

un'intera stagione ad allenarsi con le giovanili. Per 5 milioni di euro...

L’ultima gara fu la finale di Champions 2012. Ora dovrebbe tornare al Lione

di STEFANO BOLDRINI (EXTRATIME 28-05-2013)

La Caienna a Londra. Una stagione vissuta con l'accademia dei ragazzini alla veneranda età, per un calciatore, di 32 anni. La storia di Florent Malouda racconta molte cose del calcio moderno: il mobbing operato dai club, i capricci di star o presunte tali fomentate da procuratori senza scrupoli, fino all'arroganza di presidenti ricchi che, per puntiglio, decidono di compiere atti tipo «ti tengo a giocare nel giardino di casa, tanto io posso fare tutto e il contrario di tutto». Ora, questa storia dovrebbe avere un epilogo con il trasferimento di Malouda al Lione, ma resta sempre una vicenda squallida.

Da Lippi a Bertrand

Malouda, francese nato a Caienna, posto reso celebre da Papillon coi grandissimi Steve McQueen e Dustin Hoffman, diventò qualcuno al Mondiale 2006. Fu l'incubo azzurro della vigilia della finale Italia- Francia. Da copione, entrò nel radar del Chelsea, che nel 2007 riuscì a sottrarlo al Lione, pagandolo 13 milioni di sterline dopo quella che, secondo i numeri, è stata la sua migliore stagione in assoluto. Il trasferimento in Inghilterra sembrava l'ultima spinta per entrare nel circuito dei grandissimi, ma le cose non hanno funzionato proprio così. Nel Chelsea, con cui nel '09 prolungò il contratto fino al 2013, Malouda è stato più comprimario che protagonista. Troppo individualismo, troppa puzza sotto il naso, troppi ricami. Della serie, tutto chiacchiere e distintivo. Dopo qualche problemino con Ancelotti, con Villas Boas iniziò nel 2011 il vero tracollo. Di Matteo lo ripescò dal mazzo nella primavera del 2012, ma nella finale di Champions col Bayern l'italiano per la fascia sinistra gli preferì un giovane emergente, ma scarso di talento come Bertrand. La data è importante: 19 maggio 2012. Malouda entrò al 72' senza lasciare traccia. Il Chelsea trionfò ai rigori e Malouda fu messo sul mercato. Il francese rifiutò qualsiasi ipotesi di trasferimento. Abramovich ordinò di collocare Malouda fuori rosa e di costringerlo ad allenarsi coi ragazzini. Una bella umiliazione per una star con tutti i capricci delle star e uno stipendio all'altezza della fama: il suo contratto era da 80.000 sterline a settimana, 4,85 milioni di euro all'anno.

Un altro titolo

Florent ha trovato la sua Caienna da giocatore in questa situazione. Lontano dalla prima squadra, costretto a vivere una dimensione da appestato in un Chelsea che, tanto per cambiare, anche quest'anno è riuscito a portare a casa un trofeo vincendo la finale di Europa League, il francese è stato escluso da tutto. Abramovich non ha mai avuto un cedimento: gli oligarchi russi sono capaci di prove di forza ben più importanti, figurarsi se si lasciano commuovere da calciatori che guadagnano comunque un mucchio di soldi.

La punizione

Ora, a scadenza di contratto, Malouda saluterà Londra e tornerà in Francia. Il clima più soft del torneo francese potrebbe riaccendere il suo talento, ma il bilancio di questi 6 anni al Chelsea è fallimentare. Non si è mai adattato del tutto alla vita londinese, tranne esplorarne di soppiatto qualche vizio, e ora torna a casa. Più ricco, ma da perdente. Abramovich invece non si scompone. Si è tolto lo sfizio di punire alla sua maniera un giocatore che ha osato sfidare il club. Un monito a chi voglia emularne i comportamenti. Malouda saluta quando sta per arrivare Mourinho. Tra i due non avrebbe mai funzionato. Meglio allora così. Per tutti. Portafoglio a parte, s'intende.

I 90 MINUTI PIÙ MORBOSI DEL CAMPIONATO

Se il Racing perde, può condannare i rivali dell'Independiente

alla B. Se vince, i suoi tifosi promettono pallottole...

di MARTIN MAZUR (EXTRATIME 28-05-2013)

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La tifoseria del Racing si vanta di avere una passione inspiegabile. Qualcosa di vero c'è. Nessuna grande avrebbe saputo mantenersi in forma dopo 45 anni di sconfitte, retrocessioni, fallimenti e persino esorcismi pubblici con cappucci stile Ku Klux Klan, in un flirt costante col ridicolo. E invece l'Accademia ha una delle curve più calde, gradinate sempre piene e giovani tifosi che non l'hanno mai visto vincere un titolo.

Conti in sospeso

Ma proprio quando il Racing sembra aver messo ordine in casa - con un budget controllato, giovani interessanti e una squadra in crescita - sembra che sia arrivata l'ora di perdere. O almeno questo è quanto hanno chiesto i tifosi prima della partita col Quilmes di venerdì prossimo. Quei tre punti potrebbero contribuire alla retrocessione del nemico di quartiere, l'Independiente. È da due mesi che in tutti i bar di Avellaneda si parla di questa partita. Chi vuole la sconfitta? «Tutti i veri tifosi che hanno sofferto la retrocessione in casa loro, due anni in B, e le derisioni continue», si legge in un forum on-line dell'Accademia. Negli anni 80, piegato da una crisi senza precedenti, il Racing ha perfino messo la squadra a noleggio, mentre lo stadio Peron veniva usato come deposito di patate.

Pubblicità e proiettili

L'Independiente non è mai retrocesso. Nonostante i risultati positivi ottenuti dopo l'arrivo di Miguel Brindisi, nella classifica dei promedios il Rojo è ancora in rosso. Il suo rivale diretto è il Quilmes. Ma dipende anche dai risultati di San Martin e Union, che potrebbero sorpassarlo velocemente con un paio di vittorie, visto che, essendo state promosse l'anno scorso, dividono soltanto i punti di questa stagione. Su internet gira pure una pubblicità fasulla: «Così aspettiamo il Quilmes e così giocheremo la partita» si legge, mentre i giocatori sono ritratti a braccia conserte. Ma il presidente del Racing, Gaston Cogorno, non ci sta: «L'unica cosa che conta è vincere. Il folklore delle tifoseria qui non c'entra. I giocatori sono professionisti e hanno delle responsabilità». Su certi siti molto frequentati dalla communità biancoceleste, però, si sono lette pure delle minacce. «Se non perdete col Quilmes ci saranno pallottole per tutti».

«Come una finale»

L'allenatore Brindisi ha fiducia nei giocatori del Racing. «Tante volte sentiamo parlare di partite truccate e poi in campo per fortuna succede il contrario. Il calcio è così, si alimenta di queste voci, ma l'orgoglio dei giocatori è il valore più importante che esiste». Abituati alla sofferenza, i tifosi del Racing non vogliono portare la croce di aver contribuito alla salvezza dell'Independiente. Ma Diego Milito, simbolo dell'Accademia, non ha preferenze. E se le ha, non lo racconta pubblicamente. «A noi deve importare cosa fa la nostra squadra. Poi non è vero che tutto dipenda dall'esito di questa partita. Mancano ancora 3 giornate e ci sono altre squadre che possono vincere o perdere». La pressione sui giocatori potrebbe produrre l'effetto contrario. «Quello che fa l'Independiente non c'entra, noi abbiamo degli obiettivi molto chiari. Ma non è sano entrare in campo consapevoli di tutto ciò che verrà detto se ci capita di perdere la partita. Quindi per noi sarà come una finale di Coppa del Mondo», ammette il capitano del Racing, Sebastian Saja. Quilmes-Racing. I 90 minuti più morbosi del calcio argentino si avvicinano.

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Ultras, linea dura del questore:
«In arrivo Daspo più pesanti»

«C’È UNA SUBCULTURA RIFLESSO ANCHE

DI UN DISAGIO SOCIALE IL CALCIO OGGI

VIENE ENFATIZZATO IN SENSO NEGATIVO»
«Siamo riusciti a fermare i violenti prima di qualsiasi reazione»
di RICCARDO TAGLIAPIETRA (Il Messaggero 28-05-2013)

Fulvio Della Rocca, questore di Roma, al derby c’è stato qualche piccolo incidente e nulla di più. Merito di una nuova ricetta per l’ordine pubblico?
«Abbiamo messo in campo le risorse che servivano. È stata una giornata importante per lo sport capitolino, ma anche per la verifica dei nostri dispositivi di sicurezza. È stato approntato un servizio che ha garantito l’incolumità della città».

Avete sequestrato armi importanti. Cosa sta succedendo nel tifo capitolino?
«Non vedo grandi novità rispetto al passato. Sembra una frase un po’ volgare, ma la mamma dei cretini è sempre incinta. Qualcuno non si rende conto, che un’accetta può uccidere, ma si tratta perlopiù di incoscienza».

C’è la sensazione che il tifo possa assumere toni sempre più legati all’estremismo politico?
«Dobbiamo necessariamente banalizzare molto la tifoseria calcistica. Ci sono delle frange più politicizzate, ma il livello è molto basso, non penso possano andare oltre».

È immaginabile un reato associativo per i più violenti?
«Può starci. Ma si tratta sempre di una reato associativo nell’ambito della delinquenza comune, non dobbiamo dimenticarlo».

Qualcuno tra gli ultrà è sceso in piazza per uccidere?
«No, credo siano solo bravate. Non enfatizzerei questi comportamenti».

Il vostro schieramento era imponente e ieri lo stadio era blindato.
«La nostra reazione ha frustrato alcune velleità. Purtroppo queste due tifoserie quando si incontrano tendono a scontrarsi: ieri è stato diverso, siamo riusciti a fermare i violenti prima di qualsiasi reazione».

E i daspo?
«Anche i daspo che comminerò saranno pesanti. La mia «tariffa» è di 5 anni. Non per essere cattivo, ma perché è necessario che chi ha sbagliato recuperi il tempo per maturare prima di tornare allo stadio».

Molti ragazzi spesso scelgono di fare la guerra nelle strade, perché?
«Bisognerebbe trovargli un lavoro. C’è una subcultura, riflesso anche di un disagio sociale. Il «dio» calcio oggi viene enfatizzato, anche in senso negativo».

Gli arrestati erano personaggi già finiti nei guai in passato?
«Quasi tutti hanno dei precedenti. Evidentemente il Daspo per loro è servito a poco. E questa smania di far del male è superiore alla percezione di ciò che può essere il danno alla propria vita e al quella degli altri».

Esiste il rischio di una riorganizzazione di gruppi di tifoseria armati?
«Noi abbiamo semplicemente dei teppisti che sfogano così le loro frustrazioni».

Ieri c’erano anche le elezioni in città.
«Abbiamo avuto un fine settimana molto impegnativo. Ma abbiamo la fortuna di avere grandi professionalità, a tutti i livelli, per questo voglio ringraziare tutta le polizia e le altre forze dell’ordine».

Gli ultimi dati sulla criminalità cosa dicono?
«Sono in flessione. Certamente i reati ci sono, intendiamoci, stiamo parlando di una città di 4 milioni di abitanti. Però credo che le misure sia preventive che repressive stiano dando i propri frutti».

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Reform football – avoid

this £120m craziness
Sanity must return to the Premier League

by increasing the number of teams to 30
Teams don’t last long at the top level so have no incentive to invest
by STEFAN SZYMANSKI (THE TIMES 28-05-2013)

As winner of the Football League Championship playoff Crystal Palace have just won a prize that is a guaranteed payoff of around £120 million: £55 million as next year’s share of the Premier League broadcast income and £60 million over four seasons in parachute payments if relegated immediately. This makes it the largest prize for a single game not only in football but in any sport anywhere in the world.

Bayern Munich will receive only €10.5 million for winning the Champions League. The winner of the last World Cup in 2010 received $30 million. Winning the NFL’s Superbowl or baseball’s World Series brings no direct financial reward.

Prizes are economic signals — they provide incentives and they tell us about the importance of events. This seemingly tells us that the Premier League is the most attractive competition in the world — but the hugely inflated reward that Crystal Palace received hides the problem with the Premier League and why it needs radical reform.

The average attendance (36,000) is the third highest in the world (after the NFL in America and the German Bundesliga). England’s second tier, however, is by far the most popular second tier league in global sport — its annual attendance of 10 million is roughly double that of the next biggest.

The interesting comparison to make is between the bottom half of the top division (Premier League) and the top half of the second division (the Championship). The top half of the second tier attracts 27,000 per game, more than the bottom half of the Premier League’s 25,000.

The reason is that English football has greater support in depth, and the Championship contains teams with proud histories, including extended participation at the highest level, such as Birmingham City, Blackburn Rovers, Bolton Wanderers, Burnley, Derby County, Ipswich Town, Leeds United, Middlesbrough, Sheffield Wednesday and Wolverhampton Wanderers. In any other country they would be top division teams. Under a reformed system, many of them would gain that place in the Premier League.

The problem with the English system is that these teams do not have the incentive to invest in capacity because they don’t spend long enough at the top level, where visits from Manchester United, Arsenal, Chelsea and the rest would justify bigger stadiums. So teams in the bottom half of the Premier League have stadiums that are too small, and teams in the top half of the Championship have stadiums that are too big.

Some people say that the Premier League should be shrunk. In fact it should be expanded to accommodate the great teams that currently languish in the second tier.

The problem of expansion has long been faced by American leagues, where the size of the nation makes small leagues look silly. The NFL has 32 teams, Major League Baseball and the NBA 30 teams. They manage this by a system in which every team does not have to play every other team twice — the schedule is adapted to create the greatest interest for the fans.

In an English context a Premier League of 30 teams could be divided on regional lines: say, North and South, with more games played against teams in your own region. Another approach, used in the NFL, is to schedule teams against teams with similar records (based on the previous season) more often, which has the added benefit of making a more balanced contest.

Adopting this system would also require the introduction of a play-off system for the Championship — but that was long ago copied in the lower divisions for the purposes of promotion, with great success. For the sake of tradition, an expanded Premier League could still have a promotion and relegation relationship with the lower divisions.

At the moment England doesn’t have a structure of competition that provides the right incentives or create the most attractive competition possible. Expanding the Premier League, say to 30 teams, is the solution.

Expansion of the Premier League would be accompanied by an investment boom that would increase attendances. It would also alter the value of promotion to the Premier League. No doubt a play-off final for promotion to an enlarged Premier League would still be valuable, but since the broadcast money would be shared among more teams, the size of the prize would diminish. No game should be worth £120 million.

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MARCA 29-05-2013

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Mi verdad por JOSEP MARIA CASANOVAS (SPORT 30-05-2013)

Los rumores envenenados

ensucian las cloacas del fútbol

LIMPIAR LAS CLOACAS. Mientras los grandes clubs trabajan a tope para cerrar fichajes millonarios, los modestos, los que luchan por salvar la categoría, los clubs que nunca aparecen en las portadas, andan removiendo la mierda con rumores envenenados. Estamos hartos de voces anónimas que tiran la piedra y esconden la mano asegurando que hay partidos amañados, de gentuza que habla de compra y venta de partidos como algo habitual. Cuando solo falta una jornada para el final de la Liga, aparece año tras año esta polémica como cortina de humo y excusa de los clubs que están con el agua al cuello amenazados por la ruina del descenso. Es un tema demasiado grave y escandaloso como para no tomárselo en serio. Es hora de que la Liga Profesional y su nuevo presidente tomen cartas en el asunto, investiguen y denuncien si hay pruebas con fundamento. Hay que destapar las cloacas de las trampas deportivas, denunciar a una serie de presidentes que hablan con la boca pequeña pero que son incapaces de acudir a un juzgado para presentar una demanda como Dios manda. Antes el tema recurrente a final de temporada eran las primas a terceros, ahora esta artimaña se considera un juego de niños y algunos desaprensivos van directos a la compra de partidos. Recordemos que tan culpable es el que compra como el que se vende. Aquí no vale todo, al igual que en los casos de doping, cuando exista una denuncia fundada, la policía debería actuar con todas las consecuencias.

DENUNCIAR A LOS TRAMPOSOS. Si queremos presumir de la Liga de las Estrellas, si queremos que los aficionados no comiencen a pensar en corruptelas, si no queremos que los rumores ensucien los campos de fútbol, debemos exigir a los rectores del fútbol limpieza, transparencia y juego limpio. Hay muchos veteranos al borde de la retirada que se dejan querer peligrosamente. A raíz del escándalo de las apuestas on line, en Italia un juez autorizó que se pinchara el teléfono de varios jugadores que cayeron en la mafia y las grabaciones fueron una bomba informativa. En España cada vez hay más futbolistas con miedo a hablar por los móviles de temas delicados conscientes de que hay alguna investigación en marcha. El fútbol mueve mucho dinero, muchos intereses ocultos y bastantes sinvergüenzas. Debemos luchar contra todo aquello que vaya contra el espíritu deportivo, que propicie la manipulación de la competición. Lo que no puede ser es que se mire hacia otro lado cuando se habla de amaño de los partidos y mucho menos que se lancen rumores sin nombres y denuncias sin protagonistas.

MARCA 30-05-2013

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SPORT 31-05-2013

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MARCA 31-05-2013

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MARCA 01-06-2013

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Le Parisien 29-05-2013

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FRANCE football | MARDI 28 MAI 2013

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MARCA 29-05-2013

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IL PUNTO DI VISTA di GUIDO VACIAGO (Tuttosport 30-05-2013)
Quanti pesi e misure

per battere l’ignoranza

Ha qualcosa di paradossale il fatto che lo stadio più moderno del calcio italiano sia anche il più multato per cori (razzisti e non), striscioni e tutte quelle amenità dalle quali il mondo del pallone non riesce proprio a ripulirsi. D’altra parte è innegabile che, tra i confortevoli spalti dello Juventus Stadium, nel corso della stagione si siano viste e sentite idiozie esecrabili (su tutti, lo striscione su Superga che - da solo - meriterebbe tutti i 327mila euro di multa). Ma rimane il dubbio, soprattutto in chi gli stadi d’Italia li frequenta tutti, che l’infame classifica delle multe sia viziata - a prescindere - da doppiopesismo incomprensibile. Perché pare più difficile interpretare la valenza di un insulto che la volontarietà di un fallo di mano in area. E medesimi atteggiamenti, cori o striscioni vengono puniti a targhe alterne, anche perché c’è chi tutto vede, sente e scrive nella sua relazione, chi... un po’ meno. Il “buu” razzista, che resta schifosa espressione di profonda ingnoranza, è l’esempio più clamoroso: almeno un cretino che ne lancia uno durante una partita lo trovi ovunque. A volte basta per la sanzione, a volte no. E poi c’è il surreale tabellario a disposizione del giudice sportivo costretto alla stravagante classificazione degli insulti, attraverso il quale decide se vale di più insultare un giocatore per il colore della pelle o la di lui madre, oppure se è più grave ironizzare su chi tenta il suicidio o su una tragedia collettiva. L’effetto finale è a volte grottesco. Per combattere la maleducazione servono, anzi urgono, misure. Ma possibilmente un solo peso.

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