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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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La svolta Il calcio europeo si divide sulle regole imposte dall’Uefa

Fair play con il buco

Il regime finanziario voluto da Platini

improntato all’austerity è vulnerabile

Proteste e avvocati sul piede guerra

di ALBERTO COSTA (CorSera 24-04-2013)

Mercoledì 21 maggio 2008, stadio Luzhniki di Mosca. La nascita del fair play finanziario, che nelle intenzioni dovrebbe costringere i club a diventare più virtuosi obbligandoli a non spendere più di quello che generano, si fa risalire alla finale di Champions League tra Manchester United e Chelsea, per la cronaca vinta ai rigori dai diavoli rossi di sir Alex Ferguson. Quella sera Michel Platini, da poco più di un anno presidente dell'Uefa, fu sentito esclamare: «È una vergogna che a vincere la Champions sia un club pieno di debiti», allusione alle esposizioni dello United verso il sistema bancario e del Chelsea nei confronti di Roman Abramovich, il suo proprietario. Passata la buriana qualcuno spiegò a roi Michel che, di per sé, i debiti, non possono essere considerati un cancro visto che è prassi usuale per qualsiasi azienda, anche in piena salute, finanziarsi attraverso le banche. Ovviamente non è questo il caso dei debiti scaduti e non saldati: al Malaga, per esempio, sono stati congelati i premi della Champions League per non avere pagato gli stipendi dei giocatori.

L'Uefa ha così modificato il tiro in corsa, decidendo di controllare i comportamenti dei club allo scopo di stroncarne gli stili di vita superiori alle possibilità di ciascuno. Pertanto a partire da questa stagione le spese devono essere strettamente connesse ai ricavi e sono vietati gli interventi degli azionisti per ripianare il rosso di bilancio. Il nuovo sistema di controllo entrerà a pieno regime a far data dalla stagione 2014-2015 però, nel frattempo, è stata attivata una sorta di camera di compensazione che per un biennio (2013-2015) consentirà di sfondare di 45 milioni il tetto delle spese possibili in relazione al proprio fatturato, 30 per il successivo triennio (2015-2018).

In questa ottica sarà interessante verificare come, tra un anno, il Paris Saint Germain avrà saputo giustificare la sponsorizzazione retroattiva di 200 milioni (a stagione) con la Qatar Tourism Authority per una non meglio precisata promozione turistica dell'Emirato totalmente al di fuori dei valori di mercato.

Resta il fatto che, alla luce delle norme europee, il fair play in cui tanto confida Platini appare vulnerabile come un castello di sabbia. È dunque lecito attendersi azioni legali a raffica quando le danze partiranno sul serio. Sul Wall Street Journal l'avvocato Jean Louis Dupont (quello dello storico caso-Bosman) ha definito il fair play finanziario «un accordo di cartello per sancire lo status quo del potere nel pallone europeo».

Uno degli effetti della riforma voluta dall'Uefa rischia infatti di essere la cristallizzazione: l'impossibilità di spendere più di quanto si ricava impedirà, a chi lo volesse, di crescere attraverso gli investimenti degli azionisti. Per questo diventa sempre più vitale l'accesso alla Champions che garantisce tra i 25 e i 40 milioni di euro annui. «L'Uefa non è uno stato ma un'organizzazione privata e non può imporre a un soggetto l'uso che deve fare del suo denaro» sostiene un principe del foro italiano. Una forte corrente di pensiero è convinta infatti che le norme relative al fair play finanziario: 1) contraddicano le regole europee sulla concorrenza; 2) limitino la circolazione dei capitali all'interno della Comunità; 3) ledano le libertà individuali (io, proprietario, nella mia azienda metto i soldi che voglio). A questo proposito gli articoli 16 e 17 della Carta di Nizza sui diritti fondamentali garantiti dall'Unione Europea tutelano la libertà d'impresa e il diritto a disporre a proprio piacimento dei beni acquisiti legalmente.

Risultato: forse è il caso che nei prossimi mesi Platini, abituato a fare gol, si prepari a giocare in difesa.

United’s grip is likely to tighten

when Financial Fair Play begins

Rivals for the title could not capitalise despite Glazers’ frugal approach and new rules curbing spending will not help them

by OLIVER KAY (THE TIMES 24-04-2013)

By the time Manchester United’s players left the pitch after an impromptu second lap of honour on Monday evening, Old Trafford was half-empty. The atmosphere had been upbeat and jubilant, but it all felt a little routine — not too surprising, really, when you consider that this was their thirteenth Premier League title in two decades and that it had appeared a formality for weeks.

Compared with that evening 20 years ago, when the party carried on long into the night, the crowd singing along to James’s Sit Down as United were crowned champions for the first time in 26 painful years, the celebrations were sedate. The demographic of football crowds has changed since 1993; there was no trophy on parade on Monday and early starts yesterday morning for many, but still it felt like a particularly restrained kind of glory.

The most remarkable thing about United’s glory years is less about the level of dominance they established in winning eight Premier League titles in 11 seasons after that long-awaited breakthrough than the way that the success has continued in recent years under the Glazer family’s ownership.

The Glazers deserve no credit whatsoever for that — they have been an appalling burden, a handicap, draining money out of the club’s accounts while owners at Chelsea and Manchester City were doing the opposite — but, thanks in no small part to the single-mindedness of Sir Alex Ferguson and his players, trophies kept on coming.

Hands up if, in the summer of 2006, you predicted that United would win five of the next seven Premier League titles. Old Trafford was an unhappy place back then, while Chelsea were flexing their muscles on and off the pitch, Arsenal and Liverpool were making strides and City would soon join the ranks of the nouveaux riches. Some of their rivals’ problems have been self-inflicted, but for United to do what they have done, often in what have appeared to be times of transition, is extraordinary.

So what next? More of the same, surely. If the constraints of the Glazer regime could not stop United dominating in a free market, how on earth do their domestic rivals propose to stop them at a time when their competitive advantage will be reinforced by the new financial regulations, both in the Premier League and in Europe? City have some wonderfully gifted players and will expect to perform better next season, but, in the longer term, Financial Fair Play (FFP) will go a long way towards reinforcing United’s position as the dominant power in England.

Sooner or later, United will have to find a manager capable of succeeding Ferguson, but does it hold quite the same fears as it once did? There is a distinct possibility of a drop-off at that point, but, realistically in Premier League terms, how far could United possibly fall in the FFP era? Second? Third? Even then, with other clubs seeing their spending power curbed by FFP, United, with their colossal matchday and commercial revenues, are unlikely to spend long in the shadow of any domestic rival.

Similar appraisals can be applied to other überclubs such as Bayern Munich, who already have an unassailable 20-point lead at the top of the Bundesliga. Their financial strength leaves them in a position to dominate, with yesterday’s announcement about Mario Götze continuing a recent pattern of cherry-picking from rivals.

Bayern’s financial advantage in the Bundesliga is far more extreme, but United’s, in the FFP era, promises to be strongly pronounced, too. The same goes for the duopoly of Real Madrid and Barcelona in La Liga and AC Milan, Inter Milan and Juventus in Serie A. It is hardly a coincidence that these clubs, along with United and Arsenal, were among those that pushed hardest for financial regulation across Europe; far from the originally conceived clampdown on debt, FFP preserves the established order.

Nothing, though, has preserved and reasserted the established order quite like Ferguson has done at Old Trafford. Nobody should confuse United’s position in recent years with one of economic hardship, but they have been operating at a financial disadvantage to Chelsea and City. Even in the Cristiano Ronaldo era, they seemed to be more, collectively, than the sum of their parts. Over the past three seasons, even when missing out to City last term, they have been even more so.

And now, with financial regulation restricting their competitors, United appear to be equipped to tighten their grip. Those title celebrations promise to become more routine as memories of the barren years fade into the distance.

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Internazionale 997 | 25 aprile 2013

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Se scoppia il pallone

Stipendi altissimi. Bilanci truccati. Debiti milionari. La giustizia ha

cominciato a mettere ordine nel mondo del calcio spagnolo. Che

per anni ha vissuto senza regole e al di sopra delle sue possibilità

I debiti delle squadre di calcio con il fisco ammontano a 690 milioni di euro

Solo il tempo dirà se rinegoziare i debiti è la cura giusta per i mali del calcio spagnolo

di RAFAEL MÉNDEZ, EL PAÍS, Spagna

José Baltasar Plaza illustra la sua missione con una metafora: “Sono qui per la potatura”. I rami da tagliare a cui si riferisce sono i bilanci delle squadre di calcio spagnole. Plaza ha 54 anni, fa l’avvocato e dal 2011 è amministratore concorsuale del Rayo Vallecano. Un giudice di Madrid l’ha incaricato di risanare le finanze del club e ridurre il debito di 60 milioni. Da allora Plaza taglia salari, vende giocatori, rinegozia scadenze con i creditori e paga tasse accumulate. Dal suo elegante ufficio di Madrid gestisce a colpi di austerità la squadra e altre imprese sottoposte a procedure concorsuali. Come Plaza, decine di revisori, economisti e ispettori del fisco hanno vissuto l’esperienza – a volte complessa, altre ingrata – di risanare le finanze di qualche squadra di calcio spagnola. Dal 2004, 19 dei 42 club che militano nella prima e nella seconda divisione si sono appellati al concurso de acreedores, la procedura fallimentare regolata dalla ley concursal, approvata nel 2003. Se si aggiungono le squadre retrocesse in terza divisione la lista si allunga ancora. I professionisti chiamati a risanare i conti dei club sono nella posizione ideale per raccontare la bolla calcistica spagnola. La diagnosi di questi amministratori, scelti dai giudici e pagati dalle squadre che devono risanare, è unanime: negli ultimi anni il calcio spagnolo è stato gestito in modo disastroso. Il denaro è stato sperperato in ingaggi spropositati e in provvigioni sospette, mentre il fisco e le amministrazioni mostravano una sorprendente disponibilità a rinegoziare i debiti.

Nel luglio del 2011 un giudice di Alicante ha incaricato Alfonso García Cortés di gestire l’Hércules, la prima squadra di calcio della città, appena retrocessa in seconda divisione e con debiti per 60 milioni di euro. Fino a quel momento García Cortés non sapeva niente di calcio e non distingueva un portiere da un terzino. Ma aveva seguito un gran numero di procedure concorsuali per decine di aziende: imprese immobiliari, fabbriche di torroni, industrie tessili. I debiti dell’Hércules non erano superiori a quelli di altre aziende, ma la vicenda era molto delicata dal punto di vista sociale. “Avevano i conti pignorati e in banca erano in rosso di 300mila euro”, racconta García Cortés. “Gli stipendi della stagione precedente non erano stati pagati e c’erano debiti nei confronti della previdenza sociale, del fisco e dei fornitori. Da quattro mesi l’Hércules non pagava le bollette di luce e acqua”. Il club era coinvolto in 40 procedimenti giudiziari, e l’unico patrimonio che le era rimasto erano le coppe vinte e i giocatori.

L’Hércules è di proprietà di Enrique Ortiz, imprenditore nel settore immobiliare e dello smaltimento dei rifiuti, imputato nel caso Brugal, uno scandalo di corruzione scoppiato nel 2006. Dopo la promozione in prima divisione, inquinata da sospetti di partite truccate, Ortiz aveva ingaggiato il centravanti David Trezeguet, ex nazionale francese, e il paraguaiano Nelson Valdez. Il monte stipendi ammontava a 26 milioni di euro, e dopo la retrocessione il buco di bilancio era ingestibile.

Insieme a un economista della società di consulenza Kpmg, García Cortés ha imposto al club una terapia d’urto. I giocatori che avevano mercato sono stati venduti, mentre gli altri sono stati svincolati per non dover pagare gli ingaggi. Un ristretto gruppo di giocatori – tra cui Rufete (ex del Valencia e del Málaga, 500mila euro di stipendio lordo) e Piet Velthuizen (600mila) – ha impugnato il contratto per non lasciare il club. Convinti di non poter ottenere un ingaggio migliore sul mercato, hanno preteso il rispetto degli obblighi contrattuali.

A quel punto gli amministratori hanno seguito la strada già sperimentata con altre aziende: hanno applicato il procedimento per i licenziamenti collettivi (l’expediente de regulación de empleo, Ere), offrendo ai calciatori un’indennità pari a venti giorni di retribuzione per ogni anno di contratto. Una proposta fino ad allora impensabile nel mondo del calcio, dove i giocatori ricevono cospicui indennizzi per cambiare squadra. La giustizia ha dato ragione al club. “Se l’Ere non fosse andato a buon fine saremmo falliti”, spiega García Cortés.

Di solito ridurre il monte ingaggi è la prima mossa di ogni amministratore. José Baltasar Plaza ha assunto il controllo del Rayo Vallecano nell’estate del 2011. Contro ogni pronostico, la squadra era stata appena promossa in prima divisione, ma i calciatori non ricevevano lo stipendio da dieci mesi. Il presidente, José María Ruiz-Mateos, aveva lasciato il club con 60 milioni di euro di debiti, 35 dei quali con il fisco. Plaza racconta di aver trovato diverse sorprese nei libri contabili. “C’erano vari tipi di contratto. A, B, C e D. Gli ingaggi erano molto elevati”, spiega. Sul libro paga c’era perfino un prete, che incassava bonus diversi a seconda dei risultati ottenuti dalla squadra. Gli amministratori hanno cominciato a ridurre drasticamente il monte salari. Al capitano Movilla (36 anni) l’ingaggio è stato ridotto da 900mila a 325mila euro. Un tribunale ha stabilito che l’età di uno sportivo può giustificare una riduzione del suo stipendio.

A ben vedere, Plaza non ha molti legami con Vallecas, il quartiere popolare di Madrid dove ha sede la squadra del Rayo. Il suo ufficio si trova nell’esclusivo Paseo de Pintor Rosales, in centro. Sulla sua scrivania ci sono fotografie che lo ritraggono in compagnia del difensore del Real Madrid Pepe e di Juanito, vecchia gloria del club, morto nel 1992. Plaza conosce bene il mondo del calcio. E in qualità di amministratore del Rayo Vallecano si è scontrato non solo con i giocatori ma anche con l’allenatore, José Ramón Sandoval, che aveva incassato 180mila euro dalla società dieci giorni prima dell’avvio della procedura concorsuale. Al termine della stagione Plaza e i suoi due collaboratori – un economista e un ispettore del fisco – hanno deciso di non confermare Sandoval anche se aveva salvato la squadra dalla retrocessione. La separazione è stata gestita con grande freddezza, come nelle multinazionali.

Sfoltire l’organico

Di solito all’inizio gli amministratori straordinari non vanno molto a genio ai calciatori. L’avvocato Damián Mora Tejada era a capo del Murcia quando il club è retrocesso in seconda divisione ed è stata chiesta la procedura concorsuale: “Avevamo un organico molto oneroso, con ingaggi da prima divisione”, dice. “I calciatori erano mercenari senza alcun legame con la squadra o con la città”. Mora è abbonato del Murcia dal 1966, e non si perde una partita. La passione sportiva non gli ha però impedito di ammettere che “la cosa migliore capitata al club è stata la successiva retrocessione in terza divisione”. In questo modo Mora ha potuto sfoltire l’organico più facilmente.

Per forza di cose gli amministratori dei club insolventi sono sempre nel mirino delle critiche dell’Associazione dei calciatori spagnoli (Afe). Secondo il consulente giuridico dell’Afe Santiago Nebot, gli amministratori caricano a testa bassa contro gli sportivi senza considerare che la colpa dei disastri finanziari è quasi esclusivamente dei dirigenti. Nebot è convinto che i calciatori vivano in una sorta di realtà parallela solo perché “il loro percorso professionale è molto diverso da quello degli altri lavoratori. Di conseguenza, imporre ai giocatori il licenziamento collettivo, come ha fatto l’Hércules, è ingiusto. I contratti dei calciatori durano pochi anni, quindi pagare 20 giorni per ogni anno di contratto significa sostanzialmente licenziarli senza indennizzo”. Secondo Nebot, “il problema è che la Lega calcio spagnola non fa retrocedere i club che non pagano, al contrario di quello che succede in altri paesi”. In realtà nel 2011 è entrata in vigore una riforma che impone la retrocessione alle squadre insolventi, ma non è mai stata applicata.

Il revisore contabile Vicente Andreu è stato nominato alla guida del Levante, la seconda squadra di Valencia, nel 2008. La squadra era appena retrocessa e aveva debiti per 83 milioni di euro. Anche Andreu conosceva il mondo del calcio, e aveva fatto parte del consiglio direttivo del Valencia, rivale storica del Levante: “Mi dicevano: è arrivato un choto (così sono chiamati i tifosi del Valencia) a darci il colpo di grazia”. Prima di arrivare al Levante, si era occupato delle procedure concorsuali di altre importanti aziende. Nel suo ufficio di Valencia, ricorda una riunione con i calciatori prima dell’inizio della stagione. I giocatori minacciavano di non allenarsi se non avessero ricevuto lo stipendio: “Gli ho spiegato cos’è una procedura concorsuale. Ho detto che a partire da quel momento avrebbero ripreso a incassare lo stipendio, ma che i crediti precedenti sarebbero stati congelati fino al raggiungimento di un accordo. Poi gli ho chiesto di fare la loro parte, perché in caso di retrocessione il club rischiava di sparire”. A quel punto uno dei calciatori, stravaccato su una sedia, lo ha interrotto. “‘Va bene, ma lei non è venuto qui a dirci quanto dobbiamo guadagnare, vero?’. Mi ha lasciato di stucco. Credono che tutto gli sia dovuto. Alcuni guadagnavano più di un milione di euro, e non volevano rinunciare a nulla”. Alla fine si sono accordati per un Ere.

Gli amministratori del Levante hanno imposto un tetto salariale di 350mila euro e hanno concesso pieni poteri al settore tecnico, a condizione che non ci fossero commissioni e trasferimenti da pagare. L’anno dopo sono arrivati Ballesteros, Juanfran, Valdo e altri veterani sul viale del tramonto. All’inizio gli amministratori non erano molto convinti della qualità dei nuovi arrivi. Andreu ricorda di aver chiesto al direttore sportivo se era sicuro dei giocatori presi. “Per quello che sono costati devono avere per forza qualche difetto”, ha risposto il direttore sportivo. In realtà di difetti ne avevano pochi. Alle dipendenze di un allenatore sconosciuto, Luis García, la squadra, fatta di veterani e giovani della primavera, è riuscita a non retrocedere e nel 2010 è stata promossa in prima divisione.

Fino a qualche anno fa José Antonio Bosch non aveva alcun rapporto con il mondo del calcio. Poi, nel novembre del 2010, è stato incaricato dalla giudice Mercedes Alaya di amministrare le azioni del Betis in possesso di Manuel Ruiz de Lopera, che controllava il 51 per cento della società. L’ex presidente del club è coinvolto in un complicato procedimento penale che riguarda la proprietà della squadra. Il Betis è in una situazione molto delicata: ha un amministratore giudiziario per il processo penale e tre amministratori straordinari per la procedura concorsuale (il club ha 100 milioni di euro di debiti).

Bosch racconta di aver trovato molte stranezze nei conti della società. “I giocatori ricevevano il 20 per cento dell’ingaggio nei primi dodici mesi e il resto in cambiali da riscuotere negli anni successivi. È così che si è accumulato il debito”. Secondo Bosch i mali del calcio nascono dal fatto che “il mercato degli ingaggi è gonfiato, e alle società sportive non si applicano le regole che valgono per le altre aziende”. L’avvocato indica un altro fattore cruciale, sottolineato da tutti gli amministratori straordinari: tutto questo non sarebbe stato possibile senza la connivenza delle pubbliche amministrazioni. Secondo Bosch, “il fisco ha concesso alle società sportive un trattamento speciale. A molti cittadini comuni avrebbe fatto parecchio comodo ottenere le stesse proroghe concesse al Betis”. Ma le responsabilità non sono solo del fisco. Gli amministratori del Betis hanno scoperto che da dieci anni il comune non esigeva dal club né l’imposta sugli immobili (l’Ibi) né quella sulle attività economiche.

Il 10 gennaio 2013 il Deportivo La Coruña è stato l’ultimo club ad aggiungersi alla lista delle società sottoposte a procedura concorsuale. La squadra galiziana ha debiti per 156 milioni di euro (di cui 40 nei confronti del fisco), che hanno una lunga storia. Nel 2003 l’impresa Mondo Ibérica aveva costruito dei campi di erba sintetica per il Deportivo. Quasi dieci anni dopo ha chiesto al tribunale di avviare la procedura concorsuale perché il club non aveva ancora pagato i 365mila euro dovuti. César Lendoiro, presidente del Deportivo, ha pagato il debito per far ritirare la richiesta. Per un club, infatti, è meglio che la procedura concorsuale sia volontaria piuttosto che forzata da un creditore.

Francisco Prada Gayoso è uno dei due amministratori del Deportivo. Anche lui ha una certa esperienza nella gestione di squadre di calcio. Galiziano emigrato a Madrid, prima del Deportivo ha gestito la procedura concorsuale dell’Ourense e del Celta Vigo. Nel corso della sua carriera ha seguito più di duecento procedure concorsuali, ma quando ha cominciato a occuparsi di calcio non ne sapeva nulla. Prada ha un’idea precisa di come abbia fatto il Deportivo ad accumulare il suo debito con il fisco: “Questa situazione è stata resa possibile grazie alla tolleranza dei creditori”. Il rapporto a cui allude Prada è la durissima analisi dei conti del club presentata il 20 marzo. Per cinque anni il Deportivo non ha presentato i bilanci al registro delle imprese, e dalla stagione 2006-2007 ha cominciato a effettuare “operazioni di rivalorizzazione contabile dei suoi attivi contrarie alle leggi sulla contabilità”. Dal 2006 il club è sottoposto a una procedura di liquidazione e da allora ha fatto ricorso a una serie di artifici contabili. Quando non ha avuto più margini di manovra ha smesso di pagare il fisco e la previdenza sociale.

Alcuni giorni prima dell’avvio della procedura concorsuale il Deportivo ha ingaggiato una nuova équipe tecnica e due calciatori (Silvio e Assunçao), rinnovando anche diversi contratti. Gli amministratori la chiamano “la scorpacciata dell’orso”, cioè la tendenza ad accumulare debiti subito prima di un periodo di austerità o in vista di un condono.

Tagli e austerità

Oltre che dai conti incomprensibili e dagli ingaggi eccessivi, gli amministratori sono stati colpiti anche dalle vertiginose commissioni pagate nel mondo del calcio. I revisori del Racing di Santander non hanno dovuto scavare molto prima di incontrare pagamenti illeciti. “Abbiamo scoperto operazioni molto strane”, spiega l’economista Santiago Ruiz. Il rapporto elaborato a novembre dagli amministratori non solo rivela la difficile situazione economica del club dopo l’uscita di scena dell’investitore indiano Ahsan Ali Syed, ma descrive nei dettagli quelle “spese eccessive e ingiustiicate che hanno arrecato un grave danno patrimoniale al Racing e sono attribuibili in forma individuale ed esclusiva al presidente e consigliere delegato Francisco Pernía”, ex segretario del Partito popolare in Cantabria. Tra le operazioni sospette c’è il versamento di 965.065 euro a una scuola calcio in Brasile di cui, però, “non esistono tracce”.

Il rapporto elenca una sfilza di movimenti sospetti. Nel 2007 il Racing ha comprato dall’Anderlecht l’attaccante belga Mohamed Tchité, pagandolo 5,5 milioni di euro. La società ha versato 337mila euro in commissioni e un milione per un’amichevole tra le due squadre che non si è mai giocata. Qualcosa di simile è successo con l’acquisto del polacco Euzebiusz Smolarek. Il club ha pagato commissioni anche per vendere i suoi calciatori: in occasione del trasferimento di Nicola Žigic al Valencia per 16,9 milioni di euro, ha pagato 841mila euro alla Meta Image. “Ma nel registro del Racing non esiste traccia di questa mediazione”, spiegano gli amministratori. Nello stesso gruppo di operazioni figura l’acquisto di un’Audi S8 per 84mila euro da parte del presidente. Dall’avvento degli amministratori le spese di rappresentanza dei dirigenti del Racing sono passate da 127mila a 24.300 euro all’anno. Il fisco, intanto, ha chiesto 4,9 milioni di euro ad Ali e Pernía.

“Pagare 600mila euro di commissione è una follia”, dice Ruiz. L’amministratore è rimasto a bocca aperta quando ha scoperto che queste operazioni erano incluse nei libri contabili, come fossero normali: “Tutti erano abituati a fare così perché questo era il modo di gestire le cose da queste parti”.

Pernía si difende attaccando: “Stanno cercando qualcuno da incolpare perché non si dica che sono stati loro a far retrocedere la squadra”. Il presidente è convinto che la situazione del club fosse del tutto normale, e ha fiducia nella giustizia. Secondo Pernía, le spese di rappresentanza erano dovute ai suoi viaggi nel Golfo Persico per cercare di vendere il club. La sua conclusione è comunque amara: “Il calcio è una pazzia. Se non compri nuovi giocatori la stampa scrive che la squadra retrocederà. Se invece rinforzi l’organico, dicono che hai esagerato”.

Con l’aiuto della Guardia civil (l’equivalente spagnolo dell’arma dei carabinieri), gli amministratori del Betis sono riusciti a documentare il pagamento di commissioni che finivano nelle tasche dei dirigenti stessi. “Qui c’è stato una specie di saccheggio, e lo abbiamo fatto presente al giudice. Abbiamo presentato fatture di commissioni che sono uscite dal club per poi tornare ai suoi dirigenti”, spiega Bosch. Un rapporto della Guardia civil ha fatto luce su almeno tre operazioni fraudolente, tra l’altro non particolarmente complesse. Nel rapporto figura, per esempio, una commissione da 354mila euro versata dal Betis alla Bastogne Corporación per la vendita del turco-brasiliano Mehmet Aurelio. Bastogne Corporación, che non ha dipendenti né licenze per rappresentare i calciatori, condivide la sede con altre imprese di Luis Oliver, successore di Lopera e allora alla guida del club.

Un’altra operazione sospetta è quella legata alla vendita dell’attaccante Sergio García al Saragozza. Il Betis ha pagato 580mila euro di commissione per la vendita del giocatore a una società intermediaria, che a sua volta ha versato 489mila euro alla Bastogne. La società in questione ha ricevuto solo due versamenti nel periodo analizzato dalla Guardia civil, entrambi per trasferimenti di giocatori dal Betis.

Una volta al timone delle squadre in difficoltà, i men in black incaricati di salvare il calcio spagnolo scelgono la politica del rigore e tagliano gli ingaggi. Per capire cosa succede a un club insolvente che viene sottoposto a una vera gestione imprenditoriale si può osservare l’operato di García Cortés, amministratore straordinario dell’Hércules per 18 mesi, in carica fino al 23 gennaio. Cortés non ricorda i nomi dei giocatori, ma può sciorinare tutti i conti del club. Sotto la sua gestione l’Hércules è passato da un passivo di 25 milioni, su 26 di fatturato nella massima serie, a uno di 1,8 milioni in seconda divisione. Per quest’anno è previsto un ritorno in attivo.

L’anno scorso, quando il Betis ha inanellato una serie di risultati negativi, l’avvocato Bosch ha subìto forti pressioni. Alla fine, però, la procedura concorsuale ha prodotto risultati sportivi ed economici sorprendenti. “Abbiamo chiuso il bilancio con un attivo di 2,5 milioni e abbiamo versato 19 milioni di euro al fisco, di cui cinque di arretrati. Non credo che ci siano molte aziende a Siviglia che hanno pagato così tanto”. Bosch punta sulla continuità alla guida tecnica della squadra: “Nessuna azienda pretende risultati immediati. Non capisco molto di calcio, ma so che Alex Ferguson è al timone del Manchester United da 27 anni, e lì le cose funzionano. Non vedo perché non si possa fare lo stesso qui. È impensabile che un’azienda che fattura 47 milioni di euro debba ricominciare da zero ogni anno”.

La situazione del Rayo Vallecano è abbastanza simile. La squadra viaggia tranquillamente a centro classiica in prima divisione e ha il monte ingaggi più basso del campionato. In totale la società paga 6 milioni in salari, meno dello stipendio di Cristiano Ronaldo. L’anno scorso sono stati venduti Coke e Michu (la stella della squadra) e quest’estate probabilmente faranno le valige anche Léo Baptistão e Lass. E pazienza se i tifosi si lamentano. “Non ci lasciamo guidare dai capricci. Inizialmente ci sono stati problemi, perché i calciatori si credevano intoccabili. Poi hanno visto che paghiamo gli stipendi ogni mese e che siamo persone serie”, spiega Plaza.

Prada Gayoso sottolinea che il problema non riguarda esclusivamente i dirigenti. “Bisognerebbe domandarsi se i ventimila azionisti del Deportivo si preoccupano dei conti o solo dei risultati sportivi. Un importante dirigente di un club mi ha raccontato che nel suo consiglio direttivo si parlava solo di quello che succedeva sul campo. Quando si trattava di discutere di questioni finanziare tutti uscivano dall’aula”.

L’avvocato Antonio González Bustos, chiamato allo Sporting Gijón nel 2005, la pensa allo stesso modo: “Mi ha sorpreso parecchio scoprire che nei club non si applicavano nemmeno i princìpi più basilari dell’imprenditoria. Gli azionisti vogliono solo che la squadra vinca. Il risultato economico non gli interessa”.

Quando gli amministratori lasciano un club, di solito propongono ai creditori (giocatori, altri club e fornitori) una remissione del debito non superiore al 50 per cento. Il fisco e la previdenza sociale non concedono sconti, ma generalmente acconsentono a spalmare i debiti su cinque anni. Nella maggior parte dei casi i debiti bancari sono minimi, perché i club non sono considerati affidabili e quindi non ricevono prestiti dalle banche. L’Hércules, per esempio, ha un accordo con il fisco che prevede il versamento di 80mila euro al mese in seconda divisione e 170mila in prima. Il Levante, che continua a vendere giocatori nonostante quest’anno abbia giocato anche le coppe europee, per pagare i debiti usa la quota degli incassi per i trasferimenti che eccede i 600mila euro. Con l’arrivo degli amministratori, i debiti dei club con il fisco sono calati, passando dal 752,3 a 690,4 milioni di euro. A gennaio la Real Sociedad è stato il primo club a uscire dall’amministrazione controllata.

Un antidoto efficace

L’amministratore del Rayo è ancora convinto che il calcio possa essere redditizio, se ben gestito: “Con il monte ingaggi più basso della prima divisione riusciremo a chiudere l’anno in attivo. La ley concursal sta portando grandi benefici al mondo del calcio”. Finora gli amministratori non hanno liquidato nemmeno una società, ma potrebbero essere costretti a farlo se i club non rispettassero gli impegni con i creditori. Prada Gayoso ha una teoria sul perché nessun club abbia ancora chiuso i battenti. “Quando liquidi un’azienda vendi il suo patrimonio e dividi gli incassi tra i creditori. Ma nel calcio si possono vendere solo i trofei, che interessano esclusivamente ai collezionisti, e i calciatori, da cui non si ricavano grandi cifre. Per questo motivo i creditori preferiscono che l’attività vada avanti e accettano di rinunciare a una parte dei loro soldi”. Nonostante il Deportivo sia in fondo alla classiica e rischi di retrocedere, il rapporto degli amministratori parla di un club in salute. Prada assicura di non essere stato influenzato nella sua valutazione dall’impatto che avrebbe la chiusura di un squadra che tredici anni fa ha vinto la Liga. “Il calcio non è spacciato. In Spagna c’è una forte domanda, e c’è gente disposta a sacrificare tempo e denaro per questo sport. Il problema è evitare le spese eccessive”, dice. Con loro grande sorpresa, gli amministratori hanno scoperto che il calcio è un affare relativamente semplice da gestire. “Ho amministrato aziende di tutti i settori, e c’è sempre una componente di incertezza. Quando si pianifica un’operazione commerciale esistono rischi: non si sa quanta merce sarà venduta, come si evolveranno la concorrenza o il prezzo delle materie prime. Nel calcio, invece, si sa da subito quali saranno gli introiti. I diritti televisivi, i biglietti, gli abbonati e le scommesse sono incassi fissi. Basta solo gestire le spese”, spiega Prada.

Solo il tempo dirà se la ley concursal e la rinegoziazione dei debiti sono l’antidoto giusto per i mali del calcio. Per il momento sono una forma di salvataggio che penalizza i club senza troppi debiti, come l’Huesca, il Numancia, il Ponferradina o l’Alcorcón. Il Málaga, per esempio, era già sparito una volta dal panorama calcistico, nel 1993. Cinque anni fa, dopo essere stato rifondato, ha subìto una procedura concorsuale. “Dopo c’è stato un anno d’austerità, ma oggi il club ha di nuovo molti debiti”. La squadra dello sceicco Al Thani è stata punita dall’Uefa per i mancati pagamenti, e l’anno prossimo non potrà giocare le competizioni europee se non dimostrerà di aver saldato i conti con il fisco.

Il caso che fa ben sperare per il futuro, invece, è quello del Levante, che dopo la fine della procedura concorsuale ha mantenuto una gestione rigorosa. Sandalio Gómez, professore alla Iese business school dell’università di Navarra, si è interessato al club nel gennaio del 2011. “La squadra aveva giocato malissimo il girone d’andata in prima divisione, e aveva solo 15 punti”, ricorda. “Quando ho incontrato il presidente, Quico Catalán, gli ho chiesto se avrebbe acquistato nuovi giocatori, come fanno le squadre in difficoltà. Mi ha risposto di no, assicurandomi che l’organico e l’allenatore erano validi. E se la squadra fosse retrocessa pazienza, è così che va il calcio. Invece di fare altri acquisti, ha organizzato un concorso di disegno per i figli degli abbonati e una paella collettiva per calciatori e tifosi. In quel momento ho capito che la procedura concorsuale era stata una cura efficace”. Il Levante ha disputato un girone di ritorno sensazionale e si è salvato senza problemi. È ancora in prima divisione e gioca anche in Europa. A volte, anche se raramente, i giusti sono premiati.

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INCHIESTA CALCIOSCOMMESSE

VENTOLA, DALLA PAURA ALLA GIOIA

PER IL BOMBER BARESE SI CHIUDE A 35 ANNI IL CAPITOLO PIÙ PESANTE E

TRISTE DELLA SUA VITA: «MA GLI AMICI VERI MI SONO RIMASTI VICINO»

«MI HANNO UCCISO, ORA MI RIALZO»

«Condannato a tre anni e mezzo senza motivo

Ringrazio il Tnas, si è visto che ero innocente»

L’amara morale «L’unica giustizia vera è quella che va fino in fondo»

«Gervasoni? Ha detto tante cose vere, ma altre erano prive di fondamento»

«Dall’Italia agli Usa. Ero quasi arrivato a odiare il nostro Paese»

«Ho tanta voglia di ricominciare, magari studiando da diesse...»

di GIULIO MOLA (Quotidiano Sportivo 25-04-2013)

«Mi hanno ammazzato per un anno e mezzo, adesso mi rialzo...». A stento trattiene le lacrime Nicola Ventola, 35 anni fra un mese, ex bomber di Bari, Inter, Atalanta, Bologna, Siena e Novara. Proprio dopo l’esperienza con gli azzurri, al termine di una carriera agrodolce fra gol, vittorie e infortuni, un colpo tremendo gli cancellava tutto il passato: 3 anni e mezzo di squalifica con l’infamante accusa di illecito sportivo a seguito dell’inchiesta sul calcioscommesse per fatti legati ad una gara di Coppa Italia fra Chievo e Novara. Secondo il procuratore federale Stefano Palazzi, il bomber barese aveva preso parte al presunto accordo (con altri giocatori) per la partita disputata 30 novembre 2010 e terminata col risultato di 3-0 per i veneti. Sentenza pesantissima in primo grado, ma ribaltata, anzi annullata martedì pomeriggio dal Tnas. L’attaccante barese ha appreso la notizia negli Stati Uniti a Los Angeles, dove si è trasferito da alcuni mesi con la famiglia. Sono le due di notte quando risponde al cellulare, «con questa adrenalina e felicità non riesco a prendere sonno. Sono qui perché ho seguito mia moglie Kartika che ha trovato un bel lavoro, e poi mio figlio ha cominciato qui le scuole. Io ero senza lavoro, ho pensato a loro due... ma nel frattempo ho cercato di migliorare la lingua».

Sia sincero. Se l’aspettava che la sua personale vicenda finisse così bene?

«Io ho sempre avuto fiducia nella giustizia, anche nei momenti più difficili. Ma è giusto che dica alcune cose: la situazione di chi è stato indagato in quest’inchiesta era assurda, visto che nei primi due gradi non ti lasciano parlare col pubblico ministero. Solo il Tnas prende le carte in mano, ti ascolta e verifica. Nel mio caso ha voluto il confronto con Gervasoni: di fronte ai “non lo so”, “mi pare”, “ho sentito dire”, il Tnas ha capito che non c’erano riscontri oggettivi relativi alle accuse. E mi ha prosciolto, come spiegato nelle sedici pagine».

Ma perché Gervasoni l’ha incolpata? Fu lui a dire che c’era un bottino di 150 mila euro da spartirsi fra diversi giocatori, alcuni proprio del club piemontese in caso di un risultato con più di due gol...

«Questo non lo so. E non voglio neppure dire che i pentiti non siano credibili. Però so che Gervasoni più parlava e più riacquistava la libertà...ha detto tante cose vere, che pure lo riguardavano, ma altre senza alcun fondamento. E’ giusto che paghi chi ha sbagliato, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio».

Nel frattempo lei ha pagato ingiustamente...

«Ero arrivato al punto da odiare il nostro paese. Perciò a settembre sono andato via dall’Italia, anche perché avevo perso importanti opportunità di lavoro: a Sky facevo l’opinionista del campionato cadetto, ma avevo in programma di fare il corso per direttori sportivi o diventare agente Fifa. Tutto questo mi è stato impedito da quella assurda sentenza di primo grado».

E adesso è pronto per ricominciare?

«Fino a giugno resto a Los Angeles, nostro figlio deve terminare la scuola. Poi vedremo: magari stavolta riesco davvero a fare il corso di direttore sportivo o l’agente Fifa. Per fortuna le opportunità non mancano, ma vi confesso che avevo un bel peso da togliermi...»

In quest’anno e mezzo qualcuno le ha girato le spalle?

«Ho visto tanta gente che c’è rimasta male, ma gli amici veri mi sono rimasti vicino, offrendomi anche occasioni di lavoro. Però ho avuto pure io un rifiuto di tutto, per questo sono andato via: è stato più un volersi isolare da parte mia che un allontanamento delle persone».

E’ tornato a credere nella giustizia?

«Dipende cosa s’intende. Molti “media” dopo i titoloni “Ventola condannato” si sono limitati a dire “Sconticino per Ventola”. E questo non è giusto, vuol dire che non ci si interessa come si dovrebbe. E questo mi fa soffrire. Penso a mia madre che non smetteva di piangere quando le ho detto che la condanna era stata annullata. Per fortuna il Tnas fa le cose per bene, ma devi arrivare in fondo. E’ l’unica giustizia vera».

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FRANCE football | MARDI 23 AVRIL 2013

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Panenka #18 | Abril de 2013

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World Soccer | May 2013

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Marco Iaria -Gasport -26-04-2013

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Roberto Perrone - CorSera -26-04-2013

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Marco Iaria - Gasport -26-04-2013

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Con gli sponsor si evita il fuorigioco

I ricavi dei club di A aumentano ma restano inferiori a quelli in Bundesliga e Premier league

La tendenza. Il giro d'affari degli accordi commerciali è salito de115% nella stagione 2011/12 del massimo campionato

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di Marco Bellinazzo - Sole 24 ore - 26-04-2013

Venti anni fa si sponsorizzava un club di calcio sostanzialmente per una questione emotiva. Dieci anni fa per-chè si voleva dare più visibilità al proprio marchio. Oggi si sponsorizza una squadra perchè si cercano nuovi clienti per la propria azienda». Marco Bogarelli, Presidente di Infront, società leader in Italia nella gestione dei diritti sportivi e partner per la commercializzazione dei brand di sei team (tra cui Milan e Lazio), sintetizza così l'evoluzione del mercato delle sponsorizzazioni nella Penisola. Un mercato che risente del peggioramento delle condizioni economiche generali, ma che ha saputo resistere alla recessione e - almeno per la serie A - addirittura crescere.

I numeri del "ReportCalcio 2013" elaborato da Figc, Pwc e Arel rivelano come il giro d'affari delle sponsorizzazioni nel massimo campionato italiano sia aumentato tra la stagione 2010/2on e quella 2011/2012 del 15%, raggiungendo quota 219 milioni. Quindici anni fa gli emolumenti degli sponsor valevano 70 milioni. Se poi consideriamo anche i ricavi commerciali delle società di calcio legati allo sfruttamento del proprio brand (merchandising, licensing, royalties), l'incremento dei ricavi è stato dell'8% fra il 2011 e il 2012. Dal 2007, le entrate relative a questi capitoli sono passate da 264 a 343 milioni in serie A e da 305 a 402 milioni se si aggiungono serie B e Lega Pro.

Performance positive realizzate nonostante la "pigrizia" dell'azienda "Calcio italiano Spa" che, viziata dalle pay-tv da cui proviene circa un miliardo all'anno, ha accumulato ritardi sempre più ampi rispetto ai concorrenti europei (Premier league e Bundesliga soprattutto) nello sviluppo di fonti di reddito alternative. In particolare, le fallite candidature agli Europei e l'insabbiamento in Parlamento della legge sugli stadi nella scorsa legislatura hanno scavato un gap infrastrutturale difficilmente colmabile in tempi brevi (a parte l'eccezione della Juventus).

Mediamente, infatti, un team di Premier ottiene ricavi per sponsorship e advertising pari a 31,6 milioni all'anno, una squadra spagnola 20 milioni, una russa 164 Nel contesto dei principali tornei continentali, le società italiane, con ricavi commerciali medi per 16 milioni, fanno meglio solo di Francia (14,5) e Olanda (12,8). Ma è la Bundesliga a fare da battistrada in questo settore: i club tedeschi, da sempre esempi di equlibrio economico-fmanziario e ora anche di competivività sul piano sportivo, con il do- minio di Bayern Monaco e Borussia Dortmund nella Champions league 2013, incassano in media 4o milioni all'anno. Proprio al Bayern spetta il primato europeo per gli introiti commerciali con oltre 200 milioni all'anno. Per quanto la concorrenza degli altri top-club sia notevole. Il Manchester United, dopo l'accordo con General Motors per la sponsorizzazione Chevrolet che assicurerà dalla stagione 2014/20156o milioni all'anno, ha appena venduto i naming rights del centro tecnico ad Aon per circa 180 milioni in otto anni. Dalla prossima stagione Qatar Airways sarà lo sponsor del Barcellona per 3o milioni annui, arricchendo una voce che nel 2012 valeva già, comecertificato da Deloitte,190 milioni. Più o meno la stessa cifra dei ricavi commerciali del Real Madrid.

Per recuperare terreno, dunque, la serie A deve potenziare asset diversi dalle tv. «Sponsorship e corporate hospitality - sottolinea Bogarelli - sono aree sottovalutate in Italia, anche a causa di strutture inadeguate. Il mercato domestico delle sponsorizzazioni d'altro canto è polverizzato e oggetto di politiche di dumping. Invece occorre una strategia omogenea che punti magari a ridurre il numero di sponsor, ma offrendo nuovi servizi coerenti con i target delle aziende attraverso diversi livelli di partnership e di costi. È chiaro che alcune squadre avranno appeal per le multinazionali, mentre altre saranno appetibili solo per le imprese radicate in un determinato territorio. Ma la filosofia deve essere unica». Il calcio si presta ad essere una piattaforma di comunicazione alla stregua dei media tradizionali. «Oltre a far salire la brand exposure - spiega il presidente di Infront- è necessario "attivare" la sponsorizzazione in modo che l'azienda-sponsor possa interagire, anche attraverso i social network, con la massa dei tifosi del club, clienti ideali di prodotti brandizzati». L'altra leva per far crescere il fatturato è la corporate hospitality. L'idea è quella di permettere alle aziende di usare gli sky-boxe gli sky-longe all'interno dello stadio per tenere riunioni durante la settimana, concludere affari o semplicemente ospitare i clienti per fidelizzarli. «Il Milan - osserva Bogarelli - ammodernando gli spazi di San Siro e rinunciando a qualche migliaio di posti, ha aumentato del 50% questa tipologia di ricavi portandoli a 7 milioni». Proprio il Milan è la società che produce i maggiori introiti da sponsorizzazioni e iniziative commerciali in Italia, con quasi 80 milioni (per il quadro delle big italiane si vedano le schede in alto). La Juventus al momento incassa circa 55 milioni. I naming rights dello stadio bianconero, per esempio, sono stati ceduti per 75 milioni a Sportfive (42 già incassati e 33 rateizzati in 12 anni).

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L’Hapoel Katamon di Gerusalemme è una cooperativa di

proprietà dei tifosi, che porta in campo i valori della multiculturalità

e mette in discussione il sistema drogato del pianeta football

Un calcio sociale

a intolleranza zero

Il club, in testa al torneo di terza divisione israeliana, promuove l’inclusività e il rispetto lavorando con associazioni no profit

di NICOLA SELLITTI (ilmanifesto 27-04-2013)

Un calciatore, di sinistra, a Gerusalemme. Che va in rete con la tolleranza. Con i valori della solidarietà, della multiculturalismo. Provando a mettere in discussione il modello capitalista cucito addosso - nel calcio e nella vita di tutti i giorni - dalla iperattiva globalizzazione. In Israele, dove il pallone dei professionisti spesso si macchia di episodi di violenza, di canti razzisti, di calciatori discriminati. Per etnia, credenze religiose, colore della pelle. L’Hapoel Katamon, squadra minore di Gerusalemme, è in testa al torneo di terza divisione israeliana, la Liga Alef. Tre punti di vantaggio sulla seconda, il Maccabi Kabilio Jaffa. Due turni al termine per il passaggio nella serie superiore. Solo un intermezzo verso l’obiettivo reale del club. Il derby con il Beitar, l’ala destra del tifo israeliano. Un milione di simpatizzanti in Israele, la società più famosa del Paese del Vicino Oriente.

Con sostenitori come Ehud Olmert, Benjamin Netanyahu. Lo era anche Ariel Sharon. Con una tifoseria che qualche mese fa protestava contro il proprietario del club, il controverso tycoon di origine russa Arkadi Gaydamak (per lui in passato mandato di cattura dall’Interpol per presunta vendita illegale di armi in Angola), che voleva ingaggiare due calciatori ceceni di fede musulmana. «Il Beitar sarà sempre puro» recitava lo striscione esposto dal tifo del Beitar. Razzismo che attinge a piene mani tra gli strati più poveri, nelle pieghe della destra integralista. Razzismo anti arabo, che mette assieme arabi e musulmani, palestinesi emusulmani. Concetti stereotipati. Che si ripetono con disarmante cadenza.

Il Katamon è invece una cooperativa sociale. La prima squadra israeliana interamente di proprietà dei tifosi. Nata sei anni fa, con i fan che raccoglievano fondi attraverso un’organizzazione no profit. Perché l’Hapoel Jerusalem Football Club (HJFC), dalle cui ceneri è nato il Katamon, era finito in rovina. Fondato nel 1925, vincitore della State Cup, la coppa israeliana, nel 1973, il club languiva nelle mani di due uomini d’affari del settore immobiliare, dopo la privatizzazione delle società di club, stabilita dalla legge nei primi anni Novanta.

L’immobilismo finanziario dei due azionisti – e le liti per il controllo della società – portava l’Hapoel nella terza serie nazionale, nel 2007. I tifosi cercavano nuovi acquirenti. Ma l’unica possibilità di sopravvivenza, salvando l’identità e la storia del club, era ripartire da zero. Nuovi capitali, «vecchia » cultura della tolleranza, con grande attenzione alla promozione sociale. I tifosi acquistavano quote da circa 200 euro. C’era, attraverso reti, passaggi, diagonali difensive e fuorigioco, da promuovere l’inclusività, la tolleranza, il rispetto. E da custodire come risorsa l’eredità culturale di Gerusalemme, mentre le tifoserie di altri club della Città Santa si facevano risucchiare dall’odio, dall’intolleranza, dagli aspetti più deteriori dell’ideologia integralista. Ecco l’Hapoel Katamon (nome preso dal luogo dove sorgeva il glorioso stadio dell’Hapoel Jerusalem, con Katamon che è un rione della zona occidentale della città), parte integrante della comunità. Era nato il primo club nella storia dello sport di Israele di cui i tifosi fossero gli unici proprietari e gestori. Il 19 ottobre 2007, per la prima partita, nella quinta categoria - la più bassa del calcio israeliano - tremila sostenitori seguirono la squadra in trasferta, mentre all’esordio casalingo erano oltre cinquemila.

In tribuna, tra i duemila aficionados, donne e bambini a intonare cori con la bandiera cubana. Gridando alla falce, al martello, all’Internazionale, a Che Guevara. Contro il «menorah », il candelabro a sette braccia, simbolo della tifoseria del Beitar. Il club è risalito fino alla terza divisione. Registrando una simpatia sempre più forte tra gli appassionati calcistici di Gerusalemme. Mentre poco meno di mille sono gli «investitori» nel club. Fuori dal campo, sono tante ed importanti le iniziative sociali intraprese dai tifosi, in stretta cooperazione con le associazioni no profit. Aiutando i bambini dei quartieri più disagiati nelle loro attività scolastiche ed extracurriculari. Dando lezioni di ebraico agli immigrati, favorendo così la loro integrazione. All’inizio del 2009 è nata una scuola calcio per i bambini della città e dei dintorni, sia arabi che ebrei, che coinvolge anche ragazzi disabili, sordi, o con problemi di sviluppo. Calcio e impegno per la comunità di Gerusalemme, il mantra del club.

E l’Hapoel Katamon è anche l’ambasciatore della fan ownership e dei comunity clubs in Israele. E i calciatori? Un’enclave di sinistra. Fedeli alla linea. In divisa rossa con scudo in stile sovietico, con stipendi da circa mille euro mensili. Non di più. Alcuni avrebbero mezzi e opportunità per giocare a livelli più alti, guadagnando cifre decisamente più alte. «È un club politico, perme giocarci è una priorità, è un modello di calcio educativo per tutti, contro il capitalismo imperante » spiega il centrocampista Aron Shai. Il suo compagno di squadra, Katz, 29 anni, aggiunge: «L’essere parte di una cooperativa è in se stesso un atto politico. E se dire no al razzismo vuol dire essere di sinistra, sì, siamo di sinistra». La dirigenza del Katamon rifiuta il peso politico del club, uno dei capo tifosi semplifica il concetto: «Il calcio ha una grande peso nella società. E i bambini che vanno a tifare Beitar ascolteranno cori che incitano alla morte degli arabi. Chi invece viene a tifare Katamon ascolterà che abbiamo creato una nuova squadra e nessuno ne prenderà il possesso».

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il venerdì 26 aprile 2013

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Una pasión ‘masificada’

Vinculado inicialmente a las élites, el fútbol se ha extendido en las últimas décadas a todas las clases sociales y se ha convertido en un micromundo gracias a la minuciosa cobertura mediática

La participación femenina y de menores de 16 años ha aumentado en los últimos años

por JESÚS DE LA PEÑA (MARCA 26-04-2013)

Hay pocos deportes como el fútbol que cuenten con millones de aficionados que siguen el día a día de sus equipos favoritos y que comentan los partidos o si su jugador predilecto ha cubierto sus expectativas. Es tal el calado dentro de la conciencia social que, aunque sea de forma figurada, constituye un micro mundo para una gran mayoría de implicados simpatizantes.

“Es una cultura que te llega aunque no la busques. Forma parte de la identidad del país y refleja, transmite y enseña tanto valores positivos como negativos de la sociedad en la que vivimos. Sin embargo, se habla del fútbol como fenómeno social en el siglo XX, adquiriendo una mayor fuerza en el que hoy vivimos”, explica la psicóloga Antonia Pelegrin, profesora de la asignatura Sociología del deporte en la Universidad Miguel Hernández de Elche.

De hecho, no hay que remontarse demasiado en el tiempo para visualizar que, no ya el fútbol, sino el deporte en general, no tenía demasiado peso entre la población. Sirva como ejemplo que, en 1975, sólo dos de cada 10 españoles practicaban una actividad deportiva.

Habría que esperar, por un lado, a la consolidación del Estado de Bienestar en el país para que el deporte se convirtiera en una práctica cultural generalizada, y por otro, la década de los 90 para que adquiriera una relevancia importante en el estilo de vida del ciudadano.

“La entidad actual adquirida por el fútbol tiene mucho que ver con las transformaciones políticas, económicas y culturales de la historia contemporánea. Su difusión sirvió para proveer a la sociedad de momentos de recreación, espectáC**O, lucro, noticias y exaltación política nacional, en el caso de los emergentes estados europeos”, apunta David Moscoso, profesor del Departamento de Sociología de la Universidad Pablo de Olavide, quien resalta que el fútbol no tendría ni un ápice de la trascendencia actual sin la ayuda de los medios de comunicación.

“Han servido para transportar el fútbol a los hogares y espacios públicos. Esto significa que, lo que constituye un mero acto deportivo, se ha convertido en un espectáC**O. De esta manera, el fútbol ha evolucionado a algo más que un deporte. Si fuera sólo eso, dejaría de formar parte importante en la vida de las personas y no sería el fenómeno sociológico que es hoy”, añade Moscoso, a cuya idea se adhiere Antonia Pelegrin al afirmar que la importancia sociológica no tendría el mismo calado si no fuese por su visibilidad mediática.

Existe un perfil medio de aficionado a este deporte. Sí es verdad que, en otro tiempo, estaba más asociado a las élites de la sociedad, tanto en práctica como disfrute. Hoy, está extendido a casi la totalidad de las capas sociales y se focaliza en conceptos tales como la implicación emocional y el vínculo de cada individuo.

“Algunos aficionados no son individuos al uso, en el sentido de que generan una identificación con los proyectos deportivos de una institución. A partir de esta lógica, si el equipo pierde, él también. No el partido, claro, sino la satisfacción de que se cumplan sus expectativas”, reflexiona el sociólogo.

Al perfil medio de hombre de mediana edad, con bajo nivel de estudios, que apenas practica deporte y con una ideología mayoritariamente de centro, se van uniendo otros actores importantes de la sociedad actual.

“Hay más participación femenina y de menores de 16 años. Además, se consolida la importancia de estar afiliado a una peña deportiva, afianzando así la identidad y el sentimiento de pertenencia de grupo ante unos valores e intereses comunes”, expone la doctora Pelegrin.

Entre sus investigaciones, destacan aquellas que se han centrado en analizar variables relacionadas con conductas agresivas en deportistas y aficionados, desde el punto de vista de la persona.

La violencia es uno de los actuales caballos de batalla de los máximos organismos futbolísticos. Conscientes del ejemplo y de la responsabilidad que tiene el fútbol como modelo para la población mundial, no han sido pocas las acciones que, con más o menos fortuna, se han puesto en marcha para intentar frenar conductas antideportivas, tanto por parte de los jugadores como del público que asiste a un estadio.

“Si un jugador insulta a otro y lo justifica en rueda de prensa, y a pesar de la sanción no hay una actitud sincera de disculpa, el niño que lo observa copia y emite esta conducta. Para estos son ídolos y personajes con los que se identifican e imitan. Si se trabaja en ello, el fútbol puede convertirse en una útil herramienta educativa para el desarrollo de valores positivos”, ejemplifica Antonia Pelegrin, que incide en la crucial intervención docente para informar a muchos jóvenes en edad escolar de la existencia de grupos radicales que desvirtúan la esencia del deporte.

Pese a existir modelos teóricos que pueden explicar socialmente la violencia en el fútbol (teniendo en cuenta las causas personales y emocionales de cada individuo) se siguen analizando las variables contextuales que motivan esas conductas para evitarlas en los jóvenes, y en este sentido, los medios de comunicación también tienen mucho que decir.

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Che noia la scuola tedesca (di calcio)

Non è tutto oro quello che luccia a Monaco e Dortmund, meglio discutere sul crollo delle spagnole

Carlo Genta - panorama.it -27-04-2013

Germania-Spagna 8-1. Non scherziamo. Va bene tutto, pure le strane congiunzioni astrali. Ma che Barcellona e Real Madrid si rammolliscano fino a questo punto, fino al punto da mandarci al cinema la sera delle gare di ritorno, fa una certa rabbia.

Non sono fatti nostri, sia chiaro. Nemmeno di striscio perché nel calcio non valgono i sillogismi: la Juventus ha perso con il Bayern che ha massacrato il Barca, dunque la cima dell’Europa non è poi così lontana dalla banda di Antonio Conte. Non funziona così. E nemmeno c’entra la rivalità sportivo-politico-economica che ci fa guardare un filo di traverso quelli che stanno dall’altra parte delle Alpi. Il fatto è che leggere le pagine sportive dei giornali in questi giorni è divertente come due ore di matematica alle 8 del mattino.

Tutti ti portano a scuola. Ma quanto sono bravi, ma quanto corrono, ma quanto sono ricchi e virtuosi questi tedeschi. E basta! Facciamo timidamente notare che un anno fa il Bayern ha perso la finale in casa con il Chelsea di Di Matteo che oggi si fa dei gran giri al mercato di Londra ogni mattina. E che il Borussia Dortmund al novantesimo dei quarti di finale con il Malaga era fuori di brutto. Si è qualificato nel recupero caro a Cesarini, peraltro con un gol altamente irregolare di Santana, difensore centrale, appena prima dei fischi dell’arbitro. E il Malaga non è esattamente una squadra che se la passa bene, essendo finito in mano agli unici sceicchi morosi del mondo. Tanto che l’Uefa ha deciso sforbiciarlo fuori dalle Coppe: se anche si qualificasse per l’Europa League come recita la classifica del momento, non potrebbe partecipare. Perché i giocatori sono fuori dalla porta degli uffici a bussare per lo stipendio. Ma non risponde nessuno.

Tornando ai tedeschi che ci portano a scuola. Certo, hanno gli stadi belli, nuovi e sempre pieni; una eccellente generazione di giovani giocatori meltin pot che uniscono all’atletismo la capacità di giocare a calcio. Hanno anche le loro grane, come quelle accuse pesantissime di evasione fiscale al presidente del Bayern, Uli Hoeness, che ha portato i soldi in Svizzera e a fine marzo ha dovuto pagare una cauzione di cinque milioni di euro, altrimenti finiva in gattabuia. C’è anche chi sospetta che i rossi di Baviera, roccaforte della Cdu di Angela Merkel, abbiano annunciato lo “scippo” di Goetze, stellina del Dortmund la mattina della semifinale con il Barcellona, per mettere in scacco il Borussia, squadra dei socialdemocratici.

Insomma, intrighi degni della miglior tradizione italiana. Certo, rimangono i risultati che ci spediscono a una finale tutta tedesca che non abbiamo nessuna voglia di vedere. A Londra poi, in casa di altri che con la Germania hanno avuto in passato qualche conto in sospeso e che vedono i tedeschi come fumo dentro agli occhi. Sono rivincite anche queste.

Se poi il Bayern alza la Coppa per le orecchie, non si potrebbe nemmeno urlare al miracolo, dato che è una squadra che spende da anni un sacco di quattrini e che ha appena ricoperto d’oro l’allenatore più ambito del mondo. Discorso diverso sarebbe per il Borussia che è andato a pescare nell’antico feudo polacco, sborsando pochi denari e mettendosi nelle mani di un tecnico con la faccia da attore e la grinta da prussiano che fa correre e giocare i suoi come un commando di militari. Bravi, bravissimi, per carità.

Ma la Caporetto di Messi e Mourinho è un tema decisamente più divertente. Come un’ora di calcetto nella palestra della scuola, che è sempre meglio della matematica. Ne riparleremo.

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EL PAÍS 28-04-2013

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Le due facce del post-Calciopoli

Luciano Moggi - Libero - 28-04-2013

MILANO, 28 aprile 2013 - Così come nella politica anche nel calcio è arrivato il momento di tirare le conclusioni. In politica è d’attualità la formazione del nuovo governo dopo il fallimento della compagine Monti, con l’intento di fare e mantenere le promesse mai mantenute fino ad oggi, diminuire le tasse, dare un lavoro ai tanti disoccupati, fare la legge sugli stadi, ecc. Nel calcio l’esame di ciò che è successo nell’arco del campionato che volge al termine, ciò che necessita fare per migliorare la situazione, se precaria, ottimizzarla invece se già buona: il tutto prende il nome di «progetto» che significa avere idee chiare sul come portare avanti una azienda, (perché tale adesso è una società di calcio), e cioè come distribuire meglio le proprie economie per coniugare i risultati sportivi a quelli gestionali. Esiste nel calcio chi sa gestire bene conoscendo il significato della parola progetto, come d’altra parte esistono, e sono la maggioranza, coloro che non sanno gestire e agiscono sull’umore del momento. Nella prima fascia dei buoni amministratori va collocata d’obbligo la Juventus. Si potrà obbiettare che la società bianconera abbia speso tantissimo dal 2006 ad oggi, si deve però riconoscere come in questo periodo siano esistite «due Juventus». La prima senza né capo né coda con dirigenti non all’altezza della situazione perché provenienti da aree di lavoro che nulla avevano a che vedere con il calcio. Ci si potrà magari domandareil perchédi queste collocazioni sbagliate, la risposta viene spontanea «da chi non amava la triade al comando e non l’ha difesa», come magari avrebbe fatto l’Avvocato e Umberto Agnelli che al tempo di Tangentopoli solevano dire «non abbandoneremo mai i nostri dipendenti, li difenderemo anzi con tutte le nostre forze» . La seconda, quella di Andrea Agnelli, che ha dovutorimediare ai danni della precedente gestione, dimostrando di avere ben in testa il da farsi, non è un caso infatti che la Juve di Andrea abbia vinto un campionato e si appresti a fare il bis. Il monito di Elkan, di qualche giorno fa, «oltre ai risultati sportivi aspetto risultati positivi anche nella gestione», ancorché giusto meglio sarebbe stato dedicarlo alla gestione di Blanc e Cobolli Gigli, solo chein quellanonc’era tracciané di risultati sportivi positivi e tanto meno gestionali. Ci sono poi quelle società che non seguono progetti oliseguonosbagliati, sonoquellechespesso, non facendo risultati, gridano ai complotti: tra queste il primo posto spetta d’obbligo all’Inter e al suo presidente. Giova aiutareogni tanto la memoria del buon Moratti rammentandogli che prima del 2006 la sua Inter finiva a 15/20 punti dalla prima, passò momenti di gloria in piena fase Calciopoli quando comprò gli juventini Ibrahimovic e Vieira ma, una volta svanito l’alone della «farsa», è rientrata nell’alveo suo normale, anzi peggiorandolo perché attualmente sta a 24 punti dalla prima in classifica che è la Juventus. E adesso il campionato. Apriamo con il derby di Torino con il quale la Juve, vincendo, potrebbe coronare la sua cavalcata trionfale verso lo scudetto-bis. Il Torino dal canto suo, vincendo o pareggiando, si potrebbe togliere dalla secche di una classifica precaria. In questi casi la previsione più logica è il pareggio. Infiamma intanto la lotta per non retrocedere con il Siena che rischia recandosi all’Olimpico a far visita alla Roma, più agevoli gli impegni di Palermo che ospita l’Inter alla Favorita e del Genoa in trasferta contro il Chievo. Per il terzo posto è lotta aperta tra il Milan che ospita il Catania e la Fiorentina in trasferta contro la Sampdoria. Le due squadre sono divise da un solo punto. Infine Parma-Lazio con nessun patema di classifica: spettacolo...assicurato.

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Istigare alla violenza si può
Il Tribunale amministrativo
grazia gli amici degli ultras

Raciti, polemica su uno striscione della curva interista
di NICOLA PALMA (IL GIORNO 29-04-2013)

Una maglietta. Uno striscione. E una sentenza che farà discutere. Sullo sfondo, la tragica fine dell’ispettore di polizia Filippo Raciti, deceduto il 2 febbraio 2007 in seguito alle ferite riportate negli scontri coi tifosi prima del derby Catania-Palermo. Per quella morte ci sono due colpevoli, condannati in via definitiva per omicidio preterintenzionale. Uno di loro, l’allora diciassettenne Antonino Speziale, si è preso 8 anni di carcere: secondo l’accusa, sarebbe stato lui a provocare all’agente la lesione letale al fegato, usando come ariete un sottolavello in metallo. Se ricordate, lo scorso novembre, all’ex ultrà etneo era arrivato l’inatteso sostegno del centravanti della Nuova Cosenza, Pietro Arcidiacono, che aveva scelto il modo peggiore per uscire dall’anonimato della Serie D: dopo aver realizzato un gol, aveva pensato bene di esporre una maglietta con la scritta «Speziale innocente». In poche ore, quell’immagine aveva fatto il giro d’Italia, sollevando indignazione e sconcerto. Ma anche ammirazione. Da parte di chi? Degli ultras.

Così, a inizio dicembre, erano apparsi in alcuni stadi striscioni pro-Arcidiacono, squalificato dal giudice sportivo fino al 20 luglio 2013 e destinatario di un Daspo (divieto di partecipare a manifestazioni sportive) di 3 anni (poi revocato). All’appello non avevano voluto mancare alcuni esponenti della Curva Nord dell’Inter, che avevano srotolato un lungo lenzuolo bianco con la scritta «Arcidiacono orgoglio degli ultras» durante il match a San Siro con il Palermo. Il messaggio neanche troppo sottinteso: è un nostro idolo chi solidarizza con l’assassino di uno «sbirro». Un messaggio inequivocabile per la Questura di Milano, che aveva immediatamente disposto 3 Daspo da 3 anni per altrettanti tifosi: Mauro M., Massimo S. e Claudio C. ospiti indesiderati in tutti gli impianti sportivi italiani e degli altri Stati membri dell’Unione Europea, dalle amichevoli alle gare di Champions League. Il motivo? Secondo i funzionari di via Fatebenefratelli, i tre «avrebbero propagato un messaggio di evidente incitazione e istigazione alla violenza». Non la pensano così i giudici del Tar della Lombardia, che l’altro giorno hanno sospeso il provvedimento. Riaprendo le porte del Meazza ai tre tifosi. I giudici sono convinti che quello striscione sia solo «un messaggio di solidarietà verso un calciatore reo di aver espresso, seppur in modo discutibile, la sua opinione, e non di una forma di comprensione verso l’atto criminale compiuto nei confronti dell’ispettore Raciti». E ancora, i sostenitori nerazzurri sarebbero stati sottoposti dalla Questura «al pregiudizio grave e irreparabile di una forte compressione della loro libertà individuale». Ora possono tornare sugli spalti. In attesa dell’udienza di merito. Data? 4 dicembre 2013.

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20minutes 30-04-2013

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Puglia Previste multe da 25 a 500 euro a carico delle famiglie
Vietato il pallone in strade
e

parchi: «Motivi di sicurezza»
Le ordinanze dei sindaci nel Barese
A Bitonto Occhiogrosso (Pdl), primo cittadino di Bitetto: «Il tiro di un ragazzo delle medie o del liceo può far male»
Le «vittime» La norma pensata per tutelare anziani, donne incinte e mamme con i passeggini
di PAOLO CONTI (CorSera 01-05-2013)

«Vietato giocare a pallone», si leggeva un tempo nei cortili dei condomini dotati di giardino, dove gli inquilini più anziani invidiavano l'esplosione di una gioventù innamorata del calcio. Ma da qualche giorno alcuni paesi intorno a Bari — come raccontava ieri la giornalaccio rosa del Mezzogiorno — sono in subbuglio. Diversi sindaci hanno adottato, o confermato, un'ordinanza che riguarda le aree verdi (e non) pubbliche e che parla molto chiaro: è vietato giocare a pallone nelle piazze e per le strade, soprattutto nei parchi. Multe previste: da 25 a 500 euro, ovviamente a carico delle famiglie perché il presumibile «colpevole» sarà sicuramente un adolescente, e persino un bimbo.

Il provvedimento è chiarissimo: «Rilevato che sul territorio comunale si manifestano comportamenti che contrastano con la fruibilità del patrimonio civico e di tutto il contesto urbano; visto l'articolo 16 comma 2 della Legge n. 689/81, così come modificato dall'articolo 6 della Legge 24/07/2008, n. 125», ovvero materia di sicurezza pubblica, di fatto si vieta di giocare a pallone in quelle aree che, nella più grande tradizione popolare italiana, hanno sempre ospitato «partitelle» spontanee nei pomeriggi dopo-scuola, la domenica mattina, i giorni di festa. Impossibile immaginare una qualsiasi piazza italiana senza un gruppo di ragazzini impegnati a correre dietro alla palla. Altrettanto impossibile pensare a un qualsiasi film della commedia all'italiana (un nome per tutti: Vittorio de Sica) senza la classica scena del pallone che rotola sul selciato di piazzali e strade, tra le case e tra la gente.

Grande stupore, molte proteste. Ma il sindaco di Bitetto in provincia di Bari, quasi 12.000 abitanti (ospita le famose spoglie del Beato Giacomo, frate laico morto in odore di santità, il suo corpo è rimasto intatto dal 1490, quando morì, ed è meta di grandi pellegrinaggi) difende la sua scelta. Dice Stefano Occhiogrosso, dottore commercialista, classe 1965, del Pdl, primo cittadino dal 16 maggio 2011 (che ha confermato in spirito bipartisan l'ordinanza sindacale emessa dal suo precedessore Giovanni Iacovelli, del Pd): «Sì, lo confermo, c'è un divieto di giocare a pallone nelle aree verdi pubbliche e sulle piazze. Vorrei premettere un dato. Qui a Bitetto abbiamo molte aree in cui i ragazzi possono giocare a pallacanestro, pallavolo e anche a calcetto. Io difendo lo spirito dell'ordinanza semplicemente perché parte da un presupposto: la mia libertà finisce dove cominciano i diritti altrui». Ovvero, sindaco? «Ma avete presente quanto possono far male le pallonate tirate dai ragazzini della scuola media o addirittura del liceo? Nelle zone in cui abbiamo vietato il gioco del pallone ci sono gli anziani. Ci sono le donne incinte. Ci sono le mamme con bambini nei passeggini o che imparano a camminare. Per non parlare di quanto può accadere alle finestre delle case o degli uffici quando arrivano certe pallonate....». Ma non teme, sindaco, l'assoluta impopolarità di una misura come questa? «Attenzione. Io sono favorevolissimo all'aggregazione sociale, sono ben consapevole del peso che ha il gioco in una corretta crescita pedagogica dei ragazzi, ma le pallonate possono far male. E io ne devo tenere conto».

E così l'ordinanza resta in vigore. Divieto di giocare a pallone all'aperto. Nel cuore del Sud italiano, dove il calcio è una religione. Chissà se nascerà un comitato dei ragazzini pro-pallone. Nel caso, ci penserà il Beato Giacomo a pacificare gli animi.

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Inviato (modificato)

Emergenza Il premier in Senato sottolinea l'esigenza di investire sulla costruzione di nuovi impianti
All'ultimo stadio

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Tra parole e leggi rinviate
gli impianti italiani
sono i peggiori d’Europa

Introiti modesti Gli introiti da stadio in serie A sono il 13% dei ricavi:
solo 186 milioni, cifra modesta rispetto a Spagna (428) e Germania (411)
di FABIO MONTI (CorSera 01-05-2013)

«Gli stadi sono quasi tutti di decenni fa, sono dentro il cuore delle città, portano intasamento e smog. Dobbiamo fare dei cambiamenti, pensando di poter far lavorare tanta gente intorno a questi investimenti, liberando i centri storici. Non si può rimanere sempre fermi per paura delle conseguenze. O ci rendiamo conto che attorno a questi temi serve fare qualcosa oppure continuiamo a rimanere immobili». Lo ha detto ieri al Senato il presidente del Consiglio, Enrico Letta ed è la fotografia del calcio italiano.

Di una legge per la costruzione degli stadi si parla dal 2007, dopo la morte di Raciti a Catania, quando sembrava che a organizzare Euro 2012 sarebbe stata l’Italia (l’Uefa poi aveva scelto Polonia e Ucraina). Il 6 aprile 2009, l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega allo sport, Rocco Crimi, aveva assicurato un’accelerazione nell’approvazione della legge sugli stadi: «Conto che venga licenziata al Senato entro fine estate per poi passare alla Camera». Il via libera del Senato è arrivato nell’ottobre 2009, ma tutto si è fermato alla Camera per le decine di emendamenti presentati. La legge (che non prevede spese pubbliche) imporrebbe ai Comuni di dare il proprio parere sui progetti di costruzione degli impianti. Questo significa che diventerebbe possibile costruire, insieme allo stadio, anche l’area di competenza, per rendere compatibile l’investimento (centri commerciali, abitazioni, musei), perché si considera la costruzione del solo stadio troppo onerosa per chiunque. Ma è stato proprio questo aspetto a frenare l’iter legislativo, in un dibattito sempre più acceso sulla questione dei vincoli ambientali. La legge si è arenata; 4 anni buttati via.

Al momento in serie A e B, c’è un solo stadio di proprietà: è quello che la Juve ha inaugurato nel settembre 2011, con risultati straordinari in tutti i sensi. La Premier League ha investito negli stadi quattro miliardi di euro; la Germania nel 2006 due miliardi, approfittando dell’organizzazione del Mondiale. L’età media degli impianti italiani è di 63 anni (54 per quelli di B). A parte lo Juventus Stadium, soltanto due impianti sono considerati di alto livello dall’Uefa: San Siro a Milano e l’Olimpico di Roma, che hanno ospitato anche la finale di Champions League (2001 e 2009). Uno degli stadi usati per Italia 90, il Sant’Elia di Cagliari, è chiuso e in stato di abbandono. Proprio quello del Cagliari resta un esempio incredibile: a inizio stagione, aveva annunciato in Lega che avrebbe giocato a Trieste; invece, attraverso deroghe continue, fra porte spalancate, semichiuse (abbonati) e chiuse, ha usato l’impianto di Is Arenas, finché, fra un ricorso e l’altro, ha deciso di lasciare e di tornare a Trieste. Ieri il presidente della Figc, Abete, ha annunciato: «L’iscrizione sarà possibile se sarà definito e chiaro lo stadio di ciascuna società, evitando le situazioni complesse che ci hanno accompagnato quest’anno».

Gli stadi italiani sono i peggiori d’Europa e non è necessario frequentare quelli di Champions per capirlo. Risultano scomodissimi, obsoleti, anacronistici, troppo grandi in rapporto alla realtà televisiva che ha riempito i salotti. Il digitale terrestre (gennaio 2005) ha completato l’allontanamento della gente dal calcio visto dal vivo. La conseguenza è che gli introiti da stadio rappresentino soltanto il 13% dei ricavi; nel 2011-2012 si è toccata quota 186 milioni di euro (-10,5% rispetto all’anno precedente). Cifra modesta se paragonata con i 428 milioni della Liga spagnola, i 411 della Bundesliga, dove gli stadi sono quasi sempre pieni. Ha detto il presidente del Coni, Malagò: «Abbiamo bisogno assoluto di questa legge». Ma se tutti la vogliono, perché non si riesce a farla?


Tanti i progetti e le idee
Udinese, Fiorentina e Inter
inseguono la Juventus

Roma, Palermo e Sassuolo La Roma made in Usa ha individuato l’area
dove costruire, anche Palermo, Catania e Sassuolo sono messe bene
di PAOLO TOMASELLI (CorSera 01-05-2013)

I vecchi stadi italiani vengono riempiti al 50%, un disastro, rispetto a Germania o Inghilterra. In compenso i cassetti sono pieni di idee, progetti, visualizzazioni, scartoffie burocratiche. Perché le società che hanno valutato di cambiare casa o almeno di ammodernarla, sono la maggioranza. La Juventus ha segnato la via e il peso sul bilancio del primo anno di vita dello Stadium (34.6 milioni di fatturato) rende evidente un concetto: l’impianto di proprietà è l’unica via di salvezza per le squadre, soprattutto se il rubinetto d’oro delle tv a pagamento si dovesse chiudere nel 2015, quando verranno ridiscussi i contratti. Ma è già tardi e solo l’Udinese ha fatto uno scatto in avanti e nel 2014 avrà un nuovo «Friuli».

Il patron Pozzo con la collaborazione del sindaco Honsell ha trovato dopo anni di palleggiamenti, la soluzione: il club bianconero ha ottenuto la concessione del diritto di superficie sull’area dello stadio per i prossimi 99 anni.Non si può parlare di un impianto di proprietà,ma nella realtà lo sarà. Il costo delle opere di ammodernamento è conveniente: la spesa di partenza è di 26 milioni, più altri investimenti attorno allo stadio, che manterrà il caratteristico «arco» della tribuna centrale e perderà la pista d’atletica. I lavori iniziano in estate e dureranno un anno. L’Udinese giocherà un campionato nell’impianto a capienza ridotta, ma si ritroverà un gioiellino da 25mila posti al coperto.

Quella di Udine potrebbe però non essere l’unica novità. Il condizionale è d’obbligoma le possibilità che il Sassuolo giochi il suo primo campionato di serie A allo stadio «Giglio» di Reggio Emilia sono molto alte. Che poi patron Squinzi decida di comprare quello che era passato alla storia come il «primo stadio di proprietà» in Italia (della Reggiana nel 1995) è un’ipotesi tutt’altro che remota. Il costo dell’operazione, per un impianto che ha bisogno solo di piccoli lavori di ammodernamento, si aggira sui 4.5 milioni: per giocare negli ultimi cinque anni al «Braglia» di Modena, il Sassuolo ne ha spesi 2.5. L’impianto, che potrebbe chiamarsi «Mapei Stadium» diventerebbe anche una casa dei concerti e potrebbe diventare un polo di rilancio per una zona messa a dura prova dal terremoto.

La griglia di partenza degli stadi per il resto è abbastanza bloccata. Dietro a Udinese e Sassuolo ci sono Palermo e Catania. Anche qui sarebbe decisivo il ruolo dell’amministrazione locale, in questo caso la Regione, che forte della propria autonomia è pronta ad accelerare. Con qualche compromesso intelligente: il Catania Stadium a Librino avrà al suo interno anche gli uffici comunali, mentre l’impianto del Palermo (costo stimato: 200 milioni) sorgerà allo Zen, con l’obiettivo di una riqualificazione urbanistica del quartiere. La Roma made in Usa ha individuato l’area di Tor di Valle per il progetto dell’architetto Dan Meis. Se tutto va bene, dal punto di vista dei permessi e delle valutazioni idrogeologiche, per il 2016 ci potrebbe essere il nuovo impianto. La Lazio, che era stata tra le prime a muoversi, è rimasta più indietro,ma almeno ha già pronto il nome: «Stadio delle Aquile». A Genova, la Sampdoria vuole rifarsi casa nella zona della Fiera. Il Genoa resterebbe al Ferraris. Il progetto della Fiorentina, con un investimento sui 150 milioni, è stato presentato ufficialmente dal sindaco Renzi e riguarderebbe l’area Mercafir, l’ex mercato ortofrutticolo aNovoli.Ma la famiglia Della Valle vuole di più: strutture commerciali, turistiche e un parco a tema. E le milanesi? L’Inter deve scegliere l’area, tra quella di San Donato o quella dell’Expo a Rho: si cercano gli investitori (da 250milioni) dopo il fallimento coi cinesi,ma c’è la volontà di fare lo stadio entro il 2018. Il Milan resterebbe al Meazza, per renderlo più moderno. Le strade sono tante, ma tutte (pericolosamente) lunghe.

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Modificato da Ghost Dog

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Penso quindi gioco

di ANDREA PIRLO & ALESSANDRO ALCIATO (MONDADORI | Aprile 2013)

[Calcioscommesse]


In generale, ho capito una cosa. Il problema vero sta nelle scommesse, quelle ufficiali, autorizzate. Da quando sono state legalizzate e liberalizzate hanno amplificato il casino, fornito un trampolino pericoloso a chi voleva combinare inciuci poco chiari, a quei personaggi con un’evidente propensione all’esagerazione. Per quanto riguarda la serie B e la serie C le istituzioni dovrebbero prendere una decisione drastica: rendere impossibili le puntate sulle partite di quei campionati. Soprattutto in C – anzi, in Lega Pro, perché si chiama così anche se nessuno se ne ricorda – ci sono giocatori che non percepiscono lo stipendio da parecchie settimane, si mettono d’accordo tra di loro, pilotano il risultato delle partite, scommettono in agenzia e così tirano a campare fino alla fine del mese. E poi fino alla fine dell’anno. E poi fino a chissà quando. In B non va tanto meglio.
Qualcuno potrebbe obiettare che se non ci fossero le scommesse ufficiali magari il loro posto verrebbe preso da quelle organizzate dalla mafia o dalla camorra o da quelle schifezze lì: possibile, ma intanto pensiamo a eliminare un problema e poi dedichiamoci al successivo. La mancanza del primo passo rende impossibile anche il secondo. Personalmente, penso che i giocatori pescati con le mani nel sacco vadano radiati. Zero perdono per chi ruba e gioca a nascondino contemporaneamente. Non so cosa possa scattare nella testa di certa gente, compresa quella di presunti campioni: credo che il fatto di voler sempre più soldi, pur avendone già un’infinità, sia una malattia.
A me mai nessuno ha proposto qualcosa del genere, e in tal senso aver giocato per tantissimi anni nel Milan ha rappresentato una fortuna: lì la sconfitta e il pareggio non contavano, si andava in campo solo per vincere. E se qualcuno avesse anche solo tentato di coinvolgermi in ċazzate del genere, l’avrei appeso al muro. Non sono un violento ma lo posso diventare.
E poi, dài, sembravamo e sembriamo tutti ciechi e muti. In serie B si vedono delle cose pazzesche, soprattutto a fine campionato: partite surreali davanti alle quali nessuno dice mai niente. Nessun giocatore si è mai alzato per parlare. Si sussurra, si vocifera che anche in serie A ci siano squadre che ogni tanto, diciamo così, si fanno un po’ prendere la mano. Il passaggio veramente difficile per un giocatore è denunciare un compagno che gli propone una “combine”. Ma come fai? Soprattutto se gioca con te o se, peggio ancora, è un tuo amico. Gli dici di no, lo maltratti, accadesse a me probabilmente gli metterei le mani addosso, però poi con che faccia vai a raccontare alla procura federale che lui, proprio lui, stava per commettere un errore madornale? A quel punto mettono in mezzo te, che non c’entri nulla, e paghi le conseguenze per tentate frodi di cui non sei direttamente colpevole. Ecco perché considero la responsabilità oggettiva una regola aberrante: tu sbagli, mi coinvolgi, ti dico di no, ti insulto, non ti denuncio e sono comunque perseguibile. I conti non tornano.
Per ovviare al problema, oltre all’abolizione delle scommesse, si dovrebbero mettere in palio dei premi a vincere. Funziona così, e faccio un esempio generico per spiegare meglio: la squadra B è seconda in classifica e gioca contro la squadra C, che non ha nessuna velleità particolare. Se la squadra B perde, la squadra A che è prima in classifica vince il campionato. Quindi, la squadra A dice alla squadra C: “Qui ci sono dei soldi. Sono vostri se battete la squadra B”. Con questi incentivi positivi tutti giocherebbero senza risparmiarsi e senza trucchi, fino alla fine. All’estero succede, ma temo che in Italia non si arriverà mai a una soluzione del genere. Ci sono troppi interessi in ballo.
Sono pronto a scommetterci.

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Se il calcio va in crisi
Non solo campioni, l’altra faccia del pallone
Tra minimi retributivi e crisi aziendali. Quello del calciatore

è diventato un vero e proprio lavoro sempre più normato
Nelle serie inferiori le zone d’ombra sono ancora più estese.

Troppi club malati di gigantismo alzano bandiera
di LORENZO LONGHI (l'Unità 01-05-2013)

NO, QUI NON SI PARLA DEI FUORICLASSE ULTRAMILIONARI, DEGLI IBRAHIMOVIC E DEI BALOTELLI, DI QUELLI CHE, CON SOLI DIECI ANNI DI CARRIERA, POTREBBERO FAR VIVERE NELL’ORO INTERE GENERAZIONI SUCCESSIVE. Il calcio non è solo stipendi da favola e veline, spot televisivi e contratti di sponsorizzazione: c’è tutto un mondo dietro alle figurine più ricercate, ed è un mondo di lavoro. Un lavoro sui generis, perché per definizione si tratta di un gioco, ma un gioco in certi casi è, appunto, un lavoro. Con oneri, obblighi, contratti collettivi, licenziamenti, cause di lavoro e crisi aziendali, persino con un sindacato, l’Aic, che fra pochi mesi festeggerà 45 anni. Macosa sono i calciatori sotto l’aspetto professionale? Lavoratori subordinati, secondo l’art. 3 della Legge 91/81 sul professionismo sportivo, rigorosamente a termine (un contratto può durare al massimo 5 anni, salvo rinnovi) e sottoposti a vincolo di esclusiva: dalla A alla Lega Pro, è così per tutti; esiste un regime di minimo contrattuale ma l’accordo economico viene stipulato singolarmente fra calciatore e società.

I più forti, o i più furbi, ricevono ingaggi da mille e una notte. Per gli altri il discorso cambia. Non solo Serie A, insomma, eppure anche i tifosi della Serie A si sono accorti che quello del calciatore è un lavoro, come nel caso dello “sciopero” (anche se il termine è improprio) dell’agosto 2011, causato dalla volontà dell’Aic di modificare l’articolo 7 - la possibilità di fuori rosa de facto voluto dalle società - dell’accordo collettivo fra Figc, Lega Serie A e Assocalciatori. Una mediazione si trovò e il campionato partì. Eppure tutto fece scalpore.

Ma che quello del calciatore sia un lavoro è stato chiaro anche in altri casi: quando, ad esempio, l’allora portiere del Cagliari Federico Marchetti denunciò la società al Collegio arbitrale della Lega chiedendo la risoluzione del contratto e un risarcimento danni per i mesi vissuti da separato in casa, senza poter giocare, o quando Pandev e Ledesma chiesero lo svincolo dalla Lazio (il primo lo ottenne, il secondo fu reintegrato) per motivi simili. In nessuno dei casi di specie i club avevano richiesto il fuori rosa tecnico, regolato dall’art. 11 dell’accordo, ma pure in assenza di indisponibilità acclarate, i giocatori non erano mai fra i convocati e, in taluni casi, nemmeno si allenavano con i compagni. Sono i casi più noti, ma non sono stati gli unici in A. E, soprattutto, sono solo la punta dell’iceberg di tante situazioni, assimilabili al mobbing, che negli anni si sono perpetrate nelle serie inferiori. Nomi minori, storie poco conosciute ma che hanno fatto giurisprudenza: i casi di Oshadogan, Fattori e Corrent, con una vecchia dirigenza della Ternana (ai tempi in C), hanno fatto scuola.

Già, le serie inferiori, zone d’ombra del nostro calcio: tanti giocatori al minimo retributivo (12 mensilità, per i calciatori oltre i 24 anni la mensilità è di 2.221,29 euro netti in A, 1.622,40 euro netti in B, 1.476,27 euro netti in Prima Divisione, 1.374,44 euro netti in Seconda; ma i minimi tabellari sono inferiori per i calciatori al primo contratto, per quelli fra i 16 e i 19 anni e fra i 20 e i 23) e troppi club professionistici, attualmente ben 111, ma erano arrivati ad essere addirittura 132. Un gigantismo che ha portato a fallimenti frequenti e dolorosi di tante società dalla gestione tutt’altro che virtuosa - e per gli atleti che vantano crediti si passa direttamente al tribunale fallimentare - o, in altri casi, a stipendi ritardati o al mancato pagamento da parte delle società dei contributi previdenziali, che sono pari al 33% dell’ingaggio netto e per il 23,8% sono a carico del club. E questo, per ragazzi che hanno stipendi non certo da nababbi e, verso i 35 anni, devono reinventarsi una vita, è una complicazione ulteriore per il futuro.

Sarà anche un mestiere invidiato - immaginatevi: essere pagati per giocare a pallone - ma, se ci si concentra sulle pagine interne lasciando perdere le copertine patinate, i problemi non mancano. Ecco perché diversi ragazzi preferiscono la giungla del dilettantismo (e i suoi a volte lauti rimborsi spese), ecco perché dal 2014-15 le società professionistiche verranno ridotte a 102, ecco perché la Lega di B - prima in Italia - ha appena approvato un tetto salariale per provare a garantire la sostenibilità del sistema, ecco perché la Lega Pro, nonostante i dubbi interpretativi sullo status di “giovane di serie”, studia l’introduzione di una tipologia di contratto simile all’apprendistato. Ecco perché, in definitiva, anche il pallone è un lavoro.

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Calcio spagnolo in crisi, l’esperto:

“Quello iberico è un sistema senza senso”

Josè María Gay de Liébana, professore di Economia all’Università di Barcellona: "Investimenti folli finanziati con debiti non sostenibili, uscite più alte delle entrate, diminuzione dei ricavi commerciali e da gara: quale azienda potrebbe mai sopravvivere così"?

di LORENZO VENDEMIALE (ilfattoquotidiano.it 02-05-2013)

Ad inizio stagione aveva pronosticato la ‘morte’ del calcio spagnolo entro 5 anni. Ci è voluto molto meno perché la profezia di Josè María Gay de Liébana (professore della facoltà di Economia dell’Università di Barcellona) assomigliasse alla realtà. Per la prima volta dal 2008, infatti, nessuna coppa europea finirà in Spagna: nelle ultime quattro edizioni Barcellona e Atletico Madrid avevano vinto ad anni alterni la Champions League (2011 e 2009) e l’Europa League (2012 e 2010); successi a cui si potevano sommare i piazzamenti di Real Madrid, Athletic Bilbao, Villareal. Il ciclo, adesso, è spezzato. E la figuraccia del Barcellona contro il Bayern Monaco sancisce il passaggio di consegne con la Germania, campione nei bilanci e sul campo. A ilfattoquotidiano.it, il professor Gay de Liébana, tra i massimi esperti di economia applicata allo sport, spiega il perché di questa crisi, intrecciata a scenari presenti e futuri del calcio europeo.

‘Morte’ del calcio spagnolo entro 5 anni: sembrava un azzardo, ma i risultati sembrano darle ragione…
La mia affermazione era una provocazione, riferita alla situazione economica della Liga. Ma è evidente che si tratta di un discorso complessivo. Il sistema attuale del calcio spagnolo semplicemente non ha senso: ci sono due club che spadroneggiano mentre gli altri sono indietro da tutti i punti di vista; questo bipolarismo nuoce al campionato, e la passione dei tifosi diminuisce giorno dopo giorno. Molte società sono finanziariamente instabili e potrebbero scomparire nel nulla. Metaforicamente e letteralmente parlando, sono tempi davvero difficili per il calcio spagnolo.

Dove nasce questa crisi?
Il calcio, ed in particolar modo il calcio spagnolo, ha vissuto per troppi anni sopra le proprie possibilità, noncurante di quanto accadeva intorno. Credevano di essere immuni dalla crisi. Ma si sbagliavano. Investimenti folli finanziati con debiti non sostenibili, uscite costantemente più alte delle entrate, diminuzione dei ricavi commerciali e da gara: quale azienda potrebbe mai sopravvivere in questa maniera?

In questo il calcio italiano sembra ricalcare gli stessi errori di quello spagnolo. Anche la nostra Serie A rischia di ‘morire’ nei prossimi 5 anni?
Questo è difficile dirlo. Di certo, però, il calcio italiano ha la necessità di reinventarsi. I grandi club della Serie A hanno ancora il prestigio della tradizione, ma non sono più competitivi in Europa. Il problema non è tanto il divario tra grandi e piccole, come in Spagna, quanto una generalizzata cattiva gestione societaria. In Italia, ormai, i proventi dei diritti tv rappresentano una percentuale troppo alta delle entrate di una squadre. Gli stadi italiani sono tra i più vuoti d’Europa e il merchandising non incide a sufficienza. Sono questi i punti su cui si dovrebbe insistere, solo così Milan, Inter e Juventus potranno tornare al vertice. E questo è vitale per tutto il movimento: in Spagna Barcellona e Real Madrid rappresentano comunque una forza trainante nel Ranking Uefa. L’Italia ha perso anche i suoi riferimenti fondamentali.

Chi invece se la passa bene è la Germania. Quali sono i segreti di questo successo?
Investimenti intelligenti, non più solo nei calciatori ma in strutture e settore giovanile, che rappresentano i veri patrimoni di una società. E poi l’applicazione di un principio semplice ma fondamentale: spese inferiori alle entrate. Un traguardo reso possibile grazie al taglio dei costi del lavoro, e soprattutto all’incremento dei ricavi. In Germania gli stadi sono moderni, a misura di tifoso e per questo sempre strapieni. E il merchandising è all’avanguardia. Il sistema tedesco è l’unico sostenibile, e la squadra che meglio rappresenta le sue qualità è il Bayern Monaco.

Cosa dobbiamo aspettarci in futuro? Il fair-play finanziario voluto dalla Uefa potrà cambiare la situazione?
Il fair play finanziario è un buon principio e un buon punto di partenza. E’ chiaro che ci sono dei dubbi sulla sua effettiva applicazione, ma la Uefa dice di voler andare fino in fondo e bisogna crederle. Tuttavia, da solo non può bastare. Se non si modifica la gestione societaria, adeguarsi al Ffp significa semplicemente accettare un ridimensionamento, anche qualitativo. E l’Italia è l’esempio migliore – anzi, peggiore – da questo punto di vista. Il modello da seguire è quello tedesco: il calcio europeo o cambia oppure rischia di morire.

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Dove vai se lo sceicco non ce l’hai
di SEBASTIANO VERNAZZA (SPORTWEEK | 4 MAGGIO 2013)

Il calcio italiano e l’ossessione araba. Anni fa Riccardo Sogliano, all’epoca gran manovratore del Genoa, si presentò a Marassi con alcuni signori vestiti da sceicchi. Forse tra loro c’era il nipote di un ex re d’Arabia o forse no: forte è il sospetto che l’astuto Sogliano avesse travestito da sceicchi dei suoi amici italiani, per tenere buona la tifoseria in un momento delicato di squadra e società. Di recente Maurizio Zamparini ha rilanciato l’ipotesi di nuovi soci arabi per il Palermo. Nel capoluogo siciliano, tempo fa, si sono visti in effetti dei signori con l’abito bianco e la kefiah come copricapo, ma per ora non è stato versato un euro. In questa stagione, però, l’ossessione araba si è manifestata con forza a Roma. A febbraio uno sceicco molto presunto, Adnan Adel Aref al Qaddumi al Shtewi, ha cercato di acquistare la Roma: si è appurato che abita vicino a Perugia in una modesta abitazione, che guida un’utilitaria e che ha un fratello commerciante di bigiotteria. Prime pagine, titoloni e poi la scoperta della “sola”, come dicono i romani. Ora è il turno della Lazio, che sarebbe nelle mire del 49enne Khalid al Shoaibi. «Col suo gruppo petrolifero fattura milioni di euro», ha spiegato Vincenzo Morabito, agente Fifa. Al Shoaibi si sarebbe innamorato della Lazio all’età di dieci anni, ai tempi dello scudetto del ’74. Lotito ha respinto con sdegno la proposta, ma la vicenda è in evoluzione. Nell’attesa degli sviluppi, si consiglia la visione dei seguenti film: Totò sceicco, Totò le Mokò e Totò d’Arabia.

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QATAR Insorgono sindacati e associazioni contro gli abusi del ricchissimo paese che organizzerà i mondiali del 2022
Un calcio ai diritti dei lavoratori
Spesso i giocatori stranieri vengono boicottati, e vedono ritirato anche il passaporto
di MICHELE GIORGIO (ilmanifesto 05-05-2013)

«In Qatar pensano che con i soldi si può comprare qualsiasi cosa: ville, automobili di lusso e anche gli esseri umani... in quel Paese gli esseri umani non sono rispettati. I lavoratori non sono rispettati. Un Paese che non rispetta tutto ciò non può organizzare i Mondiali del 2022». Il nazionale marocchino Abdessalam Ouadoo non usa mezze parole. Lo scorso novembre ha lasciato, felicemente, il calcio qatariota per unirsi al Nancy-Lorraine. E ora ha deciso di dare libero sfogo a tutta la sua rabbia nei confronti di un Paese che non lo ha rispettato come calciatore e soprattutto come uomo. Assieme al collega franco-algerino Zahir Belounis punta l’indice contro la ricca Stars League, la Serie A del Qatar, che, tra le altre cose, non ha onorato i contratti siglati a suo tempo tra sorrisi, strette di mano e abbracci.

La vicenda dei due calciatori getta una nuova ombra su questo Paese, impegnato su tutti i fronti, spesso con trame segrete ed intrighi. Dalla controversa organizzazione della Conferenza sul clima ai Mondiali di calcio, dalle forniture di armi ai ribelli libici e siriani agli «investimenti » per centinaia di milioni di dollari a Gaza, fino ai prestiti miliardari con i quali ha comprato la politica estera dell’Egitto a trazione islamista. Senza dimenticare che la famiglia reale di sheikh Hamad bin Khalifa al Thani acquista tutto quello che può dall’Europa al Medio Oriente.

Questa attività frenetica in ogni settore economico, diplomatico e sportivo è un velo d’oro che serve a nascondere ciò che accade all’interno del paese. Zahir Belouinis non ha ottenuto due anni di stipendio, gli impediscono di giocare e, più di tutto, di lasciare il Qatar. Vogliono costringerlo a raggiungere un compromesso al ribasso con il suo club, il Jaish. «Vivo una condizione pazzesca – racconta il calciatore – non posso muovermi liberamente, non posso giocare. Il mio futuro è compromesso. Nessun club farà un contratto a un calciatore di 33 anni che non si allena e vede il campo di gioco da molti mesi ». A Ouadoo i qatarioti si rifiutano di versare gli ultimi cinque stipendi. «Questo è niente – ricorda – la scorsa mi hanno obbligato ad allenarmi con temperature di 50 gradi pur di convincermi a rinunciare agli ultimi stipendi (prima di partire per la Francia, ndr). Hanno fatto di tutto per scoraggiarmi».

Un comportamento, quello dei dirigenti qatarioti, che Stephane Burckhalter, segretario generale della sezione africana del sindacato internazionale dei calciatori FIFPro, dice di conoscere bene. «Sono in corso procedure volte a tutelare Belounis e Ouadoo – spiega – sappiamo che quando un giocatore (straniero) non è più nelle grazie dei dirigenti (delle squadre del Qatar, ndr), allora è boicottato, gli viene persino ritirato il passaporto». Ai calciatori in sostanza viene applicato il principio della kafala, ossia della sponsorizzazione di un cittadino del Qatar che ogni lavoratore straniero deve ottenere per entrare e rimanere nel Paese. Principio che, di fatto, annulla i diritti del lavoratore e lo mette totalmente nelle mani dello «sponsor» che nella maggior parte dei casi gli confisca il passaporto, rendendolo ricattabile.

La protesta di Ouadoo e Belounis avviene nel momento peggiore per i dirigenti della Federazione Calcio del Qatar. La Confederazione sindacale internazionale sta facendo pressioni sulla Fifa affinchè sia ripetuto il voto che nel dicembre 2010 ha assegnato a Doha la sede dei Mondiali del 2022 per le violazioni aperte dei diritti dei lavoratori in quel Paese, dal salario alla sicurezza. Le autorità del Qatar sono corse al riparo e hanno garantito su una serie di «riforme». Sino ad oggi è cambiato ben poco. Human Rights Watch meno di un anno fa ha denunciato che i manovali asiatici in Qatar sono gravemente sfruttati e avvertì che le condizioni sul posto di lavoro saranno persino peggiori quando partiranno i lavori per i Mondiali. «Il governo (del Qatar) deve assicurare che suoi stadi per la Coppa del Mondo non saranno costruiti sugli abusi e lo sfruttamento dei lavoratori (stranieri) », ha detto Sarah Leah Whitson, direttrice di Hrw in Medio Oriente, illustrando un rapporto di 146 pagine sulle enormi commissioni che gli asiatici pagano per il reclutamento al lavoro, la confisca dei passaporti, il potere che il paese accorda ai datori di lavoro e sulla proibizione per i migranti di aderire ai sindacati e di scioperare.

Per costruire gli stadi che ospiteranno i primi Mondiali organizzati da un Paese arabo, il Qatar aveva annunciato di voler «importare» un milione di lavoratori stranieri. Cifra ridotta a mezzo milione dopo che le autorità di Doha hanno avviato trattative con la Fifa per ridurre il numero degli stadi da realizzare da 12 a 8-9. I sindacati internazionali non mollano e ripetono che senza garanzie e diritti per tutti i lavoratori, dai calciatori fino ai muratori, il Qatar non può organizzare i mondiali. E se la Federazione calcio del Qatar suda freddo, non sta meglio quella dei cugini del Bahrain. Sheikh Salman bin Ibrahim al Khalifa, membro della famiglia regnante, è accusato di «aver comprato» non pochi dei 33 voti (su un totale di 46) che di recente gli hanno permesso di ottenere la carica di presidente del calcio asiatico e un posto nell’esecutivo della Fifa. I centri dei diritti umani inoltre lo accusano di aver praticato pesanti abusi durante la dura repressione della rivolta popolare di due anni fa Piazza della Perla a Manama.

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