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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Tempo Scaduto di ALIGI PONTANI (Repubblica.it 06-05-2013)
La Juve comanda in un calcio in rovina

Comandare stanca, ma è molto meglio che essere comandati. La Juventus che si è ripresa il ruolo storico che ha sempre avuto nel calcio italiano - la più vincente, la più ricca, la più ambiziosa - adesso comanda con la certezza della propria forza, ed è forse questa la differenza più evidente con il successo dell'anno scorso, che gli stessi juventini, Conte in testa, definivano un miracolo. Una forza calma e composta, secondo le tradizioni, da contrapporre però alla estrema debolezza, agitata e disordinata, del mondo di cui si è ripreso il controllo almeno sul piano sportivo ed economico. La Juve sembra sempre più un mondo a parte, e lo rivendica senza remore con quella ostentazione - silenziosa ma comunque invadente - del numero di scudetti contabilizzati in spregio all'ufficialità degli albi d'oro. Calciopoli, con i suoi orrori ed errori, viene considerata una parentesi storica prodotta dall'altro mondo, il resto del mondo, quello non juventino. Dunque, una parentesi generata dai nemici, e quindi non riconosciuta. D'altra parte, il sistema che assegna 29 titoli ai bianconeri è lo stesso che ha autorizzato in questa stagione una maglia ufficiale con la scritta 30 sul campo, e l'anno prossimo probabilmente non si opporrà alla sostituzione di 30 con 31. Come a dire: le nostre regole sono altre, ma voi fate un po' come credete, in fondo siete la Juventus e noi un po' di coscienza sporca su come abbiamo gestito il dopo Calciopoli ce l'abbiamo eccome. Il caos della debolezza, appunto, lo stesso che ha segnato l'avvilente e grottesca stagione dello scandalo scommesse, finito sotto il grande tappeto del Tnas dopo aver dato in pasto alle masse sentenze emesse senza alcuna logica e uniformità di giudizio.

Adesso che la Juve è tornata al potere, però, questo doppio binario sarà sempre più difficile da gestire, per tutti. Il sistema degli equivoci, dei compromessi, dell'immobilismo, della paludata navigazione con rotta puntata sempre sulla conservazione di se stessi e del proprio potere da burocrati, ha portato il calcio italiano a perdere drammaticamente la sua credibilità e la sua forza di penetrazione nel mercato dello sport mondiale. Faceva tenerezza, davvero, all'indomani della fragorosa qualificazione in finale di Champions delle fuoriserie tedesche, sentire il presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, indicare il "modello Germania come quello vincente e da seguire". Cosa abbia fatto lui in questi anni per seguirlo non si sa. Si sa invece che quando già acquisiva cariche di governo in Figc, tanti ma non tantissimi anni fa, il modello da seguire era un altro, ci si riempiva la bocca col campionato più bello del mondo, ci si contendevano le star del mondo a botte di miliardi, gli stadi ribollivano di passione e, come sempre, la Juve era la squadra da battere. Solo questo è rimasto uguale, anzi, è ritornato uguale. Adesso siamo gli ultimi dei grandi, o i primi dei piccoli, la periferia dell'Europa nella quale la Juventus ha costruito la sua magnifica casa, dalla quale guarda tutti dall'alto. Purtroppo, guarda un panorama di rovine polverose, sulle quali non basta più piantare bandierine, 29 o 31 che siano. Bisogna ricostruire, e in fretta. Ma davvero c'è qualcuno che pensa che possano farlo quelli che, appena riconfermati in blocco tutti i dirigenti del calcio nazionale, si sono scannati per tre mesi solo per designare i loro vicepresidenti? Chiediamo ai tedeschi se anche loro hanno fatto così: non dobbiamo seguire il loro modello?

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MARCIO FRANCESE
CROLLA IL FALSO MITO DELL’INTEGRAZIONE

Un libro-inchiesta getta ombre inquietanti sul calcio d’Oltralpe: quote
etniche nei club, caccia ai tappetini dei musulmani, razzismo nei due
sensi. E Thuram nel 1998 pretese una foto solo per quelli di colore...

A Clairefontaine partite tra bianchi e neri «per vedere chi è più bravo»
di ALESSANDRO GRANDESSO (EXTRATIME 07-05-2013)

Partite di bianchi contro neri a Clairefontaine, la Coverciano francese. Quote per i musulmani a Rennes, per gli africani a St. Etienne. E una Ligue 1 erosa da tensioni etnico-religiose che riversano in campo la dissoluzione del modello di integrazione francese. Quello esaltato dal trionfo mondiale della Francia di Zidane nel 1998, e poi smantellato dai Bleus di Domenech al Mondiale 2010. Questo il quadro, veritiero, raccontato senza tabù in Racaille Football Club, («Feccia Football Club», da oggi nelle librerie francesi) libro-nero sul scritto dal giornalista Daniel Riolo, opinionista radiofonico tra i più influenti in Francia.

L'altro razzismo
Un racconto che riporta a galla la truffa della Francia Black-Blanc-Beur, dal colore della pelle dei giocatori trascinati dal magrebino Zidane sul tetto del mondo nel '98, uniti nella diversità delle origini africane ed europee. Un prodotto marketing a servizio di politici a caccia di consensi. Quella era «solo» una generazione di formidabili talenti, da Barthez a Desailly, da Zidane a Thuram, che pochi minuti dopo la vittoria pretese una foto con la coppa e i soli neri della squadra, davanti agli sbigottiti Dugarry e Petit. Anni dopo, in pieno scandalo delle quote etniche scoperte nel centro federale di Clairefontaine, l'ex rossonero si chiese: «Cosa sarebbe accaduto se avessi chiesto io di farmi fotografare solo con i bianchi della squadra?».

Modello Scarface
Domanda di attualità. A Parigi, 10 giorni fa, per la prima volta un tribunale ha processato un delinquente con l'accusa di aggressione razziale, ma su un uomo trattato da «sporco bianco» e «sporco francese». Un fatto di cronaca che ha rispolverato un concetto di razzismo anti-bianco, inventato negli anni 70 da gruppi di estrema destra, acquisito dal Front National e sdoganato lo scorso autunno dal capo dell'opposizione di destra Copé, che puntò il dito contro la discriminazione che dilaga nei quartieri più disagiati a forte tasso di immigrazione. Quelli da cui provengono molti degli attuali nazionali bleu. Giocatori con storie spesso difficili alle spalle e che hanno plasmato la Francia del calcio secondo i loro codici. Si è passati da quello fittizio della tolleranza e integrazione del '98 alla cultura dell'insulto, della violenza, della volgarità, dell'onore criminale, simboleggiato da Scarface, eroe del film di Brian De Palma, riferimento per generazioni di calciatori che pensano solo al denaro facile e ai propri interessi, fregandosene del resto. Così il pubblico boccia Benzema, origini algerine, che nel 2005 a 18 anni disse: «Scelgo la Francia per il calcio, ma cuore e sangue restano algerini». I tifosi reputano impresentabile il musulmano Ribery, cliente di una prostituta minorenne, e boicottato dagli inserzionisti pubblicitari, capobanda con Evra ai Mondiali 2010 dello sciopero della vergogna in difesa di Anelka, che aveva insultato il c.t. E che Riolo erge a simbolo della decadenza calcistica francese. L'ex enfant prodige che poteva raccogliere l'eredità di Zidane e che invece ha contaminato per primo i Bleus con valori beceri, rintracciabili in periferie a rischio di rivolte sociali.

Le quote
Inevitabile in un Paese che non ha mai affrontato con serenità la questione del passato colonialista, generando «la bestia immonda», quel razzismo che striscia pure nel calcio. Come a Clairefontaine, dove per anni i responsabili della formazione organizzavano partitelle tra ragazzi bianchi e neri, «per vedere chi era il più forte». O dove si dava la caccia ai tappeti per le preghiere negli zaini dei musulmani, salvo poi imporre a tutta la nazionale di Domenech un unico menù Halal. Abitudine diffusa in Ligue 1, dove l'Islam è la religione dominante, a volte fede tollerante, altre moda superficiale, altre ancora pratica estremista, al limite del proselitismo, creando tensioni in spogliatoi dove magari è imposto a tutti di fare la doccia solo in mutande (usanze musulmane) e la testata di Zidane a Materazzi nel Mondiale '06 è letta come atto di vendetta antirazzista. A Rennes così si limita il numero di musulmani e africani in squadra, così come accade nel St. Etienne di Galtier. A Marsiglia invece si filtra fin dalla formazione. E la Federcalcio si fa pubblicità mostrando le facce bianche di Giroud, Cabaye, Debuchy, più apprezzati nei sondaggi. Quote tacite, riconosciute dal presidente dell'Unione dei Club pro Louvel: «Negarlo sarebbe assurdo». Come il divorzio tra la nazionale e i suoi tifosi. Dopo l'Europeo 2012 solo il 20% diceva di amare i Bleus. E quasi a ogni partita è fischiato l'inno perché non si sa più chi si riconosca in questa nazionale. E se si votasse domani alle presidenziali, il Front National, per i sondaggi, passerebbe al secondo turno.

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Detto dopo di TONY DAMASCELLI (il Giornale 07-05-2013)
LA JUVE DEI 31 SCUDETTI
È DI «TUTTI» GLI JUVENTINI


Il dubbio non è per niente amletico, come potrebbe sembrare: ventinove o trentuno? Le baruffe tra juventini e antijuventini fanno parte del gioco delle fazioni, oggi ancora più miserabile e violento di un tempo, le infamie riempiono i social network, la guerra non è mai finita.

Semmai, la domanda provocatoria dovrebbe essere un’altra e va indirizzata alla proprietà della Juventus, la stessa che reclama il numero 31 e lo esibisce, lo sbandiera, lo stende a centrocampo nel giorno della festa, lo fa stampare sulle magliette e diventa un’altra memoria sui muri dello Juventus stadium. Allora se gli scudetti sono trentuno perché John Elkann non dice una parola su chi quei due scudetti ha portato al club? Perché cancellare da qualunque celebrazione, evento, ricordo, i cognomi di Giraudo Antonio e Moggi Luciano per tenere in piedi soltanto la figurina di Bettega Roberto che con gli altri due ebbe convivenza?

La proprietà non può, da una parte, pretendere che la giustizia sia stata ingiusta e poi fare giustizia personale su personaggi e interpreti di quell’epoca.

Forse Gianni Agnelli così si comportò con chi, del gruppo, all’epoca di tangentopoli, venne coinvolto in affari giudiziari? Controllate gli archivi e troverete la risposta negativa.

Questo è invece accaduto con la Juventus, dopo la scomparsa dei fratelli Agnelli, un territorio di conquista, un giocattolo bello mascomodo. Se la squadra ha ottenuto due titoli negli ultimi due anni lo deve a un allenatore ex capitano che è stato suggerito ad Andrea Agnelli proprio dagli ex dirigenti. Se in tribuna e nel consiglio di amministrazione siede Pavel Nedved, anima e cuore di quella Juventus corruttrice, significa che il passato va rispettato, sempre. Esistono in circolazione esemplari di giornalisti, depositari di juventinità trasparente, che si sono vergognati di Moggi&Giraudo e giudicano con disprezzo il presidente definito «il signorino che porta il nome francamente eccessivo di Agnelli» senza alcuna reazione del parentado. Indicano la Juventus etica e pulita quella dei tempi di Boniperti e trascurano che, anche allora, le accuse di manipolazione degli arbitri erano puntuali e documentate (Travaglio, capo della delegazione dei puri, vada a rileggersi gli attacchi di Brian Glanville e di altri sodali inglesi, all’accompagnatore degli arbitri del club bianconero - non era Moggi Luciano - definito in un titolo, Mister Fix It "Il Trafficante", con tutti i particolari di cronaca, senza dimenticare quello che si disse e si scrisse di Italo Allodi).

L’etica juventina, slogan del duemila e sei, non è una fisarmonica che si apre e si chiude seguendo i desideri del fisarmonicista e della sua orchestra. La Juventus dei trentuno scudetti è di tutti gli juventini. Anche degli esclusi. Altrimenti cancellino 31 e anche 29. Quindi chiedano a Zeman e a Travaglio quale sia il numero giusto, onesto, pulito degli scudetti juventini.

:stima:

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La muerte de Margaret Thatcher el 8 de abril vino acompañada, por mera casualidad, de rebrotes de aquel

'hooliganismo' que la Dama de Hierro combatió con métodos demasiado estrictos y poco eficaces. Estos

incidentes, en cualquier caso, no parecen síntomas del regreso de la enfermedad de la violencia a los

estadios británicos. La mejora de la seguridad en los campos y el cambio de actitud de las autoridades

policiales hacen que el vandalismo ochentero se contemple como una moda 'retro' que nunca regresará.
Es dudoso que el 'hooliganismo' fuese nunca una amenaza tan

grande como los ultras pretendían o Margaret Thatcher imaginaba
El vandalismo masivo está ahora tan muerto como otras modas

pasadas de los jóvenes británicos, como el 'punk' o la minifalda
por SIMON KUPER (Panenka #19 | Mayo de 2013)

En los años 80, un estudiante americano llamado Bill Buford comenzó a seguir a los hooligans del Manchester United por todos los campos. Después de un tiempo, él mismo se había convertido en uno de ellos. En 1991, publicó un libro que iniciaría el género 'hoolie porn': Entre los vándalos. Bufford fue el primer observador inteligente que se acercó a aquellas gradas inundadas de orina en la Gran Bretaña de Margaret Thatcher. "Ir al fútbol en aquella época era muy excitante", me comentó la última vez que nos vimos, hace un año. "Suponía la experiencia pública masculina más agresiva que había tenido: eran como neardentales. No había mujeres, ni niños. Se trataba de hombres que se permitían comportarse como hombres en un sentido denigrante. Resultaba anacrónico, incluso entonces".

El Reino Unido retrocedió este pasado mes de abril hasta los años 80. Primero murió Margaret Thatcher, primera ministra entre 1979 y 1990, tan disgustada por el hooliganismo que casi prohíbe el fútbol profesional. Luego, en el fin de semana siguiente a su desaparición, un vandalismo ochentero resurgió: decenas de hinchas del Newcastle se enfrentaron con la polícia, y los ultras del Milwall se azotaron entre ellos en el nuevo Wembley. Imágenes que despertaron una ola de interrogantes: ¿Por qué se comportan así? ¿No habían desaparecido? ¿Volverán con la misma fuerza de antes?

A partir de los años 60, los aficionados del fútbol británico convirtieron el hooliganismo en una cultura juvenil. El Reino Unido tiene una extraña capacidad para regalar referentes a las mentes mundiales de entre ocho y 25 años: los hooligans procedían del mismo país que Peter Pan, The Beatles, el punk, David Beckham o Harry Potter. Como todos ellos, los hooligans también eran jóvenes tratando de expresarse en plena -y desapacible- transición al mundo adulto.

En los 80, el fenómeno alcanzó su cenit: estaba presente permanentemente en televisión, para disgusto de la retórica thatcheriana 'de ley y orden'. Cuando 39 hinchas de la Juventus fallecieron en las gradas de Heysel, ella incluso meditó la posibilidad de prohibir el profesionalismo. Hoy, ningún político osaría insinuar tanta hostilidad hacia el fútbol. "Contemplaba a los aficionados como enemigos interiores", recordaría después uno de sus pocos ministros futboleros, Kenneth Clarke. "Creo que le era complicado incluso entender por qué alguien quería asisitir a un encuentro."

Los hinchas ingleses exportaron su hooliganismo durante los mandatos de Thatcher, aprovechando salidas de sus clubes y de la selección. Cuando rompían escaparates, volcaban coches o lanzaban sillas a peatones lo hacían altruistamente. Estaban luchando por Gran Bretaña, por el abuelo que regresó de la guerra, por Winston Churchill, por la reina... Como en Normandía en 1944 o en las Malvinas en 1982, los hooligans se veían como conquistadores. De hecho, su política exterior era marcadamente thatcherista. Al igual que ella, pensaban que la manera de volver a hacer "grande a Gran Bretaña" –en frase de la líder conservadora– pasaba por mostrar arrojo militar. Buford describe a los tarugos del United en Turín en 1984 desplegando Union Jacks y cantando el himno nacionalista 'Rule Britannia, Britannia rules the waves'.

LA ERÓTICA DE SER 'HOOLIGAN'

No hay duda de que se lo debían de pasar en grande. Hay algo "mágico, casi erótico" en formar parte de una masa de hooligans, dice Buford. "Cuando la masa alcanza un determinado tamaño, la policía ya no puede pararla... La masa siempre se comportará de forma impredecible". Parecían aterradoras. Pero es dudoso que el hooliganismo fuese nunca una amenaza tan grande como los ultras pretendían o Thatcher imaginaba. El secreto de los hooligans es que rara vez pelean. Sólo unos pocos son psicópatas dispuestos a infligir daño a otro. La gran mayoría obtiene menos placer de golpear a alguien que disgusto por ser golpeado, por lo que evitan el combate directo. Prefieren hablar sobre ello, gesticular a cierta distancia con los policías o proferir cánticos sexuales a las mujeres locales.

Una industria hooligan les ayuda en esta aspiración. Se trata de los medios de comunicación, que dibujan un simulado periodismo de guerra sobre los ultras; de los académicos de fútbol, a los que se les paga para investigar el hooliganismo, y de la policía, que siempre está buscando más dinero para luchar contra los delincuentes. La policía británica solía publicar de forma periódica informes sobre una violencia terrible que nunca llegó a ocurrir. En el año 2000, por ejemplo, en uno de esos informes nacionales se hablaba de un cuchillo de carnicero, una botella repleta de amoniaco y una sierra, entre los elementos capturados a unos ultras. Los hooligans suelen llevar esas armas espectaculares, principalmente por una cuestión de imagen. Esto no significa que las utilicen. ¿Cuándo fue la última vez que a alguien le cortaron la cabeza con una sierra durante un partido de fútbol? ¿Dónde están los cuerpos? Los 39 hinchas de la Juve que murieron en 1985 no fueron asesinados por los aficionados del Liverpool, fueron aplastados por una pared en un estadio en ruinas.

De hecho, dada la estructura del fútbol, lo que más sorprende es la poca violencia que existe. Este juego atrae a grandes multitudes de jóvenes, la categoría demográfica que comete más delitos, y el estadio crea la situación más adversa posible para que se enfrenten dos grupos. De acuerdo, los partidos de fútbol británicos en los 80 se vieron acompañados a menudo por peleas en las terrazas y en los bares. Pero la peor violencia pública tendía a no tener nada que ver con el fútbol: sucedía en los centros urbanos durante las noches de sábado, después de que los pubs cerrasen a las once y hordas de jóvenes borrachos, llenos de testosterona, se desparramasen por las calles.

La policía de Thatcher siguió tratando a casi todos los aficionados al fútbol como potenciales hooligans. Algunos partidos contaban con 75 policías por cada 1.000 espectadores. La agresividad policial, ahora lo sabemos, ayudó a provocar el desastre de Hillsborough en 1989, cuando murieron 96 aficionados del Liverpool en una semifinal de la FA Cup. Ese día, hinchas visitantes reds fueron tratados como monstruos que había que controlar. Muchos quedaron aplastados en una valla que les impidió el paso, a pesar de rogarles a los policías que les abrieran las puertas y les dejaran entrar en el campo. La policía, aún en guardia contra los hooligans, se negó. De hecho, cuando la aglomeración forzó la apertura de una puerta de emergencia, la policía la cerró. Los aficionados se amorataron, vomitaron, murieron, mientras que los policías les gritaban: '¡Retroceded!'. Cuerpos, muchos de ellos de niños, se fueron acumulando.

Desde principios de la década de los 90, Gran Bretaña construyó una ola de nuevos estadios seguros. La vigilancia se perfeccionó. Por un lado, la policía británica tomó una postura firme en la erradicación de todos los alborotadores fuera de los estadios. Por otro, el propio Estado se otorgó a sí mismo el derecho de confiscarle el pasaporte a cualquier ciudadano que pudiera transformarse en un hooligan cada vez que Inglaterra jugaba más allá de sus fronteras. "La orden de prohibición es nuestra herramienta más efectiva", comentó Andy Brame, un oficial de policía de Scotland Yard, en el año 2003. Otro funcionario de seguridad británico aseguró que a pesar de haber visitado países que practicaban la tortura y la ejecución sumaria, nunca había conocido leyes anti-hooligans tan estrictas como las de Gran Bretaña.

Pero al mismo tiempo, la policía británica también aprendió a actuar de una forma más blanda. Y es que el exceso de antidisturbios no funciona. Si se decide inundar el centro de una ciudad con policías a caballo, éstos se convierten, de forma automática, en un blanco para grupos de seguidores que ansían desafiar. Un escenario de campo de batalla se desarrolla casi por sí mismo. Por el contrario, los agentes de seguridad comenzaron a decir que un partido debía ser una fiesta. No es recomendable llenar las calles de agentes antidisturbios. La policía debe mezclarse con los seguidores, saber lo que quieren y en qué están molestando. Si un pequeño núcleo empieza a dar problemas, se debe hablar con ellos. No pararse en formación detrás de escudos antidisturbios, mientras la situación se descontrola, esperando para lanzar los gases lacrimógenos.

Probablemente, todas estas medidas ayudaron a erradicar el vandalismo británico. De hecho, poco a poco, empiezan a ser imitadas en todo el mundo. Pero lo que realmente terminó con el gamberrismo en el fútbol británico fue un cambio de tendencia. "En una noche se acabó todo", se maravilla Buford. "Hubo una época en la que había violencia a todas horas. Y de repente, alguien descubrió una nueva droga, el éxtasis. Y una moda sustituyó a la otra...". Hoy en día, el mayor riesgo que los espectadores corren en un estadio inglés es comer las hamburguesas que sirven en el descanso. La mayoría de los partidos profesionales en el Reino Unido se juegan con cero policías presentes. En la temporada 2011-2012 de la Premier, hubo un promedio de menos de un arresto por encuentro.

MIEDO EN JAPÓN

También es cierto que hubo que darse un tiempo para ponerse al día en la percepción de la nueva realidad del vandalismo británico. Cuando llegué a Japón para la Copa del Mundo de 2002, me encontré con un país temblando, anticipándose a los merodeadores ingleses. Para los japoneses, la violencia en el fútbol era una costumbre extranjera inexplicable, casi como comer saltamontes. Algunos se llegaron a preguntar si sería seguro jugar al golf a 160 kilómetros de Sapporo, el día en que allí se disputaba el Inglaterra-Argentina. Nada sucedió durante todo el torneo. Desde entonces, apenas ha habido un incidente en el que se hayan visto envueltos unos seguidores ingleses que estuvieran viajando. Y quizás no por casualidad, la autoimagen británica, tan thatcheriana, de una nación guerrera también ha desaparecido de la escena política.

Luego, justo después de la muerte de Thatcher en abril, llegaron los incidentes que sugieren que esos horribles años podrían volver. En el Wigan-Millwall de la semifinal de la FA Cup, cerca de 50 aficionados del conjunto londinense comenzaron a darse puñetazos y patadas entre sí. Las cámaras de televisión mostraron a un grupo de hombres con sangre en sus rostros. Ese día, un seguidor del Everton fue apuñalado después de un partido contra el Queens Park Rangers por un hincha rival. Al día siguiente, en el centro de la ciudad de Newcastle, aficionados de los magpies que ni siquiera habían ido a ver a su equipo ganar al Sunderland se enfrentaron a la policía y uno de ellos golpeó a uno de sus caballos. "Me disculpo por ello", dijo después Barry Rogerson al diario The Sun, alegando haber actuado en "defensa propia". "Me encantan los animales. Tengo tres perros y un estanque con peces. No sé qué diablos me pasó para golpear a un caballo".

La contrición de Rogerson lo resume todo. No estamos en los 80. Para empezar, los 31.950 seguidores del Millwall que no se unieron a la lucha en Wembley abuchearon y gritaron wankers (pajilleros) a los que sí lo hicieron. En segundo lugar, los culpables fueron identificados de inmediato gracias a las cámaras de circuito cerrado de televisión que ahora vigilan los estadios del Reino Unido. Los aficionados del Millwall que lucharon ese sábado ya estaban arrestados el lunes al mediodía. La próxima vez que el Millwall juegue un partido, estos elementos deberán informar de su paradero en la comisaría de policía más cercana.

La actitud de las fuerzas del orden británicas también ha cambiado: ahora permanecen tranquilas. Después de ese fin de semana de enfrentamientos y problemas, Andy Holt, encargado del fútbol de la Asociación de Jefes de Policía del Reino Unido, admitió que su principal preocupación pasaba por no reaccionar de una forma exagerada. "No queremos volver a tener enfrentamientos entre la policía y los aficionados", exclamó. Nunca volveremos a ver la Gran Bretaña de Thatcher. La industria hooligan de la policía, los medios de comunicación y los aspirantes a ultras seguirán generando un gran alboroto después de cualquier brote violento que ocurra, pero el vandalismo masivo está ahora igual de muerto que otras modas pasadas de los jóvenes británicos como el punk o la minifalda.

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L'Équipe 07-05-2013

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Calcio, i procuratori contro il fair play

finanziario: “Limita trattato di Schengen”

L’agente Fifa Daniel Striani (che cura gli interessi di diversi giocatori anche in Italia) ha

depositato presso la Commissione Europea un ricorso contro l’Uefa per la norma voluta

da Platini. L'azione legale è curata da Jean-Louis Dupont, quello della sentenza Bosman

di LORENZO VENDEMIALE (ilfattoquotidiano.it 07-05-2013)

Il fair-play finanziario voluto da Michel Platini per cambiare il calcio europeo non piace quasi a nessuno. E in tanti cercano di ostacolarne l’entrata in vigore. L’ultima minaccia viene dal mondo dei procuratori. E stavolta non si tratta di un abile sotterfugio (come quello del Paris Saint-Germain, che tenta di aggirarne i vincoli con una maxi-sponsorizzazione), bensì di un attacco frontale: l’agente belga Fifa Daniel Striani (che cura gli interessi di diversi giocatori anche in Italia) ha depositato presso la Commissione Europea un ricorso contro l’Uefa e il suo Fair-play finanziario, che violerebbe diversi principi della normativa Ue. E a curare il procedimento sarà Jean-Louis Dupont: non un nome qualsiasi, bensì uno degli avvocati che nel 1995 fece parte del team di legali che sconfisse la Fifa e la Uefa con la famosa sentenza Bosman, che avrebbe rivoluzionato le sorti del calcio moderno.

L’interesse dei procuratori nella vicenda è di tipo puramente economico: secondo quanto scritto nel documento presentato ieri, il fair-play finanziario comporterebbe una restrizione degli investimenti, da cui deriverebbe una riduzione del numero dei trasferimenti, una contrazione degli stipendi dei giocatori e, di conseguenza, anche dei compensi dei loro agenti. Per scongiurare questo rischio, Striani ha deciso di rivolgersi direttamente alla Commissione Europea. E di avvalersi delle prestazioni di Dupont, che già a fine marzo, in un editoriale scritto per il Wall Street Journal, aveva sostenuto l’illegalità del fair-play finanziario. Ieri quell’articolo si è trasformato in un ricorso ufficiale. In particolare, Dupont contesta l’articolo 57 del Ffp, quello che vincola la partecipazione alle Coppe europee al rispetto del pareggio in bilancio. Ma questo principio (che pure nel testo del ricorso è definito “condivisibile”) rappresenterebbe un’infrazione all’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, limitando il principio di concorrenza, nonché il libero movimento di capitali e lavoratori.

Perciò Dupont è convinto di potersi vedere dar ragione dalla Commissione Europea. E questo nonostante l’Unione Europea abbia più volte e convintamente lodato il Fair-play finanziario varato dalla Uefa: “Un sistema coerente con le politiche Ue”, lo ha definito Joaquin Almunia, Commissario europeo per la Concorrenza. Contattati da ilfattoquotidiano.it, né Daniel Striani, né Jean-Louis Dupont hanno voluto rilasciare ulteriori dichiarazioni, in attesa di novità nello sviluppo del procedimento. L’avvocato belga ha però tenuto a precisare che il ricorso si limita a contestare solo l’articolo 57 e non il Ffp nella sua interezza: “Se l’obiettivo è evitare il rischio che alcune società possano collassare per investimenti avventati, non è necessario proibire qualsiasi tipo di investimenti”, scrive Dupont. “Basterebbe adottare un principio più proporzionato, come ad esempio consentire una spesa superiore alle entrate, a patto di garantirla in anticipo e completamente”. Magra consolazione per Platini: la regola del pareggio di bilancio è l’essenza del Fair-play finanziario. Dupont, dopo quella Bosman, insegue una nuova, storica sentenza.

Modificato da Ghost Dog

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Testa, cuore e gambe

di ANTONIO CONTE & ANTONIO DI ROSA (Rizzoli | maggio 2013)

La partita più difficile


È stata una stagione faticosa, emozionante e meravigliosa al tempo stesso. A un solo anno dal mio ritorno a Torino, la Juventus è di nuovo regina d’Italia. Quando anche l’ultimo fuoco dei festeggiamenti è spento, realizzo di avere assoluto bisogno di un po’ di riposo. Soprattutto, ho bisogno di ritrovare insieme con Elisabetta quel silenzio, quella complicità solo nostra che, in settimane tanto intense dal punto di vista sportivo e mediatico, siamo stati costretti a mettere da parte. Abbiamo bisogno di tornare a fare un po’ i fidanzati, ecco, e ritagliarci un momento solo per noi. Così prenotiamo – o meglio prenota lei, che diversamente da me è bravissima a gestire tutta la parte logistica di una vacanza – un weekend in un centro benessere vicino a Torino e partiamo affidando la nostra Vittoria alle cure dei nonni.

Durante il breve viaggio che ci porta a destinazione, la mia mente è divisa: da una parte riascolto l’eco delle grandi emozioni che lo Scudetto mi ha regalato, dall’altra ho voglia di staccare completamente la spina e dedicare tutto il mio tempo a Elisabetta. E così faccio: la spa è bellissima, la privacy garantita, ci rilassiamo e ci godiamo due giorni di pace come se fossimo fuori dal mondo. Riesco persino a dormire di notte, cosa per me tutt’altro che scontata.

Il nostro programma prevede di rientrare a Torino nella giornata di lunedì 28 maggio. Senza fretta, prendendocela comoda fino all’ultimo. Per questo affrontiamo pigramente i preparativi per la partenza. Quando accendiamo i cellulari però, veniamo entrambi investiti da un numero inusuale di messaggi. Non li leggiamo subito, scegliamo di preservare quegli ultimi preziosi momenti di quiete. Pensiamo che quegli sms vengano dagli amici e dai familiari con cui non ci siamo sentiti nel fine settimana. Sono comunque troppi, c’è qualcosa di strano. Così decido di leggerne uno e nel momento stesso in cui lo faccio mi ritrovo sbalzato in un incubo, entro in una specie di dimensione parallela. Ancora non posso saperlo, ma sta per cominciare un capitolo ben preciso della mia esistenza, un capitolo a sé, che avrà fine solo sette mesi dopo.

Scorrendo gli sms mi rendo conto di essere investito da una situazione talmente inaspettata che su due piedi non riesco neppure a capirla del tutto.

Hanno perquisito casa mia. La polizia è entrata nell’appartamento all’alba, svegliando di soprassalto mio fratello Daniele che abita in quello accanto. Hanno sequestrato un iPad, vecchie sim di cellulari ormai in disuso, un computer. Daniele ha avvertito il mio avvocato, che è in viaggio, sarà lì a momenti. Di cosa mi accusano? Associazione a delinquere finalizzata all’alterazione di partite. Non che saperlo mi aiuti a capire di più: associazione a delinquere è una formula che conosco per averla letta sui giornali, ascoltata alla tv, ma che non avrei mai immaginato potesse riferirsi alla mia vita. Gli attimi, quegli attimi che non scorderò mai, si fanno improvvisamente concitati e carichi di tensione. L’incubo prende forma. Chiamo Daniele e cerco di capire qualcosa di più, ma lui non può dirmi nulla, vive di riflesso lo stesso sgomento che vivo io. Chiamo l’avvocato, ma anche lui non può aggiungere nessun elemento utile: «Antonio, sono in macchina, devo leggere le carte».

Continuo a scorrere l’elenco degli sms ricevuti sul mio cellulare. Sono testimonianze di sgomento e incredulità, per la rabbia ci sarà tempo. Sono totalmente in balia delle mie emozioni. Non ho voglia di parlare con nessuno e ho voglia di parlare con tutti per capire cosa sta succedendo. Ho voglia di spaccare la stanza, ma anche di non muovermi, di restare immobile e aspettare che le cose si chiariscano da sole, senza fare niente. Non ho nulla da temere e non mi spiego cosa siano andati a cercare in casa mia. Rientro con Elisabetta anche io a Torino. È un viaggio breve, ma carico di tensione, di sgomento, che annulla in pochi minuti gli effetti benefici del nostro weekend. Quando arriviamo, la casa è già circondata da fotografi e giornalisti. Le radio e le televisioni stanno mandando news a ripetizione. In automobile ne abbiamo già avuto un assaggio. Ci sono addirittura persone arrestate ma poco importa. Il nome in primo piano è il mio. Nella confusione generale trovo Daniele e l’avvocato. Dalle loro facce capisco che, senza sapere come e perché, siamo a tutti gli effetti immersi in una situazione assurda.

I giorni successivi alla perquisizione sono scanditi da atti formali e da lunghe riunioni. Tra gli atti formali rientra il deposito delle nomine dei miei avvocati alla Procura. Oltre al mio, entrano in gioco anche quelli della Juventus. Già, perché l’indagine riguarda il campionato 2010/11 e all’epoca ero al Siena, ma la Juve è indirettamente coinvolta in quanto ne sono l’allenatore. In queste riunioni, quindi, non entra solo la componente giuridica, ma anche quella tecnica e comportamentale di tutti. Il comune denominatore è lo sgomento. In certi momenti mi ritrovo a immaginare di osservare la situazione da fuori, come se ne fossi semplice spettatore. Guardo Andrea Agnelli, guardo Marotta, i quali da subito si schierano decisamente e pubblicamente al mio fianco, guardo gli avvocati, li ascolto e intanto mi chiedo: «Come posso essere io l’oggetto di tutti questi discorsi? Come siamo arrivati a questo punto? Perché?».

In quei momenti monta la rabbia, prende corpo la consapevolezza dell’ingiustizia che sto subendo. Passano alcuni giorni e viene resa nota la tesi accusatoria: un mio calciatore ai tempi del Siena afferma che sarei stato a conoscenza della combine di due partite del campionato di Serie B 2010/11, Novara-Siena e Albinoleffe-Siena. Addirittura, nel caso della prima, mi accusa di aver comunicato nella riunione tecnica che quel giorno bisognava pareggiare.

Oggi, se mi guardo indietro, dico: «Be’, la cosa doveva finire lì, subito». L’accusa era talmente assurda, talmente lontana dal mio DNA, da non meritare approfondimenti. Ma con il tempo ho capito anche che finirla lì non era possibile, perché un’accusa così grave apre una voragine, anzi due: una riguarda la giustizia penale, l’altra la giustizia sportiva. La prima compie un percorso logico, lungo, ma con parametri ben precisi; la giustizia sportiva no. La giustizia sportiva, lo capirò nei mesi che seguiranno, è fondata su un meccanismo perverso per il quale sei tu, accusato, a dover dimostrare l’estraneità ai fatti. In gergo giuridico, si parla di “inversione dell’onere della prova”. Dimostrare che qualcuno ha detto una bugia su di te è molto difficile, quasi impossibile, i motivi che l’hanno spinto a farlo possono essere i più vari: antipatia, rancore, interesse, denaro… Come ci si può difendere da un’accusa di questo genere?

La cosa che più mi crea dolore in quei giorni è leggere le prospettive drammatiche che alcuni delineano parlando addirittura di carriera finita. Non sono ancora stato convocato una volta in Procura e già iniziano a girare i nomi dei possibili sostituti sulla panchina della Juve. Una carriera fondata sul sacrificio, sul sudore, nella quale nessuno mi ha regalato niente, frutto di studio e di applicazione, di disciplina e di grande severità con me stesso prima che con gli altri, rischia di finire perché una persona ha raccontato delle bugie. O meglio: ha inventato di sana pianta un racconto, che è cosa ben diversa dal modificare la realtà con una bugia.

Ma non c’è tempo per lamentarsi: gli incontri con gli avvocati si susseguono a ritmo serrato. Da subito prendo una decisione importante: sarò protagonista della mia difesa. Non subirò decisioni che non condivido, anche qualora a suggerirle siano eccellenti professionisti e non aspetterò seduto in un angolo che qualcuno mi chiami per dire la mia. Intuisco che solo partecipando attivamente potrò scegliere la soluzione giusta al momento giusto e chissà, magari anche capire perché sono finito in questa situazione.

Mi approccio alle questioni giudiziarie con il metodo che utilizzo da allenatore, martello e incalzo i miei: «Cosa possiamo fare?». Ripeto la domanda quasi ossessivamente finché, a furia di consumare le carte, non ci viene un’idea. Leggendo le motivazioni della sentenza di un processo sportivo già concluso, anch’esso basato sulle dichiarazioni dei cosiddetti “pentiti”, individuiamo un elemento che si dimostrerà fondamentale: i giudici di quel processo dicono che devono essere le difese a cercare e produrre prove di innocenza, dimostrando la “non credibilità” degli accusatori e non limitarsi semplicemente a sostenere che non sono credibili. Ecco l’appiglio che cercavamo. Saremo i primi a percorrere la strada delle indagini difensive. Il “pentito” che mi accusa afferma che alla vigilia di Novara-Siena tutti i presenti alla riunione tecnica hanno sentito il discorso in cui avrei dato notizia del pareggio? Benissimo, raccogliamo le loro testimonianze. Sentiamo cosa dicono.

Scatta un’operazione-lampo faticosissima, che io coordino e indirizzo: «Cos’abbiamo già fatto? Quanti giocatori ci mancano? Quando sentiamo questo? Dove troviamo quest’altro?». I miei avvocati si muovono come schegge lungo tutta l’Italia, accompagnati di volta in volta da altri avvocati di altri fori per garantire la massima asetticità possibile alle indagini: Giulianova, Piacenza, Siena, Bologna, Padova, Lodi, Palermo, Napoli senza un attimo di tregua. In pochi giorni raccogliamo una ventina di deposizioni, tutte univoche: non ho mai pronunciato le parole riferite dal “pentito”. Anzi, molti calciatori riferiscono spontaneamente che in quella famosa riunione tecnica – svoltasi peraltro con modalità molto diverse da quelle descritte dal “pentito” – ho pronunciato un discorso motivazionale molto emozionante, che aveva anche commosso alcuni di loro. Altro che combine!

Mentre gli avvocati portano a termine la raccolta delle testimonianze, vado qualche giorno in vacanza a Ibiza. Be’, vacanza è una parola grossa: il posto è bellissimo, ho accanto la mia famiglia e i miei amici, ma la verità è che una parte della mia testa è costantemente occupata dalle vicende giudiziarie. Vado al bar a bere qualcosa, ma non sono mai completamente lì; parlo con un amico e non gli dedico il cento per cento dell’attenzione. In più, trascorro molto tempo al telefono per dare indicazioni e conoscere le novità. Con tutto lo stress accumulato durante l’anno, non era certo questo il genere di vacanza che immaginavo. Il tempo corre veloce. Abbiamo depositato tutto il materiale probatorio raccolto. La mia audizione in Procura Federale è fissata per il 13 luglio. Quel giorno avrò finalmente la possibilità di raccontare la mia verità a chi di dovere. Neppure prima della famosa perquisizione sono stato interrogato. Mai una volta. Cinque, invece, sono le esternazioni concesse al “pentito” che mi accusa dal giorno del suo arresto: ogni volta una versione diversa, modificata sempre senza riscontri, senza alcun tipo di conferma.

Parto con i miei avvocati il 12 dall’aeroporto di Aosta, che raggiungo direttamente dalla sede del ritiro: durante il decollo dalla coda dell’aereo si solleva un odore acre, come di bruciato. Confesso che a bordo ci spaventiamo un po’. Un segnale, dal quale dovrei capire che non ci aspetta nulla di buono. In realtà sono molto fiducioso, sereno. Al punto che la sera preferisco andare a mangiare qualcosa fuori, rilassarmi: non voglio preparare nulla in vista dell’audizione. Anche perché non ho nulla da preparare, il compito che mi aspetta il giorno dopo è tanto importante quanto agevole: raccontare la verità. Ripercorrere i fatti per come sono realmente accaduti. Quando nel primo pomeriggio arriviamo in Procura trovo ad accogliermi decine di giornalisti e telecamere piazzate in ogni angolo. Entrare in aula richiede uno sforzo fisico, devo farmi largo tra urla, incitamenti e spintoni. Quella ressa è la fotografia perfetta della vicenda: un enorme clamore che diventa inevitabilmente spettacolo.

Quando inizia il colloquio, di fronte a cinque membri dell’ufficio Indagini, mi rendo conto di quanto la giustizia sportiva fatichi a tenere il passo dei tempi anche da un punto di vista tecnologico. Davo per scontato che il colloquio venisse registrato, invece la verbalizzazione avviene manualmente, scrivendo frase dopo frase al computer, con buona pace della fluidità del discorso. Tutto è appesantito dal tempo necessario per trascrivere, per rileggere… Io mi do un unico obiettivo: la massima chiarezza, anche a costo di precisare cento volte che «no, non ho detto così», «qui bisogna correggere» eccetera.

Dico la verità, al termine dell’audizione mi sento sollevato: ho descritto le situazioni in maniera perfetta, senza esitazioni, senza contraddizioni. Sono addirittura sicuro di aver convinto i giudici della mia innocenza. Non resta che fare il conto alla rovescia durante le due settimane che mi separano dalla data del deferimento, fissato per il 26. Sarà quello il vero spartiacque. Io non merito di essere processato e questo deve essere molto chiaro. Io rifiuto l’idea stessa di essere processato, perché sono innocente. Ma dal momento che sono una persona di buon senso, capisco anche che una cosa è essere processato per illecito, altra è essere processato per omessa denuncia. Le voci impazzano, leggo tutto e il contrario di tutto. Faccio fatica a uscire dal recinto dell’incredulità e della rabbia. Sono ancora molto lontano dal comprendere il senso nascosto dietro questa storia. Che pure c’è, e alla fine si rivelerà…

Il deferimento segna uno dei momenti più paradossali dell’intera vicenda. Vengo deferito per omessa denuncia eppure, a detta di molti, avvocati compresi, devo accogliere la notizia quasi con sollievo. È una cosa folle, non ci sono altre definizioni. «Dai, l’illecito ce lo siamo tolti, è già qualcosa…» È già qualcosa?! Come può un innocente tollerare queste parole? Sono uno sfregio alla mia dignità. Ormai è palese che ci muoviamo in un contesto totalmente privo di logica.

Abbiamo meno di una settimana per preparare il processo del 1° agosto. Sono molto deluso ma deciso a combattere come sempre. “Antonio, devi affrontare anche questa prova” penso. “Vai a processo e afferma la tua innocenza.” Non ho nessuna intenzione di scappare. Eppure, giorno dopo giorno, inizia a profilarsi un’altra possibilità e a offrirmela non è un gruppo di alieni, come mi verrebbe da pensare vista la sua assurdità, ma i miei avvocati.

Patteggiamento.

Com’è lontano da me questo concetto, com’è lontano dal mio cuore, dalla mia mente. Io non ho mai patteggiato niente nella mia vita, non conosco intercessioni o mediazioni forzate. Conosco invece il valore della volontà, dell’onestà, del lavoro. E ora, nel mezzo di quest’estate terribile, improvvisamente mi suggeriscono che devo, posso, dovrei, potrei patteggiare. Per non far sembrare i miei avvocati dei matti, preciso che il patteggiamento nell’ambito della giustizia sportiva non è un’ammissione di responsabilità, ma un’opportunità di non svolgere il processo ricevendo uno sconto di pena. Mi dicono: «Guarda Antonio, non devi ammettere niente». Aggiungono: «Così chiudiamo per sempre questa storia e torni a concentrarti sulle cose che ami fare. Per una volta magari metti i tuoi principi in secondo piano». Sono tutte frasi lontanissime da me. Non ci sono parole per far capire quanto. Eppure questo è l’unico momento in cui vengo meno al proposito di andare per la mia strada. È qui che commetto il mio unico errore. Accetto il patteggiamento.

Lo faccio pensando di poter essere più utile dedicandomi al mio lavoro, alle mie responsabilità. Antepongo il bene comune al mio. Per stare bene, dovrei solo continuare a lottare per far emergere la verità. Ecco perché anche la quantificazione del patteggiamento è un momento molto doloroso: anche un minuto di condanna per me è un’ingiustizia. Alla fine si arriva a un accordo per patteggiare tre mesi più una pesante multa.

Il giorno dell’udienza, quando gli avvocati si recano a Roma, avviene un colpo di scena. Il patteggiamento salta, i giudici lo ritengono non congruo. La condanna dovrebbe essere aumentata a quattro mesi. Potrei aver subito un danno, invece sono soddisfatto. Incassiamo un colpo basso, eppure sono soddisfatto. È incredibile quanto tutta la vicenda si giochi sul filo sottilissimo del paradosso. Sono felice. Mi hanno tolto un peso dallo stomaco. Mi hanno staccato di dosso una scelta che non mi apparteneva. Torno me stesso, torno a combattere, sono innocente. Per i miei avvocati inizia un tour de force: in nottata rientrano a Torino, al mattino affermo in modo irremovibile la mia volontà di andare a processo e in tarda mattinata ripartono per Roma. E in questo frangente capisco definitivamente che la giustizia sportiva si muove secondo dinamiche quasi impossibili da comprendere, al massimo si può riuscire a inquadrarle. La Procura Federale, che aveva dato il consenso a un patteggiamento di tre mesi, chiede una condanna a quindici mesi. Quintuplica l’entità del patteggiamento, un’incongruenza enorme, evidentissima! E così sui siti dei giornali e in televisione si scatena il totocondanna da parte di chi, più o meno volontariamente, in certi momenti dimentica che dietro ai numeri e alle ipotesi ci sono delle vite e che intorno a queste ce ne sono altre ancora. Eppure, dopo aver ascoltato le parole dei miei avvocati in udienza, ancora non abbandono l’idea di essere prosciolto.

Una decina di giorni dopo arriva la sentenza: dieci mesi per le due omesse denunce. Un esito discreto rispetto ai quindici chiesti dalla Procura Federale, peggiorativo rispetto ai tre proposti con il patteggiamento. Per me non è né discreto né peggiorativo: è un’ingiustizia. Sempre nella totale assenza di senso, con la stagione calcistica ormai cominciata, mi ritrovo a lottare su un doppio fronte: da una parte dobbiamo preparare l’appello, dall’altra ci sono le prime sfide sul campo. Parto per Pechino, dove affrontiamo il Napoli in Supercoppa Italiana, senza neppure sapere se potrò sedermi in panchina oppure no.

È un momento buio come la notte: la squalifica mi priva della possibilità di gioire della vittoria assieme ai miei ragazzi, ma soprattutto tocco con mano per la prima volta cosa significhi stare lontano dal campo. Quando prendo posto in tribuna e l’arbitro fischia l’inizio avverto nettissima la percezione del male che mi stanno facendo. È un po’ come aver preso un pugno e iniziare solo adesso a sentire il dolore. “Ecco, è questo ciò che mi aspetta per dieci mesi” penso senza togliere gli occhi dal campo.

Prima e dopo la partita, passo al telefono con gli avvocati la maggior parte del tempo: quando in Cina è mattina in Italia è notte fonda, costringo tutti a lavorare senza soste e ci sono dialoghi anche molto duri, carichi di tensione. Al rientro in Italia passo al contrattacco: decido di essere in aula al processo d’appello. “Vengo in aula a respirare questo processo, a guardare in faccia chi mi accusa e chi mi deve giudicare.” Non mi sono mai nascosto, non inizierò certo ora. Non sono mai fuggito, mai una volta in tutta la mia vita. Siedo in prima fila. Ascolto tutto in silenzio ed esco dall’aula con la moderata speranza che i giudici abbiano finalmente capito come stanno le cose.

Ma la sentenza e le motivazioni sono un ulteriore tassello di quel puzzle dell’assurdo. Cosa stabiliscono i giudici? Mi prosciolgono per Novara- Siena, la partita del discorso pronunciato davanti a tutti nella riunione tecnica, la partita del presunto «È tutto a posto, pareggiamo», la partita su cui si fonda la credibilità del pentito che mi accusa. Buon risultato. Caduto uno dei due capi d’accusa anche la pena si dimezzerà, no? Invece la pena resta immutata. Perché? Perché in Albinoleffe-Siena intravedono addirittura un quasi illecito. E così lasciano tutto com’era. Manca poco che mi tocchi di ringraziare. Infatti prima ancora che la sentenza venga resa nota, un giudice commenta in diretta radiofonica: «A Conte è andata bene».

Come posso spiegare cosa significhi mettere la propria carriera, la propria vita in mano a qualcuno che assume un atteggiamento del genere? Come può un giudice risultare in questo modo credibile ai miei occhi? E, a proposito di credibilità, dove finisce quella del mio grande accusatore, dato che per Novara-Siena sono stato assolto e lui sconfessato?

Dopo quella sentenza la testa mi scoppia, sono assalito da mille emozioni, da mille stati d’animo, cambio idea ogni minuto sul modo in cui reagire. Poi ne scelgo uno. Non so se sia stato il migliore o il peggiore, sicuramente è stato il più sincero. Convoco una conferenza stampa insieme con i miei avvocati. Anche in questo caso non c’è nulla di preparato. Chi la segue in diretta non vede trucchi o artifici: vede la faccia di un uomo innocente, innocente ed esasperato, innocente e furioso. L’ho riguardata una sola volta, quella conferenza, nei mesi successivi: ero veramente io. E ho la presunzione di aver fatto capire a tutti che a parlare è un uomo sincero, che si sta giocando la dignità. È lì che mi sgorga dal cuore l’aggettivo “agghiacciante” che in poco tempo si trasformerà in un tormentone. La mia vicenda sta diventando un gioco al massacro.

L’ultimo grado di giudizio è il Tnas. Non sono rassegnato, ma sono ormai preparato ad accettare che la verità resterà sepolta dov’è. Infatti arriva uno sconto di pena, da dieci a quattro mesi, accompagnato da una motivazione incomprensibile: “Non poteva non sapere”.

Intanto il campionato è ampiamente partito. Vivo questa situazione con un enorme dispendio di energie psicofisiche. Vengo da mesi di tensione, rabbia, amarezza e mi porto tutto dentro, sono un leone in gabbia. Le partite mi mancano da morire. In settimana le preparo con il massimo impegno, curo gli allenamenti con il solito scrupolo, cerco di tenere i ragazzi lontani dalle mie difficoltà personali, ma è dura. È dura non poter guidare con le tue mani una creatura che curi e accudisci ogni giorno della settimana. L’aspetto positivo, se dobbiamo cercarlo, è che la mia assenza dal campo fortifica l’organizzazione della squadra, impone che certi meccanismi provati in allenamento diventino automatici, naturali come il respirare. Nell’intervallo delle partite la sofferenza raggiunge il culmine: immagino quello che potrei dire se fossi giù con i ragazzi, le istruzioni che darei, i volti tesi e concentrati. E invece devo anche ascoltare qualcuno dire: «Ma tutto sommato non è così male che Conte stia lassù. Dall’alto vede cose che dalla panchina non potrebbe vedere. E la squadra sembra andare da sola». Resto in silenzio, le ferite sono profonde. Per qualche settimana mi allontano anche dalle persone che più mi sono state vicine nei mesi del processo.

Vivere le partite dai cosiddetti Sky Box è una prova molto impegnativa: all’inizio il senso di impotenza mi demoralizza al punto che ho un rifiuto della situazione. Non voglio accettarla, è tutto ingiusto, tutto sbagliato, perché dovrei accettarla? Non mi rassegno alla violenza che mi è stata fatta e che si rinnova di settimana in settimana, serate di Champions comprese. Mi hanno privato anche della gioia di guidare i miei ragazzi nel torneo più importante. Abbiamo dato l’anima per esserci e ora il sogno per me si è fatto incubo. Dall’esordio contro i campioni in carica del Chelsea fino alla partita contro lo Shakhtar che sancisce la qualificazione agli ottavi, guardo tutto da lontano. Saranno ventidue le partite ufficiali saltate per squalifica: oltre alla Supercoppa di Pechino, quindici giornate di campionato e il girone eliminatorio di Champions. Alla fine, però, quel girone lo superiamo. La Juve ritorna in Europa e non in punta di piedi, ma con autorità, chiudendo lì dove deve stare: al primo posto. E in occasione del mio ritorno in panchina nell’andata degli ottavi di finale, ci aspetta una sfida tanto dura quanto emozionante: il 12 febbraio, nella stupenda cornice dello stadio di Glasgow, va in scena Celtic-Juventus.



Epilogo

Glasgow, 12 febbraio 2013. Ore 20,43

Quanto tempo ci vuole per ripercorrere mentalmente il film della propria vita? Io l’ho fatto stare tutto in pochi minuti e in pochi metri, sono arrivato alla fine del tunnel che porta in campo. Celtic-Juventus sta per cominciare.

Ho sempre pensato che la mia storia di uomo, calciatore prima e allenatore poi, fosse percorsa da un senso ben riconoscibile. Un senso dato dalla volontà, dal sacrificio, dalla passione che ho messo ogni giorno in tutto quello che ho fatto. Ma, nei mesi durissimi del processo, questo senso credevo di averlo perduto irrimediabilmente. La sensazione che ho provato è stata quella di un vuoto tremendo, di un improvviso black out. Più mi dibattevo per avere giustizia, meno riconoscevo la mia vita. «Perché proprio a me?» era la domanda fondamentale. Non poter rispondere a questa domanda mi gettava nell’angoscia più profonda.

E allora questa serata diventa magica non solo perché sto per esordire da allenatore in Champions League.

Questa serata è magica perché chiude definitivamente il capitolo più brutto della mia vita, perché conclude il mio faticoso percorso attraverso tutto quello che è successo dal 28 maggio al 9 dicembre, giorno del mio ritorno in panchina.

Questa serata è magica perché mi restituisce il Senso. Scritto proprio così, con la S maiuscola.

Il Senso è che la vita ci mette davanti a tante prove che non sempre sono la conseguenza di un errore, di una mancanza, di una colpa. Come si possono spiegare razionalmente delle ingiustizie così grandi? Come possiamo superare certi dolori che ci tolgono il fiato? Forse solo facendo in modo che ci rafforzino e che ci insegnino a gustare appieno le gioie di ogni giorno, e non parlo solo di quelle professionali. Considerandole tappe di un processo di maturazione che non s’interrompe mai.

Dall’ingiustizia del calcioscommesse sono uscito più forte. Più maturo, più determinato. Sono un uomo diverso, che si è lasciato alle spalle la mediocrità di quanti hanno provato a trascinarlo nel fango e che guarda al domani a testa alta, desideroso di nuove sfide. Questa serata magica di calcio sul grande palcoscenico della Champions non mi ripaga dei momenti passati negli Sky Box, né mi restituisce i sorrisi che in questi mesi non ho regalato alle persone che amo, ma segna un punto a capo definitivo. Il futuro inizia oggi.

Non camminerò mai solo.

E ora andiamo in campo a vincere.

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Emergenza La piaga delle scommesse è enorme e il calcio finisce sempre più spesso nei tribunali
Giustizia sportiva, riforme urgenti
Processi veloci, nasce una Cassazione

Abolire gli arbitrati, la responsabilità oggettiva resta ma sarà rivista
Giudici volontari La Procura federale affronta 2.500
casi l’anno: l’anomalia è che tutti i giudici siano volontari
L'omessa denuncia Chi è a conoscenza di un illecito
non collabora con i magistrati per paura della sospensione
di ARIANNA RAVELLI (CorSera 08-05-2013)

FIRENZE — Tutti vogliono riformare la giustizia sportiva ma la concordia si sbriciola non appena si cerca di capire come. Cambiarla spetta al Coni che ne parlerà il 14 maggio durante la giunta («L'argomento è all'ordine del giorno», assicura il presidente Giovanni Malagò). In quell'occasione si analizzerà la bozza di riforma presentata dalla Figc. Perché è il calcio a finire più spesso in tribunale: ogni anno arrivano sul tavolo del procuratore federale Stefano Palazzi 2.500 procedimenti. Di fronte a questi numeri e alla serietà dei fenomeni che il pallone spesso deve affrontare (per esempio il business delle scommesse, «una giungla da 84 miliardi l'anno in Europa» su cui ha più volte lanciato l'allarme il procuratore di Bari Antonio Laudati), appare evidente come la prima cosa da cambiare sia la natura volontaria di chi si occupa di giustizia sportiva: servirebbero professionisti, pagati e a tempo pieno.

Riforme urgenti
Alcune delle critiche che si muovono alla giustizia sportiva (lenta, poco incisiva, a rimorchio di quella ordinaria) si ridimensionano se si pensa alle forze in campo e ai reali poteri di indagine (la Procura federale non può certo usare intercettazioni o obbligare un non-tesserato a rispondere). Premesso questo, sono molte le anomalie da risolvere. Nel febbraio 2012 il Coni ha emanato alcuni principi di riforma, non entrati in vigore, e molto contestati, come l'eliminazione del terzo grado e la celebrazione del secondo o davanti alla Corte federale o all'organo del Coni lasciando la scelta al ricorrente. Ma non si è mai visto che sia l'imputato a scegliersi il giudice, anche perché, al Tnas, il «pm sportivo» non c'è.

Il Tnas diventa Cassazione
È stato lo stesso Malagò a ribattezzare il Tnas «scontificio»: oltre 520 mesi di condanne depennati solo per il calcioscommesse sono più che un'anomalia. Sono un'assurdità, che rischia di screditare tutte le inchieste. Ma che al Tnas arrivino gli sconti è normale data la natura del tribunale, che è arbitrale. Decidono tre arbitri e lo scopo è quello di arrivare a una sorta di conciliazione. Ma l'assurdità sta nel fatto che sia consentito un arbitrato su certi temi e che ci si arrivi dopo due gradi di giudizio che sono già entrati nel merito. «Un terzo grado composto da un arbitro e non da un collegio di giudici non ha la stessa autorevolezza» ha spiegato Gerardo Mastrandrea, presidente della Corte federale al seminario organizzato a Coverciano da Unione stampa sportiva e Figc. Avrebbe più senso se la conciliazione si tentasse prima dei processi: ed è quello che si è cercato di fare con i patteggiamenti («E se qualche volta l'accordo non si trova — chiarisce Palazzi riferendosi al caso di Antonio Conte — è fisiologico»). La proposta della Figc è di abolire il Tnas, ma trasformare l'Alta corte (presso il Coni) in un organo di legittimità: come la Cassazione, non entra più nel merito, ma valuta se sono state rispettate le norme.

Più sconti a chi parla
I pm che si sono occupati di calcioscommesse sono d'accordo. «Chi non è coinvolto in un illecito — spiega Di Martino il pm di Cremona —, ma ne è venuto a conoscenza non collabora perché teme di essere colpito in sede sportiva dall'accusa di omessa denuncia». Su questo qualcosa già si è fatto: «Sono stati introdotti riconoscimenti per chi collaborava anche con i magistrati ordinari», chiarisce Palazzi. La strada è questa.

Le società pagano solo se...
Il punto più contestato, soprattutto dalle società che non vogliono pagare per tesserati (che, magari, hanno già inflitto un danno giocando per perdere), è la responsabilità oggettiva. Che non si tocca, perché prevista da Fifa e Uefa e perché da sempre considerata «il male minore», ma sarà rivista. Sentenza dopo sentenza, si è già modificata, creando difformità tra i primi casi (con società pesantemente colpite) e gli ultimi esaminati, quando si sono comminati 1 o 2 punti di penalizzazione. Cambierà ancora, ispirandosi (è la proposta Figc condivisa anche da Laudati) alla legge 231 sulla responsabilità di impresa: in sintesi le società devono dimostrare di avere al proprio interno meccanismi di controllo e prevenzione. Se provano di avere messo in atto tutto quanto possibile scatteranno attenuanti o addirittura non verrà comminata alcuna penalità. Non a caso, chiude Laudati, «le società meglio organizzate sono le meno colpite dalle scommesse».


Nel mirino i telefoni che portano alla A
di ARIANNA RAVELLI (CorSera 08-05-2013)

L'inchiesta della Procura di Cremona sul calcioscommesse non è ferma, ma prosegue tra mille difficoltà, non ultima la riorganizzazione dell'ufficio che imporrà l'accorpamento con la Procura di Crema (più lavoro, stesse forze). In ogni caso le indagini continuano. I famosi mister X e mister Y, gli uomini che erano in grado di fornire dritte su combine della serie A e che si facevano pagare anche 400 mila euro, sono stati ormai identificati. Resta però da approfondire la loro rete di contatti, anche per verificare una volta per tutte se comprende qualcuno dei nomi già coinvolti nell'inchiesta: per intenderci, gli accertamenti puntano a stabilire se ci sono stati — come pareva analizzando i tabulati telefonici — rapporti con Stefano Mauri, il calciatore della Lazio, già arrestato nel maggio 2012. Ma la svolta che sembrava imminente è stata rimandata. Un'interruzione ha subito anche il patteggiamento del principale pentito del calcioscommesse Carlo Gervasoni, ma è solo di natura organizzativa: bisogna trovare un giudice compatibile (non può essere Guido Salvini, che è stato quello delle indagini preliminari).


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One by one, those atop FIFA are falling
by ROB HUGHES (The New York Times 07-05-2013)

LONDON — When the 208 national associations of FIFA, the ruling body of soccer, meet in Mauritius at the end of this month, they should call upon their president, Sepp Blatter, to step down.

They will not do so because the associations feed upon the handouts that FIFA distributes from the profits it makes from World Cup tournaments. This system of paying each member country sustenance money in return for the votes that keep the leaders in office has been operated since João Havelange became FIFA’s president in 1974 and made Blatter his assistant.

Havelange, a Brazilian who turns 97 on Wednesday, is now discredited after he resigned from honorary positions with both FIFA and the International Olympic Committee. A Swiss court has finally ruled that he took millions of dollars in secret kickbacks from FIFA’s financial partners. Havelange ruled FIFA until 1998, when Blatter succeeded him.

Courts, reporters and even a self-appointed FIFA “ethics committee” are still uncovering endemic corruption, reaching all parts of the organization, all across the globe. The bigwigs of the ruling executive committee have fallen like flies: Havelange, his fellow Brazilian and former son-in-law, Ricardo Teixeira, the Paraguayan Nicolás Leoz, the Trinidadian Jack Warner, the Qatari Mohamed bin Hammam and the American Chuck Blazer.

All except Havelange, who by then was merely the honorary life president of FIFA, were on the ruling executive committee that decided the World Cups would be held in Russia in 2018 and Qatar in 2022.

Most departed claiming that ill health or advancing age prevented them from continuing. And both FIFA and the I.O.C. accept resignation as a way of drawing a line in matters involving tens of millions of dollars that evidence shows was diverted into private bank accounts.

During all of this, the Swiss courts and the FIFA self-investigators have exonerated Blatter from what was going on in the hierarchy. But it happened on his watch. He was Havelange’s right-hand man during the Brazilian’s rule, and with the aid of some of the now disgraced leaders, Blatter succeeded him in 1998, and he has kept on winning the vote for the presidency.

In the recent finding of the FIFA adjudication chamber that led to the removal of some of the top brass, a German court judge, Hans-Joachim Eckert went so far as to describe Blatter’s handling of the scandal as “clumsy.”

Blatter thanked the adjudicators and stated: “I note with satisfaction that this report confirms that ‘President Blatter’s conduct could not be classified in any way as misconduct with regard to any ethics rules.’

“I have no doubt that FIFA, thanks to the governance reform process that I proposed, now has the mechanisms and means to ensure that such an issue — which has caused untold damage to the reputation of our institution — does not happen again.”

On Monday, Blazer was provisionally barred by FIFA from all soccer-related activities for 90 days.

Blazer, who blew the whistle on alleged bribes to Caribbean soccer officials during the last FIFA presidential election, could be facing an Internal Revenue Service investigation, Reuters reported recently.

Blazer was known as “Mr. 10 Percent,” accused of taking a percentage of money from deals in the American and Caribbean regions; he now stands accused of embezzling as much as $21 million.

Blazer is a colorful character with a Santa Claus-type beard and has blogged of his friendly vacation travels with President Vladimir Putin of Russia, so he knows the avenues of power.

Blazer was elected chairman of FIFA’s Marketing and Television Advisory Board in November 2010, responsible for negotiating the incomes that reach into the billions during every four-year World Cup cycle.

It is this triangular and profitable arrangement — the sport, TV and sponsorships — that Havelange, a former Olympic swimmer, brought to FIFA and then to the Olympic Games, 40 years ago.

Throughout his terms in office, Havelange regularly threatened the livelihoods of journalists, myself included, for questioning the relationship between FIFA’s income and its governance.

When Blazer filled in the question-and-answer for his biography when he became a member of the executive committee, he wrote about his idol in the sport: “Not a player, a majestic symbol of elegance in our sport, Dr. João Havelange.”

The World Cup will be played in Havelange’s home country next year. But Havelange and Teixeira are no longer on the committees that run the sport in their country.

They are no longer welcomed in FIFA or Olympic circles. And they both cite sickness to avoid being questioned further about their roles in the finances of their game.

It is a familiar refrain: a resignation being tantamount to a pardon, with a little money paid back but much more unaccounted for.

FIFA has thrown overboard the aging and sick administrators blamed for the scandals. Blatter, the chief officer who knew nothing of their misdeeds, remains. His rule is faintly damned by the word “clumsy.”

But the only people who can decide if now is the right time to sweep away the whole administration that was involved, or ignorant, of the financial shenanigans are the delegates from the 208 countries, who are preparing for their congress in Mauritius.

They will, no doubt, applaud President Blatter’s cleanup campaign, and overlook any clumsiness in his past.

WORLD SOCCER | June 2013

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All’Allianz Arena si arriva in auto (il parcheggio è sotto lo stadio) o in metropolitana
Perché trionfa il calcio tedesco
Teppismo sconfitto, alla partita ci si va con la famiglia
di ROBERTO GIARDINA (ItaliaOggi 08-05-2013)

Quando gli amici tedeschi mi chiedono di che cosa mi devo occupare come corrispondente, rispondo: di tutto, economia, politica, cultura, e di quel che accade, di quel che al vecchio «Giorno» venivano definiti «i fatti della vita». Di tutto, tranne che di calcio. Quando un secolo fa, l’Inter venne in Germania per incontrare il Borussia Moenchengladbach (si trova nella Ruhr, 258mila abitanti), la redazione di Milano mi chiese di presentare quella squadretta dal nome impronunciabile. Osai scrivere che aveva un certo Günther Netzer, campione temibile. «Te l’abbiamo pubblicato, mi avvertirono, però si vede che di calcio non ne capisci nulla». L’Inter perse 7 a uno, una partita che rimase nella storia perché Boninsegna finse di svenire colpito da una lattina di Coca (vuota) e il risultato venne annullato. Episodio che ha contribuito a farci la fama di partner sleali e poco affidabili.

Di calcio continuo a non capirci nulla, infatti soffro per i rosanero del Palermo, però vorrei spiegare il trionfo della scuola tedesca. Il 25 maggio si incontrano i gialloneri del Dortmund e i biancorossi del Bayern München. Non importa chi vince, vincerà comunque la Germania. Non dipende da terzini e moduli, allenatori e allenamenti. Non solo. Dipende anche dalla società nel suo insieme. Gherardo, un mio amico professore universitario con doppio passaporto, italotedesco, e di fede interista, ha voluto condurre i due figli a San Siro. All’ arrivo in curva, uno degli autoproclamati tutori dell’ordine, lo ha ammonito: «Proprio qui li porti? Non è prudente». I posti numerati non valgono, vengono distribuiti dai capi del tifo organizzato. È finita bene.

Tempo fa, sono andato a vedere un Herta-Bayern. Sempre in curva. I tifosi erano mischiati, un bambino accanto a me ha gridato per 90 minuti con voce stridula «Herta Herta». Quelli della Baviera, a pochi metri, ridevano paternamente. Vinse l’Herta senza merito, e non accadde nulla. Gli stadi in Germania sono perfetti, li hanno rifatti in parte per i mondiali del 2006, noi nel 1990 sprecammo i soldi. L’erba è sempre verde, anche se d’inverno nevica e si scende a venti sottozero. Alla Tv vedo che San Siro è spelacchiato, altrove si gioca sulla sabbia, o sul fango. Alla partita, il sabato, ci si va con la famiglia. È una festa.

A vedere un Bayern-Milan, mi invitò la Bmw. All’Allianz Arena si arriva in auto, il parcheggio è sotto lo stadio, o in metropolitana. Dalla stazione si sale di piano in piano con scale mobili. Si può mangiare una pizza, o un würstel, bere birra o champagne. Alla fine, lo stadio si svuota in pochi minuti. Mia figlia mi invitò a vedere un Roma-Palermo, sfidando il marito tifoso giallorosso. Dovette parcheggiare a due chilometri. E lo Stadio Olimpico risale al 1953, ha solo 17 anni meno dell’Olympia Stadion costruito per Hitler nel ‘36. Credo che abbia speso una fortuna per i biglietti in tribuna. E dovetti mandarle per fax da Berlino la copia del mio passaporto perché potesse acquistare il mio. Questioni di sicurezza, ma in Germania gli hooligans li hanno ridotti alla ragione.
Per la cronaca, la Roma vinse con un goal propiziato da un raccattapalle che rimise il pallone in gioco direttamente, cosa vietata, ovvio. L’arbitro chiuse gli occhi. La mia squadra non ha protettori. Sarà un sospetto da tifoso?

A Dortmund, 380mila abitanti, lo stadio (78mila posti) è sempre esaurito. Quasi tutti abbonamenti. Quattro anni fa, il Club era quasi fallito per una ventina di milioni di euro. Comprarono giocatori giovani per pochi spiccioli, alcuni rifiutati dalle nostre società, e hanno poi vinto due titoli. A fine maggio magari saranno campioni d’Europa. Senza che sia intervenuto un mecenate, un Berlusconi o un Moratti. Il rivale Bayern guadagna una fortuna con il merchandising. Hoffenheim, paesetto di 5mila abitanti, è giunto in Bundesliga, la serie A, e ha rischiato di vincere il titolo. Ora sta per retrocedere, ma è normale.

Fanno sbagli a casaccio. Vince chi è più bravo, o qualche volta fortunato. Come avviene nella vita. E i miei colleghi giornalisti, quelli sportivi che sanno tutto, alla Tv o sul loro giornale riconoscono i torti della propria squadra, come ammettono gli errori del partito per cui votano. Dato che non sono un esperto, temo di non aver spiegato perché i Kickers, i calciatori di Frau Angela, dominano in Europa. Spero di aver spiegato in parte perché la sua Deutschland trionfa in economia. È sempre una questione di regole che vanno rispettate. I furbi possono vincere una partita, a Moenchegladbach o a Bruxelles, non vincono un campionato.

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VIOLENZE E CALCIO SCHIZOFRENICO
MOLTO VICINI
ALL'ULTIMO STADIO

di FABIO FINAZZI (CorSera - Bergamo 10-05-2013)

Il replay dell'infausta sfida Atalanta-Juve di mercoledì restituisce un'immagine del calcio italiano prossima alla schizofrenia. Memorabili le immagini di Conte che si precipita sotto la curva juventina con labiale e mimica inequivocabili: ma che, siete fuori di testa? Il carisma di mister Scudetto sembra avere il suo effetto. I tifosi si placano, la partita può ricominciare. Difficile però conciliare la mediazione apparentemente vincente con il rito di fine partita: Chiellini e compagni che corrono a omaggiare la curva. Ma come? Quelli al di là della barriera non erano gli stessi che poco prima strappavano (letteralmente) le mattonelle dei bagni per lanciarle come proiettili, tra un razzo e l'altro, ai tifosi avversari?

A Bergamo, si sa, vantiamo una lunga e ingloriosa tradizione di riverenze, soggezione, sottomissione (fate voi) agli estremisti della curva. Con giocatori nerazzurri ben titolati che si sono sentiti in dovere di fare l'inchino in casa propria a ultrà finiti agli arresti domiciliari. Del resto abbiamo perfino assistito di recente, in occasione dei funerali di Ivan Ruggeri, all'omelia dal pulpito del loro capo, Claudio Galimberti. Intendeva, il Bocia, rendere omaggio al nemico di un tempo. Quel presidente, uno dei pochi, forse l'unico in Italia, che il tifo violento ha provato a combatterlo per davvero. Nobile gesto. Ma a un nemico si rende onore se lo hai affrontato lealmente. E a noi non sono mai parsi molto leali l'assalto al centro di Zingonia, oppure l'assedio di ore all'uscita della Trattoria D'Ambrosio, dove Ruggeri stava tranquillamente cenando. Quanto ai funerali, il bello è che il gran capo ultrà ha pure strappato l'applauso e qualche luccicone.

Ora non c'è nulla di più patetico che cercare di stabilire chi è il più colpevole della Caporetto di mercoledì. Se gli atalantini che hanno atteso il nemico per tendergli agguati qua e là in città. Con il corollario di un'incidentale bottigliata in testa, rimediata da una tranquilla mamma alla sua prima (e ultima) esperienza da spettatrice con figli al seguito. Oppure gli altri, che si sono vendicati scatenando la Bosnia in curva. C'è piuttosto da chiedersi se non è stato da ingenui (eufemismo) allentare la linea dura che vietava la trasferta alle tifoserie più focose. E c'è da risolvere una volta per tutte un altro decisivo paradosso: come è possibile che il padre di famiglia sia sottoposto a severissimi controlli per impedire che si porti alla stadio una bottiglietta d'acqua, mentre gli ultrà riescono sistematicamente a introdurre una santabarbara di botti e altre armi improprie?

La risposta è urgente. Ieri le redazioni dei giornali e dei siti bergamaschi sono state inondate di lettere. Quasi tutti padri di famiglia di cui sopra. È la famosa maggioranza silenziosa. Subisce senza protestare, ma quando decide di dire la sua usa parole definitive: «Mai più al Comunale». Bene, bisogna decidere in fretta da che parte stare. La schizofrenia che affligge il calcio rischia di avere una prognosi infausta: stadi deserti o al massimo abitati da fantasmi armati di bengala e mattonelle appuntite.


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Il Mattino 10-05-2013

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Quando le star dribblano
IL FISCO
Ultimo caso Flavia Pennetta: sportivi e attori creano società di

comodo per pagare meno tasse. Ma non sempre il giochetto funziona
IL TRUCCO: CEDERE ALLE MINI-HOLDING CONTROLLATE

DA LORO STESSI I DIRITTI DI SFRUTTAMENTO DELL’IMMAGINE
SPULCIANDO NEI CONTI, L’AGENZIA DELLE ENTRATE

HA SCOPERTO CHE TOTTI, CAPELLO E TOMBA...
di GIANFRANCESCO TURANO (l'Espresso | 16 maggio 2013)

Ai prossimi Internazionali d'Italia, che debuttano sabato 11 maggio, Flavia Pennetta avrà un problema in più. Oltre alle avversarie e a un polso che la tormenta da mesi, la brava tennista dovrà fare i conti con i detective dell'Agenzia delle entrate. Gli uomini di Attilio Befera puntano al Grande Slam contro sportivi e artisti dalla fiscalità esitante. È il caso della campionessa brindisina che si divide fra la residenza in Svizzera, la base per gli allenamenti a Barcellona e un 730 da dannata della terra in patria.

Per le prossime settimane sono in vista nuove manovre di recupero crediti contro le celebrities. Le vanno a prendere una ad una, senza il clamore scenico di anni fa, quando Luciano Pavarotti veniva trascinato in tribunale per saldare il conto a quota 25 miliardi di lire e Valentino Rossi dichiarava nemico del popolo in conferenza stampa a Pesaro dopo avere scucito 35 milioni di euro.

Lo stile Befera è diverso da quello dei suoi predecessori. Oggi i Marlowe dell'Erario presentano il conto e propongono un accordo assai bonario: pochi maledetti e subito in cambio di discrezione. È andata così con il nazionale brasiliano Kakà che ha chiuso il contenzioso per le sue stagioni al Milan a quota 2 milioni di euro, come già rivelato da "l'Espresso".

Il sistema del pagamento senza gogna è stato adottato con altri calciatori come l'ex juventino David Trezeguet e il capitano del Torino Rolando Bianchi, vittima di distrazione al tempo della sua breve apparizione in Premier League con la maglia del Manchester City.

Per il dolo, ci sono le Procure della Repubblica e lì è più difficile evitare la pubblicità negativa. Insomma, il pm non ammette ignoranza. L'Agenzia delle Entrate a volte sì, purché si paghi. Le tariffe sono umane perché in tempi di vacche magre bisogna venirsi incontro.

I bersagli recenti della campagna di recupero crediti fiscali hanno un denominatore comune che si chiama "Star company". È la holding personale inventata per gli uomini di spettacolo e adottata dagli atleti via via che gli sport professionistici diventavano parte integrante dello show business con guadagni sempre più alti non solo dagli ingaggi ma soprattutto dai contratti di sponsorizzazione e dalle campagne pubblicitarie.

I furbetti del palloncino hanno organizzato mini-holding controllate da loro, in modo di cedere a se stessi i diritti di sfruttamento della propria immagine con un vantaggio fiscale evidente. Una società di capitali è tassata al 27,5 per cento più Irap. Una persona fisica, dopo vent'anni di slogan berlusconiano meno tasse per tutti, è salita a quota 45 per cento.

Visto che le controversie sulle star company si impantanavano in ricorsi legali infiniti, il fisco ha deciso di applicare alcuni principi semplici. Se la società del divo è una scatola vuota (shell company), ossia se è stata creata solo per la cessione e la gestione dei diritti di immagine, scatta la sanzione. Nel caso di Kakà si è stabilito che la sua Tamid sport & marketing esisteva esclusivamente per incassare i soldi delle campagne pubblicitarie per i biscotti Ringo.

Altri casi si sono conclusi senza conseguenze. Le capogruppo personali di Alessandro Del Piero (Edge), di Gigi Buffon (Buffon & co) o di Andrea Pirlo (Ap sport service) hanno stati patrimoniali rimpolpati da immobili, partecipazioni finanziarie in società quotate come la Zucchi per il capitano della Nazionale o, a volte, attività industriali come l'acciaio per lo juventino Pirlo.

È sorto qualche dubbio che il settore abbigliamento casual, molto alla moda nei primi anni Duemila, fosse una forma di copertura, ma la bancarotta di Bobo Vieri e Cristian Brocchi con la Baci&Abbracci ha, paradossalmente, segnato un punto in favore della buona fede fiscale.

Qualche incertezza di interpretazione in più si può avere su società come la Numberten di Francesco Totti che, oltre ai diritti d'immagine, presta generici servizi di consulenza, comunicazione e organizzazione eventi.

Ad agevolare la situazione dei campioni italiani che si esibiscono in Italia c'è il fatto che, per loro, anche la star company non comporta vantaggi economici ma solamente finanziari. Infatti, al momento della distribuzione al socio dei dividendi accumulati, scatta un conguaglio che grosso modo comporta l'allineamento dell'aliquota. Se lo sportivo è vicino a fine carriera, il vantaggio finanziario è marginale al contrario di un atleta giovane che può lucrare gli interessi anche per dieci anni prima di distribuirsi i profitti e pagare il conguaglio all'erario.

La questione al centro della battaglia tra fisco e star restano i redditi dei divi che si dicono residenti all'estero o controllano società oltre il confine.

Fabio Capello si è inguaiato così, con i 16 milioni di euro di incassi della sua lussemburghese Sport 3000, amministrata da Achille Severgnini, rampollo della famiglia che gestisce la Finsev, la società tornata di recente all'attenzione delle cronache con la pubblicazione degli elenchi delle società offshore su questo giornale. L'attuale commissario tecnico della Russia ha chiuso con una transazione da 5 milioni di euro.

Il manuale dell'esterovestizione, la moda di piazzare la star company oltre i confini lanciata da Diego Armando Maradona con esiti infausti, presenta molte versioni. Negli annuari riservati degli specialisti ha fatto epoca in senso positivo la pianificazione fiscale di Ronaldo, non il portoghese impomatato ma il Fenomeno di Rio. Sul versante opposto, sfiorava la circonvenzione di incapace il tax planning di Alberto Tomba, la Bomba, tutto made in Switzerland. Per i mancati versamenti degli anni Novanta, il campione di slalom ha dovuto pagare 7,5 miliardi di lire.

«Ormai all'esterovestizione ci credono solo gli sportivi sudamericani più sprovveduti», dice un esperto dietro garanzia di anonimato: «I fiduciari svizzeri, poi, è vero che chiedono poco, il 10 per cento fisso sul tuo risparmio fiscale. Ma il cliente si carica il 100 per cento del rischio. Se vuoi fare le cose bene, devi andare a Londra o a New York».

Tuttavia evadere è umano, troppo umano. E quasi mai un grande talento artistico o sportivo si accompagna a lauree e master in diritto tributario.

Così chi è colto in fallo nel quadro RW del Modello Unico, dove si dichiarano i proventi di investimenti e attività finanziarie estere, viene colpito con sanzioni fra il 5 e il 25 per cento se il paese estero non è nella lista nera dei paradisi fiscali. Diversamente, la multa raddoppia e varia fra il 10 e il 50 per cento.

Chi non ha fiducia nel fiduciario svizzero o londinese spesso si appoggia al suo agente. Molti procuratori sportivi forniscono servizi fiscali che includono sponde all'estero. Il vero problema per l'Agenzia delle entrate è inseguire i passaggi successivi al pagamento di una fattura. Se quei soldi finiscono in un paradiso offshore, si tenta di tassarli attraverso la cooperazione internazionale, che funziona in modo ancora troppo discontinuo. Può aiutare, in queste circostanze, l'intervento della magistratura.

Uno dei casi finiti in mano al giudice penale è quello della monegasca P&P Sport Management della famiglia Pastorello, una vera dinastia del calcio italiano con il padre Gianbattista presidente del Verona ai tempi del controllo occulto di Calisto Tanzi, la moglie e i figli Andrea e Federico. Proprio il figlio maggiore Federico, agente Fifa e rappresentante di molti calciatori da Nazionale come Giuseppe Rossi (Fiorentina) e Antonio Candreva (Lazio), è finito sotto inchiesta per un'evasione da 18 milioni di euro per servizi e prestazioni svolte in Italia ma dichiarati a Montecarlo.

Che poi Federico Pastorello sia il procuratore preferito del presidente più amico di Befera, il laziale Claudio Lotito, è un paradosso molto italiano.

La caccia al possibile ladro erariale ha inquadrato anche bersagli molto grossi e piuttosto esotici come George Clooney e Gwyneth Paltrow. Purtroppo per gli esattori, la pretesa era infondata. In primo luogo, le campagne pubblicitarie dei due attori per Martini riguardavano un marchio dal nome italiano acquisito vent'anni fa dal gruppo multinazionale Bacardi. In secondo luogo, non erano girate in Italia. Infine, anche se allora Clooney trascorreva una parte dell'anno in una villa sul lago di Como, era difficile sostenere che usufruisse dei benefici del welfare italiano. Così non c'è stato verso di applicare ai due divi di Hollywood l'articolo 53 della Costituzione per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Fra l'altro, gli Stati Uniti basano il prelievo fiscale sul criterio della cittadinanza. Cioè tassano i loro cittadini qualunque reddito abbiano prodotto in qualsiasi angolo del globo, salvo accordi bilaterali con altri Stati e arbitrati internazionali su posizioni individuali dove il temuto Irs (Internal revenue service) statunitense è abituato a giocare la parte del leone nei confronti degli omologhi stranieri.

Per gli italiani vige ancora la residenza ma anche qui le strategie di attacco anti-evasione si sono affinate. Una volta valeva la regola dei 183 giorni: risiedeva all'estero chi ci viveva per almeno metà anno. Per non farsi scappare gli sportivi itineranti, come tennisti o piloti, il principio è stato corretto con il centro degli interessi: la famiglia o gli amici. Se si trovano in Italia, il divo deve pagare le tasse in Italia. Può costare cara persino l'iscrizione al circolo delle bocce o, come nel caso di Valentino Rossi, una bicchierata di troppo con i compagni di scuola al bar di Tavullia. Il fisco è davvero uno sport violento.

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SPORT 11-05-2013

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In 1 numero

di MATTEO DORE (SPORTWEEK | 11 maggio 2013)

Nello sport non esiste nessuna Befana che passa a portarsi via le feste, ma si continua a gioire per giorni, settimane, mesi, fino all’inizio del campionato successivo e a volte nemmeno quello basta a fermare celebrazioni e festeggiamenti. Gli juventini stanno vivendo da mesi il loro perfetto stato di grazia e domenica scorsa hanno nuovamente invaso le piazze non solo di Torino, ma di tante città italiane. Tutti, ma proprio tutti, avevano una bandiera o una maglietta o si erano scritti in faccia quel numero che oggi è il centro di gravità permanente del loro essere: 31. Era, come si scrive nelle cronache, il popolo bianconero.

Il concetto moderno di nazione nasce più o meno a fine Settecento e si impone nel secolo successivo. Secondo gli storici perché si possa parlare di una nazione devono esserci delle caratteristiche ben precise (questo elenco è quello pensato da Anne-Marie Thiesse nel suo libro La creazione delle identità nazionali in Europa): una storia che stabilisca la propria continuità attraverso le epoche; una serie di eroi; una lingua; un folklore; un certo numero di monumenti culturali e luoghi della memoria; una mentalità particolare con identificazioni pittoresche: costume, specialità culinarie o anche un animale emblematico.

Proviamo ad applicare questi parametri al mondo dei tifosi? Sembrano studiati apposta. In un Paese come l’Italia che da sempre è diviso su tutto e non ha memoria condivisa (dal Risorgimento alla Resistenza) il calcio ha una capacità di aggregazione sconosciuta a qualsiasi altra entità. Fino ad arrivare al paradosso che, se si chiede a una persona di definirsi con un solo aggettivo, rischia di essere più facile sentirsi rispondere juventino (o milanista o interista o romanista) che italiano o in altro modo. Una volta poteva andare forte l’identità politica (comunista/democristiano/fascista), oggi nemmeno più quello.

Nella matematica juventina quel +2 “sul campo” è diventato un simbolo aggregante come null’altro. Fa identità, divide gli amici dai nemici, è la parola segreta per essere ammessi nella comunità. Il +2 è divenuto il simbolo della JuveNation. Purtroppo è diventato un emblema così forte che difficilmente si potrà perdere per strada perché a questo punto abdicare signifcherebbe tradire. Così come gli altri, gli avversari, non potranno mai riconoscerne la legittimità perché equivarrebbe a una resa. Però non si può nemmeno vivere sempre in guerra, anche i nazionalismi hanno trovato un modo di adattarsi al tempo e di trovare compromessi con i vicini, magari rinunciando a esibire ogni volta i simboli più divisivi. Potrà accadere anche nel calcio?

Comunque, buon trentunesimo scudetto a tutti gli abitanti di JuveNation. A tutti gli altri, a quelli che credono alla matematica ufficiale e pensano che gli scudetti bianconeri siano 29, l’invito a darsi da fare perché il prossimo maggio la nazione in festa sia un’altra. E non si discuta solo di 30 o 32.

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L’intervista «Difficile vietare la trasferta dei bianconeri, molti sono lombardi. L’anno prossimo decideremo con attenzione»
«Attenti al ritorno dei diffidati»
Massucci (Viminale): Daspo in scadenza, segnali dagli scontri
Bergamo è migliorata, prima era la piazza peggiore
Il modello tedesco prevede dialogo ma anche linea dura

-20% Gli incidenti nel 2012/13 Rispetto al 2011/12 incidenti in calo.

La passata stagione i feriti (in A, B e Lega Pro) erano stati 120, 939 nel 2004/2005
di SIMONE BIANCO (CorSera - Bergamo 11-05-2013)

Gli incidenti di Atalanta-Juventus hanno rovinato una serata che aveva tutto per essere una festa del calcio, lasciando un segnaccio su una stagione che il Comunale aveva vissuto senza grandi problemi. Roberto Massucci, oltre ad essere il responsabile della sicurezza della Nazionale di calcio, è vicepresidente operativo dell'Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, organismo del Ministero dell'Interno che analizza il fenomeno della violenza attorno al calcio e studia strategie per combatterla.

Già nel 2012 scontri e lanci di oggetti. Perché anche quest'anno gli juventini sono stati fatti venire a Bergamo?
«Quelli di Atalanta-Juventus sono fatti molto gravi ma vanno contestualizzati: è stata una stagione positiva, in particolare a Bergamo. Quello che è successo comunque non va sottovalutato. Nella tifoseria atalantina c'è qualche Daspo in scadenza, abbiamo l'impressione che ci sia stata la volontà di farsi sentire. La tifoseria juventina invece è molto particolare, sparsa in tutta Italia e con due gruppi ultrà storici, uno dei quali lombardo, i Viking. È più difficile controllare gli spostamenti di tifosi che magari abitano nella stessa provincia in cui si tiene la trasferta».

Il forte calo degli scontri, dopo la morte di Gabriele Sandri nel 2007, coincide con un periodo in cui le trasferte erano state vietate. Perché non proseguire su quella linea?
«Dopo quella fase le cose sono cambiate, le trasferte sono state reintrodotte, insieme alla creazione della tessera del tifoso. Va anche garantita la libertà dei cittadini di assistere alle partite».

Ci si può aspettare che ai tifosi della Juve il prossimo anno non sia consentita la trasferta a Bergamo?
«È presto per dirlo. Di sicuro questa partita l'anno prossimo andrà preparata molto bene, le scelte saranno ponderate con attenzione».

A che punto è oggi la curva atalantina nella classifica della pericolosità in Serie A?
«Diciamo che per diversi anni la tifoseria atalantina è stata prima in classifica. Oggi le cose sono molto cambiate, come dimostra il fatto che quelli con la Juventus sono stati i primi fatti gravi di quest'anno. Va dato atto del lavoro fatto dalle forze dell'ordine e dalla società per migliorare la situazione. Sappiamo anche che molti dei violenti prima stavano dentro lo stadio e oggi, sottoposti a Daspo, stanno fuori. Ma sappiamo anche che i Daspo finiscono e queste persone potrebbero tornare allo stadio».

È stato un campionato positivo sul piano dell'ordine pubblico?
«Sì. Rispetto all'anno scorso, già positivo, c'è stato un calo del 20% di tutti gli indicatori, cioè numero di feriti e di partite con scontri. Qualche anno fa passavo i fine settimana al telefono per fermare trene e ricevere notizie di autogrill sfasciati, oggi le cose sono migliorate».

Qualche episodio di razzismo e di violenza hanno macchiato invece l'annata della Juve. Questo dimostra che non basta rifare lo stadio per cambiare i tifosi.
«No, è chiaro. Però lo Juventus Stadium è un modello da salvaguardare, che rispetta criteri europei e funziona bene».

Mentre garantire l'ordine pubblico a Bergamo, che ha lo stadio più vecchio della A, è più difficile?
«Sì, lo stadio vecchio non aiuta perché mancano gli spazi e i servizi adatti. Gli ambienti condizionano i comportamenti».

Il calcio tedesco vince e ha stadi sempre pieni. È quello il modello da seguire?
«In Germania le cose funzionano meglio perché ci sono stadi nuovi ma in questa fase ci sono anche problemi di ordine pubblico più gravi rispetto all'Italia, che stanno portando a interventi drastici. Tanto è vero che in alcuni stadi sono tornate le barriere di plexiglass per separare le curve. In generale però il dialogo e la mediazione con i tifosi funzionano».

I tedeschi come trattano con gli ultrà?
«Un esempio è quello del Borussia Dortmund: la società è disposta a smontare i seggiolini della curva per permettere ai tifosi di seguire le partite di Bundesliga in piedi. Per rispettare le regole Uefa però i seggiolini vengono rimontati in occasione di ogni partita internazionale. È un accordo che funziona perché c'è dialogo da entrambe le parti, così nei tifosi cresce l'identificazione e il senso di responsabilità verso il club».

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CORRIERE DEL MEZZOGIORNO

NAPOLI 12-05-2013

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EXTRATIME 14-05-2013

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FERMATI DALLA DIGOS DI TORINO DOPO 4 MESI DI INDAGINI

Tentato omicidio allo stadio

Manette a due ultrà granata

Al derby pestarono un uomo perché indossava la sciarpa della Juve

Fratture a zigomi, naso e mascella: l’uomo è vivo ma ha riportato lesioni permanenti

di CLAUDIO LAUGERI & MASSIMO NUMA (LA STAMPA 14-05-2013)

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«Vile pestaggio». Il capo della Digos Giuseppe Petronzi non fa giri di parole per descrivere l’aggressione avvenuta prima del derby del 1° dicembre a R. C., 46 anni, residente in zona Mirafiori. La sua unica colpa: indossare una sciarpa bianconera. La polizia ha indagato per quattro mesi, ieri è riuscita a mettere le manette ai polsi dei due aggressori: sono Francesco Rosato, 26 anni, di Moncalieri, e Domenico Mollica, di 30, residente a Druento, entrambi ultras granata. Sono stati i pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino a ordinare il fermo per tentato omicidio e lesioni personali gravi. E proprio davanti al pm Padalino, ieri pomeriggio i due aggressori hanno confessato. Mollica (andrà agli arresti domiciliari) aveva incominciato con un calcio, che aveva appena sfiorato il tifoso bianconero; Rosato (resta in carcere) aveva esordito con un pugno in pieno viso e si era accanito a calci. «Il pestaggio è stato di una violenza inaudita, i due arrestati e altrettanti complici (la Digos indaga ancora) hanno preso a calci in faccia quell’uomo anche quando era a terra, privo di sensi» aggiunge il capo della Digos. Hanno persino utilizzato cinture come fruste, oppure arrotolate sui pugni, con la fibbia in evidenza. I colpi gli hanno distrutto la bocca, spaccato zigomi, naso e mascella. L’uomo è stato operato nel reparto di chirurgia maxillo-facciale del Cto. La prognosi di 12 giorni (dopo una settimana di ricovero prima dell’intervento) non fa capire la gravità delle ferite. Ha l’arcata dentale rifatta, placche di titanio nella testa, non riesce più a chiudere la bocca. E poi c’è la devastazione psicologica. Tutto perché indossava la sciarpa della squadra rivale. R.C. non fa parte di tifoserie organizzate, gli piaceva andare alla partita. Era solo, guardava da un’altra parte, il «branco» ne ha approfittato.

L’aggressione è avvenuta nell’«Area 12». Il gruppetto di ultras si è staccato dal corteo granata che percorreva via Druento e strada Altessano. Il pestaggio è avvenuto sotto lo sguardo di almeno due telecamere. Gli specialisti della Sezione investigativa e della Squadra tifoserie della Digos hanno guardato decine di volte quelle immagini, confrontate con quelle girate dalla Polizia Scientifica. E il lavoro non è ancora finito. Ieri mattina gli agenti della Digos hanno fatto altre due perquisizioni. Il cerchio si stringe attorno agli altri due aggressori. Gli investigatori sanno bene che il loro lavoro ha soltanto «minimamente rimediato» alle conseguenze di quell’aggressione, come sottolinea Petronzi.

La moglie di R.C. è infermiera, non ha molta voglia di parlare: «Abbiamo saputo che li hanno arrestati. Complimenti a polizia e magistratura, sapevamo che le indagini erano a buon punto. Che dire? Siamo contenti». Ma il tono non è convinto sino in fondo: «Speriamo che in galera ci restino a lungo e non li facciano uscire subito, come è purtroppo accaduto per tanti casi simili al nostro e anche più gravi». Suo marito è tornato al lavoro? «Più che al lavoro pensiamo alle terapie da sostenere per arrivare alla guarigione». Questi sono stati mesi difficili, tra operazioni e ricoveri. E tanta sofferenza. E la solidarietà dai tifosi del Toro? «Qualche giorno dopo il ferimento, qualcuno della società s’è fatto vivo, per dissociarsi da quelle persone. Ma dopo, non abbiamo mai più sentito nessuno».

L’aggredito ora non vuole parlare: “C’è un indagine, so qual è il mio ruolo e lo rispetto”

“La sciarpa della Juve spuntava appena

è bastato quello per farli scatenare”

Siamo contenti che abbiano preso i responsabili del pestaggio ma non vogliamo vendetta

Ricordo un ragazzo con un cappellino scuro che mi ha riconsegnato gli occhiali e il berretto. Mi ha pure chiesto scusa

di MEO PONTE (la Repubblica - Torino 14-05-2013)

Non parla Renato Croveri. Nemmeno per descrivere le sue condizioni di salute. Dice soltanto: «C’è un’inchiesta in corso, so qual è il mio ruolo e lo rispetto ». Dicono che abbia paura di ritorsioni, che gli ultrà del calcio abbiamo il potere di incutere più timore della mafia. La moglie sospira: «Siamo contenti che abbiano preso i responsabili del pestaggio ma non vogliamo vendetta, soltanto giustizia». Sono persone per bene i coniugi Croveri. Per questo è ancor più sconcertante quello che gli è accaduto. Ed ecco il racconto che Renato Croveri, assistito dall’avvocato Davide Fichera, fece alla polizia l11 gennaio 2013, un mese dopo l’aggressione, di quella sera nel parcheggio dello Juventus Stadium. «Sono un tifoso della Juve e ho un abbonamento allo stadio ma non faccio parte di nessun gruppo di tifosi o di circoli ultrà. Vado alla stadio per conto mio, al massimo con il mio amico Roberto...» aveva spiegato l’impiegato.

«Quella sera dopo aver parcheggiato l’auto in strada Altessano mi sono avviato verso lo stadio — aveva continuato — quando sono arrivato nei pressi del centro commerciale, l’Area 12, ho visto un bel po’ di tifosi granata. Li ho riconosciuti da come erano vestiti e per i colori che indossavano. Stavano andando nella direzione opposta alla mia. Ricordo che alcuni di loro si sono staccati dal gruppo, sono entrati nel parcheggio e hanno iniziato a inveire contro una persona che stava sistemando i sacchetti della spesa nel bagagliaio della sua auto. Almeno uno di loro brandiva una cintura, facendola roteare».

Croveri cammina veloce verso lo stadi,o ma è troppo tardi, il branco lo ha avvistato. «Indossavo una sciarpa con i colori bianconeri che fuoriusciva dal giubbotto. Mi sono accorto di avere di fronte a me un altro gruppo di tifosi granata e in particolare uno di loro che era vestito di scuro, completamente mascherato e con una cintura arrotata in mano — aveva spiegato agli agenti — è l’ultima immagine che ricordo nitidamente. Nell’istante successivo sono stato aggredito e colpito».

L’impiegato cade a terra, gli aggressori però continuano a picchiarlo. «In faccia soprattutto », ricordava. Ha anche una parola buona per chi, forse schifato da tanta violenza, cerca di aiutarlo. «A causa delle percosse non ho memorizzato le fasi dell’aggressione però ricordo un ragazzo con un berretto scuro da cui si intravedevano dei cappelli ricci che mi ha riconsegnato gli occhiali e il cappello che mi erano strati strappati durante l’aggressione e si è scusato per quello che accaduto. Non so se anche lui avesse partecipato al mio pestaggio» ha raccontato alla polizia.

Per poi concludere: «L’ultima cosa che ricordo è che dopo l’aggressione mi sono diretto verso una fontana, perdevo sangue a fiotti, ma non mi rendevo conto della gravità delle mie condizioni. Qualcuno vedendomi in quello stato ha chiamato l’ambulanza. Prima di andare all’ospedale ho pregato qualcuno di avvisare mia moglie...».

LE INDAGINI IL TIFOSO MASSACRATO A DICEMBRE PRIMA DEL DERBY DI ANDATA

Preso il terzo ultrà del pestaggio

Il giovane di 25 anni confessa al pm: «Sì, c’ero. Ho fatto una sciocchezza»

di CLAUDIO LAUGERI & MASSIMILIANO PEGGIO (LA STAMPA 15-05-2013)

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E tre. Dopo Francesco Rosato, 26 anni, di Moncalieri, e Domenico Mollica, di 30, residente a Druento, ieri è toccato a Daniele Tantaro, 25 anni, magazziniere, individuato già lunedì sera, ma portato in procura soltanto ieri pomeriggio.

Tentato omicidio

Per tutti, il reato ipotizzato è tentato omicidio, aggravato dai futili motivi. Gli agenti della Digos sono arrivati a lui come agli altri due ultras granata e complici del pestaggio a R.C., 46 anni, prima del derby del 1° dicembre nell’«Area 12», vicino allo «Juventus Stadium». Con loro c’era almeno un altro aggressore, che ha preso a calci in faccia il tifoso bianconero. Poi, un altro ultrà ha infierito con un’asta contro l’uomo a terra. Gli investigatori coordinati dal dirigente Giuseppe Petronzi hanno vari elementi per arrivare anche a quei due. È questione di tempo.

Individuato dai vestiti

Il giorno del pestaggio, Tantaro indossava un giubbotto scuro, una felpa granata, una sciarpa e un paio di scarpe da ginnastica «Nike» bianche. Soltanto quelle sono rimaste, sequestrate già lunedì sera dagli agenti della Digos. Tantaro negava, diceva di aver venduto il giubbotto tempo fa e gettato la felpa in un cassonetto soltanto ieri mattina, dopo aver visto la notizia degli arresti in televisione. Ma non ha saputo indicare in quale cassonetto, nemmeno la zona.

Portato in questura

Ieri mattina, gli investigatori sono tornati a casa sua e lo hanno portato in questura. Hanno spiegato che avevano molti elementi, compreso il calcio sferrato di sinistro, una sua caratteristica. A quel punto, ha ammesso: «Sì, è vero, c’ero anch’io». Nel pomeriggio, è stato interrogato dal pm Andrea Padalino. «Non ho mai picchiato prima allo stadio, è stata una situazione improvvisa. Ho dato un calcio, ho colpito d’istinto, ma non volevo certo uccidere. Mi rendo conto di aver fatto una stupidaggine» ha detto, assistito dall’avvocato Marco Moda.

Interrogati i due complici

Per gli altri due arrestati, ieri è stata la giornata degli interrogatori davanti al giudice Roberto Ruscello. Entrambi hanno ammesso. «Il mio cliente sostiene di aver seguito gli altri, di non essersi reso conto, allora. Adesso è diverso, sa di aver commesso un grave errore» spiega l’avvocato Enrica Gilardino. Una ricostruzione un po’ diversa da quella degli investigatori, confermata dalle immagini. Secondo Digos e procura, è stato Mollica ad avviare l’aggressione, con un calcio che ha appena sfiorato il tifoso bianconero. Lui ha risposto con un pugno, che ha colpito un ultrà granata armato di cinghia. A quel punto, interviene Rosato con un calcio destro e butta a terra R.C.. Poi, arriva Tantaro e sferra un sinistro, seguito dalla cinghiata dell’ultrà che voleva restituire il pugno ricevuto. Quando il tifoso bianconero è ormai senza forze, infierisce un altro granata, che lo colpisce con un’asta. Le conseguenze: faccia devastata, placche di titanio in testa, una mascella che non potrà mai più masticare come prima. Il giorno del pestaggio, Mollica e Tantaro erano assieme in un bar, prima di salire sul bus per piazza Stampalia e di avviarsi verso lo stadio. Tutto filmato. Botte comprese.

la Repubblica

Torino 16-05-2013

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MARCA 14-05-2013

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Regole nel pallone Partite sospese per i «buu», non per gli insulti al Mezzogiorno
Se il sistema-calcio condanna i cori razzisti
contro Balotelli ma non quelli anti-meridionali

di GIMMO CUOMO (CORRIERE DEL MEZZOGIORNO 15-05-2013)

Indignazione a corrente alternata. Vesti (giustamente) stracciate e sanzioni esemplari per i «buu» e i cori razzisti indirizzati dagli ultrà della Roma all'attaccante del Milan e della Nazionale Mario Balotelli. Multa di cinquantamila euro alla società giallorossa, una discreta stangata, giudicata, tuttavia, una pena troppo leggera dal quasi onnipotente presidente della Fifa Joseph Blatter che ha promesso di chiamare le federazione italiana per farsi sentire. Ma non sempre, anzi quasi mai, la stessa esplicita riprovazione segue analoghe manifestazioni xenofobe nei confronti del Sud e dei meridionali. Gli striscioni e gli incitamenti canori allo «sterminator Vesevo» a fare il proprio dovere sono diventati un classico di certi scontri tra squadre del Nord e del Sud. E farebbero addirittura sorridere se non alimentassero in ogni caso i germi dell'odio tra italiani di diverse latitudini. Talvolta c'è chi risponde con civilità. È il caso dei tifosi della Juve Stabia che appena sabato scorso hanno opposto agli insulti degli ultrà del Verona uno striscione con il golfo di Castellammare (il celebrato, fin dall'antichità, sinus stabianum) visto dalle pendici del Monte Faito e il Vesuvio sullo sfondo: «Verona ammira i nostri colori», hanno scritto. Ma quando s'inizia a tollerare, a giustificare, a soprassedere accade sempre che si inneschi un circolo vizioso e che, alla fine, distinguere il torto dalla ragione diventa impossibile. Al termine della partita, infatti, qualche scalmanato ha pensato di vendicare gli insulti veronesi con il lancio di sassi contro il pullman degli scaligeri, blitz sventato con prontezza e determinazione dalla forze dell'ordine, anche se comunque si è sfiorata la tragedia quando un'anziana donna è finita a terra nel parapiglia.

Ma razzismo e xenofobia non corrono soltanto sull'autostrada del Sole. Spesso, infatti, caratterizzano anche le manifestazioni di tifoserie «limitrofe». E qui gli esempi si sprecano. «Noi non sia-mo na-po-le-ta-ni», si sente scandire ai tifosi della Salernitana per prendere le distanze dai supporter azzurri e, più in generale, dalla napoletanità, salvo poi verificare durante le trasferte a rischio, leggi appunto Verona, che, per i tifosi dell'Hellas, campani e napoletani sono praticamente sinonimi. Altro eclatante esempio di razzismo calcistico intraregionale si riscontra in Puglia. Due anni fa, durante la stagione calcistica 2010-2011 si disputò per l'ultima volta in serie A il derby tra le due squadre più blasonate, vale a dire il Bari e il Lecce. All'inizio di maggio si sarebbe giocato il derby di ritorno al San Nicola: i galletti biancorossi erano già aritmeticamente retrocessi in B, mentre i giallorossi salentini erano ancora in corsa per la salvezza. Ebbene, nei giorni precedenti, su un forum online i tifosi baresi si interrogarono sull'obbligo della propria squadra del cuore di giocare alla morte o di disputare una partita normale. Legittime certamente le opinioni di chi sosteneva che un derby va sempre e comunque giocato con particolare grinta. Singolari, anzi inquietanti, le motivazioni addotte a sostegno. «Salento is not Puglia», lo slogan partorito dai tifosi. E via il campionario del piccolo razzista. Qualche esempio: «Quattro chiesette barocche che hanno e si sentono la capitale dell'arte definendosi la Firenze del Sud», «Un paese di 90mila anime (fa più abitanti il quartiere San Paolo) non può rappresentare una regione, anche perché, come detto, loro non si considerano membri della regione Puglia», «Il loro accento mi fa c.....» e via così. Per la cronaca i salentini espugnarono lo stadio progettato da Renzo Piano e, alla fine del campionato, riuscirono a salvarsi: la peggiore sanzione per i cugini coltelli. E per tornare in Campania come dimenticare che ancora i tifosi della Juve Stabia festeggiano tutte le vittorie sotto la curva degli ultrà che cantano «E chi non salta è nocerino»? Del resto in quella parte del territorio campano le rivalità sono antiche e profonde. Risalgono quanto meno all'epoca imperiale romana. Pompei, Anno Domini 59, nel grande anfiteatro, che millenovecento anni dopo avrebbe ospitato i Pink Floyd, si svolgevano i combattimenti tra i gladiatori che per popolarità si possono tranquillamente paragonare agli eroi degli stadi. Racconta lo storico Tacito nel quattordicesimo libro degli Annales che sugli spalti i cittadini pompeiani e quelli della vicina Nuceria Alfaterna iniziarono a insultarsi. Dalle parole ben presto passarono ai fatti. Prima volarono cazzotti e sassi, poi furono addirittura sguainate le spade. Ad avere le peggio furono gli ospiti. Ci scapparono feriti e anche morti. L'episodio suscitò grande riprovazione. Dovette occuparsene non il giudice sportivo, ma addirittura il Senato, che espulse Livineio, il finanziatore dei giochi, condannandolo all'esilio e «squalificando» l'anfiteatro pompeiano per dieci anni. Una pena esemplare, poi ridotta (eravamo pur sempre in Italia). Nel 79, cioè appena 20 anni dopo quei fatti il Vesuvio entrò in azione seppellendo Pompei e gran parte dei suoi abitanti. Tacito non dice, però, se l'eruzione pliniana fu l'esaudimento di un voto dei nocerini.

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L'ÉQUIPE 15-05-2013

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Il capitano del Palermo è stato intercettato al telefono dalla Dia con Francesco Guttadauro
E Miccoli avvertì il nipote di Messina Denaro
“Non venire al campo, ci sono gli sbirri nuovi”

di SALVO PALAZZOLO (la Repubblica - Palermo 15-05-2013)

Un’altra amicizia davvero particolare accende i riflettori non proprio calcistici su Fabrizio Miccoli: il capitano del Palermo è stato intercettato non solo con il figlio del boss della Kalsa Antonino Lauricella, ma anche con il nipote del superlatitante trapanese Matteo Messina Denaro. Di questa nuova amicizia si sono accorti gli investigatori della Dia, che nei mesi scorsi tenevano sotto controllo Lauricella junior, sperando di arrivare al padre. Come anticipato ieri da Repubblica, anche Miccoli era finito sotto intercettazione, perché lui e Lauricella utilizzavano alcune schede riservate, intestate a sconosciuti. Un giorno, Miccoli telefonò al nipote di Messina Denaro, Francesco Guttadauro, e lo avvertì: «Non venire agli allenamenti, ci sono gli sbirri nuovi».

Anche questa frase è finita nel rapporto del centro operativo Dia consegnato nell’agosto scorso al procuratore aggiunto Leonardo Agueci. Al vaglio della magistratura ci sono le posizioni di Lauricella e di Miccoli: il primo sarebbe stato incaricato dal secondo di recuperare alcuni crediti, relativi a una società che gestisce una discoteca. A che titolo veniva condotta quell’attività, spesso con toni minacciosi, da Lauricella junior? È questo il punto dell’indagine.

Allo stato, il capitano del Palermo è però solo indagato di accesso abusivo a un sistema informatico, perché avrebbe convinto il gestore di un centro Tim a fornirgli quattro schede telefoniche intestate a suoi clienti. Una di queste schede fu prestata a Lauricella.

Il capitolo relativo al nipote di Messina Denaro resta invece sullo sfondo dell’inchiesta, anche perché Francesco Guttadauro non ha alcuna pendenza con la giustizia, proprio come Mauro Lauricella. Ma è uno sfondo poco edificante per uno dei giocatori simbolo del Palermo: il nipote del superlatitante che tutti cercano dal 1993 è stato anche ospite a casa di Fabrizio Miccoli, a Lecce.

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Parigi, i fuochi delle banlieue

incendiano la festa del PSG
«Casseur» scatenati, 15 mila tifosi impotenti. Sotto accusa il governo
LA DESTRA «Polizia inadeguata. Si dimetta il ministro dell’Interno»
di PAOLO LEVI (LA STAMPA 15-05-2013)

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A quasi dieci anni dalle rivolte nelle banlieue francesi, l’incubo della violenza di piazza torna a scuotere la Francia. La furia degli ultrà parigini, che hanno mandato a monte la festa per lo Scudetto della loro squadra - il Paris Saint Germain -, scatenando saccheggi e guerriglia, diventa affare di stato. Inadeguatezza del servizio di sicurezza, poliziotti e gendarmi insufficienti, prefetto sprovveduto, ministro dell’Interno «dilettante»: queste alcune delle accuse piovute dai banchi di una destra scatenata, che chiede le dimissioni di tutti i responsabili, incluso il ministro dell’Interno, Manuel Valls.

«È vergognoso e scandaloso. Quello che è successo dà una terribile immagine della Francia», ha deplorato il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, all’indomani degli scontri che hanno portato al ferimento di 32 persone e al fermo di altre 39. Cominciate sulla piazza del Trocadero, davanti alla Tour Eiffel - dove si erano riuniti 15 mila tifosi - le violenze sono poi degenerate sugli C h a m p s Elysées. Nei pressi della Tour Eiffel, un gruppo di «casseurs» ha saccheggiato un pullman di turisti. Così i giocatori del PSG hanno dovuto annullare una crociera in Bateau Mouche sulla Senna e hanno concluso la serata rinchiusi nel Parco dei Principi, lo stadio di proprietà della squadra, dove hanno ordinato pizze per 600 euro.

«Il calcio è ancora malato. E questo è il caso del Psg», ha affermato Valls, spiegando che «il club ha ancora problemi molto pesanti da risolvere con i suoi tifosi». Proprio come nel 2005 - quando le banlieue si incendiarono e tutti cominciarono a interrogarsi sull’efficacia del modello di integrazione della Francia - «queste violenze danno un’immagine intollerabile di Parigi e della Francia. Non dobbiamo avere pietà per questi individui che si scatenano nella violenza», ha insistito il ministro socialista, che rifiuta però di dimettersi, come invocato dalla destra.

Secondo i servizi di polizia, ad accendere la miccia delle violenze sono stati circa 250 ultrà, che molti considerano «pseudo-tifosi» e che già in passato erano stati interdetti dallo stadio a causa di comportamenti violenti. «Il loro obiettivo era rovinare la festa», dice il commissario Antoine Boutonnet, capo della divisione nazionale nella lotta contro gli Hooligans (Dnlh). «Scontrandosi con le forze dell’ordine - ha aggiunto - hanno elettrizzato la folla e scatenato i casseur di banlieue, che hanno preso il sopravvento. A quel punto la situazione è degenerata». «Stasera spacchiamo tutto. Ce ne freghiamo del calcio», avevano avvertito lunedì alcuni presunti «casseurs», intervistati da Radio France.

Molto delusa è la proprietà qatariota, che aveva organizzato eventi a catena a Parigi prima che il prefetto Bernard Boucault intimasse: «Non ci saranno più manifestazioni per festeggiamentiin piazza del Paris Saint-Germain». L’unico ad assumersi la responsabilità per i gravissimi fatti è stato il presidente della Lega calcio, Frédéric Thiriez, per aver dato anche lui «l’assenso affinché la festa si svolgesse non nello stadio al Parco dei Principi, ma al Trocadero».

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IL CASO RIAPERTO
Bergamini nel 1989

fu ucciso da due killer?

Prima di trovarlo morto sotto un tir, due persone che stanno per

essere identificate lo prelevarono al cinema, forse per ammazzarlo
di BRUNO PALERMO (TUTTOSPORT 15-05-2013)

COSENZA. Due ombre che aspettano fuori dal cinema Garden, a Rende. Due ombre sulle quali con tutta probabilità la Procura di Castrovillari è riuscita a puntare un faro. Sono le ombre che alle 16 del 18 novembre 1989 aspettano Donato Denis Bergamini, centrocampista del Cosenza che qualche ora più tardi sarà ritrovato cadavere al km 401 della Strada Statale 106 Jonica nel comune di Roseto Capo Spulico. Su quella morte, per 22 anni archiviata come suicidio, il 18 luglio 2011 il Procuratore Franco Giacomantonio ha riaperto il caso, con ipotesi di reato di omicidio volontario. Fascicolo riaperto grazie al memoriale di 210 pagine redatto dall’avvocato Eugenio Gallerani, legale della famiglia Bergamini che mette in risalto macroscopiche anomalie sugli accertamenti fatti. Da domani in poi ogni giorno potrebbe essere buono perché arrivino importanti novità.

LA TRAPPOLA? Denis Bergamini era turbato, da qualcosa o qualcuno. Lo dicono i suoi compagni di squadra. Lo sostiene il padre Domizio che racconta di una strana telefonata arrivata qualche giorno prima nella loro casa di Argenta, che fa cambiare umore al figlio. Lo dice Michele Padovano, compagno di stanza di Denis, che racconta di come, tra le 15,15 e le 15:30 del 18 novembre, arriva una telefonata nella camera in cui sono in ritiro. Dopo aver parlato al telefono Denis rimane a fissare il soffitto. Il giorno dopo c’è la delicata partita contro il Messina; per rilassarsi la squadra va al cinema Garden. Denis prende la sua Maserati e va da solo; Padovano racconta che di solito andavano insieme. Sergio Galeazzi, compagno di squadra, ricorda che “al cinema io e Lombardo eravamo seduti dietro Denis. Ad un certo punto si è alzato, e nel chiaroscuro delle luci soffuse ho notato due ombre». È l’ultima volta che i compagni vedono Bergamini in vita. Le due ombre spariscono con lui: potrebbero essere gli assassini. Secondo la versione dell’ex fidanzata Isabella Internò (con la quale il calciatore non ha più contatti da tempo), Bergamini va a prenderla intorno alle 16,30 per poi avviarsi in direzione Taranto. Alle 17,30 vengono fermati a un posto di blocco. Poi più niente fino al ritrovamento del cadavere. Che, a detta della ragazza, si sarebbe “tuffato” sotto un tir. Potrebbero, le due ombre, aver costretto Bergamini a percorrere quella strada fino alla piazzola sulla statale 106 jonica dove sarà trovato cadavere? Magari seguendolo con un’altra auto, e passando inosservati al posto di blocco. Si sa, dalle perizie, che Bergamini non muore perché schiacciato dal tir, ma le ferite provocate dal mezzo potrebbero aver mascherato una precedente ferita (mortale) da arma bianca inferta al calciatore, e che avrebbe reciso l’arteria iliaca destra. Chi ha potuto visionare il cadavere di Denis parla di “un piccolo segno circolare alla tempia”. La sorella di Bergamini, Donata, si spinge oltre: “Un segno della grandezza di una moneta da 2 centesimi”. Il diametro di tale moneta è di 18,75 mm, ovvero vicinissimo a quello della canna di una pistola calibro 9; 9x19 per l’esattezza. Questo, dunque, lo scenario possibile. Le due ombre avrebbero attirato Denis in una trappola fino alla piazzola del km 401 della statale Jonica. Qui il calciatore potrebbe essere stato immobilizzato da dietro da una delle due persone, che gli avrebbe tenuto una pistola premuta alla tempia, mentre l’altra colpiva con un’arma bianca le parti inferiori di Denis fino a recidere l’arteria iliaca. Provocandone la morte per dissanguamento “in poche decine di secondi”, come sostenuto nell’autopsia del prof. Avato del gennaio 1990. Uno scenario del genere darebbe un senso alle rivelazioni secondo cui il movente della morte di Denis riguarderebbe la sfera passionale. Ancora, le gocce di sangue sul predellino del tir (lato autista) potrebbero far pensare che il camion sia servito anche per coprire la scena alla vista delle auto che passavano?

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Calciopoli, Gallinelli spiega: Portatile Tavaroli cruciale

Guido Vaciago - Tuttosport - 16-05 2013

Paolo Gallinelli, avvocato di De Santis: «Mi piacerebbe capire come mai invece di essere stato ispezionato a Milano, dove era stato sequestrato nell'ambito delle indagini sullo scandalo Telecom, è stato ispezionato a Roma, dal nucleo operativo che in quel momento investigava sulla cosiddetta Calciopoli. Ho chiesto al pm di accertare tutto su quel computer»La vicenda prosegueAgnelli, parole serene«Scudetti sono 31»© LaPresseVenerdì della prossima settimana il processo di Calciopoli torna in aula per l'appello del rito ordinario, quello per intenderci che riguarda fra gli altri l'ex dg della Juventus Luciano Moggi e l'ex arbitro Massimo De Santis. Tra una settimana, insomma, si tornerà a parlare dell'indagine che ha sconvolto il calcio italiano e delle sue incongruenze già emerse e, ammesse dalla stessa giudice Casoria, nel primo grado del processo. E si ricomincerà, quindi, a discutere anche dei misteri che hanno punteggiato il lavoro degli inquirenti, svolto dal 2004 al 2007 e non privo di risvolti da romanzo giallo. A metà fra la spystory e il legal thriller c'è sicuramente la vicenda del computer di Giuliano Tavaroli, l'ex responsabile della securty Telecom e imputato principale nell'omonimo processo. Una vicenda sulla quale sta provando a fare luce l'avvocato Paolo Gallinelli, che a Napoli difende De Santis e che dei misteri di Calciopoli è uno degli osservatori più attenti.

Buongiorno avvocato, perché si è appassionato al computer portatile di Tavaroli?

"Perché mi piacerebbe capire come mai invece di essere stato ispezionato a Milano, dove era stato sequestrato nell'ambito delle indagini sullo scandalo Telecom, è stato ispezionato a Roma, dal nucleo operativo che in quel momento investigava sulla cosiddetta Calciopoli. E soprattutto chi l'ha ispezionato e cosa hanno trovato dentro quel pc, perché negli atti del processo Telecom c'è solo il decreto di ispezione, del verbale non vi è traccia... Per tale ragione ho formulato un'istanza al pm Albamonte di Roma, che già si sta occupando di alcune anomalie da noi ravvisate in merito alle modalità d'indagine su Calciopoli dopo la denuncia di De Santis, Moggi e altri imputati (dalle telefonate sparite al video sul sorteggio ritirato dai pm di Napoli). Ho chiesto al pm di accertare tutto su quel computer".

Proviamo a ricostruire la vicenda.

"Il 3 maggio 2005 la procura di Milano, dopo aver disposto il sequestro del materiale informatico di Tavaroli nell'ambito delle indagini sui dossier illegali di Telecom, dispone l'ispezione di tale materiale informatico presso il nucleo investigativo di via In Selci a Roma. E precisamente nella seconda sezione, dove il maggiore Auricchio stava svolgendo le indagini di Calciopoli: lì viene ispezionato il 15 giugno (inizio delle operazioni fissate in quella data), come risulta dagli atti del processo Telecom. Il verbale dell'ispezione non c'è e soprattutto non si capisce perché il computer è stato spedito a Roma".

E' così strano?

"Direi sorprendente perché il materiale informatico sequestrato dell'inchiesta Telecom risulta essere stato ispezionato dalla Polizia Postale e delle Telecomunicazione di Milano, organi certamente più competente in materia informatica della seconda sezione di via In Selci. Difatti la seconda sezione non sembra avere specifiche competenze per quel tipo di attività. Oltretutto, come ha dichiarato proprio Auricchio, il nucleo investigativo 'era occupata all'80% sull'indagine Calciopoli'. In tale contesto va notato come il reparto operativo dei Carabinieri di Milano che eseguì il sequestro del materiale informatico di Tavaroli su delega dei pm Napoleone, Civardi e Piacente era comandato dal maggiore Chittaro".

Quindi?

"Chittaro era il maggiore dei Carabinieri citato proprio da Tavaroli, nell'interrogatorio del 29 settembre 2006 ai pm di Milano. In quell'occasione, Tavaroli raccontò di come era stato messo in contatto con l'Inter, dopo le rivelazioni di Nucini a Facchetti e di come propose ai vertici nerazzurri due strade: avanzare un esposto alla Procura o diventare 'fonte confidenziale' proprio del maggiore Chittaro del nucleo investigativo di Milano. Alla fine, secondo quanto affermato da Tronchetti Provera nell'incidente probatorio, Moratti chiese aiuto alla Bocassini, che ascoltò Nucini e archiviò a Modello 45 (manifesta infondatezza della notizia di reato, ndr), ma questa è un'altra storia".

Torniamo al computer. Cosa potrebbe esserci dentro quel computer?

"Difficile dirlo senza il verbale d'ispezione. Non sappiamo neppure chi lo ispezionò. Però sappiamo che il famoso Dossier Operazione Ladroni, quello nel quale furono spiati l'arbitro De Santis e monitorati i contatti telefonici dei dirigenti della Juventus era stato qualificato di livello 1 - lo dice nella sua deposizione Cipriani, che svolse quelle indagini e che dichiarò anche come l'Inter fosse cliente dalla sua agenzia investigativa fin dal 2001 - e i dossier di livello 1 secondo quanto riferito dallo stesso Cipriani, venivano conservati anche in un archivio informatico. E' possibile, dunque, che copia dell'archivio infortmatico relativo all'Operazione Ladroni fosse contenuto sul computer di Tavaroli. Se così fosse, tale archiviazione informatica sarebbe certamente più completa di quella cartacea riscontrabile agli atti del processo Telecom. Infatti, per stessa ammissione di Tavaroli, quella dossier aveva una rilevante incompletezza del formato cartaceo. E proprio con riferimento ai tabulati telefonici prodotti dalla pubblica accusa di Napoli abbiamo trovato delle incongruenze e delle anomalie".

Quali?

"Sapete che la ricostruzione dei contatti fra le schede svizzere e la conseguente 'assegnazione' delle sim ai vari imputati è stata fatta essenzialmente sulla base dei tabulati telefonici. Ebbene il modo con cui sono stati ottenuti quei tabulati dalle varie compagnie telefoniche non è stato mai sufficientemente chiarito. Soprattutto è parso poco verosimile che tale immenso lavoro di ricostruzione tecnica e collocazione temporale dei contatti fra le sim svizzere sia stato fatto manualmente e senza specifici software dal maresciallo Di Laroni, come da lui stesso dichiarato in aula a Napoli. Di Laroni parlò di 'olio di gomito', ma la stessa Casoria ha scritto nella sentenza che la ricostruzione dell'assegnazione e dell'utilizzo delle schede svizzere in questione presenta delle 'zone d'ombra'. Nonostante ciò le schede svizzere hanno costituito un elemento portante nella condanna degli imputati in primo grado ".

Insomma, chi a Roma indagò su Calciopoli potrebbe aver utilizzato il lavoro di spionaggio illegale di Cipriani e Tavaroli?

"Questo è quello che ho chiesto di accertare alla Procura di Roma perché allo stato attuale non ho sufficienti elementi per affermarlo. Comunque se il computer di Tavaroli ispezionato in via In Selci avesse effettivamente al suo interno una versione completa del Dossier Operazione Ladroni, potrebbe essere certamente utilizzato per effettuare un esame comparativo tra l'analisi tra la'nalisi del telefonico presente nel Dossier e i tabulati utilizzati dai pm di Napoli per l'attribuzione delle sim straniere e depositati agli atti del processo Calciopoli. Laddove dovessero emergere delle somiglianze tra i due tabulati si potrebbe fare ancora più luce su quelle zone d'ombra argutamente rilevate dalla presidente Casoria, nella sua sentenza di primo grado".

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