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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Il personaggio

Dondarini, addio a Calciopoli

“Io, assolto, eppure distrutto”

Oggi tornerà ad arbitrare. “Ma solo per beneficenza”

Battaglie e amarezze Seppi dalla Ġazzetta la notizia che ero stato sospeso. Mi sono battuto per ristabilire la verità. Ora sono pulito, ma non scordo quelli che non mi parlavano più

Ieri e domani Mi cercherò un mestiere, dopo che il calcio m’ha dato tanto. Pure ricordo belli. Come quando Zola mi spazzò via con la mano lo sputo di un tifoso sulla divisa

di LUCA BACCOLINI (la Repubblica - Bologna 25-03-2013)

Da quattro anni Paolo Dondarini, bolognese della classe ‘68, non indossa più la divisa da arbitro. «La rimetterò per Sergio», spiega davanti a un caffè, in via Indipendenza, due passi da casa. Sergio è Isabella, l’ex Primavera rossoblù malato di Sla per il quale si gioca oggi a Castenaso una partita speciale.

Quella divisa Dondarini l’aveva riposta, suo malgrado, l’1 luglio 2009, giorno in cui venne dismesso «per scelta tecnica» dalla Can, la Commissione Arbitri Nazionale. Prima e dopo, dal 2006 al dicembre 2012, ha dovuto difendersi dall’accusa di frode sportiva per due partite incriminate nell’anno di Calciopoli. Da tre mesi è completamente prosciolto. Ma nessuno gli ha restituito fischietto e lavoro. E pure molto altro, probabilmente.

Dondarini, come ha vissuto i suoi sei anni alla sbarra?

«Dal 2006 al 2009 ho arbitrato: da indagato per la giustizia ordinaria e da assolto per quella sportiva. Un paradosso. Dal 2009 al 2012, invece, ho lottato per far uscire la verità».

Lei però venne dismesso dal suo ruolo prima di venir condannato.

«Le motivazioni furono «scelta tecnica». Dovevo ricorrere? Ora forse lo farei. All’epoca decisi di non far nulla e concentrarmi sulla mia difesa, con gli avvocati Bordoni e Ugolini».

Chi le notificò il licenziamento?

«C’era Collina. Ma imparai la notizia dalla Ġazzetta. A dicembre dello stesso anno fui condannato dal Gup De Gregorio. Il lato comico? Anche un Daspo di 3 anni, mai notificato. In teoria non potevo entrare allo stadio, da innocente. Mi chiedo: se nel 2009 fossi stato ancora in servizio, sarei stato condannato?».

Come se lo spiega oggi?

«Forse la mia condanna era funzionale a quella di altri. Il 5 dicembre 2012 la Corte d’Appello ha scritto che c’erano i presupposti per potermi dichiarare innocente già in primo grado. Ciò rafforza le due istanze di richiesta danni che inviai all’allora ministro Alfano. Mai avuto risposta».

Cos’è stata Calciopoli per lei?

«Tra gli arbitri non è mai esistita. Lo dicono le sentenze: non c’è stata alterazione nelle decisioni arbitrali; solo rapporti inopportuni tra dirigenti e designatori ».

Arbitrare da indagato non dev’essere stato semplice.

«Ogni svista era l’errore di un arbitro imputato. Ho diretto la Juve una sola volta, dal 2006 al 2009. A Reggio Calabria: finì 2-1 per la Reggina con rigore fischiato a tempo scaduto. Netto, lo fischierei anche oggi».

E’ l’episodio sul quale lo juventino Mughini disse: «costruzione diabolica di una mente malata». E per questo è stato condannato in primo grado per diffamazione.

«Gli ho stretto la mano al processo. Era doveroso, mi ha chiesto scusa».

Magra rivincita.

«Ho perso cinque anni da arbitro Can e altrettanti da internazionale. La prossima stagione sarebbe stata l’ultima».

Le manca quella vita?

«A 16 anni vidi un manifesto per diventare arbitro e lì iniziato la carriera, ininterrotta fino al 1 gennaio 2013, quando mi son dimesso dall’Aia. Dormivo fuori casa cinque mesi l’anno. Ma la passione faceva dimenticare le sofferenze».

Ha perso degli amici?

«No, ma ricordo con dispiacere chi si dava di gomito, ridendo, quando si seppe che ero indagato. Oppure penso a Nicchi, che non ha risposto alla mia lettera di dimissioni dall’Aia. Dei vertici non s’è fatto vivo nessuno, nemmeno dopo l’assoluzione definitiva».

Lei ha tre figli. Se uno volesse fare l’arbitro?

«Glielo sconsiglierei, vista la mia esperienza».

Cosa le fa dire ne è valsa la pena?

«La soddisfazione di essere accettato dai giocatori. Il massimo per un arbitro».

E ora da dove ricomincia?

«Avevo mollato il mio lavoro nelle assicurazioni. Mi sono laureato con una tesi sul rilancio del marketing delle società di calcio. Mi piacerebbe lavorare lì, magari in un club. Di esperienza ne ho accumulata».

Un’immagine pulita del calcio, che non scorderà mai.

«Una persona. Zola. A Cagliari un tifoso mi sputò. Lui mi pulì la casacca con la mano. E mi chiese scusa. Non misi a referto l’episodio».

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Football's Anticompetitive Streak

Some of Europe's biggest clubs are, unsurprisingly,

supporting rules that entrench their dominance.

by JEAN-LOUIS DUPONT (THE WALL STREET JOURNAL 25-03-2013)

Normally, if a trade association introduced rules that raised barriers to entry and entrenched dominant players, antitrust regulators would be up in arms. Yet UEFA—the Union of European Football Associations—seems to enjoy the support, even the encouragement, of the European Commission on new rules that will do just that.

The Financial Fair Play (FFP) rules, which come into force in the 2013-14 season, prevent football clubs from spending more than what they earn each year. Clubs that do not comply with this "break-even" principle will face sanctions, including a potential ban on participation in UEFA competitions.

The new rules, which were first proposed in 2009, are supposedly meant to stop clubs' ballooning financial losses, which according to UEFA have threatened both individual, highly popular clubs and the future of European football as a whole.

All of this sounds reasonable at first. But as an agreement whereby industry participants jointly decide to limit investments, FFP likely constitutes collusion and hence a violation of EU competition law. FFP may also infringe other EU freedoms such as the free movement of workers and services.

This isn't the view of the European Commission. In a letter dated March 12, 2012, competition chief Joaquin Almunia wrote to UEFA President Michel Platini to say that he welcomed the break-even rule, stating that "this principle is also consistent with the aims and objectives of EU policy in the field of State Aid."

But the European Court of Justice might see it differently. This wouldn't be the first case in which sporting rules are struck down by the EU's highest court. In the 1995 Bosman ruling, the ECJ ruled against restrictions that prevented football players from moving to new clubs after their contracts expired. The Luxembourg-based court also prohibited domestic football leagues and UEFA from placing quotas on the number of non-EU players allowed on teams.

In its Meca-Medina judgment of 2006, the ECJ set an even more important precedent: that sports do not constitute a special case before EU law. The court must apply the same tests to sports as it does to any area of economic activity. I was involved in both of these cases, and I would note that in each instance the governing bodies concerned had initially received the full support of the European Commission.

The relevant test for sporting rules, therefore, is that if they distort competition or other EU freedoms, they must do so no more than is necessary in pursuit of legitimate objectives. That FFP distorts competition and EU freedoms is plain: EU case law has held that football players are the raw materials for football clubs to produce their final product. FFP is a joint agreement between clubs to limit their freedom to hire players by restraining their ability to spend on wages and transfers. This restraint of free competition may at the same time constitute a violation of the free movement of workers.

The next question is whether the objectives of FFP are legitimate and necessary. UEFA has put forth several objectives for FFP, the first of which is preserving the long-term financial stability of European football. This is laudable but unlikely to be considered such a fundamental objective that it justifies restricting competition.

A second objective, to preserve the integrity of the game in UEFA competition, might be looked upon better. But in fact, FFP is more likely to hinder than help in this regard.

European club football is characterized by numerous competitive imbalances: between clubs competing in UEFA competitions, between the domestic leagues of different countries, and between individual clubs in those leagues. Often the key determinant of a club's financial strength is the size of its domestic market and the commercial realities that apply within it—competing in the English Premier League will always be more lucrative than in its Scottish counterpart. As a result, the leading clubs of smaller countries such as Luxembourg or Ireland will always be at a disadvantage next to the leading clubs of bigger markets.

The break-even rule makes no allowance for the commercial disparities between individual national leagues, which means smaller clubs are hit harder, proportionately, than larger ones. Without the ability to invest in their longer-term success, smaller clubs will stay small. This is clearly anticompetitive.

Even if FFP were sufficiently legitimate and necessary to justify its distortions of EU principles, however, it would still have to clear a final hurdle: proportionality. UEFA would need to convince the EU's judges in Luxembourg that FFP is the least restrictive means of achieving its aims.

This seems unlikely. Existing UEFA regulations already require clubs to prove before the start of each season that they have no overdue payables to other clubs, to their employees or to tax authorities. With these safeguards already in place, it is hard to see why we need to stop clubs from incurring losses if and when they can safely fund them from the resources at their disposal.

If the ECJ were to declare FFP invalid, the ruling would hold for any FFP-based rules adopted at the national level. EU law also applies to restrictive practices that affect the territory of any single member state.

None of this implies, however, that competition law prevents UEFA from improving football's financial model. If UEFA is serious about tackling the issue, it should address the root causes of the competitive imbalances among teams. UEFA's territorial model could be redrawn, for instance, to allow clubs from major cities but small countries to become more competitive. More ambitious revenue-sharing between clubs and/or whole leagues, partly financed by a "luxury tax" on high-spending clubs, would also help.

But such solutions would run against the interests of the clubs with the most political clout. Some of Europe's biggest clubs are, unsurprisingly, the loudest supporters of rules that entrench their dominance. The time is right for a strong reminder from the EU's antitrust authorities that football, like any other multibillion-euro industry, must comply with the law.

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Inviato (modificato)

IN QATENE

Il più grande sindacato al mondo, l’Ituc, denuncia a ET: «Il Qatar è uno Stato schiavista. Per costruire le infrastrutture della Coppa è probabile che ci saranno molte morti bianche», addirittura oltre i 736 calciatori in campo. In un Paese di soli 250 mila cittadini su quasi 2milioni di residenti, per gli immigrati sono previste paghe da fame e il ritiro del passaporto. A volte dormono in 18 in camere da 4. E la Fifa che fa?

MONDIALE 2022 «PIÙ OPERAI MORTI CHE GIOCATORI»

Nel solo 2010 il Nepal ha contato 191 vittime fra i suoi emigrati

di ANDREA LUCHETTA (EXTRATIME 26-03-2013)

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«Il Qatar è uno Stato schiavista. Ha tempo fino al 31 marzo per lanciare dei segnali di riforma. Poi daremo il via a una campagna globale per chiedere alla Fifa di riassegnare i Mondiali 2022». Così Sharan Burrow, segretario generale dell’Ituc, International Trade Union Confederation, prima confederazione sindacale al mondo (175 milioni di iscritti in 155 Paesi). Senza cambi radicali «è probabile che moriranno più operai per costruire le infrastrutture della Coppa di quanti giocatori scenderanno in campo», i 736 delle 32 nazionali presenti. Nicholas McGeehan, di Human Rights Watch (Hrw), è netto: «Non si può ospitare un torneo del XXI secolo in un Paese fermo al XIX». Ed ecco il giudizio del Dipartimento di Stato Usa: «Il Qatar è Paese di arrivo per donne e uomini costretti al lavoro forzato». Senza profonde riforme i Mondiali saranno costruiti sullo sfruttamento di migliaia di operai. Nel Paese col più alto Pil pro capite al mondo.

Condizioni da servi

«Aspettatevi di essere sbalorditi» è lo slogan dei Mondiali di Doha, i più costosi di sempre. Per Bloomberg, gli investimenti supereranno i 100 miliardi di euro. Molti progetti erano già in calendario, ma il 2022 ha reso i piani ancor più ambiziosi. A trasformare i sogni in realtà è chiamato un esercito di operai stranieri, com’è logico in uno Stato che conta solo 250 mila cittadini su 1,9milioni di residenti. Nei prossimi 9 anni, si stima, il boom infrastrutturale attirerà un altro milione di lavoratori. Molti sono condannati già prima della partenza. Attratti da promesse fasulle, pagano commissioni esorbitanti per il permesso di soggiorno, arrivando a ipotecare la casa. La legge vieta queste commissioni, ma - denuncia Hrw - i controlli non sono tali da scoraggiare il fenomeno. Messo piede nella penisola, gli immigrati scoprono che con un dollaro guadagnato ogni ora faticano a coprire anche i costi per il cibo. Non basta. Malgrado la legge lo vieti, a quasi tutti i lavoratori viene sequestrato il passaporto. E se anche riescono a conservarlo, se ne fanno poco. In base alla kafala, il sistema che regola l’immigrazione, uno straniero può lasciare il Paese solo col consenso del datore di lavoro. Che ha anche il potere di revocare il permesso di soggiorno dei dipendenti, o di denunciarli se non si presentano al lavoro.

Le vittime nepalesi

Gli operai vivono in quartieri segregati. Norme alla mano, ogni stanza può ospitare 4 lavoratori. Eppure in tutti e 6 gli accampamenti visitati nel 2012 da Hrw, in queste camere dormivano fra le 8 e le 18 persone. In vari casi con aerazione pessima o aria condizionata fuori uso malgrado d’estate si tocchino i 45 gradi. Nessuna legge obbliga il governo a rendere noti i dati sulle morti bianche. Nel 2012 ha fatto sapere che erano morti 6 operai in 3 anni. Difficile crederci, se solo nel 2010 l’ambasciata nepalese ha contato 191 vittime fra i suoi emigrati. La legge vieta agli stranieri di aderire a un sindacato. Minimo salariale e contrattazioni collettive sono espressioni ignote. Negli ultimi mesi il governo ha fatto aperture, ma la Burrow è scettica. Le possibilità di veder riconosciuta un’effettiva libertà sindacale «sembrano pari a zero».

Blatter a un bivio

I Mondiali 2022 possono alimentare questo sistema di sfruttamento; ma anche trasformarsi nel motore di una riforma storica nel Golfo. Mai come oggi Doha è desiderosa di affermarsi sullo scacchiere internazionale e sensibile alle pressioni esterne. «Siamo felici che i Mondiali siano stati attribuiti al Qatar - dice McGeehan -. Possono trasformarsi in un veicolo di cambiamento». A febbraio, il Comitato Supremo per Qatar 2022 ha annunciato la stesura di una «Carta dei lavoratori stranieri» per i Mondiali. Sconosciuto finora il criterio scelto per stabilire quali investimenti siano legati alla Coppa e quali no. «Comunque sarà inaccettabile se gli altri operai verranno trattati come esseri inferiori», spiega la Burrow. Giorni fa Doha ha promesso anche il varo di un Comitato per la difesa dei lavoratori. McGeehan è netto: «Non vedo perché dovremmo festeggiare l’ennesimo apparato burocratico in un sistema che non funziona». La Fifa, a parole, ha recepito l’enormità del problema. Il segretario generale Valcke ha garantito che in futuro i diritti dei lavoratori saranno fra i criteri considerati per l’assegnazione dei Mondiali. Rispondendo a ET, la Fifa sottolinea di aver incontrato varie organizzazioni, fra cui l’Ituc, per assicurare «condizioni di lavoro degne e sicure». Ma McGeehan è deluso: «Finora la Fifa non ha sfruttato l’influenza di cui gode. Ma è in ballo anche la sua immagine».

3 domande a...

ANTOINE BASBOUS

politologo francese esperto di Paesi arabi

«UN PAESE A DUE FACCE

LA STRADA È LUNGA»

Antoine Basbous è politologo, specialista del mondo arabo, dell’islam

e del terrorismo islamico, fondatore dell’Osservatorio dei Paesi Arabi.

di ALESSANDRO GRANDESSO (EXTRATIME 26-03-2013)

1 Può considerarsi normale un Paese che si propone come moderno e paga una miseria gli operai che rischiano la vita nei cantieri del Mondiale 2022?

«Anche in Qatar vige la legge della domanda e dell’offerta. Gli immigrati sanno a cosa vanno incontro. Uno stipendio da 130-180 euro può essere poco ai nostri occhi, ma non per chi fugge dalla povertà dei Paesi asiatici. Però ciò non toglie che si debba denunciare questa situazione per cercare di migliorare le loro condizioni di vita e salario».

2 In Qatar sono vietati i partiti e l’omosessualità è considerata un reato.

«La via verso l’illuminismo è ancora lunga per il Qatar, dove la tribù costituisce il fondamento della società. Si tratta di un Paese che rinvia le elezioni da anni e considera i partiti come un rischio per la famiglia dell’Emiro al potere. La questione dell’omosessualità invece riguarda tutto il mondo arabo che non è ancora maturo per accettarla, nonostante i molti gay e lesbiche nelle famiglie regnanti».

3 Tempo fa un tribunale del Qatar ha condannato a 15 anni di prigione il poeta Ibn al-Dhib, che omaggiava le rivoluzioni arabe, sostenute da Doha.

«È un atteggiamento che rivela le contraddizioni della politica del Qatar, che crea una tv internazionale come Al Jazeera ma non tollera contestatori in patria, che si considera alleato degli Usa ma intrattiene buone relazioni con l’Iran, almeno fino al 2011, e di recente ha sostenuto gli jihadisti nel Mali. Il Qatar si considera moderno ma dedica la sua più grande moschea al fondatore del Wahhabismo, ispiratore di Bin Laden e Al Qaeda».

IL CASO

E IN BELGIO È TRATTA

DI GIOVANI AFRICANI

L’Eupen è controllato dall’Aspire, l’accademia dei proprietari del Psg.

Ma quanti dubbi sui 17 ragazzi del ’94 in rosa

di ALESSANDRO GRANDESSO (EXTRATIME 26-03-2013)

Non c’è Beckham, neppure Ibrahimovic e Lavezzi. Non sono primi in classifica, né ai quarti di Champions League. Ma l’Eupen, 6° in serie B belga, con in rosa tantissimi ragazzini africani, quasi tutti del ’94, è comunque imparentato col Psg stellare di Ancelotti. Lo scorso anno è stato rilevato dell’accademia Aspire, fondata da Tamim Bin Hamad Al-Thani, lo sceicco proprietario del Psg. Non uno sfizio, ma una tappa cruciale del piano di formazione di nuovi talenti che Doha preleva in giro per i Paesi del terzo mondo, essenzialmente in Africa, con l’idea di farne giocatori professionisti, magari da naturalizzare in vista del Mondiale 2022.

Torbida provvidenza

Almeno quelli più talentuosi. Gli altri, invece, rischiano forse di fare la fine degli operai dei cantieri degli stadi qatarioti. Per lo meno secondo France Football, che punta il dito contro una strategia espansionistica con pochi scrupoli. L’Eupen infatti la scorsa stagione stava per estinguersi. Il proprietario, Ingo Klein, era in carcere per truffa. L’approccio dell’Aspire è stato provvidenziale, ma impostato da Luciano D’Onofrio, un procuratore «cui - scrive il magazine francese – è vietato esercitare la professione, già condannato per il processo sui conti occulti del Marsiglia, sotto inchiesta per un giro di riciclaggio di denaro sporco». Poco importa, l’operazione va in porto permettendo così di concretizzare la fase finale del programma «Football Dreams», ovvero l’inserimento nel mondo professionistico.

Li naturalizzano?

Così all’Eupen sono sbarcati 17 giocatori nuovi, tutti africani, tutti 18-19enni, tutti sotto contratto, ma per un solo anno. Il che solleva dubbi sulla politica qatariota, perché a Doha si scalda già la nuova sfornata di accademici, classe ’95. «Non li abbandoneremo – dichiarano i dirigenti che però hanno già fatto fuori la vecchia guardia – e non abbiamo intenzione di naturalizzarli». Ma il cambio di passaporto non è da escludere per il giovane difensore senegalese Diawandou Diagne, già a quota 26 presenze in questo campionato: «Nel calcio non bisogna mai dire mai». Sempre se si è all’altezza delle ambizioni dello sceicco.

Modificato da Ghost Dog

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quanta ipocrisia

c'è in tutti noi

ci scandaliziamo per x e non battiamo ciglio per x alla milionesima potenza

il qatar è nostro amico quindi.............. va tutto bene

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GUERRA CIVILE E SPORT Un grottesco teatrino per il regime

L’assurda recita del calcio:

in Siria si gioca sotto le bombe

Nel Paese stravolto il campionato non si ferma: così Assad inscena una finta

normalità. Qualche match però salta: i giocatori sono in trincea con i ribelli

PERICOLOSO Il rischio di essere uccisi in campo è altissimo. Gli arbitri sono terrorizzati

di LUIGI GUELPA (il Giornale 27-03-2013)

«Panem et circenses» è la locuzione a cui si aggrappa Assad per illudersi e illudere che in Siria ci sia una parvenza di normalità. In realtà gli sono rimasti solo i «circenses» perché il pane inizia a scarseggiare ovunque, soprattutto da quando ha ordinato il bombardamento dei forni per trascinare i ribelli alla fame più nera. Non restano che i giochi da circo con le fattezze di una sfera di cuoio, perché in Siria si gioca a calcio nonostante la guerra, e a nessuno è passato per l'anticamera del cervello di sospendere il campionato. Lo spettacolo deve continuare. Non lo pensa solo Assad, ma soprattutto il cugino Fawwaz, proprietario e sostenitore del Tishreen di Latakia. Uno che entra allo stadio con la pistola ben in vista, risoluto a usarla quando gli arbitri fischiano un rigore contro la sua squadra. Lo scorso anno Fawwaz è sceso in campo sparando in aria come in un film western di quart'ordine. Storie che vengono a galla dopo anni di censure della stampa di regime, che pubblica con puntualità i risultati del campionato.

Assad si è lasciato influenzare anche nelle scelte sportive, allestendo un torneo che ha le fattezze di un patetico teatrino. La Premier League ha preso il via soltanto a Damasco e dintorni. In stadi rigorosamente simili a paesaggi lunari si sono affrontate le squadre raggruppate nel girone della capitale. Ad Aleppo, nonostante un calendario diramato nei mesi scorsi dalla federazione, non c'è stata invece la possibilità di giocare una sola partita. «Gli arbitri hanno paura a dirigere gli incontri di Aleppo, Homs o Idlib - racconta Ammar Rihawi, allenatore dell'Al Ittihad, squadra della città del sapone - e lo stesso accade con i giocatori. Il rischio di morire in campo è altissimo». Proprio ad Aleppo il regime aveva inaugurato l'anno scorso un impianto avveniristico, progettato dall'architetto polacco Stanislaw Kus. Ma si tratta di una cattedrale ne ldeserto. Un teatro che è rimasto molto presto senza attori.

Si resta con le mani in mano ad aspettare giorni migliori, oppure si ammazza il tempo in tante maniere, compresa quella di arruolarsi tra i rivoltosi. I giocatori dell'Omyyah di Idlib (60 km da Aleppo) non hanno esitato un solo istante e si sono messi a disposizione della brigata «Shuhada Badr». Venti giocatori, l'allenatore e persino il magazziniere. A quelle latitudini l'odio per Assad si può tastare con mano. «Ha distrutto il Paese - spiega Zakaria Hassan Bik, 23 anni, difensore di ruolo dell'Omyyah, miliziano dell'ultima ora - anche lo sport è stato devastato dal regime». Zakaria si riferisce alla squadra dell'Al Jaish, il club dell'esercito nel quale giocano alcuni elementi che seminano il terrore nella famigerata Quarta Divisione Corazzata. Calciatori e soldati che hanno anche vestito la maglia della nazionale prima dell'embargo imposto dalla Fifa.

Guerra e pallone si intrecciano in Siria forse ancora di più di quanto accaduto in passato nell'Iraq di Saddam. Ci sono atleti invisi alla popolazione perché quando imbracciano le armi si macchiano dei peggiori crimini, come le colonne della nazionale Mohamad Zbida, Afa Al Rifai o Jehad Al Baour. Non mancanoi disertori, come il portiere Albasit Sarut, reporter per conto dell'Esercito della Siria Libera, l'uomo che posta sui principali social network le efferatezze degli uomini di Assad.

Su di lui pende una taglia da 200mila dollari. E come in ogni storia surreale ci sono anche gli stranieri, non intesi come mercenari dell'AK-47: sono i calciatori provenienti da Brasile, Romania e altri Paesi. In tutto dodici tesserati che in barba alla situazione surreale vivono a Damasco nella loro cappa di vetro e guadagnano anche 300mila dollari a stagione (come il centravanti brasiliano Edmar).

Il caso più clamoroso riguarda l'allenatore rumeno Valeriu Tita, consulente per la federcalcio di Damasco. Ha guidato la nazionale siriana e ora attende giorni migliori, spesato da Assad che gli ha messo a disposizione una villa sul mare a Tartus.

Fa la spola tra la Siria e la Giordania, in attesa di riprendere l'attività di commissario tecnico di una nazionale più avvezza alle pallottole che alla palla.

IRAQ-SIRIA A BAGHDAD

Le guerre che non uccidono il calcio

di LUCA PISAPIA (il Fatto Quotidiano 27-03-2013)

Il calcio è tornato a Baghdad, dopo oltre quattro anni di assenza. Avversario dell’Iraq allo stadio Al Shaab è stata la Siria. Hanno vinto – per la cronaca – i padroni di casa 2 a 1. Un’amichevole il cui significato trascende ogni schema di gioco e racconta invece la storia di una regione massacrata da guerre, endogene o esogene che siano, di cui il calcio giocato è solo l’ultima vittima. L’ultima volta che la Nazionale irachena giocò in casa fu infatti nel 2009, avversaria la Palestina davanti a una folla di oltre 50 mi-la persone. Poi una squalifica pluriennale della Federazione per interferenze governative e l’inizio di un pellegrinaggio al di fuori dei confini – dal Kurdistan al Kuwait, agli Emirati Arabi – senza mai poter tornare a casa. Fino a quando la Fifa, appena cinque giorni fa, ha dato il via libera alla Federcalcio irachena, che in tutta fretta ha organizzato un’amichevole con la Siria, altra squadra che da anni è costretta a giocare le sue partite casalinghe lontano da Damasco, per lo più in Iran. Curioso notare come in Iraq il campionato nazionale, sospeso per due anni durante l’ultima invasione angloamericana, sia oramai ripreso da tempo, ma il fatto che la Nazionale sia stata invece esclusa a più riprese dalle competizioni internazionali, racconta di un paese tutt’altro che pacificato. Al contrario in Siria, dove Assad vorrebbe far credere che tutto procede con regolarità, il campionato è stato sospeso per tutto lo scorso anno, per l’impossibilità delle squadre a viaggiare per le trasferte sotto i bombardamenti.

Ed è poi ripreso questo autunno, su precisa indicazione governativa, nonostante si debba giocare in stadi prevalentemente vuoti, dove i fischi dell’arbitro sono sovrastati dal fragore delle bombe. E il mese scorso, durante una seduta di allenamento allo stadio, un colpo di mortaio ha ucciso un giocatore, e ne ha feriti altri due, della squadra Al-Wathbah di Homs: la cui tifoseria è associata con gli oppositori del regime e il cui ex portiere si è tolto i guantoni per imbracciare il fucile da quando, due anni fa, ha perso il fratello in guerra. Quella di Homs non è l’unica squadra di calcio di-venuta simbolo di opposizione al regime, il caso più noto è quello egiziano dove gli ultras del Al-Ahly del Cairo hanno partecipato attivamente alle proteste di Piazza Tahrir contro Mubarak. La conseguenza immediata è stato il massacro di Port Said, nel primo anniversario della rivoluzione, dove oltre 70 tifosi del Al-Ahly sono morti e cui è seguita la sospensione del campionato per oltre due anni. Oggi tra processi farsa, nuovi scontri e l’inasprimento delle leggi repressive contro gli ultras, il campionato è ripreso nel silenzio assordante delle partite a porte chiuse: a sancire il tradimento di molte delle promesse della primavera araba, dentro e fuori dal calcio. Come in Tunisia, dove il campionato è proseguito tale e quale – con l’Esperance di Tunisi sempre indiscusso campione – prima e dopo la cacciata di Ben Alì, ma dove succede che Abdesslam Bouhouche, giocatore di El Gawafel, sia stato tra i partecipanti dell’assalto all’ambasciata americana lo scorso settembre. In Libia, invece, ancora non si gioca dalla morte di Gheddafi. Il paese ha perso anche il diritto di ospitare la Coppa d’Africa 2013, che si è giocata invece in Sudafrica, e all’orizzonte non s’intravedono novità.

Gli stadi giacciono inutilizzati e il pallone non rotola nemmeno nelle strade, anche lì qualcuno ha fatto il deserto con la scusa di portare la pace. Unica eccezione l’Afghanistan, dove le tensioni sono tutt’altro che risolte, ma l’anno scorso il campionato di calcio è ripartito nella maniera più improbabile: grazie a un reality show televisivo. Il canale Tolo Tv, del gruppo Moby, ha infatti organizzato un concorso chiamato Maidan e sabz (campo verde) dove i telespettatori potevano scegliere i calciatori da assegnare a ognuna delle otto squadre che avrebbero partecipato al nuovo campionato di calcio, poi vinto dal Toofaan Harirod Fc. Un format di successo, replicato anche quest’anno, che si spera non debba necessariamente diventare l’unica soluzione possibile ai mali del calcio al tempo delle guerre.

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Sono ancora in piedi

Paul Gascoigne, fuori dalla clinica:

«La bottiglia è qui, ma ho voluto vivere»

L’infanzia penosa e rubata, il calcio e le pedate in faccia: un uomo

con il destino segnato, che prova a invertire il finale già scritto.

Con tre amici accanto e una promessa a cui nessuno può credere

di FEDERICO FERRERO (l'Unità 27-03-2013)

È CHE CI NASCI, BRITISH BULLDOG, COME GASCOIGNE DA GATESHEAD, IERI CAMPIONE, OGGI CANDIDATO AL CIMITERO DELLE STELLE CADUTE NELLA POLVERE. IL MARCHIO DELLA PERDIZIONE, DELLA VITACCIA DEI LAVORATORI DA CANTIERE DI NEWCASTLE, TI RESTA APPICCICATO ANCHE SE LO LAVI VIA, COME UN ERGASTOLO IN LIBERTÀ. Come il puzzo degli stabilimenti del carbone, il circolo di carcasse dismesse sulla sponda del Tyne che Paul, bambino, dribblava nelle scorribande da perdigiorno.

Gazza, il diamante cresciuto nello zozzume come il Will Hunting di Gus Van Sant, le aveva proprio tutte: famiglia di disperati, alloggiati in una fetida council house - le nostre case Gescal - con bagno in comune. Papà epilettico, bilancio familiare da terzo mondo, bevute e sberle; in più, una precoce relazione con la signora Morte, tanto cara da fargli visita per stendergli sotto gli occhi prima l'amico più caro, poi un compagno di giochi, apprendista muratore. Provateci, a vivere così senza sfociare nella fiumana dei teppistelli da stadio, i professionisti degli espedienti.

Ecco che il calcio, per Paul Gascoigne, non fu il sogno proibito del fanciullo col poster di Brian Robson, semmai uno sgorgo violento e obbligato. L'unico canale praticabile per cacciar fuori la testa dal fango concesso a un cliente fisso dell'assistente sociale, dipendente a otto anni dai videogiochi da bar. Un elemento buono a rimpolpare il sottobosco della criminalità urbana. Ma il pallone, il vero dio nelle case degli operai, sposato alla cara vecchia cassa da trentasei di Brown Ale, decise di allungargli un braccio. Era nato un uomo fortunato, in quello sfascio di società che i Sex Pistols sbraitavano inveendo contro la Regina e il regime di Londra, Paul Gascoigne: un asso del centrocampo, un mastino di talento arrabbiatissimo col mondo e solo in apparenza ripulito dalla divisa ordinata del Newcastle United. Non era il fuoriclasse che ammiccava con ipocrisia al popolo della curva: era uno di loro. Solo che, ogni maledetta domenica, saltava il muretto e smistava assist per 90 minuti agli eroi del St. James' Park o nell'arena del Tottenham, squadra che lo lanciò in Nazionale e gli offrì la ribalta per acchiappare un contratto super con la Lazio. Ma a casa, dagli amici del bar, tornava sempre a offrire un giro.

THE PELVIS

Gazza era una canaglia: nei giorni buoni, imitava Elvis Presley nello spogliatoio, gorgheggiando con il phon, ubriacava di finte una intera linea di difesa, o segnava all'ultimo minuto nel derby, come contro la Roma nel 1992. In quelli medi, allietava le cronache degli inviati rubando il cartellino giallo per ammonire l'arbitro. In quelli cattivi, reduce da una nottataccia alcolica, gli montava la rabbia dello spiantato e spaccava tibie, spesso facendosi male a sua volta.

Vinse poco, due campionati scozzesi coi Rangers; mettergli la mordacchia non era impossibile, solo inutile. Quasi a forzarsi il ricordo delle origini, stinte e squallide come la tappezzeria di casa, amava spezzare ogni idillio: non convocato, si presentava in tribuna come al cinema, armato di hot dog e secchiello di popcorn. Preso in un momento no, mandò «a farsi føttere» tutta la Norvegia in diretta tv, in risposta al cronista che lo invitava a salutare il suo Paese.

Perso il calcio, neanche un materasso di una trentina di miliardi di lire gli fece da scudo. Perse tutto, vai a sapere come; nei tentativi abortiti di giochicchiare negli States e in Cina, pensata comune ai campioni spompati vogliosi di contratti honoris causa, gli riuscì solo di far conoscenza con la depressione. Il Boston United o il Gansu Tianma non sono il Middlesbrough; invece la bottiglia è sempre la stessa, ai quattro angoli del mondo. Ed è a quella che Gascoigne aveva preso ad attaccarsi, un giorno per tristezza, l'altro per noia, poi per abitudine a cacciare via con l'euforia alcolica l'inutilità delle giornate da ex. O da sfigato, benché di ritorno, della working class. Un mezzo tentativo di suicidio e un'operazione per ulcera più tardi, una cornacchia spennata si è presentata a Roma, lo scorso inverno, per un giro dello stadio prima di Lazio-Tottenham. Era lui, Gazza, avvizzito dai drink. Piangeva, quell'esempio da scuola specializzandi di etilista col fegato marcio.

A febbraio, una crisi cardiaca stava per ammazzarlo e tre amici vip, il deejay della BBC Evans, l'ex direttore del Mirror, Piers Morgan e Irani, antica stella del cricket, lo han fatto ricoverare in una clinica dell'Arizona. Ne è uscito con le sue gambe - non era scontato - giurando di non essere un altro George Best, di voler vivere. È la sua ultima promessa, ma chi si fiderebbe: come quando dava la parola d'onore a Zoff e sgattaiolava fuori dall'hotel a notte fonda, a caccia di un'insegna luminosa.

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FRANCE football | MARDI 26 MARS 2013

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Derby d’Italia

Sabato torna, ancora una volta, Inter-Juventus, una rivalità

insanabile, profonda e per sempre. Elogio del tifo contro.

Senza antagonismo non esiste divertimento. «Trenta sul campo»

e «Mai stati in B» sono le bandiere di un ideale, oltre che di una

squadra. Sono gli slogan di una fede: io ci credo, quindi sono.

di GIUSEPPE DE BELLIS (Studio 28-03-2013)

Juventus-Inter non finisce mai. Vuoi la rivalità? Eccola. Strizzata, spremuta, condensata. Più di ogni altra cosa: non regge Juventus-Milan, non regge Inter-Milan, non regge Juventus-Torino. Qui c’è la storia del pallone e il suo significato, qualcosa che coinvolge due squadre e però contemporaneamente tutti. È stato sempre così, solo che il 2006 ha aumentato l’antagonismo, ha generalizzato l’odio pallonaro: Calciopoli è il pentolone in cui le carte bollate dell’inchiesta pallonara si mescolano ai gol di Boninsegna, Rossi, Platini, Rummenigge, Matthaus, Ibrahimovic, Del Piero. Ci sono i rigori dati e non dati, ci sono i fuorigioco fischiati e no, ci sono chilometriche dichiarazioni di odio reciproco. C’è tutto e ci siamo noi. Perché viviamo dentro un perenne Juventus-Inter: è passato dal campo ai tribunali, dalla magia del pallone alla palude giuridico-amministrativa da azzeccagarbugli. È tornato a casa, però. Eccoci. «Trenta sul campo» sulla maglia della Juventus richiama le polemiche giudiziarie, ma ridà fiato alla rivalità che gonfia il calcio italiano. Dicono che sia un campionato mediocre, questo. Sarà, però intanto ci prendiamo Juventus-Inter, un meta-derby che diventa un ultra-derby. Di più, appunto. È la normalità della rivalità: non serve sapere chi abbia ragione e chi torto. Qui si registra la ritrovata abitudine di sentirsi nemici. Il piacere di detestare e di essere detestato. Il calcio è questo, anche se molti lo vorrebbero pieno di giocatori che dicono all’arbitro «no, non darmi il rigore, perché non c’è fallo».

Ecco, quella è un’altra cosa: è la proiezione buonista, irreale e noiosa del pallone. È l’illusione, anche un po’ soporifera, di uno sport che pensi al «vinca il migliore». Ma perché? Inter-Juventus senza polemiche è un’amichevole, oppure una partita alla playstation. Se vuoi qualcosa di vero, devi prenderti il codazzo di sano livore che si trascina durante e dopo una partita di calcio normale. L’arbitro da accusare è parte del gioco, se sbaglia da una parte e dall’altra meglio: le polemiche saranno di più.

Inter-Juventus è la sintesi di ogni partita: non finisce mai perché va oltre il giorno in cui si gioca. Il secondo risultato che aspetta uno juventino nel week-end è quello dell’Inter. E così il contrario. È la bellezza del tifo contro, goduria identica e opposta del tifo a favore. Perché è questo il bello: volere la sconfitta dell’avversario, sempre. I catastrofisti dello sport contemporaneo dicono sempre che così prima o poi si finirà male. Ma perché? Chi lo dice? Non c’è stato un solo Juventus-Inter di questi anni in cui qualcuno abbia avuto paura per se stesso. Un semplice, forte, deciso, banale odio calcistico. La normalità dello sport che è fatto di voglia di vincere, non di voglia di partecipare. Senza antagonismo non esiste divertimento. «Trenta sul campo» e «Mai stati in B» sono le bandiere di un ideale, oltre che di una squadra. Sono gli slogan di una fede: io ci credo, quindi sono. E questa è la forza del pallone: creare una comunità nella quale io e te che tifiamo per la stessa squadra siamo fratelli. Le polemiche, gli sfottò, le società che si beccano, i giocatori che per una settimana si caricano alimentano la passione, non il contrario. Non è corretto, magari. Ma è giusto. È il mondo. È il calcio. Dispiace per chi la pensa diversamente, però se si ama il pallone bisogna amare anche la rivalità. È la base: subito dopo la gioia per la propria vittoria, viene quella per la sconfitta del mio nemico. Non è un’esclusiva italiana, non preoccupiamoci. Vale per Real Madrid-Barcellona, vale per Manchester United-Liverpool. Non siamo peggiori. Né migliori. Il calcio è calcio, la rivalità è rivalità. Bella, umana, viva. Chi sta fuori da Juventus-Inter può soltanto invidiare.

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Il pallone di Luciano

Ancora polemiche su Calciopoli

Qualcuno ha la memoria corta

di LUCIANO MOGGI (Libero 28-03-2013)

Non c’è mai sosta nel calcio, si è fermato il campionato, sul proscenio la nostra nazionale per un’amichevole a Ginevra contro il Brasile, dove trovano posto i giovani migliori pronti a trasferirsi in Europa: una presentazione più che una partita, un calcio divertente da entrambe le parti, senza tatticismi. Il migliore Julio Cesar, buoni i giovani Oscar e Neymar senza però dare sensazioni di grandezza, di Hulk sappiamo già tutto, come di Hernanes e Kakà. Se il Brasile è questo il ct Scolari avrà molto da lavorare. Migliore in campo Balotelli, e non è brasiliano. Poi il calcio che conta, si fa per dire, Italia impegnata a Malta per le qualificazioni, uno 0-2 un po’ sofferto perché l’impegno è stato preso sottogamba, vista la caratura dell’avversario che pochi giorni prima aveva preso 6 gol dalla Bulgaria.

Poco attendibile

Chiuso il sipario sulla nazionale ecco il campionato, vigilia di Pasqua, tiene banco Inter-Juve, una volta grande partita, ora non più e non per colpa della Juve. E ovviamente non potevano non riaffiorare le solite polemiche con allusioni a Calciopoli. Il presidente del Napoli, dr. De Laurentiis, rilascia un’intervista spiegando come si potrebbe migliorare il mondo del calcio. Attendibile nei propositi, meno quando, parlando del campionato, ha detto: «La Juve è una grande squadra, anche se ha vinto in maniera non proprio diretta come ha spiegato Calciopoli». Le ultime parole fanno pensare che non abbia letto le motivazioni di 1° grado, ci viene cosìspontaneo chiedergli di quale Calciopoli parli, quello mediatico o quello nei tribunali.

In quello nelle aule di tribunale le motivazioni dicono di un campionato esorteggio regolari, nessuna partita alterata. Questo non è un invito a correggersi, è solo un modo per spiegare una realtà diversa che ha distrutto persone e famiglie incolpevoli, anche se l’Appello del rito abbreviato ha reso giustizia, assolti tutti gli arbitri «per non aver commesso il fatto». Sarebbe stata cosa più giusta se avesse detto come i dirigenti juventini cercavano di evitare i colpi bassi che nel calcio sono all’ordine del giorno: l’unica cosa della quale potevano essere giudicati colpevoli. Siccome non è successo, ci potrebbe spiegare il dr. De Laurentiis perché, in occasione di una presentazione del calendario di serie A, sia fuggito imbufalito, approfittando di un passaggio datogli da un tifoso in motorino e senza casco, non prima però di aver gridato ai colleghi e non «siete tutti delle M…». Sentiva forse puzza. . . di bruciato?

Uscita a vuoto

Passiamo alla famosa Juve-Inter del 26 aprile 1998. Iuliano dice che la sua Juve vinse il campionato perché era la più forte, e non solo in Italia, che un campionato non si vince nè si perde per un rigore dato a favore o contro, quando poi lo scarto è di 5 punti. La risposta di Pagliuca, al tempo portiere dell’Inter, è stata: «Scudetto rubato al 100%!». Al sig. Pagliuca vorremmo far presente che le cronache sono piene di errori che gli arbitri commettono settimanalmente, certamente in buona fede, prendere quindi spunto da un rigore non concesso per dire che la Juve ha rubato uno scudetto ci sembra paradossale, oltretutto trattandosi di un rigore che a distanza di anni nessuno ha saputo dire se era o non era.

Quello che invece è sicuro e non desta incertezza alcuna è la regola secondo la quale non si possono tesserare giocatori extracomunitari oltre un certo numero e soprattutto non si può ricettare una patente falsa per fare un passaporto falso per far diventare il giocatore Recoba comunitario. Per aiutare la sua memoria gli diciamo anche che un alto dirigente interista di allora ammise la colpa e fu condannato. Nella giustizia sportiva era prevista la retrocessione che stranamente non avvenne soltanto perché qualcuno ebbe a dire che non poteva essere retrocessa l’Inter perché Moratti aveva speso tanti soldi. Semmai avesse bisogno di ulteriori chiarimenti si legga le 52 paginette con le quali il Procuratore Federale dr. Palazzi scrive dell’Inter passibile di illecito sportivo, come sempre ovviamente prescritto.

Ci sembra infine giusto fargli presente che l’Inter, prima di Calciopoli, finiva a distanza siderale dalla prima, scoppiato Calciopoli, riuscì a vincere per mancanza di avversari, per tornare adesso nell’alveo della sua mediocrità, 18 punti dalla Juventus.

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Piano d'azione congiunto per l'integrità del calcio

A Sofia, la famiglia del calcio europeo ha adottato all'unanimità una risoluzione congiunta che

prevede un piano d'azione concreto per tutelare l'integrità del calcio e lottare contro le combine.

di UEFA news | Giovedì, 28 marzo 2013, 11.42CET

In una riunione a Sofia, il Consiglio Strategico Calcio Professionistico (PFSC) – composto dai rappresentanti di federazioni nazionali (UEFA), club (ECA), leghe (EPFL) e giocatori (FIFPro Division Europe) – ha adottato all'unanimità una risoluzione congiunta che prevede un piano d'azione concreto per tutelare l'integrità del calcio e lottare contro le combine. Il documento è stato ratificato nella stessa sede dal Comitato Esecutivo UEFA.

La famiglia del calcio europeo ha quindi deciso di unire le forze per combattere gli incontri combinati, riconoscendone il pericolo globale per l'integrità dello sport.

Il piano d'azione congiunto prevede iniziative concrete di formazione, prevenzione, monitoraggio e sanzioni disciplinari e verrà implementato pienamente da tutti i membri della comunità calcistica europea.

Si tratta di una priorità assoluta per tutte le parti in causa e ribadisce la politica di tolleranza zero verso le combine. Insieme, ECA, EPFL, FIFPro Division Europe e UEFA vogliono anche instaurare un codice di condotta per l'integrità del calcio, destinato a tutti i portatori di interesse come giocatori, arbitri, funzionari e amministratori.

Tuttavia, le quattro le organizzazioni concordano che gli organi sportivi non dispongono dei mezzi o delle giurisdizioni legali per affrontare da sole il problema, che spesso coinvolge organizzazioni criminali. Le 'frodi sportive' devono quindi essere riconosciute come crimine specifico delle leggi nazionali europee, in modo da garantire mezzi coerenti, efficaci e coordinati per sconfiggere questo fenomeno. Allo stesso tempo, gli stati europei devono valutare l'adozione di servizi giudiziari specifici per i casi di frode sportiva.

È essenziale una stretta collaborazione con uno scambio di informazioni tra forze di polizia, autorità investigative e giudiziarie, organi sportivi e società di scommesse. La cooperazione aiuterebbe gli organi sportivi a perseguire i casi disciplinari e, allo stesso tempo, consentirebbe alle autorità nazionali di sfruttare le proprie competenze per indagare sui crimini e reprimerli.

Anche il riconoscimento dei diritti degli organizzatori sportivo nel contesto delle scommesse è fondamentale per contrastare i pericoli all'integrità dello sport, garantendo un ritorno finanziario agli organi sportivi e ai loro membri. Tali finanziamenti tutelerebbero ulteriormente l'integrità del calcio e sosterrebbero altre aree come il calcio giovanile, dilettantistico e femminile, sviluppando il ruolo sociale ed economico dello sport.

Infine, deve essere incoraggiata l'adozione di una convenzione internazionale sulle combine patrocinata dal Consiglio d'Europa, con il pieno coinvolgimento dei portatori di interesse nel calcio.

Di seguito viene illustrato il piano d'azione, mentre il documento completo può essere scaricato qui (in inglese).

Piano di azione congiunto per l'integrità del calcio

(da implemensarsi pienamente nel 2013)

  1. I. Codice di condotta

  • Creazione e adozione di un codice di condotta congiunto per tutti i portatori di interesse nel calcio europeo, compresi giocatori, allenatori, arbitri, funzionari e amministratori
  • Introduzione di clausole che proibiscano a giocatori, allenatori, arbitri e funzionari di scommettere sulle partite e/o sulle competizioni alle quali partecipano, come stabilito dagli organizzatori delle competizioni pertinenti
  • Implementazione di procedure di pubblica denuncia in ciascuna organizzazione calcistica
  • Aggiunta di clausole relative alle combine nei contratti dei giocatori

  1. II. Programmi di formazione e prevenzione

  • Campagne di formazione ai corsi arbitrali e nelle competizioni UEFA giovanili (per giocatori, allenatori e direttori di gara)
  • Progetto FIFPro 'Don't fix it' appoggiato dall'Unione europea
  • Progetto EPFL 'Staying onside' (con DFL e Transparency International) appoggiato dall'Unione europea
  • Iniziative di prevenzione a livello nazionale da parte delle federazioni
  • Ulteriore formazione a livello di club mediante la ECA e la EPFL

  1. III. Sistemi di rilevamento e denuncia delle frodi sportive per scommesse

  • Monitoraggio continuo delle competizioni europee, dei due massimi campionati e delle coppe nazionali nelle 53 federazioni affiliate alla UEFA
  • Monitoraggio continuo delle competizioni per nazionali da parte degli organi calcistici di ogni paese
  • Adozione di un sistema di denuncia riservato e affidabile appoggiato da tutte le parti in causa

  1. IV. Coordinamento e collaborazione tramite una rete di funzionari di integrità e altri incaricati specifici a livello nazionale

  • Funzionari di integrità in ciascuna federazione nazionale
  • Referenti designati in ciascuna lega calcio, club professionistico e sindacato calciatori
  • Condivisione di prassi ottimali per condividere informazoni sui dati relativi alle scommesse, anche tramite regolari conferenze e workshop, e opportunità di cooperazione tra esperti degli organi calcistici, autorità pubbliche e forze di polizia

  1. V. Indagini e procedimenti penali

  • Politica di tolleranza zero verso le combine
  • Collaborazione attiva con le autorità pubbliche
  • Definizione comune di 'frode sportiva' come illecito penale
  • Armonizzazione delle sanzioni disciplinari e sportive a livello europeo e nazionale

  1. VI. Contributo del mercato delle scommesse

  • Diritto degli organizzatori delle competizioni sportive a un ritorno finanziario equo nel contesto delle scommesse sportive, a titolo di compenso per lo sfruttamento commerciale dei diritti
  • Accordi contrattuali e vincolanti con gli operatori delle scommesse, anche per stabilire i tipi di scommesse consentiti
  • Divieto di offrire scommesse sulle competizioni giovanili a livello europeo e nazionale
  • Introiti finanziari da impiegarsi per tutelare l'integrità dello sport, oltre che per sostenere il calcio di base, lo sviluppo dei settori giovanili o le attività di responsabilità sociale delle imprese
  • Introduzione di standard per gli operatori delle scommesse in collaborazione con gli organi sportivi

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Human traffic: Africa's lost boys

Jean-Claude Mbvoumin is a genuine hero -- working for little

reward beyond his love of the game and, more importantly, his

deep respect for the human rights of all men, women and children

by JOHN SINNOTT (CNN 28-03-2013)

It has been a starting point for some of the world's top soccer players.

As youngsters, the likes of Cristiano Ronaldo, Andrea Pirlo, Carlos Tevez, Javier Mascherano, Thierry Henry and Nicolas Anelka all played in the Mondial Montaigu youth tournament in France.

Known as "Mondial Minimes," the 40-year-old competition is contested by under-16 national teams over Easter, with an event also held for club sides.

Leading French clubs Lorient, Bordeaux, Toulouse, Nantes, Montpellier and St Etienne are all involved this year alongside another lesser-known name -- Foot Solidaire.

Its a team that will showcase the very best of Africa's talent, but which also aims to open young African players' eyes to the risks of seeking their fortunes in Europe's top leagues.

The team has been put together by Culture Foot Solidaire (CFS) -- a Paris-based charity which campaigns against the dangers of the trafficking of young players by unscrupulous individuals; be they former players, businessmen, lawyers or unlicensed agents.

"I've heard a lot about less ethical agents bribing parents, and I have no doubt about the methods," one agent, who asked not to be identified, told CNN.

"I know of agents using the parents' ''money weapon' (promising them untold riches), kind of 'selling' the player to an agent or organization.

"How many times was I offered that option? Not only agents though. An agent cannot do anything without a club at end of the line."

Read: FIFA probes player with 'four birthdays'

The movement of African players to Europe is long established.

European clubs generally regard African players as athletically and technically gifted. Arguably just as importantly, they are relatively cheap to develop, with the added potential that clubs can make a large profit if they are sold in the future.

For the players, the idea of becoming of a professional footballer in Europe holds the promise of a better life for themselves abroad and their families back home -- if they are not discarded by clubs and left to fend for themselves.

Smuggling players

CFS's founder is Cameroonian Jean-Claude Mbvoumin, who has already helped hundreds of youngsters return home after they were left stranded in Europe.

Often they have been brought to Europe on an illegal passport, frequently taken first to eastern Europe, where it is easier to arrange a visa before moving them on to Western countries.

Mbvoumin estimates each year as many as 700 youngsters leave Cameroon alone to seek a professional career.

But if the club doesn't sign the player the youngster is left to his own devices as to how he returns to Africa.

"To bring young players to this tournament is a very good experience for them," the 39-year-old Mbvoumin, who played for a number of lower league French clubs, told CNN, as he explained the reason behind entering in the Montaigu tournament.

"Very few can become professionals and our goal is to explain how hard to become is to do so. It's important to dream, but they must realize how few players there are in the professional world."

Read: Soccer's bid to train the brain

At one stage CFS was monitoring nearly 1,000 boys dumped in France.

It believes these youngsters were taken from hundreds of football academies in Africa -- ones that don't recognize basic child protection issues -- by clubs desperate to unearth the next Yaya Toure, Michael Essien or Claude Makelele.

When I brought players from Africa -- either for trial or on a contract -- I always faced a huge problem: visas," added the anonymous agent, referring to players over the age of 18 rather than minors, as he detailed the complexities of such transfers.

"And I am talking of a period when things were easier, that is, 10 years ago.

"I visited consulates with players trying to get a visa -- and I had to present the proper paperwork such as invitations and return tickets, etc. -- otherwise the player's application would not even be considered."

However the agent said he did once manage "to smuggle" a player out of his home country Cameroon.

"He had already gotten a visa -- the Italian consulate would only grant a tourist visit once a year -- so I had to find a way to get him out again," the agent said.

"Yaounde being a modern airport I decided to fly from Douala, where the lights at the airport were dimmer. It was an amazing experience because in order to get to the plane we passed through four security controls.

"The last one was at the plane's door -- and lights were stronger than in Yaounde -- and I had made a 'change' on his stamped visa. We managed to pass this last obstacle anyway and the player made a reasonable career."

Money, money

Foot Solidaire's team for this year's Montaigu tournament is made up from players from Cameroon. More than 500 players have been assessed since January, before their 25-man squad was selected.

Those players, who have been preparing for the tournament at a training camp in Nantes, came from as many as 100 training centers in Cameroon, which have all signed up to CFS's objectives to protect the young players who are being trained.

Its charter is designed to provide the players with the best possible training environment, and it recognizes world governing body FIFA's regulations as well as the United Nations Convention on Human Rights.

Mbvoumin estimates CFS is working with as many as 2,500 players -- this on a miniscule budget of just over $100,000.

"We don't have salaries and we rely on volunteers," he said. "We have a very important network of partners and we rely on very small donations. But we need help -- our organization has been in existence for 13 years.

"Football can just be business, business and money, money. People forget about education and the protection of young players -- football should not be above the law."

Read: Using Facebook to bounty-hunt football's 'disappeared' players

Mbvoumin recently featured in a documentary film called "Soka Afrika" that traced the journey of two African footballers -- South Africa's Kermit Romeo Erasmus and Cameroonian Julien Ndomo Sabo -- as they attempt to fulfil their dreams of playing professional football in Europe.

At the age of 18, Erasmus signed a professional contract with Dutch club Feyenoord, though he is back now in South Africa with Supersport United, where he is the team's captain.

Sabo was trafficked to Africa as teenager after he and his family were promised "riches beyond their imagination," before he was abandoned in Paris.

"Ndomo has been a bit off the radar for the last few weeks," said Sam Potter, managing director and chief executive officer of Masnomis, the production company behind the film.

"But following a series of injury setbacks he and (Spanish club) Deportivo La Coruna -- where he eventually signed in 2010 -- agreed to terminate his contract last year.

"He is still signed up with Octagon sports agency and they are hopeful of finding him another club in Europe for next season."

Potter said Mbvoumin and CFS " work tirelessly on a shoestring budget to provide support and education to vulnerable and exploited young African footballers", despite a lack of interest and funding from the wider football community.

"I have had the privilege of working with Jean-Claude in the making of Soka Afrika and I would say that he is a genuine hero -- working for little reward beyond his love of the game and, more importantly, his deep respect for the human rights of all men, women and children."

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«Agostino era mio padre»

Il figlio di Di Bartolomei a proposito del doc «11 metri»

In onda domani sera il ritratto del grande capitano giallorosso.

Il ricordo di Luca che quel film non vedrà: il dolore è ancora in agguato

di LUCA DI BARTOLOMEI (l'Unità 28-03-2013)

DOMANI SERA ALLE 22 VA IN ONDA SUL CANALE SKY ESPN CLASSIC «11 METRI» IL DOCUMENTARIO DI FRANCESCO DEL GROSSO dedicato ad Agostino Di Bartolomei. Un ritratto complesso di un grande atleta e di uomo amatissimo. Abbiamo chiesto al figlio, Luca Di Bartolomei, di scriverne per i lettori dell’Unità.

* * *

Venerdì sera non vedrò 11 metri su Espn Classic. Comprendo che questa mia decisione possa lasciare molti fra voi perplessi. Chi invece - come il produttore, Daniele Esposito, o il regista, Francesco Del Grosso - mi conosce meglio sa del travaglio con il quale vivo, ogni volta, una proiezione del bellissimo documentario su mio padre, Agostino Di Bartolomei.

Non dico questo per cercar compassione: non l’ho mai fatto e non intendo iniziare di certo adesso. C’è però in 11 metri qualcosa che mi sconvolge sempre. È diverso dal semplice parlare di Ago: cosa che peraltro mi è capitato di fare spesso con le tante persone che negli anni mi hanno raccontato di lui con quel misto di affetto e tristezza che poi in fondo è probabilmente l’essenza stessa dell’essere romani.

Ho sempre visto 11 metri come l’unione di tre storie che si sovrappongono e si confondono: la storia di un bambino innamorato del pallone, la storia della mia famiglia e infine la storia della sconfitta di fronte alla vita di un Agostino che smette di giocare e diventa adulto. Anche se non starebbe a me assegnare queste medaglie in 11 metri vedo raccontata, attraverso le testimonianze di tanti amici, la carriera di un grande calciatore e di uno sportivo esemplare. La storia del suo sogno di vincere tutto con quella squadra che da bambino andava a vedere allo Stadio e l’infrangersi di quel sogno in una sera calda di primavera.

Nel documentario di Daniele e Francesco è poi raccontata una seconda storia: quella della mia famiglia, quella dolce dell’amore fra i miei genitori, dei ricordi di infanzia miei e di mio fratello. Di quel piccolo cosmo che ruota attorno ad ogni nucleo umano, tracciandone le giornate fra gioie e piccole delusioni.

Infine ed è ovviamente qui che si concentrano per me le maggiori difficoltà c’è la storia dell’Agostino cresciuto, l’uomo che smette la divisa del calciatore e si cala nella normale quotidianità. Di sicuro una normalità atipica come può essere quella di chi ha vissuto oltre metà della propria vita avendo la fortuna di rincorrere per lavoro un pallone e di esser per questo un idolo per migliaia di ragazzi. Un ragazzo che a 34 anni si trasforma in un uomo che sembra vivere come un peso quel passato ingombrante. Un passato che in ventiquattro ore diventa lontanissimo in un ambiente che si dimentica di lui scientemente e con elegante noncuranza. Quest’uomo è l’Agostino che ho conosciuto io: quello che fino al 30 di maggio 1994 ho sempre chiamato papà. Un padre premuroso, attento e mai invasivo: un uomo che col tempo, soltanto dopo, ho imparato a scoprire molto più fragile di quanto non potessi immaginare.

Un uomo – e comprendo che possa stupire dirlo parlando di chi muore suicida – innamorato della vita, della sua compagna e dei suoi figli: una persona che non ha mai desiderato essere un idolo ma suo malgrado ha finito per essere un esempio per tanti romani e per quei ragazzi di borgata cresciuti con lui. Una persona semplice sicuramente incapace al compromesso che finisce vittima di quella serietà che si portava dietro e quindi alla fine vittima di se stesso. Ecco perché non riesco a vedere con serenità 11 metri ma mi permetto di consigliarvene la visione. Rivivere ogni volta la sconfitta dell’uomo Agostino è per me ovviamente rinnovare un dolore mai del tutto superato.

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Priorità al calcio A giugno Confederations Cup: solo due impianti su sei sono completati

Task force Al Maracanà 6.500 operai: la data di consegna (24 maggio) posticipata 4 volte

I Giochi pericolosi di Rio

L’Olimpico a rischio crollo

Stadio chiuso “a tempo indeterminato”, cantieri in ritardo

Atleti brasiliani in rivolta: “Il Paese pensa solo ai Mondiali”

COPERTURA IN BILICO Il sindaco: «Meglio intervenire subito che vedere una tragedia»

SPRECHI E AFFANNI A Barra, il quartiere del futuro, i lavori sono appena iniziati

di JACOPO D’ORSI (LA STAMPA 28-03-2013)

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Costato 150 milioni, inaugurato nel 2007

Lo stadio Engenhao di Rio de Janeiro, intitolato a Joao Havelange e scelto come sede delle gare di atletica

delle Olimpiadi 2016: la sua copertura oscilla ogni volta che c’è vento e rischia di crollare. Con la chiusura

dell’Olimpico e del Maracanà (in ristrutturazione), la città sede dei prossimi Giochi si ritrova senza stadi

Adesso c’è anche lo stadio Olimpico, già pronto, «chiuso a tempo indeterminato» perché rischia di venire giù. In giro per Rio de Janeiro, persi nel traffico in un taxi a finestrini abbassati anche nei tunnel, non è facile immaginare un’Olimpiade e non solo perché mancano tre anni.

Il parco olimpico è a Barra da Tijuca, un’ora e un quarto di pullman a Ovest del centro, in attesa che vi arrivi, se sarà puntuale, la metropolitana. La gente più che entusiasta è preoccupata dagli sprechi e dai ritardi. Dalle poche favelas «pacificate», come dicono loro, rispetto alle centinaia che colorano il profilo della città (e al Complexo do Alemao si è tornati a sparare). Dalle brutte figure di fronte al mondo. Non passa giorno che la grande avventura della metropoli che ha ingoiato lo sport degli anni a venire non viva un piccolo psicodramma.

L’ultimo martedì scorso, il più grave: lo stadio Engenhao, intitolato all’ex presidente Fifa Joao Havelange e costato 150 milioni di euro, cade già a pezzi. «Crepe e oscillazioni», l’allarme dopo un controllo. La copertura balla e rischia di crollare. Così lo stadio Olimpico, tre nomi e sei anni di vita, costruito per i Giochi panamericani e inaugurato il 30 giugno 2007, è stato chiuso. Fino a quando non si sa: il sindaco Eduardo Paes, travolto dalle polemiche perché ora anche tutto il calcio locale (Flamengo, Vasco da Gama, Fluminense e il Botafogo di Seedorf) si ritrova senza casa, parla di «periodo indefinito». «I costruttori mi hanno spiegato il problema - ha raccontato - ma non è stata trovata una soluzione. Meglio intervenire subito che assistere a una tragedia. Se mi dicono che lo stadio deve stare chiuso un mese, starà chiuso un mese. Se servirà un anno, arriveremo all’anno».

La speranza è che ne bastino meno di tre. Una certezza, per il Cio: «Tutto si risolverà». Molto meno se si visitano i cantieri olimpici. Il porto «Maravilha», 5 milioni di metri quadri, è partito da poco e appena è stata chiusa Avenida Rodrigues Alves la città si è bloccata. Nel cuore dei Giochi, lontanissimo dalla Rio dei dépliant turistici e alle spalle del Cristo redentore, a Barra, il quartiere del futuro, siamo invece ancora al fango. Qui, praticamente un’altra città a un metro dall’ideale continuazione delle spiagge di Copacabana, Ipanema e Leblon, si tocca con mano il gigante che cresce con percentuali vicine alla doppia cifra e si gode il boom di edilizia e ingegneria civile: giardini lussuosi, palazzi di vetro e acciaio, boulevard spolverati di fresco, centri commerciali, gru ovunque. La Miami beach di Rio è anche l’avamposto scelto dalle multinazionali per abbordare uno dei mercati più attraenti del mondo. Lì il comitato olimpico ha piazzato il villaggio degli atleti - che guarda caso sarà trasformato in residenze di lusso - e la maggior parte degli impianti. In mezzo alla spianata di terra ricavata al posto dell’autodromo di Jacarepaguà se ne vedono solo due, costruiti nel 2007 come l’Engenhao: lo stadio della ginnastica e quello della pallanuoto.

Al lavoro qua e là grappoli di operai, perché lo sforzo massimo (6500 uomini, turni continui) è concentrato sul Maracanà, la sede di tutto: finale Mondiale e cerimonie olimpiche. È in forte ritardo. Passeggiando sui marciapiedi sventrati che lo circondano sembra impossibile che il 2 giugno possa ospitare l’amichevole Inghilterra-Brasile e due settimane più tardi Italia-Messico di Confederations Cup. Il costo dei lavori è lievitato da 232 milioni di euro a 360, la data di consegna posticipata 4 volte: ora siamo al 24 maggio.

Tutti gli sforzi del Brasile sono concentrati lì e negli altri 11 stadi dei Mondiali (appena 2 pronti), costati 3 miliardi. Il che ha scatenato la gelosia degli atleti olimpici di casa, il nuovo caso da affrontare. Cesar Cielo, il discusso fenomeno del nuoto, primatista mondiale dei 100 stile libero, è stato lasciato a casa dal suo club, il Flamengo. E ha abbandonato il progetto Pro16 tornando ad allenarsi (anche) negli Usa: «Non è andata come ci si aspettava - ha spiegato -, il Brasile è un posto splendido e molto complicato, le cose si muovo lentamente ma le Olimpiadi arrivano in fretta e io non potevo permettermi di aspettare». Aspetterà poco anche Fabiana Murer, campionessa di salto con l’asta, a sentirla: «Tutta l’attenzione è rivolta al calcio e solo dopo i Mondiali saranno presi in considerazione gli altri sport, ma ci sono atleti rimasti senza club e altri costretti ad allenarsi in condizioni difficili». Come i campioni dell’atletica, che perderanno il loro stadio di allenamento, coinvolto nella ristrutturazione dei sobborghi attorno al Maracanà, senza averne in cambio un altro. Questione di soldi, quelli (promessi) che il comitato olimpico non ha ancora distribuito alle federazioni nonostante il quadriennio olimpico sia scattato 8 mesi fa. «Pensavo che dopo Londra le cose sarebbero migliorate chiosa Murer - invece ci ritroviamo senza un impianto».

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Omofobia, vizi e scommesse

il lato oscuro del calcio inglese

Esce in Italia il libro denuncia di un ex calciatore,

pieno di dettagli e aneddoti. Non certo esaltanti

di ANGELO CAROTENUTO (la Repubblica 28-03-2013)

Come cambia la vita quando un pallone ti fa guadagnare un milione e mezzo di sterline l´anno. Come si naviga fra i tabloid e il sesso facile, procuratori avidi e manager incapaci. E come dopo un decennio di tutto questo si possa cadere in depressione. «Molte di queste storie non dovrei neanche raccontarvele», ammicca l´anonimo autore di Io sono il calciatore misterioso (Isbn edizioni, 185 pagine, 19,90 euro) da oggi in libreria. Ed è un titolo che si aggiunge al filone florido delle autobiografie sportive: solo pochi giorni fa Simon Kuper sul Financial Times ha definito quella di Ibrahimovic un grande racconto di immigrazione, accostandola addirittura al Lamento di Portnoy di Philip Roth. Ora arriva in Italia questo piccolo fenomeno inglese, un volume nato da una rubrica tenuta per il quotidiano Guardian da un calciatore senza identità. Un ragazzo della working class, un padre che lo incoraggia a leggere Shakespeare, lui che arriva da giovane in una grande squadra e capisce come funziona uno spogliatoio: siede ignaro su una panca dove non doveva, troverà le sue cose sparse tra corridoio e doccia, gli ruberanno il telefono per mandare sms sconci all´allenatore.

Un mondo vuoto, a tratti cupo. Ragazzi delle giovanili che vivono al di sopra delle loro possibilità per imitare le stelle. Calciatori che cambiano squadra ogni anno per moltiplicare bonus e buonuscite. Proprietari di club dalle fortune immense verso i quali "non ci si deve mai sentire in colpa a chiedere ingaggi esorbitanti". Un mare di aneddoti. Come quella volta che Mourinho minacciò con il suo Chelsea di disertare la foto con lo sponsor perché non erano previsti omaggi: i calciatori al ritorno trovarono la casa piena di elettrodomestici. E´ una Premier League assai poco cool. Un campionato che nei suoi magnifici stadi nasconde spogliatoi pieni di comfort per la squadra di casa e malridotti per gli ospiti: molti avversari, dopo una sconfitta, li sfasciano. Un mondo in cui, scrive il calciatore misterioso, un gay farebbe bene a non considerare mai la scelta dell´outing. «Rivelereste di essere omosessuali sapendo di dover poi viaggiare per tutto il paese e giocare a calcio davanti a decine di migliaia di persone che vi odiano? Io no». E cita la battuta di Cassano agli ultimi Europei. Un mondo in cui tutti frequentano gli stessi posti, Ibiza non va più, per gli eccessi si vola a Las Vegas, dove in un night puoi sfidare uno del Barcellona a un´asta a base di champagne per avere una ragazza al tuo tavolo. Il vizio dei vizi è scommettere. Sui cavalli, sulla Champions, da due computer insieme. Il calciatore misterioso racconta l´ingenuità con cui giudicava quel compagno di squadra al quale capitava di lanciare sempre in fallo laterale il primo pallone toccato dopo la palla al centro. Poi scoprì che sulla prima rimessa laterale ci scommetteva, s´era costruito una fortuna. «Alcuni dei giocatori d´azzardo più accaniti giocano nelle grandi squadre». Cita Mancini come un lucido stratega della panchina, accenna a un Paolo "attaccante straniero, cane sciolto" che potrebbe essere Di Canio, definisce Ronaldo un cascatore e Terry un intimidatore di arbitri.

In Inghilterra partì a suo tempo la caccia all´autore. Di lui si sa che ha giocato in Premier (chi dice al Liverpool, chi al Blackburn, al West Ham) ed è stato chiamato in nazionale. E´ nato un sito internet in cui si incrociano gli eventi raccontati per trasformare gli indizi in un nome. Kitson, Crouch, Nolan, chi lo sa. Di sé racconta di essere stato in analisi, al terapeuta rispondeva con frasi tratte dal disco dei Pink Floyd "The Dark Side of the Moon". Poi un giorno ha fatto un gran falò dei suoi ritagli di giornale, liberandosi pure di tutte le maglie degli avversari che aveva collezionato. Apocalypse Football. Allora la sola salvezza è accostare il naso al cuoio di un pallone, per scoprire che odora ancora "di tempi felici e consuetudini".

La prefazione

Tutto credibile: ma io non tradirei mai il codice dello spogliatoio

di GIANLUCA VIALLI

Questo è il genere di libro che non scriverò mai. Ho sempre pensato che ciò che accadeva tra le quattro mura di uno spogliatoio, sul prato verde di uno stadio o di un campo di allenamento, dovesse rimanere proprietà esclusiva di coloro che ne erano stati i protagonisti. E neppure oggi vedo la necessità di divulgare cose del mio passato di calciatore, private e protette dal segreto professionale che è un caposaldo del codice etico (non scritto) degli appartenenti alla mia categoria.

Niente di losco. È solo che i fatti nostri ci piace tenerli per noi.

Per questo ho letto pochissime autobiografie scritte da ex calciatori. Troppo spesso professionisti piccoli o grandi sono caduti nella tentazione di raccontarsi, e grandi sono caduti nella tentazione di raccontarsi, e raccontare agli altri le proprie esperienze, finendo intrappolati in discutibili operazioni editoriali che avevano come unico scopo quello di fare soldi sputtanando gli altri.

Il calciatore misterioso è un caso a parte. Lo conosco da quando scriveva la sua rubrica settimanale sul Guardian. Confesso che ho seguito come tanti lettori le sue analisi. E ho cercato di incrociare nomi e fatti nel vano tentativo di dare un’identità al loro autore. Confesso anche di aver sospettato a un certo punto che dietro al calciatore misterioso si celasse un bravo giornalista o uno scrittore, molto ben informato su come vanno le cose in quello che per tanti anni è stato il mio mondo. Forse perché non ho abbastanza fiducia nelle capacità letterarie mie e dei miei colleghi. Spero di sbagliare!

Quello che leggerete in questo libro, accade – o è accaduto – alla stragrande maggioranza di coloro che hanno avuto la fortuna di diventare dei professionisti e trasformare in un lavoro quello che comincia come un gioco, per poi diventare una passione e infine un’autentica ossessione. Per me è stato come salire sulla macchina del tempo, verso un passato non troppo remoto. E ritrovare tutti gli avvenimenti e le esperienze che hanno scolpito la mia personalità, negli anni in cui smettevo di essere un ragazzo e diventavo uomo.

L’ascesa e la discesa, le vittorie e le sconfitte, i compagni, gli allenatori e i tifosi, le donne, i soldi e le psicosi. Il calciatore misterioso mette a nudo tutte le psicosi. Il calciatore misterioso mette a nudo tutte le componenti del mondo del calcio. E scrive bene. È chiaro, asciutto, diretto. I racconti, fidatevi di un esperto, sono credibili e divertenti, l’analisi è lucida, a tratti ironica, anche se nelle riflessioni dell’autore – chiunque sia – è evidente un po’ di risentimento.

In questo, io e il calciatore misterioso siamo diversi. Ho troppo rispetto verso «il codice» e il mio mondo. O forse mi manca un po’ di coraggio...

Buona lettura.

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Age-old rapport is showing signs of strain

by TONY BARRETT (THE TIMES 28-03-2013)

Somewhere this weekend, perhaps after an unexpected victory or maybe following a win in a local derby, a player will say that they did it for the fans. He will mean it as well. It won’t be a falsehood or a meaningless platitude.

Players at all clubs, almost to a man, recognise and understand the need to perform for those who support them, the men, women and children who come out in all weathers and in all circumstances to give them their backing.

It is the unwritten contract of football – in return for your support, teams will give their best in an effort to perform as well as possible and, when possible, achieve victories and success. It is what created the bond between fans and players ever since association football was first played in this country. Those who are blessed with the ability play the game for a living are the representatives of those who are not so fortunate; they are literally living the dream.

In recent years, though, the relationship between players and fans has become too lopsided. The rocketing of earnings in the Premier League era means those in the stands no longer have a great deal in common with those on the pitch other than identifying with the same team and wearing the same colours. How could an ordinary match-goer possibly relate to individuals who earn tens of thousands of pounds every week?

While those who pay struggle with the harsh realities of a looming triple dip recession, those who play exist in a financial bubble that makes them almost immune to such problems. There are few industries in which David Cameron’s claim that we are all in it together is made to look so preposterous. Football is a business where the haves enjoy seemingly ever increasing wages and expect the have nots to foot the bill.

It has long been thus, of course, but never has the imbalance been as profound as it is now, which is one of the reasons why a rising number of Premier League games are played out against a backdrop of supporters protesting against the cost of attending matches and supporting their team. There is a growing sense of detachment and disillusionment amongst traditional fans who believe they are being priced out of football, as one banner put it recently: “Working class game – Business class prices.”

A recent study showed that top footballers’ pay has risen by a staggering 1,500 per cent during the last twenty years and, one way or another, that bill is being footed by supporters who consume the game either directly as spectators or indirectly via pay television. To put that figure in perspective, during the same period average wages in the UK increased 186 per cent.

Excessive wages are the prime cause of excessive ticket prices, there can be no getting away from that. During the same period that players entered a boom time, supporters have seen the cost of going to the match soar with the price of the cheapest tickets going up by 700 per cent at Manchester United and by 920 per cent at Arsenal.

At Liverpool, the cheapest season ticket now costs 1108 per cent more than it did in 1990. Again, such startling figures demand perspective and the most damning statistic of all is that the cumulative rate of inflation over the same timeframe was 77.1 per cent.

How the relationship between players and supporters has survived such extremities is a complex question with the answer no doubt owing a lot to club loyalties.

But that age-old rapport is showing signs of strain with more and more people beginning to realise that the main reason why they are paying sky high ticket prices is to fund the lavish lifestyles of players who are able to afford the best cars, the best houses and, in the most extreme cases, the best of everything.

The Professional Footballers Association is not facing the realities of austerity in the same way that other trade unions are, not if its’ in-house magazine, Professional Player, is anything to go by anyway. Whereas the publications of most unions currently carry advertisements for recruitment agencies or advice on how to write a CV for the newly unemployed, the PFA are operating on a totally different plane.

Flick through the pages of a recent edition of Professional Player and you will come across telephone numbers for legal experts specialising in super-injunctions, tax accountants for the super rich, concierge services offering planes and yachts for “exceptional clients”.

There’s even an F1 Racing Simulator which could be yours if you’ve got a spare £90,000 knocking about.

Inevitably, this sticks in the craw when supporters are told that they are going to have to pay even more if they want to continue to support their team in person. Last week, Liverpool announced that ticket prices for next season will increase by up to 9 per cent, a rise that Ian Ayre, the club’s managing director, justified on the basis that it was part of a process aimed at achieving a fairer pricing structure.

Like all Premier League clubs, Liverpool are simply looking to maximise their revenue streams and they expect these increases to add around £1.5 million to their annual income following the publication of accounts which showed they lost £40.5 million in the most recent financial year.

Tellingly, though, the additional revenue amounts to little more than 1 per cent of their annual outlay on salaries meaning that if every player at Liverpool accepted a pay cut of a similar percentage the increase in ticket prices would not be necessary.

This, of course, would be turkeys voting for Christmas and given that football is a short career which can be ended prematurely it is perfectly understandable for players to seek to achieve their own earning potential, particularly at a time when clubs are set to benefit from an unprecedented television deal.

But the best possible deal for players does not necessarily equate to what is best for football and this is something that the PFA needs to acknowledge and confront. The higher wages go and the more supporters are asked to pay as a result, the greater the risk of the inflationary bubble bursting.

As a union, the PFA has to look after the best interests of its members and they have to question whether the current situation is sustainable, regardless of whether it is ethical or not.

If footballers really want to do it for the fans then they could do nothing better right now than consider why supporters are being charged so much just to watch them play.

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European Soccer's Master of Match-Fixing

by DRAKE BENNETT, CAROLINE WINTER, KARIN MATUSSEK & CORNELIUS RAHN (Bloomberg Businessweek 21-03-2013)

A few minutes’ walk from Berlin’s famed Kurfürstendamm, with its designer stores and stately plane trees, is an unremarkable, louche-looking drinking establishment called Café King. The bar stools and booths are black leather; the lighting is bordello red. On the walls are framed photos of assorted world landmarks: the Brandenburg Gate, the Eiffel Tower, the Kremlin. Football matches play on the numerous televisions.

Berlin is an indifferent sporting city. In a soccer-mad country, its teams are league doormats that Berliners mostly ignore. Yet in the local sports scene, such as it is, Café King was once a hub. Players from soccer team Hertha BSC hung out there, as did basketball players from Alba Berlin and members of ice hockey team Eisbären Berlin (the Berlin Polar Bears). The cafe’s owner, Milan Sapina, knew the athletes and made them feel welcome. The place could get rowdy after games.

On an evening in early March, however, the cafe was calm, and Milan, 47, sat glumly in a booth, drinking tea. He was just back from the industrial city of Bochum, in Western Germany, where he’d appeared in court for his role as an accomplice to his younger brother, Ante.

Ante Sapina is one of the most notorious sports bettors in Europe. In 2005 he was sentenced to nearly three years in prison for match-fixing, and two years ago he was convicted a second time for the same crime. He has confessed to rigging soccer matches all over the Continent, paying off players and referees to throw games and then making millions of dollars betting on the outcomes. Prosecutors at his latest trial detailed how Sapina and those working with him spent at least $2.7 million in bribes to players, referees, and league officials. They gave evidence in Sapina’s trial of 43 fixed matches and say the total number the group rigged is more than 300. The ring sometimes scheduled professional games themselves—paying for the visiting team’s travel and accommodations—just so they could manipulate the outcome. They went so far as to buy their own team so they could order it to lose. The case has been called the biggest sports-fixing bust in European history.

Milan Sapina’s legal troubles didn’t stop him from offering a seat to a reporter and politely answering questions in Croatian-accented German. (Because he is appealing his conviction, Ante Sapina declined through his lawyer to be interviewed for this article.) Milan’s own role in the operation, he says, was primarily as a host, facilitating meetings, often at his bar, between gamblers and players or referees. Some of the players liked betting on their own teams, he says, and they traded tips—who was injured, who had been out drinking the night before the match. “Betting works like the stock market,” Milan says. “The key is knowing more than the bookmaker. And sometimes,” he shrugs, “bets go a bit beyond what’s allowed.”

Over the past few years, international soccer has suffered a series of match-fixing scandals. In a press conference last month, Europol, the European police intelligence agency based in the Hague, announced that it had found 680 suspicious matches worldwide from 2008 to 2011, including games in some of Europe’s most prestigious leagues. In Italy, players from 22 teams were accused of fixing matches, and many have been suspended. The president of the South African Football Association was suspended last December for allegedly rigging international matches; the Finnish soccer league suspended a former champion club for match-fixing; and a top Hungarian team, Debrecen, has been investigated by European soccer’s governing body for throwing a game in the UEFA Champions League. In Italy, a goalkeeper on third-division club US Cremonese allegedly put sedatives in his own team’s water bottles to ensure they lost; one of his teammates crashed his car on the way home from the game.

According to investigators at Europol and Interpol, most of this corruption is being driven by Asian criminal syndicates: Gangs based in places such as Singapore see match-fixing as a low-risk alternative to revenue streams like drugs and prostitution, and prosper by betting millions on one rigged game. The Sapina case, however, is a European operation, and it shows a different side of the epidemic. It turns out you don’t need to be a gang kingpin to make it big in the match-fixing business. All you need is a head for numbers, an Internet connection, and an eye for human frailty.

Ante Sapina was born to Croatian immigrant parents in 1976 in the German city of Duisburg, near the Dutch border. According to court documents, he became a committed and industrious gambler in his early teens, placing wagers under the names of his older brothers, Milan and Filip, because he was underage. Sapina also played soccer well enough to make it onto a local semipro team called SD Croatia Berlin. By the time he was in college, studying economics at Technische Universität Berlin, he was gambling online nearly every day. In 2000 he won 100,000 deutsche marks (around $50,000 at the time), on a single “breakthrough” wager. Two years later he dropped out of school to gamble full time.

Sapina did well—too well, in fact. Within a couple of years, bookies and gambling websites set special caps on his bets and stopped letting him bet on minor sports, such as ski jumping and handball, where his obsessive fact-finding gave him an edge. Soon, Sapina was almost entirely limited to betting with Oddset, a game run by the German state lotteries that required users to bet on multiple football matches and only paid out if they got all of them right. By the beginning of 2004, Sapina owed Oddset more than €300,000 and was getting desperate. Although a back injury had ended his soccer career, he would tell a Berlin court, he was still in touch with many players. He decided to monetize those connections.

Gamblers looking to fix matches rarely approach players themselves. Instead, they employ go-betweens called “runners,” often former members of the target team. Sapina’s first runner was an acquaintance named Torsten Bittermann, according to court documents and Der Spiegel. Sapina testified that he offered him €3,000 to find three players on the German team Chemnitzer FC to play “with the brakes on,” as Sapina put it, in an April 10, 2004, game. Bittermann found one. For €10,000, a midfielder near retirement named Steffen Karl promised a loss, and Chemnitzer succumbed to Dynamo Dresden 1-0. To win his Oddset bet, however, Sapina needed a second game, between Turkey’s Galatasaray and Ankaragücü, to go his way. Milan went to Ankara with €15,000 in bribe money, but the fix fell through when one of the cooperating players was left out of the lineup and the other balked at trying to single-handedly lose the game. Sapina was denied a potential €636,510 payout.

After that inauspicious start, Sapina’s rigged results improved. A few weeks later, Karl and a Chemnitzer teammate helped deliver a 3-0 loss, and Sapina won €303,240. Around that time, Sapina acquired a valuable new accomplice, too; a 24-year-old referee named Robert Hoyzer had begun hanging out at Café King. Tall, blond, and unfailingly tan, Hoyzer had a hedonistic streak and was impressed by the Sapina brothers’ cars and money. When Sapina found out what Hoyzer did for a living and brought up the possibility of working together, the referee readily agreed. “You don’t have to tell a frog to jump into the water,” Sapina later told a judge.

Referees exert enormous influence over soccer matches, where margins are rarely more than a goal. In a now notorious match that August, Sapina engineered an upset in a German Cup game between Paderborn, a team in Germany’s lowly third division, and top-division Hamburger SV. Sapina paid Paderborn’s captain, a Dutch player named Thijs Waterink, €10,000 to get his players to pretend to be fouled as often as possible in Hamburg’s penalty area. Flopping is a common practice, but particularly egregious examples can be punished by referees. With Hoyzer in charge of the whistle there was no risk of that for Paderborn. He erased a two-goal Hamburg lead by twice awarding dubious penalty kicks to Paderborn and, for good measure, he ejected Hamburg’s star striker from the game. Paderborn won 4-2. Sapina made more than €750,000 on the game, and paid Hoyzer €20,000.

Hoyzer had overdone it, however. According to the German newspaper Die Welt, Hoyzer’s ridiculously bad calls, coupled with his weakness for clothes (he’d spent thousands of euros on a new wardrobe), had raised the suspicions of his fellow referees. Moreover, he had showed a referee named Felix Zwayer an envelope with €3,000 in it, and tried to recruit him to help manipulate matches. Zwayer reported him to the German referee commission. In short order, Hoyzer admitted to fixing matches and implicated Sapina. On Jan. 28, 2005, soon after the normally thrifty Sapina had splurged on a new Porsche (VOW), he was arrested and charged with fraud.

The resulting trial was a national scandal and deeply embarrassing for a country about to host the 2006 World Cup. Hoyzer and Sapina confessed to the charges against them. In November 2005, Hoyzer was sentenced to two years and five months in prison, Sapina to two years and eleven months. Milan, Filip, and a second referee named Dominik Marks were given suspended sentences, as was midfielder Karl, who initially denied taking bribes, but later confessed. Waterink and Bittermann escaped criminal prosecution. In a statement under oath, Bittermann denied rigging matches. Waterink acknowledged taking a €10,000 bonus and was suspended by his team.

The scandal ended Hoyzer’s career; he is banned for life from officiating, though two years ago he successfully petitioned the German Football Association to allow him to join an amateur team as a player. For Sapina, the sentence would barely prove a sabbatical. A psychiatric evaluation submitted to the court characterized him as a gambling addict and recommended cognitive behavioral therapy. Instead, he would soon be released into a world where it was easier and more lucrative than ever to indulge his addiction.

During the 2006 World Cup, Sapina was out on appeal. In a crowd watching the Croatia-Brazil game, he met another compulsive gambler. Marijo Cvrtak, a fellow Croatian, had tried his hand at being a cook, a baker, a truck driver, a forklift operator, and, repeatedly, a thief—he had several robbery and assault convictions. He was a few months older than Sapina but, as he would testify in Bochum, had long admired the younger man’s exploits. When Cvrtak approached his idol, “He listened to me, and we got along well.”

Sapina lost his appeal but spent just a few months behind bars, finishing out his sentence spending only nights in detention. It’s likely that even as he slept in a cell, he was passing his days plotting with Cvrtak. The two made a formidable, if unsvelte, duo. Cvrtak was chubby, and Sapina called him knoedel, or “dumpling.” Sapina has the features of a young, cleanshaven garden gnome, and his own nickname on the gambling scene was the Berliner—which, in a gift to German headline writers, is also a term for a jelly doughnut. As they admitted at their May 2011 trial, the dumpling and the Berliner fixed matches in Germany, Croatia, Austria, Hungary, Belgium, Switzerland, Turkey, Slovenia, and even Canada.

Most were lower-level contests, but not all. Prosecutors charge that the ring fixed an October 2009 match in the elite Champions League—where the best professional teams from across Europe play each other—between Italy’s Fiorentina and Hungary’s Debrecen. The month before, Sapina rigged a World Cup qualifying match between Liechtenstein and Finland by bribing the game’s Bosnian referee, Novo Panic. In a Sarajevo parking lot, Sapina testified, he met Panic and told him to ensure that two goals were scored in the second half. Sapina, like other match-fixers, would bet not just on the outcome of a game but on outcomes within it—how many goals are scored, who scores first, how many free kicks are awarded, when the first throw-in or corner kick would occur. Bets like these pay better than just wagering on who will win because the odds are longer. Panic earned his €40,000, awarding a penalty kick to the Finns after Liechtenstein scored in the second half. (In February 2010, Panic was banned for life from refereeing by UEFA, which runs European soccer. He appealed the ban, but it was upheld).

Sapina and Cvrtak didn’t stop at mere bribes. In January 2009, Cvrtak bought Union Royale Namur, a struggling team in Belgium’s second division, for a down payment of €75,000 and a promise to the team’s indebted owners that he would invest a total of €700,000 (he never did). Cvrtak then put several comically poor players on the team—one an overweight striker the team’s fans reportedly dubbed “the bomber”—bribing some in case they were tempted to improve. In the summer of 2009, Cvrtak paid for the Bosnian club NK Travnik to travel to Switzerland, where the team played, and lost, a series of matches. Sapina turned a tidy profit on both scams. Prosecutors say the gambling ring won €8 million from February to November 2009.

Sapina’s aptitude for match-fixing was improving, but he was also benefiting from changes in the gambling landscape. As a precocious teen bettor, he’d mailed off his wagers days in advance; now he could place a bet on his smartphone 20 minutes into a match. Live betting gives match-fixers cover. It is possible for bookmakers or betting watchdogs to spot fixes by watching out for unexpected betting patterns—tipped-off bookies can stop taking bets on a game, or even withhold payment. If the fix is spotted early enough, league officials can be warned. But if fixers like Sapina can wait until after the game starts to place their bets, that makes them much harder to spot, and leaves only hours—or minutes—to respond.

With the Web, gambling had also gone global. The Berliner no longer had to rely on Oddset or local bookies. To get around betting limits on Web exchanges, he phoned his larger wagers in with a London-based broker called Samvo. As detailed in the Bochum court decision, Samvo then placed bets for Sapina on Asian betting exchanges.

Asian exchanges, both regulated and unregulated, have proliferated in recent years. They don’t have bet limits, and they are big enough to easily afford taking bets from winners like Sapina. Unlike European online betting exchanges such as Betfair (BET), they don’t have agreements to report suspicious betting activity to sport governing bodies. (Samvo’s London offices were raided in connection with Sapina’s arrest. Reached by phone, a spokesman for the company declined to comment.) Friedhelm Althans, the chief investigator of the Bochum police department, led the Sapina investigation. “In Asia, there are no limits,” he says. “A match-fixing organization definitely needs the Asian markets to generate millions.”

In addition, the sheer volume of money moving through the Asian exchanges means that even on the obscure games Sapina preferred to rig there was plenty of action. That’s partly because countries such as China, Singapore, and Malaysia have growing middle classes with broadband access and a long gambling tradition. It’s also because bettors in those countries prefer betting on contests abroad—their own domestic leagues are so riddled by match-fixing, few people without inside information bother to bet on them.

The accumulation of evidence in the Sapina trials, as well as investigations in Italy, Finland, South Korea, Belgium, and elsewhere, have triggered a response. There have been criminal prosecutions and bans from the sport for fixers, players, referees, and team officials—some, like Hoyzer’s, for life. And if technology has served to increase the range and the returns of sports corruption entrepreneurs like Sapina, it also offers a few tools for catching them.

In 2005 the first Sapina trial inspired Swiss sports data company Sportradar to develop software to spot match-fixing. The resulting program tracks betting odds at hundreds of bookmakers around the world in real time, looking for shifts that suggest gamblers are, in effect, acting on inside information. UEFA and FIFA, the international governing body of soccer, have both contracted with the company. Sportradar’s data allow the company to track players behaving suspiciously—those who show up again and again on teams that throw games—and to warn teams and national sports federations to keep an eye on them. Andreas Krannich, the Sportradar managing director in charge of the project, says the technology actually enabled UEFA to spot a fix during a Champions League qualifying match—he won’t say which. At halftime, he says, UEFA “sent an official into the locker room to inform them that [the fix] could not continue.” Someone in the locker room, Krannich suggests, then contacted the fixers and called things off, because the odds immediately reverted to normal. In other words, someone somewhere had bought an outcome in one of the most-watched competitions in the world’s most popular sport. And even after it was spotted, the only trace they left was the shudder of a market righting itself as their massive bet was unwound.

Match-fixers have a long tradition of covering their tracks to avoid the scrutiny of regulators and, just as important, that of competitors. According to Declan Hill, whose book The Fix is an in-depth look at the intersection between soccer and organized crime, strategies range from working through agents to disguise the true source of a wager to misinformation campaigns that dupe gamblers into taking the other side of a bet. “When I was around the fixers,” Hill says, “they spent as much if not more of their time discussing how to fix the gambling market as how to fix the games.” Indeed, even though Sapina was a convicted match-fixer, Bochum police only stumbled upon his new venture by accident. (Lead investigator Althans won’t give details, except to say that wiretaps in an unrelated investigation into “red light proceedings” picked up discussions of match-fixing).

Sapina and Cvrtak were arrested on Nov. 19, 2009. The two confessed to the charges against them and cooperated with prosecutors. In May 2011 they were each sentenced to five and a half years in prison. Both appealed. Last December an appeals court overturned their sentences, though in such a way that it remains unclear whether they will ultimately be lengthened or shortened. Prosecutors continue to investigate about 300 other people they say were involved in one way or another in the ring.

On March 18, Milan Sapina was sentenced to 10 months in prison. Reached by phone at Café King the next evening, he says the verdict left him “disappointed and annoyed.” The prosecutors had been out to get him: “I exchanged money once, and they found two betting receipts, and suddenly I’m the gambling mafia.” The receipts weren’t even his, he insists. Techno music thumps in the background, and the bar sounds busy. These days players and referees steer clear of the place, but Sapina says there are plenty of customers. Thanks to its notoriety, Café King has become a tourist attraction.

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Unicredit tende la mano a Pallotta

"Confermati tutti gli impegni"

Garantiti i finanziamenti per gli stipendi e l´iscrizione al campionato

di MATTEO PINCI (la Repubblica - Roma 28-03-2013)

Il presidente della Roma James Pallotta rassicura Unicredit sul proprio impegno. Soprattutto economico. È lo stesso Paolo Fiorentino, vice dg dell´istituto a comunicarlo attraverso una nota diffusa dal club: «La proprietà statunitense ha confermato l´impegno nei confronti del club, adempiuto a tutti gli obblighi di cui agli impegni assunti per intero. Siamo pienamente fiduciosi che continueranno a farlo e non vediamo l´ora di lavorare con loro nella costruzione del club». Questo il frutto dell´appuntamento a New York tra il leader romanista e il vice dg della banca, accompagnato da un uomo del factoring, e «richiesto da Pallotta nell´ambito di un continuo impegno a mantenere la massima trasparenza tra i soci». Trasparenza sullo "sceicco" Qaddumi (ma Unicredit telefonicamente aveva già chiesto a mr President di essere maggiormente coinvolta in situazioni simili per prevenire figuracce) e soprattutto su come far fronte alle necessità economiche a brevissimo termine della Roma che dovrà pagare gli stipendi fino a maggio e presentare garanzie per l´iscrizione al campionato. Impossibile dopo vari rinvii attendere ancora per l´aumento di capitale da 80 milioni (soldi in parte già versati come finanziamento soci). Dialogo "robusto" in cui Unicredit ha fatto presente di non valutare ulteriori operazioni di factoring (che fornisce anche ad altri club: con il Milan, accordo per 30 milioni). Serviranno dunque, dopo gli accordi con Nike e per lo stadio - unici argomenti di appeal agli occhi di investitori - i soldi degli americani.

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laRovesciata di ROBERTO BECCANTINI (GaSport 28-03-2013)

CALCIOSCOMMESSE E MOTIVAZIONI

TRE DUBBI SULLA SENTENZA GIRAUDO

Chiedo scusa se parcheggio per un attimo la volata scudetto. Ho appena finito di leggere le motivazioni della condanna per Giraudo (associazione a delinquere, venti mesi in appello), e dell’assoluzione per tutti gli altri imputati (arbitri, assistenti). Non ho mai creduto a una cupola esclusiva. Quello che emerge, o penso che emerga, conforta la mia opinione. In buona sostanza: l’ex amministratore delegato della Juventus è un mero partecipante all’associazione, non ne è promotore (di qui lo «sconto») e si accoda aMoggi, sul quale pende ancora l’Appello del 24 maggio: e se lì cadesse l’impianto accusatorio, nessuno può escluderlo, a cosa avrebbe partecipato Giraudo? Senza entrare troppo nei meandri tecnici, mi hanno colpito tre cose:

1) Le schede svizzere. Ci è stato raccontato che erano la pistola fumante, il mezzo con cui gli associati comunicavano senza poter essere intercettati (qualcuno dovrebbe chiedere a Auricchio e Di Laroni come hanno fatto a intercettare la scheda guatemalteca di Lavitola). Oggi, viceversa, il giudice Stanziola dice che averla (arbitro Pieri) o non averla (Giraudo) risulta indifferente al fine della sua valutazione di colpevolezza o innocenza.

2) Cadute tutte le teorie dei sorteggi arbitrali truccati (la Casoria, al riguardo, è stata anche sprezzante nei confronti degli investigatori), lo scopo degli incontri carbonari e delle telefonate tra Moggi, Giraudo, Lanese, Pairetto e Bergamo (a proposito: Lanese, all’epoca presidente degli arbitri, partecipava a quegli incontri ma è stato assolto) è stato retrocesso ad accordi per la composizione fraudolenta delle griglie arbitrali.

Già, ma quali arbitri? Quelli che hanno scelto il rito abbreviato sono stati tutti (clamorosamente) assolti e tra i restanti quattro ancora coinvolti nel filone principale (De Santis, Bertini, Racalbuto, Dattilo), per quello che affiora dalle motivazioni, relativamente alla partita Udinese-Brescia, non mi meraviglierei se la stessa sorte toccasse anche a Dattilo.

Ne resterebbero così tre (sempre se condannati anche in Appello), il minimo sindacale, chiamiamolo così, per un’associazione a delinquere assimilabile alla mafia e alla P2 (Narducci dixit). Ma, appunto, può considerarsi tale una lobby che avrebbe inserito in maniera fraudolenta tre arbitri, su non ricordo quanti, in quattro o cinque griglie? Detto del sorteggio regolare, le probabilità di ottenere l’arbitro desiderato erano molto basse.

3) L’associazione, spiega il giudice, centrò l’obiettivo della salvezza della Fiorentina. Ma non si era detto che «non c’erano prove dell’alterazione dell’esito di quel campionato, in favore di questo o di quel contendente» (Casoria)? Quali sono le partite aggiustate per salvare la Fiorentina? Risposta: la famigerata Lecce-Parma 3-3, per la quale è stato condannato De Santis in primo grado (anche se tra le telefonate ritrovate ce ne sono alcune che «lo assolvono »). Non solo: verso la fine, Zeman lasciò il campo per protesta contro il «disimpegno» dei suoi giocatori, come ribadì nel processo di Napoli. Gara, tra l’altro, il cui esito non era affatto garanzia della salvezza della Fiorentina e del piano criminoso.

Insomma: rispetto le sentenze ma i dubbi restano.

La Ġazzetta dello Sport 29-03-2013

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la sentenzaGiraudo di VALERIO PICCIONI (GaSport 29-03-2013)

INCHIESTA CALCIOPOLI IMPERFETTA

MA NON È UN COLPO DI SPUGNA

C’è Inter-Juve e come sempre, ecco il fantasma di calciopoli che si riaffaccia. Anche perché, fra sentenze, motivazioni, appelli vari ed eventuali, la parola è sempre attuale. Ieri Roberto Beccantini in questa pagina ha rappresentato con grande concretezza lo stato d’animo del tifoso juventino perplesso e dell’osservatore sconcertato, assediato dai punti interrogativi dopo tanti mesi di intercettazioni dimenticate e pronunciamenti giudiziari, sempre colpevolisti, ma ogni volta con qualche distinguo o assoluzione fatta apposta per alimentare dubbi e contraddizioni.

Dirigenti condannati, arbitri assolti. «Associazione a delinquere» viva e vegeta senza però prove di partite truccate. Schede svizzere determinanti una volta e ininfluenti l’altra. Ma basta tutto questo per giungere alla conclusione che calciopoli non sia mai esistita?

Non è solo una questione di sentenze, che pure sono undici (sei sportive, una ordinaria di rito ordinario, due di rito abbreviato, una del Tar, più quella della Corte dei Conti) e tutte, seppure con motivazioni diverse, hanno sposato almeno parzialmente l’idea della colpevolezza. E’ che quella stagione, con i suoi ripetuti incontri «istituzionali» fra dirigenti e designatori, le sue telefonate su utenze di cui comunque un comune mortale non ha bisogno di servirsi, o all’una di notte, o nell’avvicinarsi delle partite, il tentativo di colpire tutti coloro che non si omologavano a un certo tipo di sistema, ci appare davvero troppo lontana da un’idea di «normalità ».

Naturalmente la traduzione giudiziaria di tutto questo spetta alla magistratura, fino all’ultimo (il 24 maggio c’è un’altra puntata, l’appello del rito ordinario, quello di Moggi). Naturalmente non tutte le posizioni sono uguali, come le stesse sentenze hanno dimostrato, scagionando diversi protagonisti. E più di qualche dubbio sulle modalità dell’inchiesta ce l’abbiamo pure noi. Per non parlare degli errori macroscopici compiuti dall’istituzione sportiva— vedi l’assegnazione dello scudetto 2006 all’Inter — e che avrebbero potuto essere evitati anche prima delle intercettazioni bis. Ma di qui al colpo di spugna ci pare che ce ne corra. Per non parlare di quest’idea secondo la quale siccome tutti lo fanno allora non l’ha fatto nessuno, un manifesto che tollera ogni comportamento. Una cultura dell’alibi che giustifica tutto e tutti. E che il calcio, ma un bel po’ di questo Paese, conosce a memoria.

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La denuncia Galliani studia azioni legali: «Abbiamo giocato con lo stadio pieno, altri no»

«Caso Cagliari, il campionato è irregolare»

di ALBERTO COSTA (CorSera 29-03-2013)

MILANO — Che la situazione di Is Arenas, il nuovo stadio del Cagliari, abbia inquinato la regolarità del campionato di serie A è cosa scontata per chiunque sia dotato di un minimo di spirito critico. Soltanto la Lega Calcio è convinta che tutto stia filando liscio. Avendo concesso il nulla osta all'iscrizione del club di Massimo Cellino grazie a un escamotage, la scelta dello stadio Nereo Rocco di Trieste come sede delle partite casalinghe, forse in via Rosellini sono convinti che effettivamente i rossoblù stiano giocando nell'impianto del capoluogo giuliano dove non esistono neppure i tornelli agli ingressi.

Così è accaduto (citiamo alla rinfusa) che la Roma a Cagliari abbia vinto a tavolino, che la Juve abbia giocato in campo neutro (a Parma), che Napoli e Milan siano stati costretti a sfidare i sardi a spalti gremiti (abbonati + paganti), che ad alcune gare abbiano assistito i soli abbonati e che altre ancora, come pare debba capitare domani in occasione di Cagliari-Fiorentina, si siano invece disputate a porte chiuse. Cinque tipologie differenti di scenari: grottesco. Ora di questa situazione di precarietà tipicamente italiana si è stufato il Milan. Con una decisione clamorosa, dai possibili effetti dirompenti, stamattina Adriano Galliani e Leandro Cantamessa, lo storico legale rossonero, valuteranno infatti quali possibilità concrete esistano per dichiarare l'irregolarità di questo torneo. «Riteniamo che sportivamente il campionato non si possa più definire regolare — osserva il vicepresidente vicario milanista —. Qualcuno ci dovrà spiegare perché il 10 febbraio il Milan abbia giocato in uno stadio pieno e il 30 marzo questo invece non sia più possibile. È una situazione intollerabile». Incavolato il giusto, Galliani ha informato dei suoi propositi la Lega (di cui è vicepresidente). Le danze sono appena iniziate. Allegria!

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Quotidiano Sportivo 29-03-2013

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E nel calcio le banche... sbancano

Un miliardo di debiti finanziari, raddoppiati in 5 anni. Dal caso-Roma all’anticipo dei proventi tv

di MARCO IARIA (GaSport 29-03-2013)

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Banche che anticipano i crediti dei diritti tv, banche che prendono in pegno i marchi dei club, banche che erogano sponsorizzazioni fuorimercato, banche che gestiscono la tessera del tifoso, persino banche che sono azioniste di una squadra. L’abbraccio tra calcio e finanza è sempre più stretto, a causa soprattutto della crisi di liquidità del sistema. I debiti delle 20 società di A verso le banche e altri finanziatori — i cosiddetti debiti finanziari — ammontano a 976,5milioni di euro (stagione 2011-12) e sono più che raddoppiati negli ultimi 5 anni. Gli incassi commerciali non decollano, il botteghino piange, le movimentazioni dei giocatori si sono ridotte: manca il denaro fresco, e quando i proprietari non riescono ad aiutare la squadra perché, magari, la recessione ha colpito le loro aziende, non resta altra via che il ricorso al credito. Ci sono le rate degli acquisti da rispettare, ci sono gli stipendi da pagare. Lo strumento più in voga si chiama factoring: porto in banca il contratto con la tv o lo sponsor, che incasserò nelle stagioni a venire, e lo cedo alla stessa in cambio di denaro subito.

INTRECCIO ROMANO

Un caso esemplare è quello della Roma, controllata per il 78% da Neep Roma Holding spa di cui UniCredit è azionista di minoranza col 40%. L’istituto di Piazza Cordusio non solo ha finanziato l’ingresso della compagine americana (term loan da 30 milioni e vendor loan, tramite Roma 2000, da 20) ma funge anche da «anticipatore» di proventi futuri. Così i debiti finanziari che a giugno 2012 erano di 77,3 milioni, sei mesi dopo sono saliti a 96,8 , per effetto di un’ulteriore linea di credito da 20 milioni concessa da UniCredit Factoring, in cambio dei crediti per i diritti tv della stagione 2013-14 e per la cessione di Borini al Liverpool. E non è finita. Nella relazione semestrale c’è scritto: «Non si esclude un ricorso ad indebitamento oneroso, per il tramite di società di factoring del Gruppo UniCredit, per l’eventuale residuo fabbisogno finanziario dell’esercizio».

VIRTUOSI E VIZIOSI

Beninteso, esistono anche i debiti «virtuosi». La Juventus ha finanziato la costruzione del nuovo stadio, tra l’altro, accendendo un mutuo presso il Credito sportivo, che pesa per un terzo (54 milioni) sulla passività finanziaria al 31 dicembre, pari a 155 milioni. Lo stesso ha fatto il Catania, regalandosi un centro sportivo all’avanguardia: i debiti verso le banche di 26,5 milioni si riferiscono proprio al prestito dello stesso Credito sportivo. Il guaio è che, salvo rare eccezioni, le società bussano alle banche non per fare investimenti infrastrutturali ma per pagare le spese ordinarie: leggi stipendi e cartellino dei giocatori. E non è un caso che le operazioni di factoring siano aumentate nel momento in cui i club medio-piccoli, ingolositi dalla pioggia di denaro derivante dalla spartizione collettiva dei diritti tv, hanno alzato l’asticella dei costi. Il Cagliari ha visto crescere i debiti verso le banche e altri finanziatori da zero (giugno 2011) a 14,7 milioni (giugno 2012), il Genoa da 65,5 (dicembre 2010) a 81,5 (dicembre 2011), la Lazio da 5,8 (giugno 2011) a 11,5 (dicembre 2012). C’è pure chi, stando agli ultimi bilanci disponibili, non deve nulla agli istituti di credito: Fiorentina e Napoli. E poi ci sono le grandi. Detto della Juve, che comunque non si è fatta mancare un leasing da 30 milioni su Vinovo, al 31 dicembre 2011 il Milan aveva 155,9 milioni di debiti con le banche (152,3 per la normale operatività col sistema bancario e 3, 6 per il residuo del mutuo per Milanello) e 136 verso altri finanziatori (130 per anticipazioni di crediti, 5, 5 per il leasing sulla sede di via Turati). Per l’Inter 150 milioni di passivo con le banche e 25 con altri finanziatori. Suona strano che sovente, sotto questa voce, ci sia il Credito sportivo, non nelle vesti di banca pubblica che finanzia la costruzione di stadi o palestre, ma di istituto che anticipa i proventi commerciali.

IL CASO DEL MONTE

Le banche non prestano soldi senza garanzie. E il calcio rappresenta un business redditizio anche per loro. Si è visto nell’estate 2010, all’indomani della vendita record dei diritti tv, quando UniCredit propose alle 20 società di A, attraverso la Lega, di anticipare i quasi 2 miliardi di ricavi delle due stagioni successive, battagliando col Monte dei Paschi che firmò subito con Inter, Milan e Sampdoria. Già, il Monte. Lo scandalo di Rocca Salimbeni ha fatto sì che venissero chiusi i rubinetti delle sponsorizzazioni. Un salasso, a partire dal prossimo anno, per il Siena che nel 2011-12 ha incassato addirittura 8 milioni da Mps in qualità di sponsor ufficiale: solamente Inter, Juve e Milan percepiscono di più, tanto per capirci la Roma si è fermata a 5,5. Il Siena è un caso limite ma le relazioni con la finanza sono così fitte che attualmente in A solo 4 club su 20 (Roma, of course, Palermo, Pescara e Torino) non vantano banche nella loro famiglia di sponsor. Due main sponsor (Mps per il Siena e Popolare di Verona per il Chievo) e un co-sponsor (CredeBerg per l’Atalanta), e tre partnership per l’Udinese (Popolare di Vicenza, Cassa di Risparmio del Friuli e Banca di Cividale).

MI VENDO IL MARCHIO

La cessione del marchio è un evergreen: cosa c’è di meglio per abbellire i conti ed evitare ricapitalizzazioni? L’hanno fatta praticamente tutte (non la Juve, tra le big), per ultima il Siena, col solito Mps a finanziare i 25 milioni con cui B&W Communication ha rilevato il marchio. Inter Brand, controllata dall’Inter, al 30 giugno 2012 doveva ancora restituire metà dei 120 milioni prestati da Antonveneta per l’acquisto del ramo d’azienda nel 2005. D’altronde, dipendere dalle banche costa: sul bilancio nerazzurro gli oneri finanziari sfiorano i 14 milioni, più o meno il costo del probabile futuro centravanti Icardi.

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L’intervento

Stadio di Fuorigrotta, anacronistico attrattore di traffico

Il presidente dell’Aci: legittimo l’interesse di De Laurentiis ma così quartiere in ostaggio

Delocalizzare Indispensabile per lo sviluppo del territorio costruire un nuovo campo in periferia

di ANTONIO COPPOLA Presidente Aci (IL MATTINO 29-03-2013)

La bocciatura di un possibile nuovo impianto sportivo a Ponticelli sembra allontanare, definitivamente, l’ipotesi di delocalizzare lo stadio in un’area più adeguata rispetto all’attuale, ormai infelice, ubicazione.

È risaputo che la ristrutturazione del San Paolo sia la scelta prioritaria del patron De Laurentiis, il quale sogna un centro polifunzionale al passo coi tempi, attivo 24 ore su 24 per l’intera settimana, aperto ad altre attività commerciali, anche extrasportive, nell’ambito di un ardito progetto che prevede addirittura la riqualificazione di piazzale Tecchio, sino ad una possibile diretta gestione dell’area Zoo-Edenlandia. Nulla da eccepire nei confronti del legittimo interesse di un imprenditore per il quale la città prova una giusta riconoscenza, visti gli importanti risultati raggiunti dalla squadra del cuore dei napoletani, grazie alla sua saggia gestione. Anche se, va sottolineato, questi successi non nascono da una profonda passione/fede per i colori azzurri, quanto piuttosto da un mero ed opportunistico calcolo economico, come è giusto che sia, ai tempi d’oggi, in cui il “business” detta le sue ferree regole anche nel mondo del calcio. Altrettanto e più legittimo ancora, però, è l’interesse della collettività che l’amministrazione comunale deve tutelare, attraverso decisioni ponderate e strategiche in materia urbanistica, per garantire nell’ambito del territorio di competenza, una felice corrispondenza tra funzioni e qualità della vita. Ed è proprio questo il discrimine della questione San Paolo: volente o nolente, Fuorigrotta non è più in grado di ospitare un impianto a così elevata ricettività. Non lo è in occasione delle partite di calcio del Napoli - che comunque coprono uno spazio temporale limitato a poche ore alla settimana -, a maggior ragione non lo è qualora la struttura dovesse aprirsi, senza sosta, ad altre iniziative commerciali. Sarebbe la paralisi. Non è corretto, né auspicabile anteporre l’aspettativa di profitto di un soggetto privato al diritto/bisogno di vivibilità di cittadini esasperati dal caos a cui sono sottoposti ogni qualvolta il Napoli gioca in casa. Non si può tenere in ostaggio un quartiere di centomila abitanti per ore ed ore, in nome della fede calcistica. Una vera e propria città stretta d’assedio da ingorghi ed auto in sosta selvaggia per mancanza di parcheggi, tale da non poter assicurare ai residenti, e non solo, il più elementare dei diritti: la libertà di spostamento. In questi frangenti, è impossibile rispondere, per tempo, persino ad una richiesta di pronto soccorso. E, purtroppo, a nulla sono servite le denunce di questo scempio alla Procura da parte di furenti comitati civici. Per tali motivi, riteniamo indispensabile, anche ai fini di un più equilibrato e razionale sviluppo del territorio, costruire un nuovo stadio in periferia che, oltre a decongestionare un’area urbana – quella di Fuorigrotta – ormai satura di servizi ed attività, restituirebbe rispetto, dignità e decoro anche alla città congressuale all’interno della Mostra d’Oltremare, al Politecnico, alla Rai ed ai centri di servizi che gravitano intorno alla zona. Così, inoltre, si contribuirebbe a riqualificare l’hinterland con un insediamento polivalente capace di produrre reddito ed occupazione, e con la realizzazione di nuove infrastrutture come la rete di trasporto su ferro e parcheggi capienti.

Allo stato, non può prevalere il perseguimento di interessi economici privati - ancorché legittimi - ma il bene comune. Si deve, perciò, ristabilire un corretto rapporto tra “locatore” e “locatario” nel quale il primo provvede alla manutenzione dell’impianto ed il secondo a corrispondere il canone di concessione e le spese di sua competenza. Il consiglio comunale, poi, farebbe bene a individuare, nell’interesse della città e degli stessi tifosi, una reale e fattibile alternativa all’impianto di Fuorigrotta, coinvolgendo in primis la Società Calcio Napoli nell’ambito della legge sugli stadi per il finanziamento delle nuove opere. Non possiamo continuare ad essere l’unica città al mondo ad annoverare ancora all’interno della cinta urbana grandi centri attrattori di traffico come lo stadio e l’aeroporto: un vero e proprio anacronismo in tempo di decentramento.

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Il caso

Dalla tolleranza zero a 43 anni di sconti

così finisce uno scandalo

Scommesse, le pene “annacquate” del Tnas

Job è l’ultimo caso: da 3 anni e mezzo all’assoluzione

I dubbi di Malagò, il futuro è incerto

di MATTEO PINCI (la Repubblica 29-03-2013)

Il neo presidente del Coni Giovanni Malagò lo aveva bollato come “scontificio” prima ancora di essere eletto. Una fama a cui evidentemente il Tnas deve tenere particolarmente: sono arrivati a 520 mesi complessivi gli “sconti” di pena a tesserati condannati nell’ambito dei processi al calcio scommesse degli ultimi dodici mesi dai due gradi di giudizio della Figc. Poco più di 43 anni di squalifiche varie, in maggioranza per illecito sportivo spesso anche reiterato, cancellati con un colpo di spugna: questo il personalissimo contributo, per di più inappellabile, del tribunale di arbitrato sportivo presso il Coni allo scandalo di scommessopoli che prometteva di ridisegnare la geografia del nostro calcio. Un contributo che demolisce i verdetti di primo e secondo grado pronunciati dalle corti endofederali con sentenze diametralmente opposte, e che attenta alla credibilità del lavoro istruttorio e processuale di mesi della federazione con pronunciamenti emessi dopo poche ore appena di camera di consiglio. L’ultimo verdetto ha cancellato mercoledì i 3 anni e mezzo di squalifica al calciatore svincolato Job Iyock, all’epoca dei fatti al Grosseto, raggiungendo il “prestigioso” traguardo dei 520 mesi totali di sconti, grazie anche ad altri annullamenti e riduzioni delle squalifiche. Perché di “saldi” sostanziali che trasformano pene severissime in buffetti hanno beneficiato tanti: 22 soggetti dall’estate scorsa a oggi. Cancellate, di fatto, le responsabilità di quei giocatori non certo di fama, ma che secondo le sentenze sportive costituivano il sottobosco attraverso cui alterare partite e campionati. Con tanti saluti alla “tolleranza zero”, all’inasprimento delle norme, ai propositi di pulizia del calcio sventolati dalle istituzioni sportive all’indomani dell’esplosione del bubbone scommesse.

Due arbitri di parte e un presidente: questa la composizione del collegio arbitrale del Tnas per ogni controversia. Gli arbitri vengono scelti tra i 50 esperti – magistrati a riposo, avvocati di stato, professori universitari, magistrati della Corte dei Conti – attentamente selezionati dal Coni. Che però prende le distanze da un organo “indipendente”, assicurando di mettere esclusivamente a disposizione la propria segreteria e le aule al primo piano dello stadio Olimpico per le udienze.

La Figc ha iniziato a sollevare il problema, innervosita dall’evolversi della situazione. Dubbi su utilità e funzionamento di questa struttura li ha manifestati lo stesso presidente Malagò. Se come sembra il Tnas è destinato a chiudere o a rinnovarsi, verrebbe da chiedersi se ci si trovi di fronte ai saldi di fine serie.

ECCO LA FABBRICA DEL COLPO DI SPUGNA

di ALIGI PONTANI (la Repubblica 29-03-2013)

Quarantatré anni di sconti. Fa perfino allegria guardare alle bravate del Tnas, o più semplicemente non è proprio più possibile prendere sul serio una giustizia sportiva che lo preveda: un tribunale arbitrale (istituito “presso il Coni”, ricordiamolo) che si è ormai trasformato nella fabbrica delle spugne, sempre pronte a lavare via le severissime, integerrime, esemplari sanzioni che il calcio sa infliggere a chi sgarra. È un meccanismo diabolico, ma collaudato negli anni. Vediamolo. Un magistrato fa scoppiare uno scandalo — scommesse, arbitri: è lo stesso — e il mondo dello sport reagisce con promesse solenni: tolleranza zero, pugno di ferro, giustizia rapida. A questi slogan, sempre uguali, aggiunge considerazioni alte: sono solo poche mele marce, il nostro ambiente è sano, cose così. Quindi cominciano i processi, in effetti rapidi (per esigenze di calendario, dunque televisive) che portano alle famose sanzioni esemplari, in primo e secondo grado, quando il fuoco mediatico è alto, l’attenzione pubblica ancora desta, lo sguardo della politica non proprio assente. Poi, con calma, contando sull’assuefazione dell’opinione pubblica e sulla distrazione generale, si va al Tnas, disgraziatamente definito la «Cassazione dello Sport», dove il pugno di ferro diventa una pacca sulle spalle e le sentenze esemplari buffetti sulle guance. Della Cassazione il Tnas non ha nulla: non deve infatti stabilire la legittimità di una sentenza o la corretta applicazione delle regole in un processo. Ha poteri più alti: i giudici esaminano i ricorsi e in genere senza ulteriori indagini possono decidere tutto ciò che vogliono, emettendo un nuovo e inappellabile verdetto. Ultima parola, e andate in pace.

È evidente, però, che questi 520 mesi di sconti accordati a chi secondo le sentenze precedenti aveva trasformato il calcio in un mercato infame di partite, gol e autogol comprati e venduti in contanti, segna il punto di non ritorno del sistema: o i processi di primo e secondo grado sono stati una farsa ignobile, o lo sono quelli di terzo grado. Non c’è un’altra possibilità. Il neo presidente del Coni Malagò in campagna elettorale aveva promesso una cosa impegnativa: «Voglio che il Palazzo dello sport diventi di vetro: la trasparenza sarà la prima missione». Ecco, ci aiuti a vedere bene cosa succede in quelle stanze, dove le sentenze vengono svendute come ai saldi degli ultimi giorni. Faccia presto, però: adesso il vero scandalo non sono gli scandali, ma come vengono affrontati.

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Inviato (modificato)

Primi e scontenti

La beffa del Cardiff: torna in Premier

ma gli arabi si sono presi l’anima

Dopo 50 anni È in testa alla Championship, ma i nuovi proprietari hanno cambiato il colore delle maglie e invertito il simbolo: non più un uccello blu per i bluebirds, ma un dragone rosso

di LORENZO LONGHI (l'Unità 29-0-2013)

L’IMMAGINE PIÙ EMBLEMATICA LA PUBBLICÒ, ALCUNI MESI FA, IL MENSILE CALCISTICO BRITANNICO FOURFOURTWO: PADRE E FIGLIO UNITI DALLA PASSIONE PER LA STESSA SQUADRA, BARDATI DEI COLORI DEL CLUB, UNO ACCANTO ALL’ALTRO, ALLO STADIO. Qualcosa, però, non quadrava: maglia e sciarpa blu per il genitore, rosse per il figlio, logo diverso. Ordinarie scene di tifo al Cardiff City Stadium, la casa appunto del Cardiff City, istantanee sin troppo frequenti dallo scorso agosto, da quando cioè la storica casacca e lo storico stemma dei Bluebirds sono mutati; dal tradizionale blu al rosso, dall’uccello azzurro che da sempre accompagna la squadra della capitale gallese ad un dragone rosso.

Come il denaro batte la storia: Vincent Tan Chee Yioun, tycoon malese la cui fortuna è stimata da Forbes in 1,3 miliardi di dollari, nel 2010 ha acquistato il club, salvandolo da un possibile fallimento, e da allora ha cominciato a dettare legge, piegando la tradizione di uno dei club più noti - sebbene poco vincenti - del Regno Unito ad immagine e somiglianza delle sue origini. Perché il drago che dall’agosto campeggia in primo piano sulle maglie (rosse e non più blu) del Cardiff City è un emblema del Galles, ma è considerato soprattutto un simbolo di potere e forza nella cultura asiatica, dove il rosso connota fortuna, mentre il blu è colore funereo. Per dire, è un po’ come se, un giorno, un qualsiasi magnate acquistasse un club fortemente caratterizzato come la Fiorentina, inserisse un leone o una tigre nello stemma del club ed eliminasse il colore viola perché porta sfiga.

Ecco: al Cardiff City è accaduto più o meno questo. L’uccello azzurro c’è ancora, ma molto ridimensionato, nella parte bassa del logo del club, sotto una inedita scritta («Fire&Passion») che pare più che altro lo slogan di un sexy shop. Ma tant’è e così, ogni volta che la squadra gioca in casa, i tifosi si dividono. Da una parte i puristi vestiti di blu, dall’altra chi ha accettato la novità, secondo la filosofia del «better red than dead», visto che ora i Bluebirds, foraggiati dal denaro di Tan, comandano la Championship, la B inglese, e stanno per tornare nella massima serie, dove non giocano dal 1962 e dove ritroveranno i rivali gallesi dello Swansea. I cui tifosi, intanto, se la ridono: un po’ perché hanno appena vinto la League Cup, un po’ perché i loro acerrimi nemici faticano anche a riconoscerli. E li sfottono: «Who are ya, red?», e voi rossi chi siete?

Il punto di non ritorno si è avuto lo scorso 19 febbraio quando, in occasione della sfida di campionato contro il Brighton, Tan ha deciso di regalare 25 mila sciarpe rosse al pubblico, per vincere la riluttanza di numerosi tifosi ad acquistare gadget del nuovo corso: mossa azzeccata, perché il richiamo del gratuito fa sempre colpo e così, per la prima volta in 114 anni, lo stadio del Cardiff ha visto la netta prevalenza di un colore che non fosse il blu. Che poi l’idolo locale Craig Bellamy e compagni quel giorno abbiano perso non ha scalfito il tycoon malese, che ha immediatamente alzato l’asticella, raccontando ad un giornale gallese la sua intenzione futura di ribattezzare il club Cardiff Dragons. Solo che, a quel punto, si è scatenato il putiferio: passino, a malincuore, le sciarpe rosse - sulle quali peraltro compariva solo Cardiff, e non Cardiff City, il nome completo del club - ma questa proprio no. E proprio il cubitale «No» sulla prima pagina sportiva del South Wales Echo, il quotidiano più popolare di Cardiff, rendeva bene l’idea della reazione della tifoseria a questa fuga in avanti.

Un sondaggio del Cardiff City Supporters Trust ha rivelato che oltre la metà dei tifosi si sarebbe opposta al rebranding, paventando una sorta di Aventino del tifo. Addirittura, già sul web gruppi di supporter proponevano l’idea di far rinascere i Bluebirds originali, creando ex novo una società sul modello di quanto accadde all’Afc Wimbledon una decina di anni fa. Tan e i suoi hanno dovuto fare subito retromarcia, ma il timore fra i tifosi gallesi rimane, anche perché il probabile approdo in Premier League porterebbe occasioni di visibilità e sponsorizzazione che al business di Tan, che mira allo sterminato mercato asiatico ovviamente, farebbero gola.

Già, la Premier League. Una stagione così eccellente dalle parti di Cardiff non si vedeva da cinquant’anni: esistono intere generazioni che non hanno mai visto i Bluebirds giocare nella massima divisione inglese. Dopo una campagna di successi, sta per accadere, ma dallo stesso sondaggio si apprende che il 36,1% dei tifosi considera «disappointing», e cioè deludente, quella che sul campo è la stagione più gloriosa da mezzo secolo a questa parte. Perché i risultati possono narcotizzare il malcontento, certo, ma quando si tratterà di festeggiare, in rosso, una promozione attesa (ma in blu) da quasi una vita, a tanti tifosi verrà una crisi di identità.

Modificato da Ghost Dog

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Clubs turn to chaplains for guidance

as pressures on players grow

Graham Taylor and Sir Alex Ferguson have been instrumental

in a phenomenon that is spreading from football to other sports

‘They don’t wear dog collars or preach. It’s a wonderful resource’

‘They need to be good listeners, giving advice that is independent’

by ALYSON RUDD (THE TIMES 29-03-2013)

The Church is in crisis. Congregations are collapsing, scandals abound, but there is one place where religion is flourishing. In sport. As the nation celebrates the Easter weekend, there are 254 sports chaplains at work in the UK.

A football manager’s wish list might include a transfer budget, talented players, a trustworthy assistant and an effective scouting network. But increasingly it also includes the appointment of a chaplain. Chris Powell, the manager of Charlton Athletic, says that his chaplain is the heartbeat of his npower Championship club and he would not want to manage without one.

“If a club doesn’t have a chaplain, they are missing the point,” Powell says.

We are in his office after a training session in the bitter cold, when the manager of a club who could yet be drawn into a relegation battle might be expected to have little time for questions of faith. But Powell is articulate and passionate about what club chaplains offer.

“Why not have someone who will help the club grow, help players individually, be part of the support network?” he says. “Someone who has a well-rounded view on life is a vital part, the heartbeat of the club for me.

“Players need a voice, someone with empathy away from the football side. They hear me demanding more. I’m their boss and they understand that, but these guys might see something that means they need to talk. They won’t come to me with a question about religion or bereavement. They have lives to lead away from football and can we help them? Yes. Not everyone will think that way but if I ever have to go to another club, I would demand a chaplain ASAP.”

Chaplaincy in sport is a rapidly expanding phenomenon but, as Powell says, not everyone buys into the concept. Coaches dislike interference, club owners fear Bible bashers. At Tottenham Hotspur, for example, the players have access to the club’s various external religious contacts, but the club regard religion as a private matter and deem it inappropriate to appoint a chaplain representing one faith.

Football was where it all began and the rise of sports chaplaincy was helped because Sir Alex Ferguson supports the concept.

From an executive box at Old Trafford I can see various banners proclaiming that support of Manchester United is a religion. Reverend John Boyers, the club’s chaplain, is with me. Boyers — or Rev John, as he is known to all at the club — started it all 22 years ago when he was asked by the Baptist Union to run SCORE (now rebranded as Sports Chaplaincy UK), a new organisation dedicated to offering a spiritual presence in sport, a role Boyers had played at Watford since 1977.

Graham Taylor, then the Watford manager, whom Boyers used to watch play in his native Grimsby, took a huge risk, in Boyers’s opinion, by appointing him. “Graham Taylor unleashed me,” Boyers says. “I could have been a nutter, a Bible basher, he didn’t know.” Taylor was astute enough to get Boyers to join training on Monday mornings. “It was really hard work,” Boyers, who played in a local league, says.

At the end of the first season, Taylor said that it had gone well; the players liked him and he had heard that he had helped a few of them, so they signed him up for another year. Boyers’s church gave him a day and a half a week to spend at Vicarage Road.

In 1979 Taylor told him that he could assume he was officially the club chaplain. From the start, Boyers knew instinctively that he had to be proactive pastorally but reactive spiritually or risk alienating players and management.

At the same time as the club embraced a spiritual presence, Watford progressed from the old fourth division to the top flight and an FA Cup Final, and the football world wondered what their secret might be.

“Other clubs started phoning me and asking me to visit them to explain what this chaplaincy was,” Boyers says. One club keen to poach him were United. Bertie Mee, then Taylor’s assistant at Watford, told Boyers that if he wanted to develop chaplaincy, he would be better off at a club with a much higher profile.

“Does God favour clubs with chaplains?” Boyers says. “The rain falls on the just and unjust. A good manager will gather the right players. Maybe God placed me in Watford when it was doing well and then at Manchester United for reasons of profile. I’m not the reason why this club has been successful, Alex Ferguson is the reason.”

Boyers is convinced that chaplaincy is the norm at Scottish football clubs thanks to Ferguson’s patronage. “The fact I was working at Man United and Sir Alex is adored in Scotland is why chaplaincy has worked so well in Scotland,” he says.

But back to those banners. Isn’t it awkward for a minister to read that United is the only religion? “It doesn’t really jar with me,” Boyers says. “I think there are many bits about football that are like religion: the camaraderie, the friendship, the commitment, the singing and the worship.

“Following a football team, whether it is Grimsby Town or Man United, will not give you what faith offers you. It offers forgiveness, eternal life, a sense of God with you, and you don’t get that following any football team. It’s not a replacement.”

Boyers’s pragmatism is crucial. Chaplains cannot afford to be judgmental and he knows of at least one chaplain who walked out on a club because he was offended by the players swearing.

The task of making sure the right people enter sports chaplaincy now falls to Richard Gamble, who, as chief executive of Sports Chaplaincy UK, has embarked on an expansion programme. From September, chaplaincy accreditation will be in force. “I’m trying to introduce some quality control,” Gamble says. “Sporting bodies do not want people who will evangelise. If that is what you want to do, you are not cut out for sports chaplaincy.”

Instead, chaplains need to be good listeners, offering advice that is independent, and although the majority of chats are about pastoral matters, an increasing number of players, particularly in football, are from a religious background and, when they need spiritual advice, they turn to their club’s chaplain. Gamble wants chaplaincy to be as accepted in sport as psychology.

Brian Hemmings, sports psychologist at Northamptonshire County Cricket Club, believes that chaplaincy ought to be an integral part of any club. “In football there is a proliferation of Latin American and African players,” Hemmings, who also works in golf and motor racing, says. “We are a secular society largely, but in their societies Christianity is a huge part of their being. Sports psychology is being naive; its research comes from a secular and western perspective and has largely ignored spirituality and faith.

“Chaplains don’t wear dog collars, they don’t preach. It’s a wonderful resource. Sport is so commercial and high-pressured and there are so many more mental health problems, addictive behaviour, marriage breakdowns, depression, in a multitude of sports. The more chaplains that are around to pick up those issues is good for those involved.”

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