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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Il Sole 24ORE 17-03-2013

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Il caso Verifiche contabili sul compenso per la partecipazione a «Ballando con le stelle»

«Sprechi alla Rai», indagine

sui 600 mila euro a Vieri

Fascicolo della Corte dei conti. L'azienda: solo 450 mila

Palinsesti pubblici Sono quattro, a questo punto,

le inchieste sulle spese per i palinsesti della televisione pubblica

di ILARIA SACCHETTONI (CorSera 11-03-2013)

ROMA — Neppure Milly Carlucci si salva. Il suo Ballando con le stelle, edizione 2012 (una delle puntate andò in onda il 13 gennaio proprio durante il naufragio della Costa Concordia) è finito sulla scrivania dei magistrati della Corte dei conti. Sono quattro, a questo punto, le inchieste avviate dalla Procura regionale del Lazio sulle spese per i palinsesti della televisione pubblica. Quanto al programma della Carlucci sono in corso verifiche sul casting dello show di Raiuno per accertare se vi sia stato o meno uno sperpero di denaro dei contribuenti. Gli approfondimenti riguardano il compenso stellare destinato a Christian Vieri: 800 mila euro inizialmente pattuiti, che poi sarebbero scesi a 600 mila. Ma l'azienda parla di una cifra inferiore, circa 450 mila euro per il suo impegno a cavallo tra il 2011 e 2012. Secondo l'accusa, la cifra sarebbe comunque eccessiva.

Il reclutamento sembrò subito controverso. I consumatori diedero battaglia anche su Gianni Rivera, ma fu il cachet di «Bobo» a indignare di più. Centinaia di migliaia di euro per qualche passo di danza dell'ex calciatore, si disse, erano davvero troppi. I giornali ne scrissero. Qualcuno fece ricorso al sarcasmo. Celebre (benché anonima) la battuta pronunciata in viale Mazzini: «Ottocentomila a Vieri? Praticamente 50 mila a tatuaggio...».

L'ipotesi del danno erariale è ancora agli inizi e dunque, al momento, non risulta alcuna notifica. I nuovi vertici Rai, intanto, lasciano intendere che le verifiche della Corte dei Conti non sono temute e che l'atteggiamento aziendale è di fiduciosa collaborazione. Certo, in caso fosse accertato il danno, sarebbero i manager della gestione precedente a risponderne.

Un passo indietro: a dicembre 2011, il direttore generale Rai, Lorenza Lei, vara la nuova edizione del programma della Carlucci. Le prime indiscrezioni sull'ingaggio di «Bobo» accendono immediatamente i riflessi dei consumatori: «Compenso immorale, presenteremo un esposto alla Corte dei Conti» annuncia prontamente il presidente del Codacons Carlo Rienzi. Che mantiene la parola.

Eppure, tra le indagini avviate dal procuratore del Lazio, Raffaele De Dominicis, la più delicata è probabilmente un'altra. Ossia quella che riguarda l'acquisto di telefilm e film a prezzi presunti gonfiati da parte della Rai. Secondo meccanismi equivalenti a quelli contestati a Mediaset a metà degli anni Duemila. Ancora una volta le società sono quelle major responsabili di evasione fiscale finite nell'inchiesta Mediatrade. Qui i magistrati contabili sono partiti da un relazione della Procura dello scorso novembre. Era stata il pm Barbara Sargenti, titolare del filone romano su Mediatrade, a segnalare che, anche tra i fornitori della televisione di Stato, figuravano le stesse società che praticavano una sovraffatturazione sistematica per Mediaset. E qui la faccenda si complica, almeno per i magistrati di piazzale Clodio, in attesa di una relazione dei finanzieri del Tributario. Perché la divisione di Rai Cinema, diretta da Giancarlo Leone, acquista anche su segnalazione dei singoli direttori di rete. Un terzo fascicolo dei magistrati contabili riguarda invece i soldi spesi dal servizio pubblico per programmi di intrattenimento in genere, mentre un quarto riguarda il costo sostenuto per lo sceneggiato televisivo interpretato da Giorgio Pasotti David Copperfield, andato in onda per il bicentenario della nascita dell'autore Charles Dickens.

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Il punto

Conte, la pagliuzza e la trave

Marco Ansaldo - La Stampa - 18-3-2013

Antonio Conte non riscuote simpatia fuori dal recinto juventino, che comunque è vasto abbastanza da garantirgli una buona scorta di amici, ammesso che gli interessi averne. È un tipo diretto. Ed è un allenatore ultrà: tutti i suoi colleghi difendono il proprio lavoro e la squadra andando oltre l’evidenza di quanto è successo nella partita, lui ci aggiunge il carico di essere davvero juventino dentro, per cui vive e rimugina il tutto da tifoso. Di Conte ammiriamo moltissimo il lavoro che ha cambiato la Juve e un po’ il calcio italiano ma spesso non ne condividiamo le posizioni in contrasto con l’uomo persino spiritoso che sa essere quando non parla di calcio. Ma la diffusa antipatia che riscuote non è una buona ragione per fare le pulci a tutto quanto dice e fa. Le polemiche per il suo comportamento di Bologna suonano fuorvianti e speciose. Stupisce che ci sia caduto un uomo intelligente e di buon senso come Pioli. Alzare le braccia verso il proprio pubblico e invitarlo a festeggiare un successo sacrosanto e quasi sicuramente decisivo per lo scudetto non significa irridere gli avversari. Significa vedere che si concretizzano i frutti del proprio lavoro, e anche della propria sofferenza, e dare sfogo alla gioia. C’è chi la tiene dentro e chi la esterna. Come c’è chi controlla la rabbia e chi la esibisce istintivamente: Mondonico non ebbe una reazione di britannico fairplay quando alzò la sedia ad Amsterdam ma quel gesto dettato dal cuore rimase il simbolo di una ribellione alla sfortuna e ai torti. È che siamo diventati un Paese con mille motivi serissimi per indignarsi ma scegliamo i più frivoli e apparenti. Se il rimprovero è che Conte, con le sue braccia alzate, aizza le folle, ci spiegassero perché a Bologna come a Napoli, il pullman della Juve (ma poteva essere di altre squadre, se avessero gli stessi risultati) è stato assaltato da gente arrivata allo stadio aizzata di suo. Parliamo della pagliuzza e non ci preoccupiamo della trave. Ad esempio non ci chiediamo come sia possibile che ad ogni partita ci sia un costoso spiegamento di forze come nel finale di «Blues Brothers», con tutti i corpi dello Stato rappresentati, dai vigili urbani alla polizia penitenziaria, eppure non si riesca a tutelare il passaggio di un pullman dal lancio di pietre o di uova che potrebbero essere pietre. Visto che ormai le società sono oggettivamente responsabili soltanto di quanto accade all’interno dello stadio mentre il resto compete alle forze dell’ordine, finisce che nessuno paga: non più il club mallevato dalla responsabilità, non i tifosi che la fanno franca. E poi il problema è l’esultanza di un allenatore antipatico a molti.

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Il commento

Forse eccessivo, ma anche Conte può esultare

Mario Sconcerti - Corriere della Sera - 18-03-2013

Napoli e Milan rispondono alla Juve, vincono anzi tutte le prime che giocano (salta solo la Lazio) dando alla giornata una dose apparente di stantìo. La discussione è sull’esultanza di Conte, forse eccessiva, quindi plebea. A me sembra che l’esultanza per una vittoria sia direttamente proporzionale alla paura avuta, quindi sempre un complimento per l’avversario. Conte si è rivolto alla propria gente, forse qua e là ha esagerato, ma fa parte di una società libera tollerare i piccoli eccessi di libertà. Le conseguenze della vittoria forte della Juve a Bologna sono i 9 punti di vantaggio ribaditi in fondo alla partita in trasferta. Di nuovo si dice che il campionato è finito. È probabile sia vero, non si giocano 29 partite invano, ma non perché sia impossibile rimontare. Appena un anno fa in questo stesso marzo il Milan aveva 4 punti di vantaggio sulla Juve. Finì con 4 punti meno, cioè un totale di 8 punti persi. E un anno fa, a questo stesso punto, tutti dicevamo che il Milan era più forte. Nel Milan di oggi comincia ad avere qualcosa di profondamente diverso Balotelli. La squadra ha giocato male, davvero brutto calcio d’insieme, ma Balotelli sta diventando un giocatore diverso rispetto a quando era al City. Sbaglia pochissimo, pesa molto. Forse per la debolezza del complesso, ma è diventato anche un uomo di riferimento. Sta inventando una specie di nuovo effetto Ibrahimovic, fa bene alla squadra, manda in porta gli altri e se stesso. Gioca semplice, sempre una normale circolazione di palla che improvvisamente diventa un’azione da gol. Difficile capire dove stia il momento e dove cominci la sua differenza, ma c’è una specie di eccezionalità banale nel suo gioco che lo mette fuori da qualunque schema. La forza primordiale più un calcio semplice, più tecnica di base: gli stessi ingredienti di Ibrahimovic. Che alla sua età segnava meno della metà di Balotelli. L’altro ragazzo della giornata è Cavani. Supera i 19 gol dell’anno scorso a metà marzo, festeggia l’arrivo del suo secondo figlio e si mette alle spalle tutto il gossip sulla sua vita privata. Così il Napoli torna a vincere. È in una buona condizione il Napoli, forse migliore anche del Milan, ma non credo abbia voglia di investire fino in fondo su se stesso. L’ultimo metro è il più duro. Mazzarri ha reso il Napoli competitivo, oltre c’è qualcosa di troppo grande e ancora inesplorato. Quando passammo le colonne d’Ercole, il mondo cambiò, ebbe altri padroni. Questo forse è Mazzarri, un capitano di questi mari. In zona retrocessione il Siena ha più gamba del Genoa, ma meno giocatori. C’è un po’ dovunque la stanchezza delle cose banali. Il ragazzo Lamela è forse per tutti il miglior premio della stagione.

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Conte allenatore ultrà

La Signora vola alto con la rabbia e l’orgoglio.

Esultanze sfrenate, coinvolgimento totaIe Il tecnico tiene il Napoli a -9 e il Milan a -11

G.B. Olivero - Gasport -18-03-2013

Un apparente contrasto della personalità di Antonio Conte riguarda la meticolosità con la quale prepara ogni aspetto della sua professione (comprese le conferenze stampa) e l’istintività di certe reazioni. Il contrasto è apparente perché il tecnico si lascia davvero andare solo quando si ritiene vittima di un’ingiustizia o temeche qualche fattore esterno possa condizionare negativamente il suo lavoro. E’ così quando commenta le decisioni arbitrali (solitamente cerca di soprassedere, ma quando pensa che sia stato passato il limite esplode: è accaduto l’anno scorso dopo Parma-Juve e in questo campionato dopo Juve-Genoa), è così anche quando coinvolge i tifosi. Non c’è in Italia, e forse anche fuori, un allenatore che possa vantare un rapporto così stretto con la sua gente. Ce ne sono tanti che sanno farsi amare moltissimo, ma nessuno, nemmeno Mourinho, può vantare un feeling così esclusivo, coinvolgente, totale. Merito dei tredici anni da giocatore bianconero, ovviamente, ma soprattutto del modo in cui Conte li ha vissuti. L’amore viscerale dei tifosi nei suoi confronti consente all’allenatore perfino di rimproverarli per un approccio da teatro e non da stadio oppure per cori ritenuti pericolosi per eventuali squalifiche. Non è un caso che il giorno dopo averli invitati a «evitare stupidaggini» abbia voluto coinvolgerli nella festa per la vittoria di Bologna.

Testa e pancia Le scene di esultanza che non sono piaciute a Pioli nascono nella testa e nella pancia di Conte. Nella testa, perché il tecnico considerava assolutamente fondamentale la trasferta di Bologna (per intenderci: anche più importante della prossima sfida di San Siro con l’Inter) e quindi ha sentito di aver fatto uno scatto forse decisivo. Nella pancia, perché da tifoso non dimentica gli anni di delusioni e di sconfitte e trova giusto celebrare i successi importanti e poi perché il trattamento riservato alla Juve (e al suo pullman) in quasi tutte le trasferte l’ha stufato. E allora dopo l’ennesima dimostrazione di forza Conte si è lasciato andare in modoplateale anche per sottolineare quello che sta facendo la sua squadra. Il tecnico probabilmente ipotizzava che il gesto, di per sé assolutamente lecito e per nulla provocatorio in quanto rivolto chiaramente solo ai tifosi della Juve, sarebbe stato commentato e magari criticato. E questo gli ha dato la possibilità di rimarcare la vergognosa accoglienza (pietre e bastoni) che la Juve riceve molto spesso lontano da Torino e anche il grande rendimento della squadra. L’accenno a una fuga all’estero è invece l’istintiva reazione a una violenza inconcepibile, maanche l’ennesima dichiarazione d’intenti: quando lascerà la Juve (non nell’estate del 2013) Conte lascerà anche la Serie A e si esibirà su altri palcoscenici. Scelta intrigante da un punto di vista professionale, ma anche inevitabile perché —comeha detto ieri lo stesso tecnico —vincere con la Juve attira molte antipatie in Italia.

Nove e undici Ieri, nel primo dei tre giorni di riposo che ha concesso ai giocatori, Conte ha seguito con comprensibile attenzione le partite di Napoli e Milan. Il vantaggio in classifica è ritornato quello di sabato pomeriggio: nove punti su Mazzarri, undici su Allegri. La strada è ancora lunga, ma la Juve vede il traguardo sempre più vicino.

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Lampi di classe in un calcio con troppo odio

51 daspo ai tifosi juventini, nessuno a quelli del Napoli: strano

Gianni Mura - La Repubblica -18-03-2013

Per lo scudetto, la Juve suona una canzone mononota. Non monotona, ma vince con relativa facilità, mantiene invariato il vantaggio e dietro anche chi tiene il suo passo fa una certa fatica. Il Bologna era, e probabilmente resta, una delle squadre più brillanti, in questa fase, ma contro la Juve pochissimo ha potuto. Senza strafare, sull’asse Vucinic-Marchisio, la Juve ha costruito un’altra vittoria all’insegna del q.b. (quanto basta). Si guarda sempre a chi segna, ma la vera forza della Juve è la difesa, più la copertura garantita dai centrocampisti. Davanti, poi, qualcuno che provvede a buttarla dentro lo si trova sempre, o quasi. Può stupire che, in una situazione così propizia, Conte si lasci andare a sfoghi come quello di sabato notte, con la gara di Bologna alle spalle (“verrebbe voglia di andare all’estero” e via dicendo).

Non c’è da stupirsi, invece. Troppo odio intorno al calcio, dico odio e non rivalità sportiva, antipatia e robette del genere. Tre squadre di B (Verona, Padova e Brescia) ieri sono state multate per cori razzisti o di discriminazione territoriale. In molte città l’arrivo del pullman della squadra ospite registra assalti da Fort Alamo, e non sono assalti solo verbali, che daranno fastidio ma non fracassano i vetri. Da fuori, si registrano decisioni strane. A Napoli assalto al pullman della Juve: 51 daspo a tifosi juventini, nessuno a quelli del Napoli. Conte ha esagerato nelle proteste dopo la gara col Genoa, poi sembra si sia dato una regolata. Pioli, che non è un acceso polemista, gli rimprovera l’esultanza a Bologna. Si cammina su una crosta di ghiaccio sottile e molto dipende dal comportamento dei protagonisti.

Bravo Riccardo Bigon a Napoli. Espulso per proteste (come Mazzarri, tanto per cambiare) a fine gara va a scusarsi con l’arbitro e ammette d’aver meritato l’espulsione, “la prima in più di 300 partite su una panchina di serie A, ci può anche stare”. Certo che ci può stare, nessuno è perfetto. Basta ammetterlo e non credere di aver sempre ragione, tanto più nella fase finale del campionato, quando la tensione è maggiore.

Il 3-2 con cui il Napoli ha piegato l’Atalanta e la Fiorentina il Genoa dicono che non è stata una passeggiata. Due vittorie che pesano, nelle rispettive rincorse. Il Napoli mantiene i due punti sul Milan, ma nemmeno il 2-0 al derelitto Palermo è stato una passeggiata. A sbloccare il risultato un rigorino, a San Siro come al San Paolo. Di quelli che sì, un contatto c’è stato, ma difficilmente viene concesso un rigore così a squadre di media o bassa classifica. Torna al gol Cavani, bello quello su azione, e Balotelli è l’arma in più del Milan: sette gol in sei partite, il primo su rigore, il secondo da due passi. A quelli che tirano il rigore come Balotelli e Rosina vent’anni fa l’avrebbero fatto ripetere, ma è una nota a margine.

Non lo è il mani volontario di Zapata, ultimo difensore. L’arbitro ha valutato diversamente: cartellino giallo. Ma da regolamento doveva essere rosso, e il Milan avrebbe giocato in dieci per un’ora. Resta un bottino di 27 punti (8 vittorie e tre pareggi) nelle ultime 11 partite. Ora molti si chiedono cos’avrebbe fatto il Milan a Barcellona se avesse potuto schierare Balotelli, oppure in campionato se l’avesse avuto fin dall’inizio. Non si può dire. Certo è che, fin qui, Balotelli sta partecipando al gioco con più generosità rispetto a Manchester. E a tratti dà quasi l’impressione di divertirsi. Forse si diverte meno Allegri per la valutazione che del suo lavoro si dà in alto loco. A me pare invece che questa sia la stagione in cui ha lavorato meglio.

Il resto: un Totti abbagliante (un gol, una traversa e quanti bei lanci) porta la Roma sul quinto gradino. Giova all’Inter il rinvio della partita di Marassi, dove rischiava di pagare il dispendio d’energie nella sfortunata partita col Tottenham. La Lazio sul nevaio di Torino (ma era il caso di giocare?) paga non tanto la partita di giovedì quanto l’espulsione dl Ciani al 16 pt. Resistenza eroica, si sarebbe detto una volta, poi Jonathas fa il colpaccio. A quota 47 il terzo posto è quasi un’utopia. Il Catania è a 3 punti dal suo massimo punteggio in A e non ha finito di stupire.

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Assieme alla Juve è rinato anche l'odio

Agguati, insulti, striscioni: la preoccupante escalation

Dietro il crescente sentimento anti juventino ci sono il ritorno al successo del club, Calciopoli, vecchi campanilismi e anche Internet

Guido Vaciago - Tuttosport - 18-03-2013

TORINO. I due processi sono andati di pari passo: la rinascita della Juventus e il crescere del sentimento antijuventino sono coincisi in modo troppo preciso per non essere correlati fra di loro. Tornare a vincere significa tornare a farsi odiare, per i bianconeri: una storia vecchia che, tuttavia, si sta avvitando in una nuova escalation preoccupante di violenza e inciviltà. Prima l’agguato al pullman che portava la squadra al San Paolo, un mezzo - per altro - anonimo, senza insegne, preso in affitto proprio per evitare di dare nell’occhio, ma assaltato nei pressi dello stadio con mortaretti e pietre, una delle quali ha sfondato il finestrino del posto di Asamoah. Poi le bastonate assestate sul pullman juventino a Bologna, in un altro allucinante avvicinamento allo stadio. E ancora gli striscioni sull’Heysel, che periodicamente fanno vergognosamente capolino nelle curve d’Italia con quegli orripilanti riferimenti al numero delle vittime del 29 maggio 1985. O la raccapricciante ironia sul dramma di Gianluca Pessotto, preso in giro con canzoncine (ascoltate anche fuori dal Dall’Ara sabato sera) e striscioni. Le sciarpe e le magliette con la scritta “Juve ti odio”, vendute non solo nelle bancarelle abusive intorno agli stadi, ma viste pure in un negozio di souvenir dell’aeroporto napoletano di Capodichino. Non è normale, c’è qualcosa di più patologico dell’acerrima rivalità che può (anzi, deve) caratterizzare certe sfide: è un sentimento malato, cresciuto in modo abnorme negli ultimi anni.

LA MAGGIORANZA Intendiamoci, non è che il tifo juventino sia composto da chierichetti e boy scout, ma il fenomeno che colpisce è quanto e come sia lievitato l’antijuventinismo, denunciato da Antonio Conte sabato sera, quando ha sbottato dopo Bologna-Juventus. La Juventus che, secondo la recente indagine della Lega ha consolidato il dominio del tifo (ha il 28%, più di Grillo...), è la squadra che divide per eccellenza: o la ami o la odi, in mezzo non ci puoi stare, ma perché questa esasperazione?

PIU’ VINCI... C’è sicuramente una componente “sociale”: il degrado dei valori della società ha peggiorato la situazione generale in cui si inquadra quella particolare della Juventus. Cioè: l’odio per la Juve è sempre esistito, ora sta semplicemente al passo dei (bruttissimi) tempi che ci troviamo a vivere. Eppure il club bianconero aveva vissuto un momento di relativa pace dopo essere stato travolto dallo tsunami di Calciopoli. «Siamo finalmente tornati simpatici», si beava Giovanni Cobolli Gigli in un periodo in cui non c’era molto altro di cui vantarsi. Il che rafforza l’equazione: essere tornati a vincere (per certi versi dominare) ha aumentato l’odio per la Juventus, che - con l’avvento di Agnelli (solleticato da alcuna velleità di risultare “simpatico” a tutti) - ha ribaltato la posizione su Calciopoli, inaugurando una stagione di rivendicazioni e battaglie (dagli esposti alla terza stella) che hanno, inevitabilmente, esarcebato gli animi.

CAMPANILI Il blogger juventino Antonio Corsa, a suo modo un guru del tifo bianconero sul web, ha postato ieri un’interessante riflessione sull’argomento e propone un altro punto di vista. L’astio antijuventino sarebbe, nelle varie città italiane, generato da un odio relativamente inedito, quello verso chi, pur essendo nato napoletano, bolognese o fate voi, ha deciso di tifare per la Juventus. Il club, insomma, pagherebbe la sua caratteristica trasversalità geografica. «Juventino sardo, tu non sei sardo sei solo bastardo» è stato il primo coro in questo senso (e a Cagliari lo cantano da un po’), ma a Napoli non si contavano le sciarpe contro i napoletani juventini e sabato a Bologna si è sentito: «Juventino di Bologna, non sei di Bologna sei una vergogna». Anche qui è, in fondo, spiegabile: la Juventus è sempre stata la squadra della provincia contro il capoluogo (Prato bianconera contro Firenze, le province sarde che tifano contro Cagliari e scelgono Juve o Milan). L’antijuventinismo si fonde, insomma, su atavitici attriti che affondano le radici nei secoli.

BAR SPORT Ma a proposito di Internet, anche la rete rappresenta un fattore chiave per comprendere il fenomeno. La discussione calcistica ha, infatti, compiuto un salto di qualità surfando l’onda dei blog, delle chat e dei social network. Il lenzuolone insultante esposto allo stadio diventa, spesso, l’obsoleto prodotto finale di un meccanismo ultramoderno e virale di fomentare l’acredine. Perché il web, chi lo frequenta lo sa, decuplica più i difetti che i pregi del bar sport, dove l’odio, stemperato tra caffè e amaro, non andava oltre l’antipatia.

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Il punto di vista

Dare voce alla parte sana del tifo

Non c'era niente di irrispettoso nell'esultanza di Antonio Conte al Dall'Ara. Il labiale, leggibilissimo in tv, era un banalissimo: ,,Andiamo, andiamo.. I gesti, rivolti alla curva juventina e a tantissimi juventini della tribuna, non erano equivoca bili come volgari. Il tutto, per altro, è durato una manciata di secondi, mica mezzora. Eppure a fine partita, dopo la stizzita reazione di Pioli (che aveva perso e, giustamente, aveva le palle in giostra, rciordiamolo) si dibatteva sull'opportunità di quell'esultanza dagli stessi che aveva etichettato la vittoria della Juventus come decisiva per lo scudetto, quindi - in teoria - meritevole di un po' di festa.

Il tifoso juventino ha un vaga tendenza paranoica che gli fa vedere nemici ovunque, soprattutto nei media. Spesso sbaglia, ma del sabato sera bolognese resta l'impressione che se quell'esultanza avesse avuto un altro protagonista (da Cosmi a Mourinho) se ne sarebbe parlato in altri toni. Questo non perché i media sono contro la Juventus, ma perché la Juventus non sarà mai trattata come una squadra qualsiasi, perché qualsiasi non è.

Il problema, tuttavia,. non è l'esultanza di Conte. Bisogna piuttosto porre l'attenzione (i protagonisti, i media e tutti gli appassionati di calcio) su come le cose possano degenerare e come da un gesto innocuo possano nascere atti violenti. Forse è davvero necessario abbassare i toni, tutti quanti, di comune accordo. Forse è il caso di dare sempre più voce alla parte sana del tifo, quella spiritosa e ironica. Quella che le uniche follie sono trasferte costose e faticose per amore della squadra. Quella che colora gli stadi e non li imbratta. Esiste. Anzi, rappresenta la maggioranza, ma viene inquadrata un po' troppo poco.

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La Juventus

La vittoria di Bologna macchiata da una serata di insulti, striscioni macabri, cori

feroci contro Agnelli. Il tecnico: “Via da tutto questo. Ma non l’anno prossimo”

Non ci sto più

Conte e un calcio malato: “Voglio andarmene”

L’odio che si respira negli stadi è sempre più intenso: e sta sfinendo molti dei protagonisti

di EMANUELE GAMBA (la Repubblica 18-03-2013)

Pare che la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo di risentimento l’abbiano versata i bambini. «Genitori che bestemmiavano e che ci insultavano tenendo in braccio figli di tre o quattro anni. Ma che mondo è?». È il mondo del calcio italiano, una specie di pianeta delle scimmie che ripete all’infinito, di piazza in piazza e di stadio in stadio, i suoi barbari cliché. Spesso si sta al gioco, o si sopporta. Altre volte viene voglia di arrendersi, o di scappare. «Di andare all’estero, lontano da tutto questo». Antonio Conte lo ha detto dopo la vittoria di Bologna, incorniciata dal solito bestiario: le bastonate al pullman bianconero che entrava al Dall’Ara, gli striscioni e i cori che auguravano la morte ai bianconeri, l’esultanza ostentata da Conte quando ancora la partita doveva finire, la reazione di Pioli («Così non si fa, ci vuole rispetto») e infine lo sfogo dell’allenatore della Juventus, davvero sfinito dall’odio che gli distilla attorno. «La vergogna non è la mia esultanza, perché io esulto come, quando e con chi voglio. La vergogna è quello che succede fuori: le mettessero lì le telecamere, non negli spogliatoi. Ho moglie e figlia e a Firenze, a Napoli o a Bologna non posso andare. E allora uno prende e se ne va all’estero, che fa prima». Non sarà quest’estate, «perché abbiamo cominciato un percorso e vorrei completarlo », ma tra non molto Conte espatrierà senza farsi venire voglia di tornare. Studia inglese, mastica lo spagnolo, tiene gli occhi spalancati sul mondo perché in Italia non vede pace oltre la Juve. Fino a qualche mese fa spiegava che lui non è così in quanto juventino, ma in quanto Conte: «Sono tifoso delle società per cui lavoro. Sono un leccese che ha allenato il Bari, potrei lavorare in qualunque squadra italiana perché la sposerei in pieno». Ora non lo dice più, né lo pensa.

Le miserie del nostro calcio stanno sfinendo molti protagonisti. È stato detto troppo poco delle violenze (impunite) che hanno preceduto Napoli-Juve: l’hotel bianconero è rimasto sotto assedio per un giorno e una notte, il viaggio verso lo stadio è stato allucinante, con lanci di oggetti ed escrementi. Un vetro è andato in frantumi a pochi centimetri da Asamoah. Il problema è che sono fatti ormai considerati normali: capitavano a Catania prima che la questura trovasse un percorso più sicuro, possono succedere a Roma se gli ultrà individuano per il tempo il tragitto scelto (ci sono varie possibilità e si decide dell’ultimo), non è una passeggiata di salute neppure il budello che porta a Marassi. A Firenze ci sono state domeniche agitate (una volta Buffon uscì dal Franchi nascosto in un bagagliaio), ma negli ultimi due anni meno. Nel 2012, lo stadio irrise Conte e i suoi svolazzanti capelli indossando parrucche: «Ho apprezzato. Questa è la rivalità che mi piace». È rimasto un fatto isolato, così come sono rari gli stadi che si possono raggiungere in sicurezza: Udine, Palermo e Siena sono i più sereni.

Il problema è che anche lo Juventus Stadium non è dei più accoglienti: ribolle di cori sovente violenti e talvolta razzisti, è molto multato e spesso diffidato. Ma è anche vero che la Juve è la sola ad aver condannato certe esagerazioni. Nessuno è arrivato ai livelli del Bastia, che ha denunciato nove suoi tifosi violenti, ma l’Inter ha taciuto sul razzismo rovesciato su Adebayor e Lotito ha lottato perché non venisse punito il saluto romano dei suoi ultrà. La Juve è convinta di essere odiata perché vince, ma forse è per il come: l’aberrazione di riconoscersi scudetti che non ha, per esempio, non è un segno di pace. Ma di soluzioni non se ne vedono, tranne una. «Prendere e andarsene lontano da tutto questo».

l'opinione

IL MALESSERE JUVE

E QUELL’ESULTANZA

SOPRA LE RIGHE

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 19-03-2013)

Beppe Marotta è un uomo equilibrato e per bene, uno di quelli che difficilmente alza la voce o si sottrae al confronto, merce veramente rara in un ambiente in cui il più umile ritiene di essere l’erede diretto di Galileo. Ieri l’amministratore delegato della Juventus, riprendendo quel che aveva detto domenica scorsa il suo allenatore, Antonio Conte, ha sottolineato il clima “surriscaldato” che circonda la Juventus quando si muove per la Penisola. Chi, al suo pari, percorre l’Italia per assistere a partite di pallone, sa bene che la sua denuncia non è infondata: la squadra bianconera, pur amata più o meno in tutta Italia, è circondata da un’aria “tossica”. Si dice, di solito: chi vince sollecita antipatie. Ma, presso alcune minoranze (perché, poi la stragrande maggioranza degli anti-juventini manifesta questo sentimento in maniera civile) questa antipatia sollecita comportamenti decisamente pericolosi. Talmente pericolosi da obbligare la squadra a muoversi, in trasferta, sostanzialmente blindata.

Semmai, appare strano che questo problema venga sollevato dopo il viaggio a Bologna, città normalmente sobria per comportamenti, con una qualità della vita e dell’educazione collettiva piuttosto elevata (l’eccezione di un pessimo striscione non può essere considerato regola). Evidentemente il “malessere” denunciato da Marotta è figlio di molti episodi non di uno solo in particolare, è il prodotto di una situazione generale che si protrae da tempo e non di una questione specifica legata a un luogo, a uno stadio, a una curva. Più specifico, semmai, appare il malessere di Conte che dopo aver dato sabato sera libero sfogo alla sua felicità ha voluto difendere il suo diritto a manifestare la propria soddisfazione nei modi e nella misura che a lui appare più opportuna. E qui, forse, qualche riflessione andrebbe fatta. Viviamo, tutti quanti noi, in un ambiente che tende ad andare sopra le righe ed evangelicamente si potrebbe dire che ognuno di noi porta la propria parte di croce perché da tutto questo nessuno può chiamarsi fuori, da chi gioca a chi allena, da chi gestisce le società a chi dirige le partite in campo, da chi parla a chi scrive. Il clima tossico ha molti padri e, inevitabilmente, diversi figli. Conte ha ragione quando dice che certe situazioni all’estero non esistono, non si vedono. Ma non si vedono nemmeno allenatori che esultano in maniera smodata, soprattutto quando giocano in trasferta e hanno appena battuto la squadra di casa avvilendo, evidentemente, qualche migliaio di tifosi tra i quali vi potrà anche essere qualcuno che interpreta quell’esultanza non come l’espressione di un pensiero felice ma come una palese provocazione. A nessuno può essere negato il diritto “alla festa” ma la tossicità ambientale consiglia l’applicazione di quel vecchio adagio latino: est modus in rebus, c’è modo e modo, c’è un limite a tutto. L’allenatore di una squadra (di qualsiasi squadra, non solo della Juventus) è un “megafono”, il suo messaggio (nel bene e nel male) viene amplificato soprattutto se lanciato in una vera e propria “arena” ad alta emotività come uno stadio. Il calcio italiano ha bisogno di recuperare il senso del limite: qualche piccolo esempio, da parte dei protagonisti più autorevoli, può essere utile.

L’allenatore bianconero e le infelici dichiarazioni in televisione

Caro Conte,

Napoli è capolista in civiltà

di MAURIZIO DE GIOVANNI (IL MATTINO 19-03-2013)

Da ieri abbiamo un altro ottimo motivo per ringraziare l’imbecille che ha tirato un sasso contro l’autobus della Juventus, lo scorso primo marzo, infrangendone un finestrino; come se non bastassero i quotidiani elementi negativi di giudizio che questa povera città propone al resto del Paese, crolli a Chiaia e roghi di Bagnoli inclusi. Quel gesto idiota ha consentito infatti a qualcuno l’occasione di chiamarci incivili anche fuori contesto, a quindici giorni di distanza.

Il fatto è questo: domenica la Rai ha fatto da megafono allo sfogo di Conte, allenatore dei bianconeri, che si è rammaricato di aver avuto una cattiva accoglienza nella «non civile, ma civilissima Bologna»; e di essere negativamente sorpreso da ciò, perché se c’era da aspettarselo a Napoli dove «è successo quello che è successo», nella città felsinea non è ammissibile, e «viene voglia di andarsene all’estero, dove si sta più sereni».

Il signor Conte (non in senso nobiliare, beninteso) si è pertanto sentito in diritto di operare una scalettatura tra le città italiane, in termini di civiltà. Siamo lieti che sia in possesso di un parametro così preciso e sociologicamente incontrovertibile, che mancava nel panorama pur ampio dell’attività dei tanti censori che infestano televisioni e giornali. A Napoli, dice Conte, c’è da aspettarsi una guerriglia urbana e l’esercizio consuetudinario della violenza; a Bologna no.

Ora, ferma restando la condanna, decisa e senza attenuanti, dell’orribile gesto vandalico, condanna che peraltro esprimemmo immediatamente dalle colonne di questo giornale, riteniamo giusto fare qualche nuova considerazione a fronte della dichiarazione del noto sociologo leccese (Conte, appunto). Non vogliamo entrare nel merito dei 51 provvedimenti restrittivi che la magistratura ha emesso a carico di tifosi juventini, resisi responsabili di gravissimi atti vandalici proprio nell’occasione della partita del vetro infranto: pensiamo che un imbecille sia solo un imbecille, qualsiasi sia il colore della sciarpa che ha al collo; e nemmeno ci infiliamo nel labirinto del comportamento delle tifoserie, ricordando i cori beceri che invocano un’eruzione esiziale del Vesuvio e a fronte la splendida scenografia della curva B che evoca l’appartenenza a una terra che si ama senza riserve, senza insultare o sperare in disgrazie altrui. Quello che vorremmo dire al signor Conte, che meglio farebbe a occuparsi di quello che meglio sa e che a quanto pare gli riesce ottimamente, è che non è certo da un piccolo gruppo di scalmanati che si misura la civiltà di un popolo. Che la civiltà è un concetto ampio e profondo, che investe campi come storia, cultura, produzione artistica nei quali, signor Conte, questa città non è seconda a nessuna nel mondo, non solo in Italia. Che purtroppo, e sottolineiamo purtroppo, uno sport che movimenta tante e tali moltitudini (per la qual cosa reca tanti e tali ricavi tra cui il suo rilevante stipendio, signor Conte) fatalmente attrae anche gruppi di imbecilli. Che questi imbecilli hanno residenza ovunque, nella disastrata Napoli come nella civilissima Bologna e anche a Torino, dove non ci risulta che il pullman del Napoli sia accolto con petali di fiori e canti di giubilo. Che in occasione di Juventus Napoli della scorsa stagione fu aggredito da alcuni imbecilli, senza «nazionalità sportiva», un tifoso azzurro disabile che sporse regolare denuncia nell’occasione. Che infine chi riveste un ruolo mediaticamente così rilevante, meglio farebbe a contare fino a centomila prima di darsi all’analisi socio-culturale; soprattutto se quest’analisi, rilanciata da tutti i giornali, può fomentare l’odio e la discriminazione territoriale. Dei quali, caro signor Conte, noi non sentiamo assolutamente il bisogno.

Modificato da Ghost Dog

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Detto dopo di TONY DAMSCELLI (il Giornale 19-03-2013)

IL CONI ELIMINA

LE TESSERE GRATIS

NON GLI IDIOTI

Sabato stadio Olimpico di Roma, Italia-Irlanda, partita di rugby per il Sei Nazioni, spettatori paganti 74.714, presenti oltre 80mila, numero di bombe carta: zero; numero di striscioni volgari: zero meno; numero di insulti razzisti: zero virgola zero. Domenica sera, stessa città, stesso stadio, Roma-Parma, partita di calcio del campionato di serie A, spettatori 35mila circa, tra paganti e omaggi vari ed eventuali, numero di bombe carta esplose: due; numero di striscioni vari e avariati: un tot; numero di insulti: idem come sopra.

Riassunto e totale: dalla palla ovale alla palla rotonda bastano ventiquattro ore, nella stessa città, per cambiare l'educazione, il comportamento, il rispetto del pubblico e degli stessi interpreti, calciatori, rugbisti e arbitri. Il nostro calcio ha rotto davvero le palle, perché non è logico, non è possibile che dal sabato alla domenica gli spettatori si comportino in modo così diverso, anzi opposto. Non c’è alibi, non c’è spiegazione se non una sola: il football non ha più limiti, li rifiuta, li evita, li sorpassa, non accetta nessun verdetto, del campo e dei giudici, scivola sulle banane dei suoi tifosi ignoranti, è fragile nei suoi eroi che si travestono da combattenti, tra tatuaggi e toraci tartarugati, ma poi cadono come bamboloni sgonfiati da uno spillone e frignano e accusano e sputano. Sempre peggio, da una partita all'altra, il nostro meraviglioso pubblico sventola le sue lenzuola di parole e pensieri luridi, spara i suoi petardi, bastona e lancia uova ai bus della squadra avversaria. Nessuna parola della federcalcio, della Lega e soprattutto del Coni, titolare dello stadio Olimpico. Giovanni Malagò è giovane e bello, vediamo se è anche bravo. Intanto ha cancellato le tessere omaggio a deputati e senatori per qualunque manifestazione sportiva. Una medaglia al valore e al coraggio.

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Steinbrück, lo sfidante della Merkel, dice di tifare Schalke ma porta la sciarpa del Dortmund

Il piede in due scarpe (da calcio)

I tedeschi perdonano tutto ma non le banderuole del tifo

di ROBERTO GIARDINA (ItaliaOggi 19-03-2013)

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Peer Steinbrück in versione tifoso del Dortmund (a sinistra) e supporter dello Schalke (a destra)

Peer, sempre lui, questa volta l’ha fatta grossa. I tedeschi possono perdonare tutto, o quasi, a Steinbrück, lo sfidante di Angela Merkel, ma adesso esagera. Il leader socialdemocratico ha protestato perché il Cancelliere secondo lui guadagnerebbe troppo poco, 220 mila euro all’anno, e lui non si degnerebbe mai di sorseggiare un pinot grigio che costi 5 euro a bottiglia, si è immischiato anche nelle elezioni italiane, vinte, ritiene, da due clown. Potrebbe anche essere vero, commentano i suoi elettori, ma dovrebbe dirlo un comune cittadino, non chi spera di governare da settembre la Germania, rovinando i rapporti con paesi amici. Non sono parole degne di uno statista, per il 67% dei tedeschi. Ma tutto si può dimenticare, tranne una gaffe sportiva.

Peer si è lasciato fotografare con al collo la sciarpa azzurra dello Schalke. Che c’è di male? I politici non possono avere una squadra del cuore? Ma qualche maligno ha scoperto in archivio un’altra foto di Steinbrück sorpreso allo stadio con la sciarpa gialla e nera del Dortmund. Imperdonabile. Come un bambino, sorpreso a rubare la marmellata, ha anche mentito: «È un’immagine che risale a dieci anni fa». No, lo hanno smentito: è del 2008. Come se per un fan qualche anno in più o in meno facesse differenza. La passione sportiva è per sempre. Non basta: il socialdemocratico che ama i bianchi italiani fa parte anche del consiglio direttivo del Dortmund.

Schalke non è una cittadina, come molti pensano, ma una collinetta di Gelsenkirchen, a nemmeno 28 chilometri da Dortmund. Siamo nel bacino della Ruhr, una volta disseminato di miniere di carbone e di acciaierie. Nel raggio di qualche decina di chilometri si trovano almeno una dozzina di squadre che hanno giocato nella Bundesliga, la Serie A tedesca, a volte contemporaneamente. Squadre di minatori, divise da storiche e proletarie rivalità. Sarebbe come sfoggiare i colori della Lazio insieme con quelli della Roma, della Juve e del Toro, del Milan e dell’Inter. E i loro tifosi da sempre votano a sinistra, erano rossi anche sotto il nazismo. Lo Schalke è sponsorizzato tra l’altro dalla Gazprom di Putin, grazie all’intercessione di Gerhard Schröder. Non sono sciarpe uffi ciali, è stata l’ultima disperata difesa, ma quelle confezionate dagli sponsor. «Ecco, Peer è sempre pronto a fare l’uomo sandwich per la pubblicità», hanno commentato ironicamente i tifosi.

Che fiducia si può avere in un Cancelliere pronto a tenere il piede in due staffe? A parteggiare per Silvio e per Bersani, per Obama e per Hollande? La Germania e l’Italia hanno più punti di contatto di quanto sospettano, o temono. E uno è il Fussball, cioè il calcio, anche se in Germania non è pensabile un politico che compri Balotelli per conquistare gli elettori. Angela non aveva mai visto una partita prima di arrivare alla Cancelleria, oggi la vediamo soffrire in tribuna quando i suoi perdono contro gli azzurri. Ha imparato presto, sa distinguere un fuorigioco da una rimessa laterale, ma va a sostenere solo la Nazionale. Il predecessore Schröder fa il tifo per Hannover, la città della Westfalia dove abita con la famiglia. Ed è rimasto fedele anche quando rischiava la retrocessione. Anni fa, alla vigilia della guerra contro Saddam, ci fu un vertice tra Italia e Germania a Brema. I nostri punti di vista sono così distanti che non ci sarà comunicato congiunto, venne annunciato ancor prima che Gerhard incontrasse Silvio. Mai accaduto prima.

Alla fine, apparve Schröder e annunciò che, data l’ora tarda, c’era tempo solo per tre domande per ciascun paese. Tre come i desideri accordati ad Aladino. Si alzò velocissimo un nostro collega che gli chiese: «La sua squadra sta per incontrare il Milan, già qualificato per i quarti della Champions. Ha chiesto a Berlusconi di dare un aiutino al suo Hannover?». Tutti avrebbero voluto strozzare il collega che alla vigilia di una guerra parlava di calcio (poi ci lamentiamo che i tedeschi pensano male di noi), e sprecava una domanda. Gerhard impallidì, ma si trattenne. Se si fosse rifiutato di rispondere, avrebbe offeso i suoi elettori tifosi. «Lei non capisce niente di calcio», esordì e spiegò il perché la domanda fosse stupida, con argomenti che per la verità non compresi. Diciamo che si rifugiò in corner. Peer dovrebbe andare a lezione da Gerhard, ma temo che sia troppo tardi.

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Libero 19-03-2013

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MAPPA DELLA PASSIONE: UN’INCHIESTA DELLA LEGA SVELA TUTTO

Un tifoso su 4 è bianconero

E l’Inter tira più del Milan

I risultati di un'indagine della Lega: Juve al 27,8%

Inter batte Milan di un soffio poi Napoli e Roma.

In calo gli appassionati: meno 5 milioni

di BRUNO BARTOLOZZI (CorSport 16-03-2013)

Altro che tsunami. Gli italiani che hanno smesso di interessarsi al calcio sono 5 milioni e mezzo, un po' meno di un sesto del totale del 2012. Un dato clamoroso, parzialmente ridotto (a soli 3 milioni) fra coloro che non tifano più, abbandonando al proprio destino la vecchia squadra del cuore (meno di un ottavo dell'anno prima).

E’ uno dei risultati di una indagine commissionata dalla Lega calcio alla quale hanno concorso gli esperti di sondaggi e di ricerche di mercato della Doxa, quelli di marketing e comunicazione digitale della Fullsix di Franco Tatò e la Sport + Markt, azienda specializzata in dati e comunicazioni sportive. I criteri proposti hanno permesso di individuare un universo di riferimento di 51 milioni e mezzo di persone (sopra i 14 anni). E c’è subito da rilevare un sorpasso storico. Per la prima volta prevale chi non è interessato al calcio: 50,5% contro 49,5% (viene definito interessato al calcio sia il tifoso, sia chi genericamente si informa delle gare). Il dato si contrappone al 59,2 contro il 40,8 del 2012 e al 41,4 contro il 58,6 del 2011, in cui erano in vantaggio i calciofili.

Quali i motivi della disaffezione? Ha pesato più la crisi economica o gli scandali, come Scommessopoli? Forse più la prima che i secondi, visto che la vicenda scommesse fa fibrillare il calcio almeno dal 2011, mentre la crisi ha martellato gli italiani con i suoi effetti soprattutto negli ultimi sei-otto mesi. Nel 2012, infatti, gli italiani che si interessavano al calcio superavano i 31 milioni con un aumento di circa 500.000 unità rispetto al 2011. Il crollo nel 2013: 25 milioni e mezzo con il precipitare di acquisti, occupazione e degli altri dati macro-economici.

L’indagine fotografa poi un’ interessante mappa del tifo. Agli intervistati è stato chiesto di stilare un ordine di classifica delle tre squadre alle quali si sentono più affezionati. Nella classifica dei club indicati al primo posto la Juventus ha raccolto il 27,8% del gradimento, al secondo posto l’Inter e al terzo, non molto distanziato, il Milan. Napoli (9,2%) e Roma (6%) sono, assai più lontani, in grado, però, di superare il quorum del 5% del gradimento dei tifosi, sotto il quale, con un significativo testa a testa, emergono Lazio e Fiorentina. Più dietro un quartetto formato da Cagliari, Torino, Bologna e Palermo. Tra le prime 10 nella classifica del tifo troviamo quindi 8 squadre presenti nella prima parte della classifica della serie A a questo punto della stagione (le uniche differenze riguardano Udinese e Catania da una parte, Cagliari e Palermo dall’altra).

Considerando invece le tre opzioni indicate dagli intervistati la Juventus addirittura arriva a toccare il 30,8% del gradimento, frutto dei favori convergenti di chi assomma ad una simpatia locale quella nazionale per i bianconeri. Ma è la Roma la squadra che, in percentuale, qui fa registrare un aumento più consistente. La squadra di Totti è collocata al primo posto dal 6% degli intervistati, ma è all’8,2% se si considerano tutte e tre le indicazioni: 2,2 punti percentuali in più con un incremento di oltre un terzo della propria capacità attrattiva. Gli appassionati di calcio si dimostrano, comunque, più che altro devoti ad un totem unico. Gli intervistati, potendo scegliere fra tre opzioni, si sono limitati ad una media di 1,24 squadre a testa. Spesso rinunciando alla terza opzione. Sarebbe stato curioso chiedere agli stessi come si sarebbero comportati rispetto alla possibilità di scegliere tre partner (donne o uomini) ai quali legarsi sentimentalmente. Insomma, a occhio, diremmo più fedeli alla propria squadra che alle proprie mogli o ai propri mariti.

Troppo cari e insicuri

gli stadi attirano meno

Chi resta a casa punta il dito sui prezzi dei biglietti (45,7%)

e sugli impianti obsoleti. Ma il Napoli è una bella eccezione

Al San Paolo va il 34,9% dei sostenitori azzurri. Seguono le “provinciali”,

dal Pescara al Catania: il calore va oltre il piazzamento in classifica

Il 26,8% dei tifosi acquista prodotti con il logo del club: la fidelizzazione

è alta Rapporto sempre più stretto tra stadio e merchandising

di BRUNO BARTOLOZZI (CorSport 17-03-2013)

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Il rapporto 2013 della Lega lascerà il segno. Abbiamo già scritto del dato choc (sul giornale del 16 marzo) dei cinque milioni di tifosi e appassionati perduti in un anno e del fatto storico che, per la prima volta in Italia, chi segue il calcio è minoranza (49,5%) rispetto a chi non lo segue (50,5%). La Lega calcio ha consegnato alle società di calcio di serie A, a metà della scorsa settimana, uno studio approfondito di quasi 40 pagine in cui, oltre a questo elemento di grande impatto, figlio degli effetti della crisi piuttosto che di Scommessopoli, ci sono altri dati interessantissimi riguardo la frequentazione degli stadi da parte dei tifosi.

Indicazioni utilissime che potranno essere colte dai vari club nel determinare la propria politica industriale, anche quella rivolta alle infrastrutture, al famoso problema stadi che tanto ha fatto discutere in questi anni.

DAL VIVO - Un primo dato molto interessante riguarda le persone che dichiarano di aver visto almeno una volta una partita dal vivo. Si tratta di poco meno del 30% (esattamente il 29,2), leggermente superiore ad un altro dato significativo che riguarda il merchandising. Il 26,8% dichiara di aver acquistato un oggetto relativo alla commercializzazione dei prodotti della squadra. Significa che la fidelizzazione di chi va allo stadio è comunque alta e che, in ogni caso, lo stadio può essere individuato come luogo di attività commerciale, come da tempo si va ripetendo per cercare di diversificare e aumentare l’offerta calcio nelle varie fasi del rapporto fra tifoso-cliente e società di calcio.

Ma vediamo le squadre che riescono ad aggregare il maggior numero di propri tifosi allo stadio. Una classifica che viene fatta in percentuale e, non ovviamente, in dati assoluti. La squadra che vede la presenza più consistente di coloro che si dichiarano tifosi o simpatizzanti, è il Napoli. Più di un terzo dei sostenitori partenopei sono andati almeno una volta a vedere la squadra azzurra: esattamente il 34,9%. Dietro ci sono due cosiddette provinciali, il Pescara e l’Atalanta che, con ben altri numeri assoluti, fissano però nella percentuale del 34,1% e del 33,9% la quota di presenze allo stadio. Sopra il trenta per cento ci sono altre quattro squadre fra le quali il Genoa, il Palermo, il Bologna e il Catania. Curioso notare che di queste sette squadre, meno della metà (Napoli, Catania e Bologna) trovano posto nella prima metà della classifica di rendimento alla vigilia

Il 26,8% dei tifosi acquista prodotti con il logo del club: la fidelizzazione è alta Rapporto sempre più stretto tra stadio e merchandising dell’inizio della ventinovesima giornata di campionato (le interviste sono state effettuate a inizio d’anno). Juventus, Inter e Milan sono invece le squadre che vedono il minor numero percentuale di presenze allo stadio fra i propri tifosi, essendo anche numericamente le tre società che raccolgono la stragrande maggioranza di simpatie.

LONTANI - Ma se, in media, poco meno di una persona su tre (fra tifosi e non tifosi) ha dichiarato di essere andato almeno una volta allo stadio, vediamo i motivi che (secondo tutti) allontanano dai campi di gioco.

La questione della sicurezza è al primo posto. Che sia un motivo vero o percepito (indotto dai media o dai racconti, dal passaparola) è tutt’altra questione. Di fatto il 49,45% delle persone ritiene che la scarsa frequenza degli stadi di serie A sia dovuta al fatto che quei luoghi sono avvertiti come poco sicuri. Ma subito dietro c’è un fattore chiarissimo al quale alcune società hanno cominciato a provare a porre rimedio: il prezzo del biglietto. Se per la sicurezza si può parlare della problematicità di un dato vero o percepito, per il secondo no. Il 45,7% delle persone ritiene che il costo d’ingresso sia eccessivo. Questo dato è significativo anche per leggere meglio la clamorosa disaffezione generale. La gente è meno coinvolta dal calcio non per gli scandali, ma per il mordere della crisi? Gli italiani frequentano poco lo stadio perchè, a loro dire, è troppo caro per il 45,7%, mentre solo per il 4,3% il motivo di distacco è la corruzione quindi gli scandali che in questo periodo hanno attraversato lo sport più popolare. E’ anche qui la chiave della disaffezione generale. Una nota accompagna i risultati delle interviste: sono le donne e soprattutto gli over 45 ad affermare che lo stadio è considerato poco sicuro, mentre in particolare la fascia d’età fra i 18 e i 44 anni sostiene che il prezzo del biglietto è troppo alto. Infine il problema della televisione. Troppa tivvù fa male. Lo annotano proprio a margine i sondaggisti interpellati dalla Lega. La gente preferisce il salotto, quando ogni cosa è visibile in ogni modo. E di questo la Lega dovrà tenere in qualche modo conto.

«Biglietti meno cari e

stadi più accoglienti»

Ecco cosa chiede la gente per tornare a vedere le partite

Facilità di accesso, più informazioni e servizi per il pubblico

di BRUNO BARTOLOZZI (CorSport 19-03-2013)

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Due sono stati gli aspetti principali emersi dal grande lavoro realizzato dalla Doxa, Fullsix e Sport+Markt per la Lega calcio. Da una parte si è evidenziato il crollo in un anno della affezione degli italiani verso il calcio (-5 milioni), meno della metà degli italiani interessati allo sport principale e poi c’è la grande riflessione sull’accesso allo stadio. Biglietti troppo cari e percezione da parte degli spettatori di insicurezza. La gente ritiene, vero o no, che andare ad assistere ad una gara di calcio non sia sicuro, idea che si rafforza soprattutto fra le donne e nella fascia d’età degli over 44.

Ma, dopo aver visto che cosa allontana la gente dallo stadio, passiamo a vedere che cosa invece potrebbe avvicinarla. Nelle interviste (si tratta di 90.000 persone contattate

Merita un’analisi la composizione di chi segue il calcio Nelle grandi città c’è meno interesse fra gennaio e febbraio di quest’anno) realizzate per lo studio, emerge ancora una volta che il vero problema dell’accesso agli stadi è il costo del biglietto. Ma ecco come si può risolvere: oltre un quarto delle persone indicano modi diversi ma convergenti. Promozioni speciali per determinate categorie di clienti (7,84%), agevolazioni per il last minute (7,11%), riutilizzo di biglietti e abbonamenti (6,69%) e, infine programmi di fidelizzazione che, evidentemente, nelle aspettative di chi li sollecita, dovrebbero garantire prezzi migliori (5,84%).

C’è un aspetto politico poi rilevante. Soltanto il 6,72% delle persone chiede esplicitamente che cessino le restrizioni introdotte dalle nuove normative, identificate con la tessera del tifoso, soprattutto, e che si permetta di nuovo ai tifosi in ogni gara di muoversi e andare a vedere la partita che vogliono dove vogliono. La cifra esigua è, però, evidentemente ridotta perché, per la maggior parte delle persone, il problema non è dove andare a vedere la partita, ma il costo ritenuto eccessivo per vederla a prescindere dal luogo. Ma possono essere catalogate anche come insofferenza a certe restrizioni due altre istanze: possibilità di acquistare i biglietti via internet (6,57%) e possibilità di caricare il biglietto sul cellulare (6,38%). Insomma la libertà d’acquisto, fortemente inficiata da norme d’ordine pubblico molto severe e un protocollo rigido, viene reclamata a gran voce da parte degli italiani che vorrebbero cambiare o agirare le vessazioni (e a questo gruppo può essere assimilato quel 7,04% che chiede al proprio club maggiore assistenza sugli acquisti dei biglietti). I problemi logistici, in ogni caso, hanno un peso consistente fra coloro che possono permettersi di andare allo stadio. Il secondo gruppo base in assoluto (dopo chi chiede sconti sui ticket d’ingresso) è formato da coloro che chiedono, come primo provvedimento per incrementare la presenza negli stadi, maggiore facilità di parcheggio nelle vicinanze dello stadio: 7,46%. Una frecciata al legame tv-calcio viene da quel consistente 6,52% che chiede certezze e informazioni anticipate riguardo date e orari di partite, i quali, come noto, dipendono dai desiderata delle tivvù che intendo far valere la propria posizione dominate per trasmettere in orario migliore per ascolti e pubblicità le gare che in qual momento sono considerate più interessanti (e per farlo efficacemente non si può programmare tutto con anticipo). C’è poi chi invece è nettamente orientato verso una forma di visione del calcio che confina con lo show americano. Arrivano a quasi il 13% coloro che vorrebbero dalla partita qualcosa in più: servizi aggiuntivi (bar, negozi e altro) o pensano che non basti quello che si vede nei 90 minuti, e chiedono animazione e intrattenimento, il 6,09%. Infine, meritevole di una approfondita analisi sociologica la composizione di chi segue il calcio in Italia riportata qui a fianco in un altro grafico. Nelle grandi città questo sport tira meno che nei piccoli agglomerati. La metropoli guarda, anche, altrove.

UN SOCIOLOGO ANALIZZA L’INDAGINE DEL 2013

«Così i tifosi possono

tornare allo stadio»

«C’è un 70% di italiani che non ci è mai andato. Non dobbiamo più impaurirli:

i club diventino referenti d’identità del territorio. Marketing per i nuovi italiani»

di BRUNO BARTOLOZZI (CorSport 20-03-2013)

Mauro Valeri (1960), sociologo e psicoterapeuta. Ha diretto l’Osservatorio nazionale sulla xenofobia dal ‘92 al ‘96, dal 2005 è responsabile dell’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio. Ha insegnato Sociologia delle Relazioni Etniche dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Professor Valeri, cosa pensa del rapporto calcio 2013 commissionato dalla Lega e anticipato dal Corriere dello Sport-Stadio?

«E’ uno studio nato con una funzione di marketing, che permette di chiarire alcune questioni: ad esempio quelle della crisi che sta colpendo a tutti i livelli».

Cioè?

«Il calcio - si dice - ha perso 5 milioni di appassionati in un anno. Se incrociamo questo dato con il recente dato Istat che dà notizia di una diminuzione della pratica sportiva e lo correliamo ad altri, abbiamo davvero la consapevolezza dell’impatto della crisi su ogni attività sociale».

C’è poi il problema della frequentazione degli stadi.

«Ecco, qui c’è un aspetto curioso. Uno dei principali motivi che allontanerebbe la gente dagli stadi, secondo gli intervistati, sarebbe la questione della sicurezza. Poi, quando si valuta nel concreto cosa gli intervistati chiedono per rendere più frequentabili gli stadi, la questione sparisce. In sostanza c’è la netta sensazione che ritenere lo stadio un luogo insicuro sia un fatto percepito più che reale. Altrimenti le persone intervistate, si sarebbero espresse come per l’altro vero grande problema che tiene a distanza molti: il costo del biglietto. In quest’ultimo caso da una parte si dice che il problema è il caro-prezzi e coerentemente quando si chiede che cosa potrebbero fare i club le risposte sono interessanti, articolate e maggioritarie».

Alla fine emerge che gli interventi riguardo l’ordine pubblico sono diventati più uno spauracchio che un rimedio.

«Io adddirittura penso, e questo studio lo conferma, che tutte le misure finora adottate hanno allontanato la gente dal calcio piuttosto che tranquillizzarla. Ed è proprio un controsenso. Prendiamo ad esempio la questione Boateng. E’ stata affrontata in termini di ordine pubblico, mai di proposte culturali o di azione positiva».

Cosa intende?

«Ho detto che lo studio è ben fatto. Ma a me sarebbero piaciute anche altri temi. All’estero, ormai, si fa marketing differenziato anche per i migranti, noi diremmo i nuovi italiani. Esprimono esigenze e istanze differenti. Si tratta di persone spesso legate a modi di vivere dove il calcio veicolo d’appartenenza. E’ un patrimonio al quale andrebbe dedicata più attenzione».

Anche perchè si tratta di fare andare allo stadio per 70% circa di persone che ha detto di non averci mai messo piede.

«E’ motivo di speranza e contraddizione al tempo stesso. Lo sport nel quale gli italiani si immedesimano è stato visto dal vero solo dal 30% della popolazione. Significa che c’è tanto da lavorare e che si può riportare gente negli impianti. Ma vanno tutti coinvolti, motivati».

Ci dia una chiave.

«Lo studio ci indica che l’Italia calcistica è molto più radicata in provincia e fuori dai grandi agglomerati cittadini. E si può intervenire. Mi spiego. Da noi esiste un campanilismo diffuso, che può sfociare in una sorta di razzismo territoriale. Proviamo a interpretare positivamente questo sentimento e a connotarlo di valori civili».

Faccia un esempio.

«I club agiscano sul territorio. Si facciano percepire come espressione di una comunità. Come si sta facendo sempre più in Europa: dall’Inghilterra alla Spagna. La squadra sia istituzione territoriale e si confronti con le altre istituzioni locali: questo consentirebbe di vedere l’evento sportivo in una dimensione diversa».

Può diventare una celebrazione civile dove le istituzioni tessono le norme di comportamento.

«Avrei voluto leggere qualcosa del genere».

Quale?

«Non si accenna alle barriere architettoniche che costituiscono un problema per tanti portatori di handicap. Capisco che sono una minoranza e che è difficile far emergere una minoranza da un sondaggio così esteso. Eppure questo rappresenta un problema reale delle difficoltà d’accesso allo stadio».

Anche la vendita di prodotti arranca.

«Solo due squadre, Inter e Juve, hanno meno gente che va allo stadio rispetto a chi acquista magliette. E’ un indicatore della crisi, ma anche di altro».

E cioè?

«Che fare degli stadi luoghi di vendita non paga. Ci si dovrebbe piuttosto concentrare nel creare impianti dove il calcio si veda bene, in posti comodi e senza freddo. Ciò che fanno in Germania. Inutile diversificare il prodotto. Si faccia bene quello che si deve vendere. E tornerà la gente. Poi, forse, per la prima volta, il calciatore viene visto come rappresentante di una casta. Persone distanti dai nostri problemi. Non una casta come i politici, comunque distanti. E per questo ci si immedesima in meno. I club potrebbero fare molto per invertire questa tendenza».

LA METODOLOGIA DELL’INDAGINE

Novantamila sono state le interviste svolte dalle tre aziende (Doxa, Fullsix e Sport+Markt) alle quali la Lega si è affidata per mettere insieme un’indagine preziosisssima e che farà discutere il mondo del calcio. il lavoro di rilevazione è stato svolto dal 10 gennaio al 6 febbraio di quest’anno, fornendo un quadro attualissimo del raapporto fra calcio e cittadini. Il campione scelto è rappresentativo di tutte le provincie italiane che esprimono comunque un numero minimo di rilevazioni, 125. A partire da quelle 125 interviste, per ogni provincia, viene attribuito con un criterio proporzionale un ulteriore numero di interviste che tiene conto del peso demografico di ciascuna delle 110 attuali provincie italiane.

Per determinare il peso di ciascuna provincia si è fatto riferimento agli ultimi dati del censimento (fonte Istat: 31-12-2011) che fissano l’universo di riferimento in poco più di 52 miloni e mezzo di persone. Nell’universo di riferimento si determinano rapporti di genere (maschio-femmina) nella misura del 47,9% contro 52,1%, mentre emerge che le fasce di età più consistenti sono quelle tra i 25-44 anni (31,8%) e tra i 45-64 (31,7%). Per quanto riguarda il titolo di studio quello più alto è al 45,8% e 54,2%.

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IL VALENCIA DIVENTA BANKIA FC

Una sentenza ha annullato la fidejussione della Regione

di 81 milioni. E reso di fatto il club una proprietà della banca

300 i milioni del debito del Valencia nei confronti di Bankia. Nel dettaglio 219 milioni di un prestito precedente al 2009, 81 del prestito «garantito» dal Comune più gli interessi maturati fino ad oggi

di FILIPPO MARIA RICCI (EXTRATIME 19-03-2013)

Nessuno vuole il Valencia, il suo debito monstre, il suo nuovo stadio lasciato a metà, simbolo della gloria che fu e di un recente passato costruito su una bolla economica gonfiata da prestiti elargiti con generosità eccessiva e una gestione non certo esemplare. In questi giorni due notizie hanno attirato l’attenzione sul pessimo stato economico di parte del calcio spagnolo. La prima: l’indagine che l’UE sta facendo sul permissivismo del fisco spagnolo che ha concesso a tanti club di accumulare debiti con lo Stato che in altri Paesi sono inconcepibili. La seconda: una sentenza di una giudice valenciana che ha dichiarato irregolare la fidejussione della Regione valenciana a Bankia, come garanzia di un prestito da 81 milioni di euro per l’acquisto del 70% delle azioni del club da parte della Fondazione Valencia, azioni fino al 2009 in mano agli uruguayani della Dalport. Così Bankia nei prossimi mesi si troverà di fronte a una situazione paradossale: grazie al Valencia avrà un debito con se stessa di oltre 300 milioni di euro, cioè gli 81 del prestito, più gli interessi, più un debito pregresso di altri 219 milioni. . . Debito totale che fino a qualche giorno fa era garantito dalla Regione, che non si sogna di ricorrere contro la sentenza della giudice, visto che si è liberata di un problema enorme. Al momento la maggioranza delle azioni del Valencia (70%) è in mano della Fondazione, che però non ha i mezzi per far fronte alle rate del debito con Bankia che quindi il 27 agosto, allo scadere del prestito, passerà a controllare il club. Compreso l’enorme debito con se stesso. Tutto è iniziato nel 2009 quando il presidente Llorente per far fronte a un debito di 550 milioni di euro oltre a vendere i migliori giocatori decise di accendere un nuovo prestito. Che fu all’inizio coperto dalla Regione della città e che ora, dopo il ricorso accettato dalla giudice, finisce inmanoa Bankia. Il mancato fallimento del Valencia è un miracolo. E per questo a Bruxelles stanno indagando.

Lendoiro, un dirigente “temerario”

Los administradores concursales cifran la deuda

del Dépor en 156 millones y culpan al presidente

“El patrimonio se agotó, pero se siguió el ritmo como si las deudas no hubiese que pagarlas”

por JUAN LUIS CUDEIRO (EL PAÍS 19-03-2013)

Tras dos meses alumbrando las entrañas de un club que había hecho bandera de la opacidad, los responsables de la administración concursal del Deportivo, Francisco Prada Gayoso y Julio Fernández Maestre, han presentado ante el Juzgado de lo Mercantil número 2 de A Coruña un informe demoledor contra el Consejo de Administración que preside Augusto César Lendoiro, del que piden su relevo tras casi 25 años en el puesto. “Las verdaderas causas de la insolvencia están en el hecho de haber mantenido un modo de gestión ajeno a la realidad, asumiendo gastos e inversiones por cuantías absolutamente alejadas de las posibilidades económicas de la sociedad”, apunta.

El informe, que recoge y coteja las reclamaciones efectuadas durante las últimas semanas por parte de los acreedores personados en el proceso, contradice además los datos ofrecidos por Lendoiro en la última Junta de Accionistas del pasado mes de diciembre. Entonces el presidente del Deportivo cifró la deuda en 98,7 millones, de los cuales reconocía deber 34 a la Agencia Tributaria, a la que acusó de ahogar al club con embargos. Ahora, el informe de los administradores revela que el Deportivo debe 156 millones, de los que casi 94 son a Hacienda y 36 más a dos entidades bancarias, Novagalicia y Banco Gallego.

La situación pone en peligro el futuro de una entidad que en lo futbolístico puede verse condenada a un inminente descenso de categoría que limitaría sus ingresos. Con todo, Lendoiro y los administradores coinciden en una apreciación: el Deportivo es viable. Pero según los segundos sólo se producirá esa situación siempre que el primero esté lejos de la gestión económica de un club que debería, según expresan al juez, cambiarla “de manera radical”. El proceso podría acabar con una inminente inhabilitación de Lendoiro si el Juzgado estima la petición, pero además podría ir más allá porque los administradores inciden en que el presidente debe reintegrar parte del sueldo que ha cobrado. La lista de acreedores presentada por el club en el Juzgado al solicitar el concurso incluía una deuda con su presidente, cifrada, según el informe, en 109.219 euros. Los administradores apuntan que se trata de una retribución improcedente porque el Deportivo no inscribió en el Registro la variación en los estatutos de la sociedad anónima deportiva que reflejara el acuerdo de la Junta de Accionistas en 1999. Entonces se determinó que Lendoiro pasaba a percibir anualmente un sueldo equivalente al uno por ciento del presupuesto del club, pero según los estatutos vigentes esa remuneración no era posible.

El salario del veterano mandatario supera ahora los 400.000 euros anuales, pero el juez Rafael García Pérez ha aceptado la petición de los administradores de cancelarlo. Los ingresos de Lendoiro como presidente profesional del Deportivo se sitúan en torno a los ocho millones de euros en esos 13 años, tiempo en el que el club ganó una Liga, una Copa, dos Supercopas y llegó a las semifinales de la Champions. En aquel momento cumbre, cuando el Oporto le apeó de la final europea, el Deportivo sondeó la entonces novedosa ley concursal. Lendoiro lo rechazó. Ahora los administradores se lo reprochan: “El origen de la insolvencia está en que el patrimonio se agotó al ser los gastos superiores a los ingresos, siguiendo el ritmo como si las deudas no hubiese que pagarlas o los compromisos pudieran olvidarse en una estrategia de huida hacia delante (...); culpar a la Agencia Tributaria o a los demás acreedores constituye un sarcasmo tras el que se pretende evitar el reconocimiento del fracaso de una política empresarial temeraria y errada”.

Lendoiro y la imagen de marca

El presidente del Deportivo asegura que el club, pese a los 156 millones de deuda y

la administración concursal, es “viable y tiene futuro”: “Antes solo éramos el Coruña”

“Me tranquiliza que nadie diga que nos hemos llevado algo”, manifiesta el directivo

“Si alguien puede salvar al club somos nosotros”, asegura el máximo dirigente

por JUAN LUIS CUDEIRO (EL PAÍS 20-03-2013)

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“Es un día importante”, previno el presidente Augusto César Lendoiro. Era el día después del demoledor informe sobre su gestión al frente del Deportivo, una radiografía hecha por los responsables de la administración concursal de la entidad, con 156 millones de deuda, sobre la que habrá varios recursos y en la que se basará la Justicia para determinar si la persona que lleva casi un cuarto de siglo al frente del club gallego podrá continuar en el cargo. Lendoiro habla de cuestiones opinables o interpretables, pero en esa jornada de valoraciones quiso dejar claro un mensaje. “Lo que me tranquiliza es que nadie ha osado decir que nos hemos llevado algo o que se hicieron negocios extraños. Ahora que se habla tanto de la corrupción, nadie puede decirlo de nosotros”.

Lendoiro cree que el actual Consejo de Administración del Deportivo es el adecuado para pilotar la situación que ha generado. “Si alguien puede salvarla somos nosotros”, reseña. E insiste. “El club es viable y así lo reflejan incluso los administradores cuando han conocido las interioridades de la entidad”, clamó Lendoiro, que anunció que unas horas antes el club había acudido al Registro Mercantil a solucionar un detalle que le puede poner contra las cuerdas y que impide que por ahora pueda percibir el dinero que le adeuda el club. En 1999 la Junta de Accionistas aprobó que cobrase el 1% del presupuesto anual del club por hacerse cargo de la presidencia en “un desempeño incompatible con cualquier otro acto público o privado, con dedicación exclusiva y a tiempo completo”. No semejaba trabajo mal pagado. “Pero, ¿quién sabe si me podían echar a los tres meses? Y yo no venía precisamente de la calle”, explica Lendoiro, que hasta hacía pocos meses había sido presidente de la Diputación de A Coruña, que había sido concejal en el ayuntamiento herculino, senador, diputado o alto cargo en la Xunta de Galicia y que antes de dar el paso a la política fue director gerente de un colegio.

Ocurrió que aquella determinación de 1999 jamás se reflejó en el Registro Mercantil. Hasta ayer. Se podría deducir por tanto, y así lo deja entrever la administración concursal, que no se generó el derecho a cobrar ese sueldo, según Lendoiro “el más conocido de España”. “Hubo algún más o menos con el registrador”, reconoce el presidente deportivista. Aquel fallido intento pudo deberse a que el entonces encargado del registro no estuviera de acuerdo con que Lendoiro percibiera ese porcentaje, pero el mandatario no quiso entrar en detalles sobre ese particular. Se remitió al acta de la Junta de Accionistas y zanjó: “A efectos societarios no hay ninguna duda. Eso ya está arreglado”.

A Lendoiro le agrada más el discurso de la viabilidad, que el de las visitas al Registro, donde acudió el pasado mes de noviembre para certificar la supresión del límite accionarial que impedía que una persona agrupase en su poder más del 1% de los títulos del club, decisión que se adoptó en hace casi seis años. “El club tiene futuro. Cuando llegamos al club éramos el Coruña para toda España, con 5.000 socios, ahora somos el Deportivo en Europa y en el mundo, y con 26.000 socios y accionistas. Esa imagen de marca vale mucho dinero”. Según la administración concursal vale dos millones y así lo refleja en un inventario en el que proliferan las discrepancias y que convierte según el abogado y el economista encargados por el juez la diferencia entre activo y pasivo en un déficit de más 82 millones. Por el camino queda la valoración de la plaza en Primera División. El club se remite a la Liga de Fútbol Profesional para valorarla en 58,4 millones. Los administradores le otorgan un valor de 20. “Pudieron también poner 30 o 5”, lamenta Lendoiro, que defiende que a otros clubes que entraron en concursal les valoraron como activo la concesión de un estadio municipal y al Deportivo, que la tasaba en más de 17 millones, no. Para los administradores el valor de esa concesión y derechos de uso es nulo y apuntan a que la práctica empleada por el Deportivo durante años fue la de consignar valoraciones de concesiones administrativas que prohíbe el Código de Comercio para cuadrar balances y que una vez agotadas las posibilidades de revalorizar activos simplemente se dejó de pagar a la Agencia Tributaria para que el club perviviera.

Pero Lendoiro expresa su desacuerdo. “El papel lo aguanta todo”, espetó para referirse a algunos puntos del informe presentado al Juzgado de lo Mercantil número 2 de A Coruña.

El Málaga no sabrá hasta

junio si podrá jugar en Europa

El TAS no juzgará el veto de la UEFA hasta el 14 de mayo

por RAFAEL PINEDA (EL PAÍS 20-03-2013)

Málaga vive atrapada en medio de dos sentimientos. El primero, futbolístico, es de euforia por la brillante clasificación para cuartos de la Liga de Campeones. Lo demuestra el hecho de que ya no quede una sola entrada para ver la ida ante el Dortmund en La Rosaleda, el próximo 3 de abril. El otro sentimiento es de recelo e inquietud ante lo que pueda dictaminar el TAS con el recurso presentado por la entidad andaluza debido a la prohibición dictaminada por la UEFA de no jugar competición europea la próxima temporada por impagos. Pero también hay confianza. Así se desprende de las palabras de Joaquín Casado, director general del Málaga, que aclaró ayer algunas cuestiones del proceso ante el TAS y, de paso, zanjó de raíz algunos rumores sobre una venta del club a los propietarios del PSG. “El jeque va a seguir invirtiendo en el Málaga”, dijo Casado.

El Málaga, que presentó su recurso el pasado 24 de enero y será defendido por el letrado Juan de Dios Crespo, tiene ya señalado en rojo una fecha en su calendario: el TAS juzgará la sentencia de la UEFA contra el Málaga el 14 de mayo. Así lo desveló Casado, quien confirmó, además, que la sentencia del organismo debe ser recibida en torno al 14 de junio. “Se trata de una fecha que perjudicará la planificación de la próxima temporada. Es evidente que jugar en Europa o no, si lo logramos en el campo, es esencial para la planificación. De todas formas, nosotros tenemos mucha confianza en este recurso que hemos presentado y creo que se nos permitirá jugar en Europa. De ser así, recuperaremos el tiempo perdido para hacer un proyecto acorde a lo que el club necesita”, admitió Casado. En el recurso ante el TAS, el Málaga asegura haber documentado un acuerdo con Hacienda para saldar la deuda contraída con este organismo. En el club andaluz son optimistas porque la sanción se la UEFA se basa esencialmente en el incumplimiento que el Málaga tuvo con Hacienda, más allá de otros impagos. Deudas que también han sido saldadas, según se manifiesta desde club.

Casado no quiso profundizar en lo que será el Málaga si el TAS ratifica la prohibición de la UEFA. “Quiero dejar claro que la propiedad apuesta por un cambio en el modelo de gestión del club, pero eso no significa que el Málaga vaya a desaparecer si no juega en Europa la próxima temporada”.

Watford’s former owner banned

but club avoid points deduction

by DAVID CONN (The Guardian 19-03-2013)

A former owner of Watford has been found guilty of misconduct and dishonesty over financial dealings on behalf of the club and been banned from being involved in a position of authority with any Football League club for three years.

An independent disciplinary commission found that Laurence Bassini, who owned Watford between June 2011 and 2012, borrowed £2.6m for Watford, signing over to the lender transfer fees and TV income the club were due to receive. League regulations require all clubs to inform the league and seek its approval before entering into any such "forward funding" deals and Bassini and his adviser, Angelo Barrea, did not.

Bassini had argued at the hearing that he had been naive and inexperienced in football administration but the commission, made up of three QCs, did not accept that. They found he had been "dishonest in his dealings with the league and with his fellow directors" and "practised secrecy and deception" when he told neither the league nor the other members of the Watford board about the arrangements.

In a marked difference from other disciplinary cases in which clubs themselves have been punished for misconduct by their owners or directors, Watford were given a lighter penalty – a transfer embargo until the end of this summer's transfer window. The club, third in the Championship under the new ownership of the Pozzo family, owners of the Italian Serie A club Udinese, expressed relief at that penalty.

"Watford FC is pleased to confirm that it has not received a points deduction or a fine," the club said in a statement.

Watford also stated that their transfer embargo is not a formal ban on signing players but only a requirement that the league approve all transfers; that is true but the league said it will study the judgment to see how strongly the embargo should be applied.

The Football League brought the charges after its officials, principally the league's in-house solicitor Nick Craig, discovered Watford's "forward funding" arrangements had been entered into without previously informing the league. The loans were from a financing company, LNOC, made to bring money in quickly, to cope with cash-flow problems at Vicarage Road.

In the first Bassini borrowed £951,041 on 21 September 2011 and agreed to sign over £1m due to Watford in two instalments from Swansea City, to complete the £3.5m fee Swansea paid for Watford's former striker Danny Graham.

Clubs must inform the league of any such "forward funding", borrowing against transfer fees due, a regulation introduced to guard against third-party, non-club, ownership and influence over players. The commission found not only did Bassini and Barrea fail to inform the league of this borrowing against the Graham transfer fees but they did not inform the other Watford directors either. The £951,041 from LNOC was paid into Bassini's own holding company, rather than the club, so nobody else at Watford knew about it at the time.

On 26 September 2011, five days after that borrowing against the Graham transfer fees, Bassini arranged to borrow a further £1,660,595 from LNOC against TV and other income Watford were due to receive from the league as members of the Championship. LNOC would be paid the full £1.8m, in two instalments of £900,000, when Watford received it a few months later, LNOC making a profit of £140,000. Such borrowing against league funds is permitted but a transfer embargo is imposed on clubs which practise it. Bassini again did not inform the league of this arrangement.

The commission accepted Bassini's argument that he did not personally profit from these rule breaches. "Mr Bassini … clearly intended to benefit the club by his actions, and by his misconduct," the commission judged. Bassini, a former bankrupt, was introduced to buy Watford by Keith Harris, the investment banker bidding to buy Portsmouth, challenging the Pompey Supporters Trust.

Presto in Ligue 1

Il calcio a Monaco. Principato di nome, privilegiato di fatto

Il regime di tassazione previsto dal Principato di Monaco mal si accorda con il fair play finanziario voluto da Platini

di FRANCESCO CAREMANI (IL FOGLIO.it 20-03-2013)

La Rocca del Principato di Monaco, lì dove sorge la città vecchia, è sotto assedio. Non c’è alcun esercito alle porte, né un popolo affamato con i forconi in mano, peggio. I presidenti dei club della Ligue 1 non ne possono più e stretti tra la crisi economica e le regole del fair play finanziario vogliono che l’AS Monaco, di proprietà del russo Dmitry Rybolovlev perda i privilegi finanziari che possiede per residenza.

Il presidente del Saint-Etienne, Bernard Caïazzo, teme che con la promozione del Monaco, attualmente capolista in Ligue 2, e la forza economica del Psg targato Qatar, agli altri non restino che le briciole: “Se le prime due piazze sono già riservate, noi per cosa giochiamo?”. La questione, in verità, l’avevano già posta nel 2003 Jean-Michel Aulas (O. Lione) e Christophe Bouchet (O. Marsiglia), ma la competitività nazionale e internazionale ha ceduto il passo a una situazione che resta sostenibile finché qualcuno non fa saltare il tappo, come sta accadendo con il Psg e la sua prorompente forza economica.

Lo studio dell’UCPF (Union des Clubs Professionnels de Football) parla chiaro. Prendiamo un giocatore francese che percepisce 1,8 milioni l’anno lordi: se gioca in una squadra transalpina avrà uno stipendio netto di 711.484 euro contro gli 803.595 che prenderebbe se giocasse nel Monaco. Più evidente il caso di un calciatore straniero con uno stipendio di 3 milioni annui lordi: 1.612.720 euro netti di salario in Francia contro i 2.993.145 percepiti vestendo la maglia dei monegaschi. L’’85,6 per cento in più.

Jean-François Fortin, presidente del Caen terzo in Ligue 2, ha un budget di 15 milioni di euro e consapevole che i benefici finanziari dei calciatori dell’AS Monaco ammontano a una cifra nettamente superiore si chiede a cosa serva il fair play finanziario.

La legge parla chiaro. Un’ordinanza dell’8 febbraio 1869 stabilisce che i guadagni delle persone fisiche residenti nel Principato non siano sottoposti a imposte. La convenzione fiscale stipulata con la Francia risale invece al 18 maggio 1963. Ma lo status giuridico dei monegaschi potrebbe diventare il grimaldello per sbriciolare la Rocca. Di fatto l’AS Monaco è una società di capitali rispondente alle leggi del Principato, ma le regole federali prevedono che per giocare nella Ligue 1 un club debba essere una società di capitali secondo il diritto francese, ovvero avere la propria residenza nel Paese e sottostarne alle norme civili, penali e finanziarie: “il Monaco deve avere il domicilio fiscale in Francia, è l’unico modo per ristabilire l’equità”, sottolinea Jean-Pierre Louvel, presidente dell’UCPF e del Le Havre.

All’inizio della stagione i club della Ligue 2 volevano intraprendere un’azione legale contro i monegaschi poi abbandonata, ma questa volta si fa sul serio e il tribunale potrebbe accogliere l’eccezione. Per questo Frédéric Thiriez, presidente di Lega, sta prendendo tempo e ha incontrato Jean-Louis Campora, ex presidente del Monaco dal ’75 al 2003 e oggi braccio destro di Rybolovlev nonché suo ‘ministro degli esteri’ in buoni rapporti con tutti i presidenti della Ligue 1 con i quali ha fatto affari. Non parla con la stampa ma ha fatto trapelare che il Monaco si potrebbe impegnare ad acquistare solo giocatori francesi, argomento succedaneo che ha fatto arrabbiare gli altri club consapevoli che non è più possibile rimanere nel calcio se ci sono società con privilegi economici e finanziari; il dossier, commissionato dall’Ucpf e realizzato dallo studio legale Eversheds, è inequivocabile.

In verità fa paura anche al Monaco, cosciente che dovrà affrontare la questione con diplomazia se non vuole entrare in rotta di collisione permanente con gli altri club che minacciano penali da pagare o un posto ad hoc per le coppe europee, pena l’esclusione dei biancorossi. Qualcuno inoltre pensa che la perdita dell’innocenza finanziaria della squadra di calcio del Principato potrebbe aprire una crepa importante sui privilegi di cui godono altri sportivi e non solo. I cannoni sono già puntati.

Spanish football on the brink as EU

prepares to force clubs to pay debts

Deportivo among teams facing extinction if officials are forced to collect taxes

Uli Hoeness, of Bayern Munich, said: ‘We pay to keep

Spain out of the shit and they let the clubs off their debts’

£ 3bn The amount of bank debts run up by clubs in the

Spanish league’s top two divisions, along with unpaid tax bills

Losing side Valencia has had to sell many of its best players in the past decade, including Juan Mata,

above, now at Chelsea, David Silva and David Villa. The club passed into public hands last year after

it failed to pay back a debt guaranteed by the local government. Its new stadium remains unfinished

by GILES TREMLETT (The Guardian 22-03-2013)

It is the powerhouse of global football, home to its greatest players and a World Cup-winning national team, but Spain's soccer bubble looks set to explode as European authorities prepare to halt public funding of debt-ridden clubs.

In a move that threatens to provoke the partial collapse of a football system built on unsustainable piles of debt, competition authorities in Brussels want Spain's government to explain why it has allowed clubs to build up vast, unpaid tax and social security debts.

With many clubs in the top two divisions already having trouble paying bank debts totalling some €3.5bn (£3bn), the move would likely force some clubs into liquidation. Historic names such as Deportivo de La Coruña or Racing Santander could simply disappear. Other top clubs, such as Valencia, will have to sell players and face years of decline.

Indignant MEPs are already demanding to know why Spain is happy to request €40bn in aid from eurozone taxpayers for its banks while allowing the clubs to build up a tax debt of €692m.

"This is unfair since all other Spanish taxpayers, as well as the other European football clubs, must, of course, be up to date with their tax payments," said Willy Meyer, a Spanish MEP for the United Left coalition, in a recent question to the competition commissioner, Joaquín Almunia. Meyer pointed out that while clubs pay multimillion-euro salaries to star players, the cash-strapped government of Mariano Rajoy has imposed cuts on public services.

"It is incomprehensible that while taxes such as VAT are being increased and hospitals and public companies are being privatised as a means of generating short-term resources, these private, recreational bodies are receiving preferential tax treatment," he said.

Other European soccer clubs are also crying foul. "This beggars belief. We pay hundreds of millions of euros to keep Spain out of the shit and then they let the clubs off their debts," Uli Hoeness, the president of the German side Bayern Munich, complained when debt figures were made public last year.

A spokesman for Almunia said a formal investigation – similar to one looking at public subsidies to Dutch soccer clubs – must wait until the Spanish government has replied to its inquiries.

Analysts warn that action from Almunia to force Spain's tax authorities to recover debts will expose the chronic financing problem in Spanish soccer.

Professor José María Gay de Liébana, of the University of Barcelona, said reckless lending – especially by former savings banks controlled by local politicians – had created a bubble that must eventually burst.

"When people ask me what clubs could be in danger, I reply with the list of the only clubs that are not in any kind of danger. They are Barcelona, Real Madrid and Athletic Bilbao," said Gay de Liébana. "Hoeness is, basically, right. If I don't pay my taxes, then the authorities come after me. But that doesn't happen to the clubs, which are not treated like other companies."

Twenty-two first- and second-division clubs are in insolvency proceedings or have been in recent years. Several are thought to be struggling to survive strict debt-repayment plans imposed by creditors. They include former league title-winners such as Deportivo de la Coruña and a long list of historic clubs such as Zaragoza, Racing Santander, Mallorca, Albacete and Betis.

Deportivo – semi-finalists in the Champions League in 2004 – had been allowed to build up a tax debt of €96m, a report to an insolvency court this week revealed. "The real cause of the insolvency is a complete lack of realism in management, taking on spending and investment that is absolutely beyond the club's economic possibilities," the club's administrators wrote.

Indirect funding of clubs via publicly owned TV stations and loan guarantees from regional governments are expected to come under scrutiny in Brussels.

Valencia, one of Spain's top clubs, passed temporarily into public hands this year after it failed to pay back a loan guaranteed by the regional government. It is now in the hands of the Bankia bank, but this was nationalised after it ran up €19bn in losses last year, meaning the club – which has had to stop work on a vast, half-built stadium in the city – is now in effect owned by Spanish taxpayers.

Two other clubs, Elche and Hercules, are also part-owned by Valencia's regional government, which guaranteed loans that they failed to pay back.

"Is it the European commission's intention, in rescuing Spanish banks, to allow the practice of granting bank loans at subsidised rates to clubs in the Spanish professional football league – which is a form of favouritism – to continue?" the Italian MEP Mario Borghezio asked in a parliamentary question.

Almunia's commission confirmed that it had asked Spain to provide it with figures on clubs' public debts.

"The commission agrees that, under the state aid rules, tax and social security debts of professional football clubs must not be treated differently from similar debts of other economic actors," Almunia said. Rajoy has ordered tax authorities to tighten control of clubs and the sports minister, José Ignacio Wert, says debt has begun to fall.

Several clubs, including Deportivo de La Coruña, have seen television or football pools income embargoed. The debt has been reduced since early last year, but progress is slow.

"This cannot be sorted out overnight," said one source close to the Spanish tax authorities.

"Soccer is a very highly charged affair. If you go after a club too much, then the supporters may rise against you," said Gay de Liébana.

He believes that is why authorities are targeting Deportivo de La Coruña rather than a highly indebted but well-supported club such as Atlético Madrid. "Deportivo fans are not going to block the streets of Madrid," he said.

As clubs tighten their belts, players will be sold and the quality of soccer in Spain will likely fall. "Talent will flee to the Premier League in Britain or elsewhere," said Gay de Liébana.

The Spanish case and the Brussels inquiry into €10m of public aid to several Dutch clubs, including PSV Eindhoven, threatens to spill over in to other countries.

"If you start asking Italian and French clubs whether they are paying market rents for municipally owned stadiums, we will get into a very big tangle," said Gay de Liébana.

French League’s motion finally puts

the brakes on free ride for Monaco

by GABRIELE MARCOTTI (THE TIMES 25-03-2013)

Some will see it as righting a longstanding wrong and levelling the playing field. Some will see it as French football cutting off, if not its nose, then certainly its ear, Vincent Van Gogh-style, to spite its face.

On Wednesday, the French League approved a motion whereby all French clubs must have a fiscal residence in France. At first glance, it makes sense. The French League is your “workplace”, therefore you need to pay your taxes in France.

But it was pretty much an ad hominem ruling, because there is only one French club that doesn’t have a fiscal residence in France: AS Monaco. And that’s the nub of the issue. Because of the Principality’s unique position — geographically they are in France, politically they are their own sovereign city-state — Monaco have long enjoyed a built-in advantage over their French peers. Since 1869, Monaco residents have not had to pay income tax. (The one exception is French citizens who moved to Monaco after 1957.) It is hard to overstate how much of an edge this gives the club over their French competitors and, indeed, clubs elsewhere in Europe, where the top income tax ranges from 40 to 50 per cent. Take the reported £12 million a season that Robin Van Persie earns at Manchester United, which means the Dutchman pockets about £7.2 million once the taxman is done with him. At Monaco, he would keep the entire £12 million.

French clubs have long moaned about Monaco’s privileged position, with the extent of the grumbling directly proportional to the club’s league standing. The last time it was this loud, Monaco were winning the league in 2000 and reaching the Champions League final in 2004.

Now, however, while the club are in the second flight, Monaco’s rivals sense a clear and present threat. Under Claudio Ranieri, they look set for promotion. More importantly, their owner, Dmitry Rybolovlev, is precisely the kind of Russian oligarch who seems ready to splash the cash and take a run at Paris Saint-Germain’s big-spending ways.

PSG are annoying enough to the French football establishment; having another foreign billionaire-owned side driving up wages and hoovering up talent would be a bit much.

This year, Monaco spent close to £20 million to secure promotion back to Ligue 1, which is nearly ten times as much as the rest of Ligue 2 combined. It was also more than twice as much as any top-flight club — apart from PSG — spent. All that would go away if Monaco were no longer “financially viable”. And the club argue that, were they subject to the same tax laws as the rest of the French League, that is exactly what would happen. The very “survival” of Monaco would be threatened, they insisted in an official statement.

Monaco’s argument to preserve their privileged position is twofold. The first is that “it has always been this way”. The second is somewhat more persuasive. Monaco’s unique status allows them to make the kinds of investments that others cannot afford to make. And that does not apply just to pricey imports, but domestic talent as well. Lilian Thuram, David Trezeguet, Emmanuel Petit and Thierry Henry all came through Monaco’s academy. A strong Monaco, fuelled by Rybolovlev’s billions, could benefit French football as a whole, helping Ligue 1 to add Champions League spots and pumping cash into the system, which would trickle down to everyone else.

It is a classic argument of “what’s fair” versus “what’s desirable for the greater good”. Or, rather, it would be, were it not for Financial Fair Play. Monaco simply are not a viable business at the highest level because, even with their tax advantages, they are a money pit. Today, they attract crowds of just over 5,000, but, even in 2003-04, when they reached the Champions League final, they were barely more than 10,000. They are never going to generate the turnover necessary to sustain their wage bill as it stands, let alone if they had to play by the same rules as anyone else.

Assuming FFP is enforced, Monaco’s near-certain non-compliance renders the “greater good/trickle down” argument rather moot. Which suggests that the French League did the right thing last week. It’s only fair that Monaco’s “free ride” should come to an end.

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AI FERRI CORTI IL PRESIDENTE FIFA CRITICA ANCHE COLLINA

Blatter attacca ancora Platini

«Solo lui contro la tecnologia»

«La vogliono federazioni, tornei, arbitri e giocatori. Arbitri di porta? Non servono»

FABIO LICARI - Gasport - 20-03-2013

Sepp Blatter torna all'attacco dell'ormai «nemico» Michel Platini. Un giorno sì e uno no. «Soltanto Platini non vuole la tecnologia di porta», dice in un'intervista al quotidiano spagnolo As, poche ore dopo le bordate sull'Euro 2020 itinerante «senza cuore nè anima». «Non è l'Uefa che non vuole la tecnologia, è solo Platini. Le federazioni, i campionati, gli arbitri, i giocatori... Tutti vogliono la tecnologia di porta», aggiunge Blatter che ammette di avere avuto un'opinione contraria fino al gol fantasma di Lampard al Mondiale 2010. «Quel giorno ci ho visto chiaro e mi sono detto: se troviamo un sistema infallibile, sicuro almeno al 99%, per evitare i gol fantasma, accettiamolo. Ora abbiamo a disposizione diversi sistemi validi».

«L'occhio umano è lento» In realtà all'inizio la tecnologia doveva essere infallibile, poi però Fifa e Board si accorsero di chiedere troppo ripiegando su una più umana «affidabilità». Ma gli arbitri di porta, quelli no, sono il diavolo. «Gli arbitri di porta che ha voluto Platini non servono per il gol-non gol, perché l'occhio umano non è abbastanza veloce. Al momento vengono utilizzati solo nelle competizioni europee e in Italia, il promotore numero uno è Collina, un ex arbitro italiano che lavora per la Uefa...». Non solo: «Anche gli arbitri sono per la tecnologia sui gol fantasma che avremo in Confederations e nel Mondiale». Il boss Fifa chiude limitando però le competenze della tecnologia: «Si applicherà sono per i casi di gol fantasma, non per le altre cose: vanno tutelate le regole del gioco che prevedono anche l'errore degli arbitri come dei calciatori».

Faccia a faccia - Insomma, siamo proprio ai ferri corti. E sarebbe bello avere una telecamera oggi a Zurigo, all'Esecutivo Fifa, quando i due si incontreranno. In agenda numerosi temi: Confederations Cup, Mondiale, rapporti con i club (possibile un aumento degli utili da distribuire a Brasile 2014), calendario internazionale 2014-18, International Board, finanze di Zurigo e le famose riforme democratiche all'interno della Fifa.

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Il Commento

BLATTER, IL GIOCO DELLA POLTRONA E I CONTINUI ATTACCHI A PLATINI

di FABIO LICARI - Gasport - 20-03-2013

«Euro 2020? Senza anima nè cuore, una cosa del genere me l'aveva già proposta Gheddafi». Due: «lo e Platini? Tutto bene, ci sono divergenze di opinione, ma non giudico la persona». Tre: «La tecnologia in campo? Solo Platini non la vuole, il mondo sì. D'altra parte gli arbitri di porta sono usati solo in Italia e il promotore è Collina, un ex arbitro italiano che ora lavora perla Uefa». Blatter dixit.

E oggi? Oggi è un altro giorno e si vedrà: siamo in attesa della nuova esternazione di Sepp Blatter, probabilmente conciliante perché è data pari. Oggetto (e obiettivo): Michel Platini. Potrebbe essere il meteo, il fuorigioco passivo, o la tripla sanzione d'improvviso in soffitta: tutto serve per mettere alle corde l'ex allievo e ora rivale diretto per la presidenza Fifa.

Dal punto di vista tecnico, Blatter sbaglia forte nell'attaccare così gli arbitri di porta (come Platini esagera nel «no» totale alla tecnologia, però troppo cara per il poco che risolve). Non è vero che sono usati solo in Italia, ma in una decina di tornei europei. E non è vero che non servono a niente, non scherziamo, a cominciare dai guardalinee più liberi di concentrarsi sul fuorigioco.

Solo che in Italia occorrerebbe: 1) più coraggio dei suddetti arbitri (dovevano avere effetto dissuasore, ma più tralasciano spinte e maglie trattenute più i difensori riconquistano la vecchia impunità psicologica); 2) più decisione dei vertici (caro Braschi, cosa le costa fare un bel discorso chiaro, «fino a ieri siamo stati tolleranti, da oggi sappiate che appena vediamo una spinta è rigore, quindi regolatevi e non stupitevi»?); 3) una graduatoria, per cui l'arbitro più importante fa il centrale, non l'addizionale, o saltano gli equilibri psicologici.

Detto ciò, quando il Board ha approvato gli arbitri di porta, luglio 2012, Blatter ha contribuito con i suoi 4 voti (su 8). Avesse voluto bloccarli — se «li voleva solo Platini»... — ci avrebbe messo un secondo e mezzo. Scatenando una guerra santa. Invece ha detto «sl»: da abile politico, in questo più bravo di Platini, gli ha dato il giochino e poi ha cominciato lo stillicidio di attacchi, compreso il tweet il giorno dopo il gol fantasma in Ucraina-Inghilterra. E questo ci porta al secondo punto di vista, che con i regolamenti non c'entra niente. Si chiama gioco della poltrona. Nel quale è tutto lecito.

Ecco: se Platini nel 2015 conquista la Fifa, a Blatter resta l'inutile presidenza onorifica. Ma se Blatter impedisce il successo del francese, piazzando uno a lui vicino (da Valcke a Villar), in qualche modo manterrà il potere altri quattro anni. Se, addirittura, non si ricandiderà lui stesso. Tra oggi e l'infinito, c'è di mezzo Platini. Da abbattere, come in ogni campagna elettorale che si rispetti. Solo che uno dei due contendenti, Platini, ancora non risponde. Perché?

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sopra la panca

Difendo Conte

Onora l'Italia

e merita rispetto

Ha il talento che solo i grandi possiedono

Però non gli perdonano il successo...

Arrigo Sacchi - Gasport -20-03-2013

La Juventus è prima in classifica con merito, tiene alto il nome dell’Italia in Champions: la squadra gioca un calcio bello e moderno, guidata da un allenatore ammirato in tutto il mondo. Vedere giocare i bianconeri è piacevole anche per chi non è juventino, e allora perché tanto astio, perché inveire, tirare sassi, offendere una squadra e un mister che ci fanno onore?

Enzo Ferrari diceva che gli italiani perdonano tutto ma non il successo, mi chiedo quando l’intelligenza e la cultura avranno la meglio sull’ignoranza e l’invidia e quando andremo allo stadio per divertirci e non per insultare o compiere violenze? Poi facciamo i puristi con Conte se il tecnico si agita in panchina. Antonio è l’artefice principale del gioco dei bianconeri: autore e direttore di una squadra che è cresciuta in breve tempo in modo esponenziale regalandoci partita dopo partita spettacolo e serietà.

Un team che aiuta ad ampliare la nostra conoscenza calcistica, apre nuovi orizzonti facendoci uscire dagli stereotipi e dai luoghi comuni: i bianconeri vincono e segnano molti gol senza avere uno specialista del gol. I bianconeri dominano in campo senza aver acquistato il top player. Il gioco ideato, condotto e allenato da Antonio è il vero leader che moltiplica le qualità tecniche e fisiche di tutti. Nella Juventus possano alternarsi tutti i giocatori e il gioco cambia poco, questo vale per Giaccherini, Asamoah ma anche per Pirlo e tanti altri, i quali stanno dando il meglio di se stessi in un sistema che ne amplifica soluzioni e fantasia. Per arrivare a tanto Antonio si è avvalso di un club che lo stima e lo supporta e che mai gli ha tolto autorevolezza così come ha usufruito di buoni giocatori che si sono dimostrati di alto livello sotto tutti i punti di vista: professionali, umani ed etici. Non ha ingaggiato i più famosi ma sicuramente i più funzionali alle sue idee calcistiche.

I più generosi dei critici gli riconoscono grinta, passione, energia, componenti importanti perché non sarebbero sufficienti a spiegare l’armonia, la fluidità e la fantasia di questa squadra. Il gioco è un’entità difficile da comprendere perché astratta così come è altrettanto complicato comprendere la qualità didattiche dei vari mister. Antonio non solo possiede passione, entusiasmo, culturadel lavoro e perfezionismo ma ha una sensibilità e un talento che solo i grandi possiedono. I bianconeri sono una squadra dotata di organizzazione, tempistiche di gioco e di smarcamento di alto livello. Se questa squadra fosse un’orchestra sarebbe intonatissima e potrebbe interpretare tutte le musiche: dal rock alla sinfonica. I giocatori si muovono ad occhi chiusi, come fossero una sola cosa, non soltanto per lo spirito di squadra bensì per la conoscenza che il mister gli ha saputo infondere.

Antonio è un grande professionista, generoso, intelligente. Possiede grandi capacità di insegnamento: credo che meriti il rispetto e il ringraziamento di tutti quelli che amano il bel calcio.

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CALCIOSCOMMESSE

Esposito, ecco i dettagli delle combine

Davanti ai federali per chiarire Salernitana-Bari: «Conte nón c'entra»

di Edmondo Pinna - Corsport - 21-03-2013

ROMA - Un'ora e mezza. Per chiarire, circostanziare, fornire qualche elemento in più in un quadro che sarebbe già definito. Marco Esposito, d'aver preso soldi per perdere Bari-Treviso 0-1 del maggio 2008 e Salernitana-Bari 3-2 della primavera successiva, lo aveva già ammesso. Era stato il primo a presentarsi davanti ai federali di Palazzi, confermando quello che aveva dichiarato nell'ottobre del 2012 ai pm del capoluogo pugliese Angelillis e Dentamaro. Anzi, aggiungendo particolari che alla magistratura ordinaria interessavano poco. Le sue dichiarazioni, però, in qualche caso non collimavano con quelle rilasciate dagli altri protagonisti chiamati dalla Procura federale. Ecco perché è stato riconvocato. Cosa certa: «Conte non c'entra nulla». Ad abundantiam....

PARTICOLARI - Questione di particolari, importanti però. Chi c'era, chi non c'era, gli incontri, l'Incontro (con la maiuscola), dove era stato deciso di perdere con Treviso e Salernitana e dove erano stati saldati i "favori". I luoghi e i volti delle combine da fissare per inchiodare altri e dare corpo si deferimenti che arriveranno. Eppoi c'è la storia, che sfuma dalla cronaca (sportiva) nera al rosa, sul ruolo della moglie di Rajcic, sembra causa di motivi di acredine: «Tutte scemenze, le questioni extracalcistiche con Rajcic sono scemenze» ha detto mentre andava via, a piedi, sotto la pioggia. Ha raccontato quelle partite cedute per denaro, Esposito, chiarendo anche ruoli. Perché alcuni sono da definire, come quello di Gillet, ex portiere del Bari ora al Torino, che sarà ascoltato - pure lui - nuovamente il 28 marzo (aveva già parlato il 21 febbraio scorso). Esposito disse di lui che i soldi li aveva presi. Sarà così. Ancora una curva, poi i deferimenti.

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• SCOMMESSOPOLI

Esposito in procura federale

Giovedì sarà la volta di Gillet

s. dis.- Tuttosport -21-03 - 2013

Un'ora e quaranta e poche rivelazioni scioccanti. Marco Esposito si è presentato senza avvocato alla sua 2 chiamata in procura federale. E considerato un collaboratore e in questa fase finale dell'inchiesta, le sue parole possono aiutare a ricomporre gli ultimi tasselli del puzzle. Bocca cucita all'uscita, ma di due cose Esposito è certo: Conte? Non c'entra niente. E le questioni extracalcistiche con Raijcic sono tutte scemenze.. Giovedì toccherà a Gillet, da dopo Pasqua si entra in zona deferimenti con processo non prima di fine campionato.

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Chi si rivede Stessi nomi ma non più procure dei calciatori

Torna la Gea: non c'è trucco, solo marketing

Moggi jr e Calleri sciolsero la società nel 2006, ora riprovano con altra faccia

Luca Talotta - il Giornale - 21-03-2013

Rinasce la Gea World, l'agenzia di procuratori che cambiò la storia del calcio italiano, nel bene e nel male. Rinasce e riparte proprio da Milano, con facce vecchie ma fisionomia nuova. Almeno, ufficialmente.

Tornando indietro con la mente non si può non ricordare quanto accadde nell'estate del 2006, quando scoppiò lo scandalo Calciopoli: partite truccate, giri di soldi non molto chiari, sorteggi arbitrali sospetti e lei ,laGea. La società di procuratori, all'interno della quale lavoravano giovani rampanti del calibro di Davide Lippi, Alessandro Moggi, Chiara Geronzi e Riccardo Calleri tra gli altri, gestiva qualcosa come 262 procure di calciatori e allenatori di calcio diSerieAeB.Una società che si sciolse il 18 luglio 2006, dopo essere finita sotto processo per associazione per delinquere finalizzata all'illecita concorrenza; un'accusa mossale all' interno di una più ampia inchiesta che avrebbe dato origine allo scandalo Calciopoli.

Sono passati sette anni, nei quali i suddetti agenti hanno continuato singolarmente la loro attività seppellendo il nome Gea World. O meglio, lasciandolo in un cassetto. Perché adesso si riparte, ufficialmente. Ma la Gea World non ritornerà più quella di prima. Nel 2006 era un'agenzia di procuratori che si riunivano e gestivano calciatori di un certo calibro ed erano molto vicini a Luciano Moggi, all'epoca direttore generale della Juventus. Quella di oggi, invece, è un'azienda che si occupa solo di gestione dell'immagine del calciatore, di marketing, creazione di eventi e quant'altro. Dunque, a priori, un' azienda diversa. Gli azionisti sono Riccardo Calleri ed Alessandro Moggi, agenti già al centro della vecchia Gea, che tornano lasciandosi alle spalle tutte le brutture del periodo già citato, lasso di tempo che si chiuse con la fine del processo legato alla GeaWorld l'8 gennaio del 2008 e l'assoluzione della società dall'accusa di associazione a delinquere.

II prossimo 4 aprile, a Milano, ci sarà la presentazione ufficiale della nuova azienda, con ulteriori dettagli. Una società che non si occuperà di gestione delle procure dei calciatori, ma alla testa della quale ci sono due agenti, che lavorano e con grande successo: siamo sicuri che sia cambiato qualcosa e che la nuova Gea non sia soltanto figlia di quella che fu?

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Torna la Gea di Moggi jr

La "prima" finì sotto processo

Guglielmo Buccheri - La Stampa - 21-03-2103

C'è stato un tempo in cui un piccolo vicolo nel cuore di Roma era un luogo a cui il pallone (italiano e non) guardava con molto interesse. Là era nata la Gea e, là, la società che curava gli interessi di un numero infinito di giocatori, aveva la propria sede: Alessandro Moggi, figlio di Luciano, ne era il presidente, Riccardo Calleri (figlio di Gian Marco ex patron di Lazio e Toro) il suo vice e Chiara Geronzi (figlia di Cesare, all'epoca numero uno di Capitalia), Andrea Cragnotti (figlio di Sergio, ex proprietario della Lazio), Francesca Tanzi (figlia di Callisto, ex patron del Parma), Giuseppe De Mita (figlio di Ciriaco) e Davide Lippi (figlio dell'ex ct Marcello) ne fecero parte a vario titolo.

Quella Gea non c'è più perché quasi tutti i «figli di» se ne sono andati presto (il solo Davide Lippi fu rinviato a giudizio) e perché, sebbene non riconosciuta come associazione a delinquere dopo il processo di primo grado al tribunale di Roma, una volta finita nel vortice dei sospetti di conflitto di interessi sul mercato non ha più avuto la forza di esistere.

Oggi, a distanza di due anni dalla condanna in appello per violenza privata di Moggi padre e figlio (rispettivamente 1 anno e 5 mesi), la Gea rinasce, nel nome, ma, a quanto pare, non nelle funzioni: fra due settimane, in un teatro di Milano, sarà lo stesso Alessandro Moggi a riprenderne in mano la guida con al suo fianco il vice di un tempo Riccardo Calleri. La ragione della nuova Gea non sarà più ottenere la procura dei giocatori, ma quella di occuparsi di attività commerciali, eventi, marketing.

Torna la Gea, dunque. E il solo annuncio, in un attimo, riapre una stagione del calcio italiano. Dal processo, Lippi jr, Gallo, Zavaglia e Ceravolo sono usciti assolti con formula piena. Il vecchio e nuovo presidente Alessandro Moggi si è rivolto in Cassazione dopo la condanna d'appello a cinque mesi in merito all'acquisizione delle procura dei giocatori Zetulayev e Boudianski.

Niente associazione a delinquere, hanno detto i giudici. La sede nel piccolo vicolo Barberini, nel cuore di Roma ha chiuso da tempo. Adesso ne riaprirà un'altra: il sipario si alzerà il 4 aprile al teatro Vetra. Quando, fra il 2001 e il 2006, la prima Gea era in vita, venne anche accusata di pilotare le convocazioni in Nazionale.

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Steinbrück, lo sfidante della Merkel, dice di tifare Schalke ma porta la sciarpa del Dortmund

Il piede in due scarpe (da calcio)

I tedeschi perdonano tutto ma non le banderuole del tifo

di ROBERTO GIARDINA (ItaliaOggi 19-03-2013)

(...)

Peer si è lasciato fotografare con al collo la sciarpa azzurra dello Schalke. Che c’è di male? I politici non possono avere una squadra del cuore? Ma qualche maligno ha scoperto in archivio un’altra foto di Steinbrück sorpreso allo stadio con la sciarpa gialla e nera del Dortmund. Imperdonabile. Come un bambino, sorpreso a rubare la marmellata, ha anche mentito: «È un’immagine che risale a dieci anni fa». No, lo hanno smentito: è del 2008. Come se per un fan qualche anno in più o in meno facesse differenza. La passione sportiva è per sempre. Non basta: il socialdemocratico che ama i bianchi italiani fa parte anche del consiglio direttivo del Dortmund.

(...)

è il contrario. steinbrück è un tifoso del bvb, mentre venne fotografato tempo fa con la sciarpa dello schalke

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Palazzo di Vetro

GIOMI DICHIARA GUERRA AL CALCIO MA PER IL 2014 MENO SOLDI PER TUTTI

Ruggiero Palombo - Gasport - 24 marzo 2013

Un documento soft ma puntuto, lo definisce chi lo ha letto. Alfio Giomi, presidente della federatletica, lo leggerà nel prossimo Consiglio Nazionale alla presenza di Giancarlo Abete, che a quello di mercoledì scorso non ha partecipato. Giorni vuole capire quali sono i criteri e chi ha stabilito che il calcio debba avere dal Coni contributi per 62.541.720,00 milioni di euro, a fronte dei complessivi 237 milioni 743mila euro destinati alle Federazioni secondo il budget di previsione 2013. Un 26,3% che fa effetto e non piace, che Giomi vuole mettere in discussione a partire dall'anno prossimo, assecondato da tutti quei membri del Consiglio Nazionale che mercoledì hanno battuto cassa in rappresentanza di federazioni, enti di promozione e discipline associate. E' il prologo di quella che il presidente Malagò dovrà evitare di far diventare una guerra civile. Non sarà facile, perché il calcio ha da mettere sul tavolo i suoi numeri.

Fino a qualche anno fa quei 62 milioni erano più di 80 e se è vero che le schedine sono passate a miglior vita, il 95% delle scommesse sportive che contribuiscono ad alimentare l'appannaggio annuale che il Governo attribuisce al Coni sono effettuate sul calcio. Inoltre, di quei 62 e passa milioni, 25 servono per le spese arbitrali della Lega Dilettanti (730mila partite per un rimborso medio di 35 euro ad arbitro), 10 per le spese arbitrali del settore professionistico, e altri 28 vengono divisi via Federcalcio, tra serie B (12) e Lega Pro (16). Liti che verranno a parte, il vero probledi ma sarà a fine anno quello sapere di che torta stiamo parlando: il presidente della Canoa Buonfiglio, cui ha fatto subito eco un Malagò assai attento, mercoledì lo ha lasciato intendere. «Siamo proprio sicuri che...» per il 2014 il Coni disporrà ancora di 411 milioni di euro? La risposta, non importa ora sapere a cura di quale Governo, è una sola e ve la possiamo anticipare: no. La Federcalcio, in attesa di diventare oggetto di queste non proprio gradite attenzioni, fissa a venerdì 5 aprile il suo prossimo Consiglio federale, all'ordine del giorno le nomine dei due vicepresidenti. Dopo il via libera del Coni, che ha avallato il sistema di votazione meno favorevole alle componenti tecniche (calciatori e allenatori), il doppio nome che ciascun membro del Consiglio potrà mettere sulla scheda dovrebbe spianare la strada al vicariato di Carlo Tavecchio. Per la seconda poltrona di vice, solo una cospicua frammentazione del voto delle Leghe potrebbe rimettere in gioco Demetrio Albertini, caro all'Aic. Altrimenti la partita si gioca tra Mario Macalli opposto a chi, favoritissimo, verrà presentato dalla Lega di Serie A. Beretta ha inviato ad Abete un documento con tanto di richiesta motivata, nel quale la sola cosa che non viene precisata è quale sarà il candidato di bandiera. Si sospetta che questa non sia una dimenticanza. Al presidente della Lega di A il compito di smentire le malelingue. E soprattutto, proponendosi in proprio anziché delegare il ruolo a Lotito, di evitare inevitabili sconquassi.

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La Champions affare d'oro solo Inter e Milan fra le top

Riccardo Signori - Il Giornale -23/03/2013

La Champions è un grande affare economico e tutti lo sanno. Chi ne sta fuori perde un bel bottino che poi fa arrossire i bilanci, già appesantiti da ingaggi sproporzionati.

Lo sanno bene Inter e Milan che vedono nel posto Champions la miglior soluzione dei problemi, ancor più di una vittoria in campionato e, per assurdo, di un successo in Champions. Sì, certo, perchè la gloria piace e fa gola, ma quando i presidenti devono sborsare montagne di danari, in premi, tutto il bello della Champions svanisce nel grigiore della contabilità spicciola. Tanto per chiarirsi: arrivare in finale è un affare, vincerla diventa un peso economico. Esemplare la Juve nei delitti perfetti ed anche il Bayern: hanno partecipato (alle finali) più di quanto abbiano vinto. Invece all'Inter è bastato far bottino un anno per mantenersi più in alto di tutte le italiane.

Ci conduce a tutto questo uno studio di Stageup, specialista nello studio di sponsorizzazioni, diritti sportivi, business, strategia, che ha messo in fila la «top 10» dei club per i contributi ricevuti dalla Champions league: a partire dalla stagione 2003-04, cioè da quando iniziò l'attuale format. Complessivamente le cinque inglesi presenti hanno messo insieme poco più di mille milioni di euro, le due italiane 464, le due spagnole poco più (476). In testa il Chelsea, ultimo vincitore di Champions e quest'anno già eliminato: in 9 partecipazioni ha sommato 320 milioni. Non c'è da stupirsi, perchè per l'ultima performance con successo finale la squadra di Abramovich ha incassato 59,935 milioni totali: 29,9 dalla sola competizione (partecipazione ai gironi, bonus match, singole vittorie, incasso premio per vittoria finale e semifinale). L'altra finalista, il Bayern Monaco, si è invece soddisfatta con 41,730 milioni.

Sorprendente, semmai, che il Chelsea stia davanti al Manchester United, non al Barcellona che ha una partecipazione in meno. Il Barça, quando vinse l'ultima Champions, incassò 30,7 milioni. E che dire dei club di casa nostra? L'Inter tiene botta con 244 milioni (9 presenze): la sua Champions ha fruttato 29,2 milioni, gran parte volatizzati in premi. La società nerazzurra sta davanti al Bayern che, nel frattempo, ha partecipato ad un'altra finale e potrebbe ritentarci. Sempre che la Juve...

Non si può dire che i bianconeri navighino nell'oro: quarto club nostrano (terza la Roma con 127 milioni), in 17ª posizione, raccolti 93 milioni per aver partecipato a 5 edizioni su 9. Solo due le italiane fra le top 10: dopo l'Inter (5ª) c'è il Milan (7°): con un montepremi di 220 milioni per 8 edizioni. Real appena dietro (216 milioni) ma con la chance di incrementare quest'anno. Possibilità che non sarà negata neppure alla Juve.

Fra le italiane è stato il Milan a guadagnare di più dall'ultima edizione: quasi 40 milioni, dei quali 16,3 per la qualificazione ai quarti: il resto da diritti tv e varie. Il Napoli incassò 27,730 milioni, l'Inter oltre 31 milioni. Nella stagione 2011-12 il montepremi da spartire ha raggiunto i 758 milioni. E, oggi più che mai, andrebbero ribattezzati premi-salvezza: almeno per i bilanci italiani. Fatto e dimostrato perchè la Champions è un affare.

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Gasport 24-03-2013

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Mi pare che...

Quando la verità

arriva al rallentatore

di LUCIANO MOGGI (Libero 23-03-2013)

Sorvolando sull’“amichevole” Italia-Brasile (Hulk pagato 30 milioni dallo Zenit? Neymar un campione?), in questo mondo tanto strano, lo sport e il Calcio vengono usati spesso come megafono per divulgare notizie da montare, magari facendo passare per vero il falso o viceversa. E chi dispone del meccanismo può approfittarne. «Questione di centimetri», disse il presidente della Roma Dino Viola dopo Juve-Roma del 10 maggio 1981. E a volte sono proprio i centimetri a fare la differenza, altre volte personaggi di secondo piano che si inventano le cose per aizzare dirigenti e tifoserie. Ci sono voluti 30 anni per avere la prova che la Juve, quel 10 maggio, non «rubò» niente.

E l’autorevole conferma viene proprio da Carlo Sassi, il giornalista che nel 1967 introdusse la moviola in Italia. L’ha raccontato in radio, «a Roma con un marchingegno particolare, il telebeam, dimostrarono che Turone era in posizione regolare, il che non era vero perché hanno, non dico barato, ma il macchinario non era perfetto. . . l’hanno un po’ “acchittato”». Dunque aveva visto bene l’arbitro Bergamo. Che poi si sia voluto dimostrare il contrario, lo sappiamo adesso. Nasce in quel momento l’antipatia tra le due tifoserie, alimentata fino a raggiungere l’odio e degenerare in Calciopoli, per distruggere la società che fungeva da ambasciatrice del calcio italiano all’estero, la Juve.

Ovviamente chi doveva prendere in mano la situazione si guardò bene dal farlo, visto che stava succedendo quello che in tanti desideravano, specialmente a Roma. Tuttora c’è chi scrive del “gol” di Turone e in presenza del nome Bergamo esclama: «Toh, chi si rivede». Parole e musica di Nicola Cecere. Quasi volesse significare “chi altri se non lui?”. Questo ci farebbe immaginare che ognuno possa dire e scrivere ciò che crede senza pensare al danno che può creare. Si potrebbe ad esempio citare un’intercettazione dove il buon Nicola, in piena Calciopoli, viene coinvolto dal dirigente del Milan, Meani, sul voto da dare all’arbitro Rodomonti. Dice Meani a Rodomonti: «Ti ho fatto dare io 8». Non vediamo cosa potrebbe esserci di tanto strano se qualcuno potesse pensare “Toh, ma allora Cecere se le va a cercare”.

C’è di più. Nel ’99, dopo un Juve-Parma 1-0, arbitro De Santis, compare sulla rosea un editoriale di chi adesso purtroppo non c’è più, in cui si diceva di tutto sugli arbitri che favorivano la Juve. L’estensore, quello stesso che voleva far credere che Moggi diceva bugie anche all’Avvocato (caso Vieri - cosa che Agnelli mai prese in considerazione), in occasione del gol annullato a Cannavaro descritto con dovizia di particolari non dice mai che la palla non era uscita e quindi il corner da cui nacque la rete non doveva esserci. Ma al giornalista poco importava: di lì polemiche a non finire, corteo di protesta dei tifosi laziali, Collina che crea un’intervallo di 74’ tra ilprimoe ilsecondotempo a Perugia e vince il campionato la Lazio.

Nel caso di Turone si potrebbe ipotizzare una voluta mala informazione, nel secondo esempio ben altra finezza. In ogni caso, invece, montagne di m... sui bianconeri, colpevoli soltanto di essere il club più forte e gestito in maniera professionale.

Il presidente Abete dice che il momento non è bello, che bisogna darsi tutti una calmata... Sempre così il nostro presidente, mai una presa di posizione, intanto che alla radio romana Rete Sport, diretta da Lo Monaco, si permettono di dare del mafioso a chi non la pensa come loro. Fioccheranno querele, ma intanto nessun segnale da parte di chi dovrebbe vigilare anche per evitare quegli incidenti in presenza dei quali si parla sempre di scalmanati. Ma quali sono i veri scalmanati e dove si nascondono?

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certo che , cercare di incontrare Gerhard Schröder nella Westfalia e precisamente ad Hannover, il signor Peer Steinbrück potrebbe impiegarci una vita intera. Per fortuna dei tedeschi, loro sanno esasttamente che Hannover e' il capoluogo della Bassa Sassonia (Niedersachsen) e non si trova in Westfalen. Poveri giornalisti, che figura da ignoranti.

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Inviato (modificato)

Beckham SL traslada su sede a París

LO DEL FUTBOLISTA Y VICTORIA ADAMS ES MÁS QUE UNA PREJA. ES UNA

BOYANTE SOCIEDAD, CONTROLADA POR EL PADRE DE ELLA, QUE AHORA

HA ESCOGIDO LA CAPITAL FRANCESA COMO SU CENTRO DE OPERACIONES

LA MIRADA DE LA PAREJA ESTÁ PUESTA EN CATAR, SEDE DEL

MUNDIAL 2022 Y CON GRAN POTENCIAL PARA SUS NEGOCIOS

por MÁBEL GALAZ (EL PAÍS 23-03-2013)

A los 38 años, los futbolistas ya han colgado sus botas. A esa edad se les considera amortizados para este deporte. David Beckham es una excepción. El que ha sido uno de los mejores jugadores del mundo no ha perdido del todo la magia. Hace tres semanas debutó en el Paris Saint Germain (PSG) con la ilusión de un juvenil, pero con la experiencia de quien lleva toda la vida en los terrenos de juego y casi el mismo tiempo siendo objeto de una descomunal atención mediática. En la tribuna para ver su estreno en la Liga francesa estaban su mujer, Victoria, y sus cuatro hijos. Forman un equipo en lo familiar, y también en lo profesional. Ser un Beckham es una marca muy rentable.

Cuando en 2003 Beckham fichó por el Real Madrid, los cimientos del vestuario se movieron. Tal era la fama que le precedía que sus compañeros le recibieron con desconfianza. Meses después uno de ellos reconocía a este periódico su error: “Porque sé quién es. Si no, pensaría que solo es un chaval que se muere por jugar al fútbol”. El despegue mediático del británico se terminó de fraguar en el Bernabéu y fue de tal magnitud que obtenía más beneficios por las camisetas que se vendían con su dorsal, de las que se llevaba un porcentaje, que con el escandaloso sueldo que recibía del club. Esa tendencia ha ido a más. Beckham convierte en oro todo lo que toca, y si le acompaña Victoria, los beneficios crecen de forma vertiginosa.

Según datos de la revista Forbes, Beckham aumentó su cuenta corriente el año pasado en 46 millones de dólares. La inmensa mayoría de ese dinero procedía de sus patrocinadores. Su contrato con Los Angeles Galaxy —equipo en el que por entonces jugaba— “solo” le reportó 9 millones de dólares, mientras que un anuncio de 30 segundos en el descanso de la Super Bowl, en calzoncillos de H&M, le supuso 3,5 millones de dólares. Por eso a nadie se le escapa que su fichaje por el PSG se debe no solo a las ganas de prolongar su carrera deportiva, sino a seguir potenciando su imagen de marca.

Todo comenzó a finales de los noventa, cuando David se fijó en Victoria. Dicen que al chaval del Manchester le gustaba la música hortera que hacían las Spice Girls y el aire pijo de ella. Un día se decidió a llamarla por teléfono para ir al cine. En 1999 se casaban en un castillo y comenzaba su cuento de hadas.

Victoria llegó al mundo de la fama de la mano de su padre, Anthony Adams, un ingeniero electrónico ahora convertido en el cerebro de la marca Beckham. Cualquier contrato, cualquier inversión debe contar con su aprobación. Adams es una figura que pasa inadvertida para los millones de fans de la pareja, pero que siempre está cerca de ellos. En época de crisis, cuando la actriz y modelo Rebecca Loos se paseaba por las televisiones contando sus hazañas sexuales con el futbolista, quienes conocían bien a David y a Victoria daban por hecho que no habría divorcio. Por muchos escándalos que se pudieran contar, siempre estaba cerca Anthony Adams para reconducir la situación. David y Victoria están unidos no solo por sentimientos, sino también por interés. Juntos son más rentables, y todavía más gracias a sus hijos. Romeo, el segundo, es ya imagen de Burberry, y Harper, la pequeña, inspiró a su madre una línea de ropa infantil.

Apartada de la industria de la música, Victoria trabaja cada vez más cerca de su padre y planean el futuro. Si no fue casual el aterrizaje de la pareja en Los Ángeles, donde han vivido los últimos cuatro años, tampoco lo es su aventura en París.

La capital francesa era un destino marcado en la agenda de Victoria desde hace tiempo. Conquistada la pasarela de Londres, las alfombras rojas de Los Ángeles y triunfando en la Semana de la Moda de Nueva York, a la diseñadora le falta por conquistar la capital europea de la moda. Admiradora de Coco Chanel, Victoria trabaja con la aguja mientras David se calza las botas de jugar al fútbol.

Qatar Sports Investments, dueño del PSG, se fijó en el futbolista británico por su carácter mediático y capacidad de liderazgo. Por eso también Londres 2012 le nombró embajador y fue uno de los grandes protagonistas de la ceremonia de inauguración de los Juegos con ese paseo en lancha por el Támesis. David tiene habilidad para moverse por las esferas del poder. Esa capacidad es la que le interesa a Nasser al Khelaifi, el presidente catarí del PSG y además director de deportes del canal Al Jazeera y estrecho colaborador del jeque Tamim bin Hamad Al Thani, jefe del fondo de inversiones catarí. Por eso ha luchado durante un año por ficharle.

No se trató de un problema de dinero. Catar nada en la abundancia. Beckham buscaba algo más, y para demostrarlo ha decidido donar el dinero que recibirá por cinco meses de trabajo —cuyo montante no ha sido revelado— a “una asociación caritativa que se ocupa de la infancia”.

La mirada de la marca Beckham está puesta en Catar, país que organizará en 2022 el Mundial de fútbol. Entonces el futbolista habrá colgado definitivamente las botas, pero estará de lleno volcado en el mundo de los negocios, guiado por las expertas manos de Victoria y de su suegro. En todo ello piensa ahora Beckham instalado en una lujosa suite de 350 metros cuadrados de un hotel de París en la que cada fin de semana le visita su familia. Juntos acuden al estadio. Victoria y los niños se dejan ver en la tribuna mientras él salta de nuevo al terreno de juego. Es el estilo de la marca Beckham.

Why reviving Chinese football may

be an impossible goal for Beckham

New ambassador met with reverence at

photocall – but critics say he is just a mascot

80 Number of pitches available for Beijing’s 20 million residents,

as estimated by a UK coach who has spent 20 years in China

by JONATHAN KAIMAN (The Guardian 23-03-2013)

As David Beckham descended through the empty bleachers in Beijing's Worker's Stadium, an eerie quiet overcame the two dozen or so Chinese footballers on the pitch. Beckham, dressed in an immaculate black suit and accompanied by a roster of prim, official-looking Chinese men, smiled and waved. The players, young members of Beijing's Guo'an club team, stared back in reverential silence.

Chinese television journalists jostled to the front of the press box. "It's him," one whispered. "Xiao Bei," said another – Little Becks, the star's Chinese nickname.

But if Beckham's new appointment as the first "global ambassador" for Chinese football looks like another nice sinecure for football's biggest one-man brand, the reality might be tougher. Critics say that even Beckham may be unable to improve the state of Chinese football, an enterprise so burdened by corruption and general ineptitude that even official media treat it as an embarrassment. "Beckham has no connection with the Chinese league. Now he comes to sell its image instead of actually playing. How can he represent the league? Do we need him?" said the state newswire Xinhua.

In February, the official China Football Association fined 12 club teams and punished 58 current and former officials, players and referees for cases of match-fixing and bribery dating back a decade. China failed to clinch a position in the 2014 World Cup in Brazil after ranking below Jordan and Iraq in qualifying rounds.

"I think they have tried everything to sort out China's football problems and they can't think of any solutions, so they are trying to divert attention by bringing Beckham in," said Rowan Simons, the author of Bamboo Goalposts, a memoir about two decades of coaching and playing football in China.

Beckham's itinerary in China consists primarily of brief visits to Chinese schools and club teams in Beijing, the coastal city Qingdao and the sprawling inland metropolis Wuhan. As part of his contract with the conglomerate IMG Worldwide, which helped organise the trip, he will travel to China three times this year. At a press conference in Beijing shortly after his arrival, he left open the possibility of someday playing for a Chinese team.

Beckham also distanced himself from Chinese football's less salubrious associations. "I'm not a politician, and I'm not involved in any scandals and corruption that's gone on in the past," he said. "I'm here for the future."

Experts say that Chinese football's greatest shortcomings are systemic – a direct product of the country's top-down athletic system, beyond any individual's control. Recreational football in China is vanishingly rare – government authorities shunt promising young players through specialised sports schools where they are trained according to Stalinist athletic theory. Simons estimates that Beijing only has 80 football pitches for its 20 million residents. Even football boots, he said, are hard to find.

Furthermore, the leaders of China's football bureaucracy are, like many government officials, required to change posts every few years. This motivates them to focus on short-term solutions – star-powered public relations campaigns, for instance – that could boost their chances of promotion. "The thing is there are no three-year solutions, there's a 30-year solution," said Simons. "But a leader who only has four years cannot hear that solution."

After Beckham's first day in Beijing, Chinese microblogs overflowed with claims that the first school to host the star athlete, Shi-jia Elementary, does not allow its students to play football.

The allegations did not surprise Ma Dexing, editor-in-chief of the popular sports newspaper Titan Sports. Most Chinese parents and educators, he said, consider football a dangerous and distracting pastime. Even at a handful of government-designated "football-playing schools", students are only encouraged to play when important guests are watching. "When the leaders come, they ask the kids to play football," he said. "After the leaders leave, they do nothing."

Despite its grassroots pretensions, Beckham's meeting with Beijing Guo'an was meticulously stage-managed. After a few group photos, a player threw Beckham the ball. Still smiling in his suit and tie, Beckham shot it towards the goalie, who blocked it with his chest. The players politely applauded.

Beckham then took a second shot, which whizzed past the goalie and into the net. After more polite applause and one final group photo, Beckham strolled back up the bleacher steps – 25 minutes after his arrival – and passed out of sight. The press was shooed away, and the team resumed its quiet practice session.

Modificato da Ghost Dog

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Roth e Ibrahimovic, vite parallele

Questi due libri sono meravigliose testimonianze dirette. Ibra e Roth sono separati

da un oceano, eppure tra le loro storie ci sono corrispondenze straordinarie

di SIMON KUPER (Internazionale 992 | 22 marzo 2013)

Questo articolo è uscito sul Financial Times con il titolo Philip Roth and Zlatan Ibrahimović

Tra le autobiografie di calciatori uscite negli ultimi anni, forse la migliore è Io, Ibra, in cui l’attaccante svedese Zlatan Ibrahimovic racconta il suo successo, da un ghetto etnico di Malmö alla fama. Al momento Ibra macina gol nel Paris Saint-Germain.

Il padre di Ibra è bosniaco, sua madre croata. Si erano sposati per consentire al padre di ottenere il permesso di soggiorno in Svezia, ma il matrimonio è durato poco. L’autobiografia, scritta con il giornalista David Lagercrantz, è una storia di immigrazione. Dopo aver venduto 700mila copie solo in Svezia ed essere stata pubblicata in quindici paesi, probabilmente è il più venduto racconto di immigrazione europea dopo Denti bianchi (2000) di Zadie Smith. Il libro è stato anche selezionato per il prestigioso premio letterario svedese August.

Una volta superata la risatina di sufficienza d’obbligo dopo la frase “autobiografia di un calciatore”, scopriamo che il libro di Ibra somiglia curiosamente a un’altra storia d’immigrazione, Il lamento di Portnoy (1969), il romanzo di Philip Roth che racconta com’era crescere da ebrei nel New Jersey degli anni trenta e quaranta. Una storia fa luce sull’altra. Ed entrambe fanno luce sull’esperienza dell’immigrazione, sempre più comune ma poco ascoltata. Di solito sui problemi degli immigrati sentiamo pontificare i politici. Questi due libri, invece, sono meravigliose testimonianze dirette di cosa significhi crescere in una famiglia di immigrati. Ibra e Roth sono separati da un oceano, eppure tra le loro storie ci sono corrispondenze straordinarie.

Il libro di Ibra è un’autobiografia-confessione, quello di Roth un’autobiografia-confessione romanzata. La voce narrante di Roth, Alex Portnoy, è – come Roth – un ragazzo di Newark nato nel 1933 (Roth, che di recente ha annunciato di aver abbandonato la scrittura, ha compiuto ottant’anni il 19 marzo). Sia Ibra sia Portnoy sono ragazzi prodigio arrabbiati, che nella prima maturità ricordano gli anni del ghetto: Ibra scrive a 28 anni, Portnoy a 33. E tutt’e due i loro libri sono prima di tutto un’ode alle ragazze bionde originarie del posto.

Come molti figli di immigrati, Portnoy e Ibra sono cresciuti isolati dalla comunità autoctona. Spiega Portnoy (il romanzo è scritto in forma di una lunga seduta con uno strizzacervelli muto, il dottor Spielvogel): “Nel gruppo dei diplomandi di mia cugina Marcia al Weequahic High, su 250 studenti c’erano solo undici goyim, e uno di colore. Bella roba, ha detto lo zio Hymie”. In poche parole, la casta dominante dell’epoca – i gentili bianchi – a Newark era quasi completamente assente. Quanto al ghetto di cemento di Ibra, nel quartiere di Rosengård a Malmö, “era pieno di somali, turchi, jugoslavi, polacchi e ogni genere di immigrati, più qualche svedese”.

Sono esperienze che chi non è immigrato difficilmente riesce a comprendere. Per prima cosa, Ibra ha detto a Lagercrantz che voleva che il suo libro fosse “dieci volte meglio di quello sul re di Svezia”. Ben presto, però, il calciatore si è reso conto che c’era un problema: il suo eccellente ghostwriter “veniva da un mondo completamente diverso dal mio”. Il Rosengård di Ibra era lontano dalla vera Svezia quanto la Newark di Portnoy dagli Stati Uniti.

“La televisione svedese era come se non esistesse”, scrive Ibra, “noi vivevamo in un mondo completamente diverso. Sono dovuto arrivare a vent’anni, prima di vedere il mio primo film svedese, e non avevo la minima conoscenza degli eroi o dei campioni sportivi svedesi”. Invece, lui e suo padre guardavano i video dei pugili statunitensi come Muhammad Ali e George Foreman, o i film di Bruce Lee e Jackie Chan.

Allo stesso modo, ogni volta che pensa ai pranzi del ringraziamento in famiglia, Portnoy si chiede: “Perché allora non ho la sensazione di stare consumando il mio pranzo in America, che l’America sia il luogo in cui mi trovo, e non quello dove andrò un giorno…?”.

I genitori di questi due uomini non sanno quasi nulla delle norme sociali al di fuori del ghetto. In un paese nuovo e incomprensibile, è molto difficile che la prima generazione ce la faccia. Il padre di Ibra fa il custode e beve troppo; quello di Portnoy è un assicuratore sottopagato. I genitori di Portnoy possiedono solo tre libri rilegati, a parte quelli scolastici. Ibra racconta che i suoi genitori non dicevano mai cose come “‘vuoi che ti aiuti con i compiti?’ o ‘devo spiegarti un po’ di storia svedese?’. No, niente del genere. Erano lattine di birra e musica popolare jugoslava e frigoriferi vuoti e la guerra dei Balcani”.

La casa è un luogo di frenesia emotiva. I litigi feroci con i genitori sono all’ordine del giorno. Quando Portnoy ha sei o sette anni, si rifiuta di finire la cena e sua madre lo minaccia con un coltello (“Solo, perché? Cosa le passerà nel cervello?”) e minaccia regolarmente di cacciarlo di casa per sempre. La madre di Ibra lo picchia con un mestolo, e caccia di casa sua sorella, per sempre. “Siamo vendicativi e drastici”, spiega Ibra.

Come molti immigrati, Portnoy e Ibra crescono all’ombra di una tragedia che avviene nel loro paese d’origine. Per Portnoy è l’olocausto, per Ibra, la guerra dei Balcani. Tutt’e due i ragazzi avvertono un’angoscia per lo più taciuta. Scrive Ibra: “Della guerra non ho mai capito un granché. Non mi raccontavano mai niente. Mi proteggevano. Non capii nemmeno perché mamma e le mie sorelle iniziarono a vestirsi di nero”. Ma Ibra sa che l’intero villaggio bosniaco di suo padre è stato decimato dai serbi e dalla loro pulizia etnica. All’inizio del Lamento di Portnoy, il 1941 viene citato come una data qualsiasi, quella in cui la famiglia Portnoy si trasferisce da Jersey City a Newark. Più tardi, però, sua sorella gli ricorda dove sarebbe stato se fosse nato in Europa: “Ucciso col gas o da un colpo di pistola, incenerito, massacrato o sepolto vivo”.

Portnoy è un prodigio d’intelligenza, come Ibra lo è nello sport, ma nessuno dei due ha genitori in grado di fargli da guida nel percorso di vita che li aspetta. Come tanti altri figli del ghetto, sono imprigionati tra un paese vecchio e uno nuovo, senza appartenere a nessuno dei due. Non stupisce che crescano arrabbiati. “Quel periodo di rabbia prolungata che si chiama adolescenza”, osserva Portnoy. Lui esprime la sua rabbia con le parole, Ibra con le parole e la violenza. “Ero aggressivo”, scrive Ibra. Come ha dichiarato la sua vecchia preside a un giornalista: “Lavoro in questa scuola da 33 anni, e Ibra è senz’altro tra i cinque allievi più turbolenti che abbia mai avuto. Era la pecora nera per eccellenza, ne faceva di tutti i colori. Il prototipo del bambino che prima o poi finisce per mettersi seriamente nei guai”.

Carichi di adrenalina, sia Portnoy sia Ibra sono diventati trasgressori seriali. Portnoy è un masturbatore compulsivo, Ibra un ladro di biciclette. Dopo aver saputo che giocherà nella squadra professionista locale, il Malmö FF, racconta, “fregai un’altra bici e mi sentii il ragazzo più figo della città”.

Entrambi nascondono le loro colpe ai genitori. Ibra getta via una lettera della polizia prima che suo padre la veda, Portnoy chiude a chiave la porta del bagno. Ma mentre Ibra va orgoglioso del suo ragazzaccio interiore, Portnoy non può farlo: “Vergogna e vergogna e vergogna e vergogna: ovunque mi giri un’altra ragione per cui vergognarsi”. Portnoy immagina titoli di giornale che lo denunciano pubblicamente come un ragazzaccio: “Commissario aggiunto per le risorse umane trovato decapitato in appartamento di spogliarellista!”, eccetera. Nel caso di Ibra, i giornali lo perseguitano davvero. Finisce in prima pagina anche quando rientra con un’ora di ritardo nell’albergo che ospita la nazionale svedese, dopo essere andato a farsi una bevutina a Stoccolma. Si lamenta che non può andandare a comprare il latte senza che i giornali ne parlino.

Entrambi questi due uomini, da giovani, si sentono impacciati e insicuri. C’è un solo posto dove si sentono a loro agio: il campo da gioco. Quello di Portnoy è il campo di baseball, dove sa muoversi esattamente come un esterno centro, tanto da sembrare un professionista anche se non gioca così bene. Chiede a Spielvogel: “Ed è vero, no? – incredibile ma vero – che c’è gente che prova nella vita la disinvoltura, la fiducia in sé, la semplice ed essenziale sintonia con gli avvenimenti che io ero solito provare come esterno centro dei Seabees?”. La famosa ode del romanzo – “Oh, essere un esterno centro” – aiuta a spiegare perché, sia negli Stati Uniti sia in Europa, tanti dei migliori atleti provengono da ghetti etnici.

La disinvoltura e la sicurezza invidiate da Ibra e Portnoy appartengono – nella loro immaginazione di immigrati, almeno – alla casta autoctona: l’educata e compunta classe dominante americana bianca, anglosassone e protestante dell’infanzia di Portnoy non è molto diversa da quella svedese di Ibra. Addirittura, negli ultimi romanzi di Roth, l’appellativo di “svedese” diventerà il marchio distintivo per eccellenza di un’indiscussa “gentilità”: in Il professore del desiderio (1977), il protagonista vive un ménage à trois con due ragazze svedesi, e in Pastorale americana (1997) il personaggio principale è un ebreo soprannominato “lo svedese”, per la capigliatura bionda e i modi disinvolti e garbati. Da questa casta, Portnoy e Ibra si sentono guardati dall’alto in basso ed esclusi (ironia della sorte, tra i tanti premi letterari vinti da Roth, gli è stato negato proprio quello assegnato da una commissione svedese: il Nobel per la letteratura).

Sia Ibra sia Portnoy sono posseduti dal desiderio e dalla meraviglia per quell’essere incomprensibile: la ragazza bionda del posto che sente miracolosamente di appartenere al luogo in cui vive. Riuscire ad averla significherebbe conquistare quella società estranea, ma sembra irraggiungibile. Ibra ricorda quando al liceo Borgar di Malmö “per la prima volta, vedendo le ragazze con le felpe Ralph Lauren, me la facevo quasi addosso quando dovevo invitarle a uscire”.

Il tredicenne Portnoy pattina sul ghiaccio di un lago gelato, dietro a frotte di ragazze non ebree, e si meraviglia: “Le shikse, ah, le shikse… come fanno a diventare così belle, così sane, così bionde?”. Sogna di avvicinarsi sui pattini e di presentarsi fingendosi un gentile, Alvin Peterson (“Devo parlare un inglese assolutamente perfetto. Senza neanche una parola in ebraico”). Ma è sicuro che il suo nasone rivelerà le sue origini. Allo stesso modo, Ibra (anche lui preoccupato del suo nasone) ammette che per quanto si sforzasse di vestirsi come uno svedese raffinato, da adolescente finiva sempre per sembrare solo “uno di Rosengård”.

Entrambi fanno il loro primo incontro con la classe dominante locale a 17 anni: Portnoy va al college in Ohio, Ibra diventa calciatore professionista. Gradualmente, grazie alla mediazione di ragazze bionde del posto, cominciano a integrarsi. Durante il primo anno di college, Portnoy trascorre il giorno del ringraziamento in Iowa, con la famiglia della sua compagna di università non ebrea. Non conoscendo il galateo wasp, resta stupito quando la mattina il padre della ragazza lo accoglie a colazione con un “buongiorno”. Una frase mai sentita pronunciare, a casa Portnoy. Fate il confronto con lo stupore di Ibra di fronte alla sua futura compagna, la perfetta svedese bionda Helena Seger: “Veniva da una famiglia modello di Lindesberg, una di quelle famiglie dove si dice ‘Tesoro, per favore, puoi passarmi il latte?’, mentre da noi, a tavola, ci urlavamo minacce di morte a vicenda”.

Per Helena, Ibra è “un povero jugoslavo, con un’auto veloce e un orologio d’oro, che ascolta la musica a volume troppo alto”. È lei che gli insegna a usare le posate da pesce, e a bere un buon bicchiere di vino (scopre che non va buttato giù d’un fiato come un bicchiere di latte). Portnoy convive per un breve periodo con una wasp sofisticata che “sapeva mangiare il dessert usando due diverse posate (una fetta di dolce che si poteva prendere con le mani, e avreste dovuto vedere come la maneggiava con quella forchetta e quel cucchiaino: come un cinese con le bacchette!)”.

Gradualmente, il successo, le bionde autoctone e la dura scuola di buone maniere a tavola riescono a tirare fuori dal ghetto sia Portnoy sia Ibra. Portnoy diventa “commissario aggiunto per le risorse umane del comune di New York”, e Ibra il miglior calciatore svedese. I loro genitori seguono l’ascesa dei figli, sgomenti. Poco tempo dopo essere passato al calcio professionistico, nel Malmö, Ibra nota un uomo dai capelli brizzolati che segue l’allenamento da lontano, sotto alcuni alberi. Suo padre – che non si era mai disturbato ad andarlo a vedere giocare quando Ibra era piccolo – alla fine si era deciso. Ibra ricorda: “‘Guarda papà, guarda!’, avrei voluto gridare, ‘tuo figlio è il giocatore più forte del mondo!’”. Ben presto, prosegue, la casa di suo padre “diventò una specie di museo dedicato alla mia carriera: ritagliava ogni singolo articolo, ogni piccolo trafiletto, e così ha sempre continuato a fare”.

Ma sentiamo il gemello di Ibra, Portnoy, dall’altra parte dell’oceano: “Oggi, ogni volta che il mio nome appare in un nuovo articolo di Time, bombardano di copie del ritaglio ogni singolo parente vivente. Metà della pensione di mio padre se ne va in spese postali, e mia madre sta al telefono giornate intere e dev’essere alimentata per via endovenosa”. I genitori possono godere del successo solo da lontano, perché è difficile per il figliol prodigo presentarli in società. Quando Ibra porta la sua famiglia in volo a Dubai per le feste, sua madre colpisce in testa con una scarpa il fratello di Ibra, Aleksandar, in business class alle sei di mattina, e ne nasce una rissa. Helena non sa più dove guardare.

Ibra compra proprio la casa rosa alla periferia di Malmö che sognava quando era un ragazzino del ghetto. Vince addirittura il premio Jerring, quello assegnato dal pubblico svedese al suo sportivo preferito (di solito è uno sciatore biondo). Il ragazzaccio si commuove fino alle lacrime: nessun premio precedente lo aveva emozionato tanto: “Forse l’ho preso come un segno che ero stato veramente accettato, non solo come calciatore ma come persona, nonostante tutte le mie sparate e le mie origini”. Non è diventato solo un grande calciatore. Ha compiuto un’impresa altrettano to difficile: è diventato uno svedese.

Non c’è da stupirsi se questi due uomini sposano l’ideologia dell’integrazione e dell’antidiscriminazione: è quella che ha reso possibile il loro percorso di vita. Il commissario aggiunto Portnoy si batte per il diritto degli altri a lasciare il loro ghetto. Come dice a una ragazza israeliana: “Chi credi che abbia convinto le banche a cominciare ad assumere neri e portoricani, in questa città? A fare una cosa tanto semplice? Questo p***o, mia cara: Portnoy!”.

Anche Ibra combatte le sue battaglie contro la segregazione. Quando arriva all’Inter è disgustato dalla distribuzione dei posti negli spogliatoi. I giocatori brasiliani siedono in un angolo, quelli argentini in un altro e tutti gli altri in un terzo. Ibra può capire che ognuno si sieda vicino agli amici, succede in tutte le squadre. Ma qui “si raggruppavano per nazionalità. Era una roba da età della pietra”. Dice al presidente dalla squadra, Massimo Moratti, che le cose devono cambiare. Questi attacchi contro la segregazione sono le uniche opinioni di carattere sociale che Ibra esprime nel libro.

Il successo, però, non significa necessariamente un lieto fine. Le cicatrici del ghetto non scompaiono mai. Alla fine del suo romanzo, Portnoy è ancora nel pieno della terapia con Spielvogel. E giocando nel Barcellona, Ibra si sente snobbato dal freddo e compito (quasi svedese) allenatore Pep Guardiola. Guardiola è un catalano che gestisce un’istituzione catalana: Ibra è l’outsider. Quando Pep smette di parlargli, Ibra torna a sentirsi “come quel ragazzo emarginato e difficile del ghetto, che non si sente mai a casa. Era come quando giocavo nelle giovanili del Malmö”. Alla fine, fa una scenata da manuale a Guardiola, degna di Portnoy, e il suo destino al Barcellona è segnato.

Così come una generazione di romanzieri ha raccontato la storia dell’America ebraica, e la musica quella dell’America nera, oggi le altre arti stanno costruendo la narrazione dell’esperienza migrante. A Ibra è stato concesso un podio perché è un grande calciatore, ma devono esserci moltissimi altri ragazzi della seconda generazione che, seduti nelle loro stanze, in tutto il continente, scalpitano per raccontare la loro versione.

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Los genios del balón también quiebran

Crecen los casos de futbolistas en bancarrota años después de finalizar su carrera

Enormes gastos, inversiones fallidas o malos consejeros explican estas crisis

por MIGUEL ÁNGEL GARCÍA VEGA (EL PAÍS 24-03-2013)

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“Recuerdo que me desperté y tenía atados los tobillos, las rodillas, el cuerpo, el pecho y también las manos a la cama. Sabía que me encontraba mal, pero no tan mal. Hace dos semanas estaba muerto”. Paul Gascoigne es, quizá, el futbolista británico con más talento en las últimas décadas. Y también uno de los más queridos. Su gran habilidad era jugar en el campo de la misma forma que había aprendido hacerlo en las calles de Gateshead (Inglaterra), donde nació. Pero siempre fue conflictivo. En el césped era provocador. Fuera resultaba desmesurado con la bebida. Así que cuando hace unas semanas se despertó en un hospital de Tucson (Arizona, Estados Unidos) y se vio amarrado a la cama, y con “tres de los médicos pensando que no sobreviviría al tratamiento de desintoxicación”, acorde con su propio relato a la prensa británica, seguro que pensó: “Cómo he terminado aquí. En el infierno”.

Pese a todo, Gascoigne es afortunado. Primero, porque puede recordar lo que escribió García Márquez en sus memorias y afirmar aquello de “vivir para contarla”, y segundo, porque, pese a los desmanes, sus finanzas, aunque muy dañadas, sobreviven gracias al apoyo del mundo del fútbol. Algo que no todos pueden decir. Tres de cada cinco futbolistas ingleses están en la bancarrota un lustro después de haber finalizado su carrera profesional. Estos datos —que otras fuentes rebajan al 20% o 30%— proceden de un estudio de Xpro, una asociación benéfica para futbolistas profesionales ingleses e irlandeses. El informe analiza a exjugadores que han militado en la Premier y que, a pesar de cobrar durante años por término medio 30.000 libras semanales (35.100 euros), sufren problemas económicos.

La razón de esta caída a los abismos habita en malas inversiones, divorcios, gastos desmedidos, deficientes gestores y también en el efecto perverso de eso que se denomina “el entorno” —familia, amigos y agentes— del futbolista. Motivos como esos han llevado a la insolvencia a Lee Hendrie (Aston Villa), Brad Friedel (Tottenham) y Colin Hendry (excapitán del Blackburn Rovers). Mientras que otros futbolistas, pensemos en John Arne Riise (Fulham) o Eric Djemba-Djemba (antiguo jugador del Manchester United), han sufrido serios contratiempos financieros, según varias informaciones periodísticas.

¿Y en España? ¿Se están arruinando nuestros futbolistas? “Recuerdo [no da el nombre] un jugador de los setenta y principios de los ochenta del Real Madrid que estaba limpiando autobuses”, cita con esa memoria enciclopédica que maneja para el fútbol Alfredo Relaño, director de As. “Pero es algo que se da cada vez menos, porque están mejor asesorados”, precisa. ¿Mucho mejor?

“Si me pide un porcentaje, le diré que los futbolistas que están bien trabajados (sic) son el 80%, frente a un 20% que no lo están”, apunta José Segui, uno de los representantes del Kun Agüero (Manchester City). Y si además “la familia ayuda, algo que no siempre es así, mucho mejor”.

Por ahora en España vemos solo casos puntuales, como el del exjugador del Mérida Crescencio Cuéllar, quien relataba hace poco en El larguero, de la cadena SER, que incluso pasó hambre tras arruinarse con una serie de negocios. “Sabemos que algunos futbolistas lo están pasando mal, porque nos han pedido ayuda. Un divorcio o una mala inversión les ha llevado a una situación complicada. Pero son muy pocos”, admite Vicente Blanco, Tito, directivo de la Asociación de Futbolista Españoles (AFE).

Porque el futbolista de élite genera unos enormes ingresos económicos a su alrededor, que bien administrados le aseguran la vida. Un jugador de la primera plantilla del Barcelona gana de media la friolera de 118.400 euros a la semana, y uno del Real Madrid, 106.300. Son los equipos, cuenta la consultora Sporting Intelligence, mejor pagados del mundo, superando incluso a Los Angeles Lakers (85.630 euros).

Sin embargo, al fútbol, reconoce Relaño, se le consiente todo. Tanto es así que los grandes futbolistas viven marcados por el adjetivo posesivo “su”. Su imagen. Su carrera. Su éxito. Su patrimonio. Su dinero. Su vida. Y no resulta extraño que levanten a su alrededor murallas. Familias infranqueables. Representantes herméticos. Móviles que siempre comunican. “A mis jugadores les digo que en temas de dinero no confíen en nadie, ni siquiera en los bancos, porque te lo pueden quitar”, observa Manuel García Quilón, representante de Álvaro Arbeloa y Pepe Reina. Este agente admite que el dinero “es una fuente de tensiones entre amigos, familiares y el propio club”.

Lo singular es que este entorno de desconfianza salpica a los agentes. Eduardo Carlezzo, un abogado brasileño que trabaja con el São Paulo, los señala con el dedo. “No todos están debidamente preparados para asesorar a los futbolistas en temas financieros y tampoco se preocupan en ayudar al jugador a planificar sus inversiones”. Un futbolista de éxito es como una empresa. Necesita abogados, contables, especialistas económicos. Todos, desde luego, leales, lo que no siempre sucede. “Hemos tenido casos, sobre todo con agentes latinoamericanos y en especial algún brasileño” —apunta un abogado—, “que se han quedado directamente con el dinero de los futbolistas”.

Al final del día es el propio jugador, recomiendan los expertos, quien tiene que estar atento a su capital y vigilarlo. “Es una relación compleja, pero muchos jugadores son demasiado confiados y ultradependientes de una sola persona o de un pequeño equipo”, admite Tom Cannon, profesor en la Universidad de Liverpool y experto en finanzas deportivas. “Los mejores agentes son brillantes, aunque siempre tienen que ser controlados por el futbolista”.

Y es que si en el campo juegan en equipo, frente a la economía están solos. “Nosotros no entramos en las finanzas de los jugadores. Es una responsabilidad suya, de su entorno y agentes”, zanja un alto cargo del Real Madrid. De hecho, “algunos futbolistas, con ingresos iniciales muy altos, han consumido líneas de crédito bastante elevadas y no se han dado cuenta de que seguían viviendo de ellas, aunque ya no obtuvieran las mismas ganancias”, advierte Félix Plaza, socio del bufete Garrigues Sports & Entertainment.

En contraste con algunos perfiles de deportistas manirrotos, con escasa formación financiera, surgen ejemplos de gestión brillante. David Beckham ha sabido ganar una fortuna y a la vez construir una marca universal, que va más allá de su tiempo como jugador. Y este concepto de vida después del deporte tiene su acomodo en algunos clubes punteros. La Agrupació Barça Jugadors (ABJ) o la Everton Former Players’ Foundation (Everton) trabajan con esa mirada de largo plazo. En ella encaja “la planificación fiscal y la preservación del patrimonio”, que son las dos grandes peticiones de los jugadores, precisa David Nuevo, experto de banca patrimonial de Banca March.

Porque con los futbolistas casi todo resulta especial. Desde el lado de los impuestos, sus números vienen condicionados por “tributar a tipos muy altos durante poco tiempo”, analiza Miquel Terrasa, socio del área de KPMG Sport, algo que “no ayuda a favorecer el ahorro”. Por tanto, hay que darle, asegura, “una vuelta a su esquema retributivo”.

EXTRA

TIME

Why do so many pro footballers end up serving time in jail?

Lee Molyneux's story shows just how easily it can happen

by JONATHAN NORTHCROFT (THE SUNDAY TIMES 24-03-2013)

Lee Molyneux has planned his next proper night out. He says it will be after the season ends; even then, it’ll be restrained. He reckons he’s a lucky man: lovely girlfriend, baby coming, professional football career on the up. What young dope would throw all that away?

Well, him, once. At 18 Molyneux was in an England youth side featuring Daniel Sturridge and Theo Walcott and an Everton substitute. At 21 he had no club and was starting a three-year prison sentence for a violent assault committed while binge drinking, when nights out were far more important than football.

He served 17 months, dedicated himself to the prison gym and won a contract at Accrington after his release last summer. At first he wore a tag, missing evening games because he was still on curfew. Now he’s being called “League Two’s Gareth Bale”. Having moved from left-back to an attacking role, Molyneux scored a spectacular hat-trick against Barnet last weekend. Suitors are watching. He’s “tunnel-visioned” about taking his second chance.

How did the soft-spoken, thoughtful and dedicated 24- year-old who sips latte and discusses the nursery furniture in Mamas & Papas once become a “jack the lad” who got into dark territory and so nearly never returned? “I’m still embarrassed to say where I’ve been,” he says of prison. “I remember my mum and dad on the first visit crying. I told them, ‘I got myself into this mess and I’ll get myself out of it’. They’d sacrificed so much, Dad driving me an hour to training at Wrexham three nights a week when I was seven, Mum getting up to make packed lunches, buying boots. I hope I can prove myself to everyone I let down.

“When I was sentenced I had all these crazy thoughts: jail, that’s a place for murderers and rapists and paedophiles. How can I go from captaining England at youth level to this? I wish it had never happened and I don’t want to say jail was a good thing because it’s not good for anyone . . . But I’ve learnt lessons, a harsh lesson, and hopefully I can look back and think one day, ‘Maybe that’s what I needed’.”

In all, 133 former professional footballers are in British jails, 124 of them aged under 25 and four serving life sentences, according to the players’ charity Xpro. Another former England junior international, Courtney Meppen-Walter, was jailed last month for causing two deaths by careless driving and Nile Ranger, also an England youth cap and released by Newcastle three weeks ago, will be sentenced for common assault on 9 April. He is 21.

Geoff Scott, a former Stoke defender who heads Xpro, says: “This is a football problem but football doesn’t have the solution.” Xpro backs Onside, an academy for released players and disadvantaged youths founded by Michael Kinsella, who was on Liverpool’s books and served seven years for drug dealing. “From my Liverpool schoolboys team 13 of us went to professional clubs but, of those, six ended up in prison,” he says. “The education side for young players at professional clubs is ridiculous.”

Kinsella and Scott both believe so many players hit trouble because of poor schooling, football’s incredible rejection rate (only 2% of players who sign their first professional contract are still pros past 21) and, chiefly, money.

“A first-year pro at a Premier League club will earn upwards of £1,500 per week and we know one current academy player on £10,000 per week. But if the player doesn’t [succeed] he goes into the big bad world and after a life of mollycoddling has to try and make it. And he has no meaningful qualifications and a £2,000-per-week lifestyle to replace,” Scott says. “Many turn to crime.”

That’s not Molyneux’s story. He had qualifications — achieving 10 GCSEs at school — and was well looked after at Everton’s envied academy. He didn’t “turn to crime” and blames nobody but his younger, reckless self. But he recognises the dynamics Scott outlines. As often happens with those who derail, it began with bad luck. At the start of 2007-8 Molyneux was promoted to Everton’s bench and was confident of displacing Nuno Valente, the club’s only senior left-back. Then, doing weights, a disc went in his back. David Moyes signed Leighton Baines and by the time Molyneux was fit again his first-team opportunity seemed gone.

Everton were willing to extend his contract but he was in a hurry to play and earn big. “I didn’t have an agent. An Irish fella I’d met twice had a word with me after a reserve game. ‘Do you fancy joining Southampton?’ ‘First team?’ ‘Yeah.’ ‘Go on then’. I never spoke to him again. He made a few quid out of the move, then did one.” Molyneux played four games in the Championship before Jan Poortvliet, who signed him, was sacked.

Poortvliet’s replacement, Mark Wotte, didn’t fancy him. “There were six or seven of us, frozen out. We called ourselves the bomb squad. You train, go home, pick up a wage. You’d be in on a Saturday for an hour, then you were free. You’re 19 and what do you do for the rest of Saturday? I got into a rut of going out drinking.”

He was a teenager living away from home for the first time who couldn’t cook for himself and, deep down, was depressed at not playing. “I was on 400 quid a week at Everton and went to two grand a week at Southampton. I was paying £1,100 a month for a flat I didn’t need and eating in restaurants just to spend the money. Even if I trained well I wasn’t going to play.”

Released in summer 2010, Molyneux was out in Liverpool city centre and after a 15-hour drinking spree got into a fight over a taxi and was accused of wounding with intent. He woke up in a cell, remembering little. When shown CCTV footage he was horrified.

He didn’t tell anyone he was in trouble except his mum, not even Peter Reid, who signed him for Plymouth, where he started well but lapsed into drinking habits as anxiety built before his trial. Pleading guilty, in January 2011 he went down. Jail? “The first few months were tough but I did a lot of reading. I got a job in the gym. I cleaned it, then could have a workout. I lived on tuna and porridge. I tried to look on it as rehab — ‘I’ve been injured and I’m going to get myself fit’.

“I was scared no club would touch me again and I owe Accrington, especially Paul Cook and Leam Richardson [the previous and current manager.]” What would he tell his pre-prison self? “I’d give that lad a kick up the a***. I’d say live your life properly. It’s a short sacrifice to get what you want out of the game.

“The cliche ‘I wish I’d known then what I know now’ is true. Life’s about learning from your mistakes.”

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SPY CALCIO di FULVIO BIANCHI (Repubblica.it 24-03-2013)

Figc, la resa dei conti

e le due poltrone di Lotito

L'attivissimo, sin troppo secondo alcuni, Claudio Lotito ora punta a due poltrone: la carica di vicepresidente della Figc e un posto nel comitato di presidenza, sempre della Figc. La decisione il 5 aprile: il consiglio federale, due preferenze per ogni membro, dovrà decidere. Per i due posti di vicepresidenti Figc (prima erano tre) si sono fatti sotto ufficialmente sinora solo Albertini e Tavecchio, ma si sa che alla carica aspirano anche Lotito, appunto, e Macalli. Lotito si sente forte perché in Lega a Milano è riuscito a mettere in minoranza club come la Juve, l'Inter e la Roma. Beretta, il presidente, si è già fatto da parte: troppi impegni (è anche top manager di UniCredit) per occuparsi pure della Figc. E così Lotito si è fatto sotto: ma che ne pensano gli altri presidenti? Albertini non si arrende e pensa di avere buone possibilità di essere riconfermato (ha lavorato bene in questi anni, rilanciando il Club Italia): ma il sistema elettorale non lo favorisce, soprattutto se le Leghe faranno un patto fra loro (cosa possibile). Inoltre il sindacato calciatori, Aic, che "sponsorizza" Albertini, sostiene che mai la Lega di serie A (prima serie A e B) ha avuto un suo vice in Figc e che sarebbe assurdo toccasse addirittura ad un presidente di club, Lotito appunto. Tra l'altro il patron di Lazio e Salernitana ha scarso feeling (eufemismo) con il presidente Giancarlo Abete e di recente ha ricoperto di insulti Andrea Abodi, presidente della Lega B, che certo non voterà per lui. Per quanto riguarda invece il comitato di presidenza, sono solo due i posti a disposizione delle Leghe professionistiche e i candidati sono tanti: oltre al solito Lotito e a Beretta, ecco anche Macalli e Abodi. Ci sarà battaglia anche lì. E questa situazione di (quasi) stallo ha impedito ad Abete di iniziare quel percorso di riforme quantomai urgente. Basta pensare alla giustizia sportiva e alla fine che hanno fatto i processi del calcioscommesse, con tagli, patteggiamenti, ribaltamenti, se non colpi di spugna, che lasciano sconcertati. Intanto, molti membri del Consiglio federale "spingono" perché venga esaminato il caso Salernitana: secondo le norme attuali Lotito non può essere proprietario di due club, Salernitana e Lazio. Dovrebbe cederne uno: quale?

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De Laurentiis attacca la Juventus: "Ha vinto grazie a Calciopoli

Alessandro Pignatelli - sportemotori.blogosfere.it - 24-03-2013

Aurelio De Laurentiis attacca la Juventus. Rispolverando un vecchio refrain, che poi è il cavallo di battaglia degli avversari dei bianconeri. O, come dice Gigi Buffon, "l'alibi perfetto per chi non vince mai". Il presidente del Napoli, durante il varo della nave Msc Preziosa, ha detto: "La Juve è una grandissima squadra, ma ha passato anni in cui è arrivata settima o ha vinto in maniera non proprio diretta, come ha spiegato Calciopoli".

Insomma, gli effetti di quell'estate 2006 continuano a esserci. Nelle parole dei protagonisti. Di chi, in realtà, proprio da quelle sentenze ha ripreso linfa per tornare a conquistare qualcosa. E a parlare, ad attaccare i più forti.

Tra l'altro, se proprio vogliamo pesare le parole una a una, chi ha vinto in maniera non proprio diretta è casomai chi ha conquistato scudetti a tavolino e di cartone, chi ha subito solo una penalizzazione, riuscendo a entrare comunque in Champions, vincendola pure.

De Laurentiis, però, vuole solo attaccare chi gli sta davanti, con merito. Chi, nella storia, è sempre stato davanti al Napoli (tranne un paio di occasioni). E allora, facciamolo parlare fino alla fine: "Se Napoli e Milan fossero partite diversamente, ora la Juve non sarebbe dov'è". Ma in un campionato i punti si fanno fin dalla prima giornata e poi si sommano. Chissà se a De Laurentiis lo hanno spiegato...

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