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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Lo Juventus Stadium è un luna park

Asilo nido, giochi e sorrisi

Così si attraggono le famiglie

Marco iair - Gasport -22-12-2012

Viaggio da tifoso a Torino nell'unico grande stadio di proprietà di un club in Italia: la struttura è avveniristica, ma colpiscono soprattutto gli intrattenimenti e i servizi.

Quando Andrea Pirlo disegna l'arcobaleno, il pubblico scatta in piedi e canta "i campioni dell'Italia siamo noi". E' il giorno perfetto a Torino: sole, atmosfera natalizia, vittoria facile facile sull'Atalanta, ennesimo show dei bianconeri. Ma per l'"intruso", seduto al posto 8, fila 28 del settore 115, lo spettacolo è un altro: uno stadio-modello, l'unico di proprietà di una società di calcio professionistica (dopo l'esperimento fallito del Giglio di Reggio Emilia), dove si vede la partita e si fa molto altro. Archiviata la trasferta londinese nello stadio dei sogni dell'Arsenal, ecco il viaggio a Torino, nella nuova casa della Juventus, per capire se davvero un altro futuro è possibile per il calcio italiano.

BUROCRAZIA — L'inizio dell'avventura non è benaugurante. Provo ad acquistare il biglietto nella vendita libera. Niente da fare: essendo residente in Lombardia sono costretto a esibire la tessera del tifoso che non ho. Eppure per Arsenal-Swansea, dall'Italia, non ho fatto altro che dare gli estremi della mia carta di credito. Questa esperienza da tifoso, quindi, non sarebbe stata possibile se la Juventus non avesse staccato un tagliando omaggio di Tribuna Est, superando l'impasse burocratica. Unico strappo alla regola. Due ore e mezzo prima del fischio d'inizio, la domenica di pallone comincia da Porta Susa. Metro fino a Bernini, poi il tram 9, attivato appositamente per le partite della Juve. E' l'anticamera dello stadio: sciame di cappelli e sciarpe bianconeri, con quel miscuglio di accenti a ricordare che Torino è città d'immigrazione. In meno di mezz'ora si arriva al capolinea, un chilometro a piedi per raggiungere l'impianto. Quante persone per una partita di scarso richiamo. Vabbé, torna Conte in campionato davanti al suo pubblico, ma i 38mila sono comunque tanti. Dopo i 21 sold out su 23 partite della stagione inaugurale e i ricavi da stadio quasi triplicati rispetto all'Olimpico (da 11,6 a 31,8 milioni), i 27.400 abbonati di quest'anno, in crescita a dispetto dei prezzi aumentati, fanno capire quanto renda un nuovo stadio. No, non c'entra solo la bella architettura. Bisogna dare anima alle cose. Ed è ciò che colpisce qui.

FUORI — Il museo, aperto pure il giorno della partita, è una tappa obbligata: da quando è stato inaugurato, a maggio, ha catturato oltre 90 mila visitatori. La sala dei trofei, gli ologrammi di Trapattoni e Lippi a discettare di tattiche e successi, la foto-ricordo con la coppa campionato 2011-12 tra le mani, la processione davanti alla collezione di maglie, da Combi a Buffon. E un papà che, ammirando i reperti degli anni Trenta, racconta al figlioletto il calcio che fu. Prima la storia, ora lo shopping. Area 12 è un centro commerciale con 60 negozi. Cedendo questi spazi a Nordiconad la Juventus ha finanziato per 20 milioni il suo progetto da 150 complessivi (60 sono arrivati dal Credito sportivo, 75 da Sportfive per i naming rights). Domina lo store della squadra, preso d'assalto: code sterminate per personalizzare la maglia o le scarpe.

DENTRO — Manca un'ora al via, è arrivato il momento di varcare i cancelli. Una piccola via crucis. Un primo controllo con in mano carta d'identità e biglietto, quindi lo steward che ti perquisisce invitandoti a disfarti di bottiglie di plastica, accendini o altro. La gente procede con ordine, rassegnata. Finalmente si passa il tornello. E si entra nel luna park. Un impianto a misura di famiglie, una gamma di intrattenimenti e servizi da fare invidia agli stadi inglesi e tedeschi. C'è il baby park dove i genitori possono lasciare i figli tra i 3 e i 6 anni; c'è il make up per truccarsi il viso di bianco e di nero; c'è la scuola di tifo che ti aiuta a disegnare e colorare lo striscione; ci sono le animatrici vestite da stelle (tre, guarda un po') che attirano i più piccoli per farsi fotografare; c'è il karaoke dove si canta l'inno della Juve, magari trasmesso sui maxischermi all'intervallo. Non sembra affatto di stare in Italia. Tutto è friendly, pure i chioschi con i carrelli delle caramelle.

ESPERIENZE — Visto che Natale è vicino, i bambini possono scrivere gli auguri per i loro idoli, come fa Giulio, 10 anni di Pavia. Papà Dino racconta: "I tifosi sentono che questa è la loro casa. Ho un altro figlio di 14 anni che va da solo in curva. Mi sento tranquillo, sennò non lo manderei". E Giulio aggiunge: "Qui non serve il binocolo per vedere i giocatori". Il tempo scorre veloce. Puntatina a un ristobox, con sorpresa: si può consumare un piatto caldo. Penne all'amatriciana, costo 5 euro, non sono affatto male. Un signore addenta un bigné alla crema. "Io e mia moglie Stefania - dice Luciano - andiamo allo stadio assieme da 10 anni, veniamo da La Spezia. Rispetto al Delle Alpi o l'Olimpico, qui è tutta un'altra cosa. È un'esperienza che si vive pienamente". Vado a occupare il mio posto in tribuna. Aveva ragione Giulio: il campo è così vicino da poter distinguere chiaramente le facce dei giocatori. La visione della partita è coinvolgente, il tifo rimbomba. Magari sui maxischermi potrebbero scorrere i replay delle azioni più importanti. Ma va bene così.

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"Tra shopping e museo lo stadio è adatto a tutti"

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I NUMERI 41 mila i posti a sedere dello Juventus Stadium. Ci sono 4 mila posti auto, 21 bar, 8 aree di ristorazione. Fuori il museo e il centro commerciale.

7,5 metri di distanza tra il campo e la prima fila di posti 2002 l'avvio dell'iter per il nuovo stadio, con l'approvazione a dicembre della variante al piano regolatore del Comune di Torino. Lo stadio viene inaugurato nell'agosto 2011.

150 milioni il costo complessivo del progetto, inclusi 25 milioni per diritto di superficie di 99 anni del vecchio Delle Alpi e 15 milioni per migliorie progettuali e la costruzione del Museo della Juventus.

21 le partite con il tutto esaurito sulle 23 totali della scorsa stagione, la prima per lo Juventus Stadium

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l'opinione

FUMATA NERA IN LEGA CAGLIARI-JUVE A PARMA

ALTRI SEGNALI DI DECLINO

di Antonio Maglie - Corsport - 22-12-2012

Nelle ultime quarantotto ore sono accadute due vicende in qualche misura significative dello stato di salute non del calcio italiano ma del suo governo (a livello collettivo e di singole società): il fallimento dell'assemblea elettiva in Lega, la celebrazione di CagliariJuventus a Parma. Due vicende che si legano e spiegano perché mai gli investitori stranieri, i ricchi emiri vadano ovunque ma non in Italia. Il fallimento dell'assemblea elettiva a Milano è stata anticipata da una bizzarra dichiarazione di Adriano Galliani: non c'è battaglia perché In fondo il presidente dell'organismo conta poco, è titolare di poteri scarnificati, ridotti all'osso. Ma non era stato detto dai presidenti che il divorzio dalla serie B era propedeutico alla creazione di una Lega sul modello della Premier, non un circolo della caccia (a volte all'uomo) ma una super-azienda in grado di valorizzare il brand come viene chiamato dai manager In gessato d'ordinanza e telefonini trasformati in un prolungamento della tromba d'Eustacchio? Conta cosi poco quella poltrona che le società sono riuscite a dividersi replicando una pochade che periodicamente va in scena a via Rosellini da almeno quindici anni. Auguri. Eppure il calcio di una Lega seria e di un presidente un po' più che ornamentale di un ficus benjamin, avrebbe decisamente bisogno. Cagliari-Juventus a Parma, cioè lontano dalla sua sede naturale (uno schiaffo in faccia ai tifosi sardi, anzi più d'uno perché i responsabili di questa incredibile vicenda sono tanti anche se, come spesso capita in Italia, nessuno accetta di fare un minimo di autocritica). La Serie A è a un passo dal diventare la Cenerentola tra i grandi campionati europei, un declino a cui i presidenti non hanno semplicemente assistito, ma hanno volenterosamente partecipato. Cellino ha lanciato i suoi strali contro la Juventus, rea di non essere stata sufficientemente elastica. Ma lui ha messo il Cagliari e se stesso nelle mani di un sindaco che dopo essersi eclissato per un paio di giorni ha firmato con un certo ritardo un atto che avrebbe evitato questa ennesima e avvilente transumanza agonistica. Celiino avrà le sue buone ragioni, ma in qualche misura ha contribuito a «relegarsi. in una posizione di debolezza, quasi di ricattabilità. Le normative sulla sicurezza (e sull'ordine pubblico) sono tante e talmente complesse che oggi la realizzazione di uno stadio in tre mesi non è più possibile. Non sono più i tempi in cui Costantino Rozzi tirava su un impianto da quarantamila persone tra maggio e settembre (anche se poi a volte ci pioveva dentro anche quando il cielo era totalmente sgombro di nubi). In realtà Celiino è vittima di se stesso e di una Lega che avrebbe dovuto impegnarsi alacremente per far approvare la legge sugli stadi (e che, in effetti, è stata vicinissima all'approvazione) ma che al contrario ha finito per fare da cassa di risonanza agli egoismi presidenziali rallentando cosi gli iter e assistendo allo spegnimento della Legislatura più o meno come Nerone assisteva, di converso, all'incendio di Roma (manca la cetra ma si può sempre chiedere aiuto ad Apicella e alla sua chitarra). Una Lega vera l'occasione non solo non l'avrebbe persa ma l'avrebbe pure promossa, la Lega illustrasta da Galliani l'ha sprecata per eccesso di interessi personali.

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LA B SI VEDE IL28 MA ASPETTA LA A

Simonelli: «lo sono la novità»

Abodi ricomincia da 11 voti

Matteo Brega - gasport - 22-12-2012

E adesso cosa succede alla Lega di Serie A e a quella di B? Dopo tre turni di votazioni per l'elezione del nuovo presidente della massima categoria, la corsa si è cristallizzata su questi dati: 11 voti per Andrea Abodi, 6 per Ezio Maria Simonelli, uno per Maurizio Beretta (numero uno uscente) e una scheda bianca. Si tornerà a votare 1'11 gennaio. Ma in questo lasso di tempo i due candidati - Abodi e Simonelli - continueranno a tessere i rapporti con chi li ha votati e, soprattutto, con chi ha votato per l'avversario. Il fronte degli 11 club schierati con Abodi, a partire dalla Juve, continuerà a sostenerlo: è convinto che il quorum di 14 si può raggiungere. Simonelli ieri è tornato a parlare della sua candidatura: «Io non rappresento il vecchio e non sono legato a consolidate logiche di sistema. Se i presidenti della Serie A riterranno di voler far guidare la Lega a una persona che ha costruito il suo percorso nei mercati finanziari e industriali e che conosce i numeri e i meccanismi economici del calcio, la scelta non potrà che ricadere su una persona del mio profilo». Intanto è stata convocata l'assemblea di B per il 28. Non sarà un'assemblea «svuotata» di contenuti perché i presidenti intendono assolvere a tutti i compiti entro il 31 dicembre sia per i bilanci sia per le varie scadenze. Però è altrettanto certo che l'elezione del nuovo presidente verrà rinviata a gennaio, a stretto giro di posta rispetto a quella della A. Anche se il pensiero di Abodi è differente: «Chiederò che il 28 si voti per l'elezione del nuovo presidente - spiega -. Non vorrei che fosse messa in discussione la credibilità della Lega di B». I club cadetti non lo ascolteranno: si voterà dopo I'll di gennaio ma prima del 14, giorno dell'assemblea federale per votare il numero uno della Figc.

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• LEGA A: LE ELEZIONI

Simonelli all'attacco

«Non sono il vecchio»

STEFANO SCACCHI - Tuttosport - 22-12-2012

Punzecchiature tra i due candidati che torneranno a contendessi la presidenza della Lega Serie A l'l1 gennaio dopo la fumata grigia di giovedì: Andrea Abodi (11 voti) ed Ezio Maria Simonelli (6 voti). .Progetti, non promesse., aveva detto l'ex presidente della Serie B che si fa forte di una maggiore esperienza da dirigente calcistico e si presenta come esterno alle dinamiche di potere propie di alcuni dub. -Non rappresento il vecchio - replica Simonelli - e non sono legato a logiche di sistema Anche se non mi sono mai occupato della politica del pallone, conosco a menadito numeri e meccanismi economici del mando del calcio. L'accordo su programmi e non promesse. Infartti, unico tra i candidati, ho presentato il mio programma. Se la Lega cerca un soggetto altamente qualificato e organico al sistema, credo che Abodi sia (dopo Beretta) la persona più adatta-. Ieri è stata convocata l'assemblea elettiva della Lega Serie B: venerdì 28 dicembre a Milano. I papabili sono il vicepresidente Salvatore Gualtlieri (Crotone), il dg Paolo Bedin e il dirigente Figc Michele Uva.

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Botta e risposta Abodi-Simonelli

Lega di A: la battaglia è aperta

Corsera -22-12-2012

ROMA — Scambio di idee fra Macalli (Lega Pro) e Tavecchio (Dilettanti), per la nomination del presidente Figc. Hanno preso tempo nel ricandidare Abete, attratti dalle sirene di chi si sta muovendo nell'ombra e chiedendo «un forte segno di riforma». Resta in ballo l'elezione del presidente della Lega di A. Simonelli ha risposto ad Abodi: «Non rappresento il vecchio e non sono legato a consolidate logiche di sistema. Se la Lega cerca un soggetto altamente qualificato, organico del sistema è Abodi la persona più adatta». Lui si sente l'uomo del rinnovamento.

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La UEFA echa al Málaga de Europa

El club recurrirá al TAS la sanción de un año por

impago, que se cumplirá a partir del próximo curso

Si la entidad no paga antes del 31 de marzo, estará otro año más fuera de Europa

Los premios liberados de la ‘Champions’ se destinarán a pagar a Hacienda

por RAFAEL PINEDA (EL PAÍS 22-12-2012)

El Málaga vivía un día especial con la celebración de la comida de Navidad junto a la prensa. Por la mañana, el equipo había entrenado con normalidad y Manuel Pellegrini había ofrecido la lista de convocados y la rueda de prensa oficial de cara al partido de hoy (20.00, C+1) ante el Madrid, que ha concitado un inusitado interés en la afición del equipo andaluz, cuarto de la Liga, en octavos de la Liga de Campeones con una bonita eliminatoria por delante ante el Oporto y, de paso, con un pie en los cuartos de la Copa del Rey. Entre brindis y brindis estalló la bomba.

Con un comunicado en su web, la UEFA echaba al Málaga de Europa, al menos una temporada a partir de la próxima por impagos. Una decisión severa y enérgica del Comité de Control Financiero de Clubes traducida en los siguientes términos: el Málaga queda excluido de disputar la siguiente competición europea para la que se clasifique desde la próxima temporada y hasta la 2016-2017. Además, el Málaga será excluido otra campaña europea si no demuestra antes del 31 de marzo que ha pagado las cantidades que debe a otros clubes, empleados y cualquier autoridad tributaria, tal y como establece el reglamento de Juego Limpio Financiero de la propia UEFA.

El organismo multa al equipo también con 300.000 euros, aunque da algo de oxígeno a la entidad andaluza al liberarle el dinero conseguido en premios a lo largo de su fantástica campaña en la Liga de Campeones, donde el Málaga ha conseguido alrededor de 17 millones de euros.

La UEFA ya había avisado a la entidad, que emprendió en verano un proceso de reestructuración interna debido a que el propietario del Málaga, el jeque AlThani, se había cansado de hacer grandes aportaciones, una gigantesca inversión desde que adquirió el club en 2010 y que fuentes del propio Málaga cifran en torno a 200 millones. Los problemas de impagos habían comenzado antes, la primavera pasada.

El Málaga no ofrece datos de sus deudas, pero distintas fuentes calculan que debe alrededor de 12 millones de euros a Hacienda y en torno a nueve millones a su plantilla de la temporada pasada. Hacienda le embargó en verano los ingresos televisivos y por traspasos mientras llegaba a un acuerdo. A lo largo de los últimos meses, el club ha ido luchando en múltiples frentes para taponar agujeros, pero no ha podido llegar a un acuerdo con la Agencia Tributaria. La UEFA ha decidido asestar un golpe demoledor al considerar que, si bien la situación ha mejorado, han sido muchos los meses en los que ha competido con deudas en Liga de Campeones. El 11 de septiembre retuvo los premios monetarios logrados por el Málaga y, aunque el 30 de noviembre se los liberó a otros equipos, como el Atlético de Madrid, mantuvo el embargo de estos ingresos al equipo andaluz.

El Málaga no es el único castigado ayer por incumplir con las normas financieras de la UEFA, pero sí el que recibe el castigo más duro, y es el único que juega este año la Champions y el único también que no forma parte de una Liga del Este. Junto al equipo andaluz fueron sancionados siete clubes de Croacia, Rumanía, Serbia y Ucrania, como el Hadjuk Split y Dínamo de Bucarest. Fuera de Europa la próxima temporada, al Málaga se le abre un camino muy incierto. La entidad reaccionó con rapidez con un comunicado en su página web. “El Málaga Club de Fútbol quiere comunicar su total desacuerdo con la resolución emitida por la UEFA, considerando que las medidas que pretende adoptar contra la entidad de Martiricos son absolutamente desproporcionadas e injustificadas en relación a la situación del club, al que, según interpreta la propia entidad, se le quiere aplicar un injusto castigo ejemplarizante que convierta al club en cabeza de turco”.

La entidad andaluza tiene previsto recurrir la decisión del organismo europeo ante el Tribunal de Arbitraje Deportivo (TAS). “Ante la total y absoluta indignación y consternación en el seno de la entidad, el Málaga Club de Fútbol quiere manifestar que trabajará enérgicamente y sin descanso hasta conseguir que se haga justicia, recurriendo con firmeza a todos los organismos que sean necesarios”, añade el comunicado.

El Málaga también anunció ayer que el compromiso de la propiedad con el club sigue siendo fuerte y desveló que el jeque Al-Thani acaba de realizar un ingreso de siete millones en las arcas malaguistas. Al mismo tiempo, aclaró que la liberación de los premios obtenidos en la Liga de Campeones le permitirá alcanzar un acuerdo con Hacienda. También explicó el Málaga que los pagos de los traspasos y a los jugadores se están cumpliendo según lo acordado. “Que nada de lo que ocurra nos distraiga de lo importante, el partido con el Madrid”, señaló el meta Caballero en su cuenta de Twitter. El club, mientras, se dispone a luchar para darle la vuelta a la situación y confía en que el TAS le de la razón.

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La AMA cierra el laboratorio de Madrid tres meses

Un falso positivo no confirmado en el contraanálisis explica la sanción

Una muestra de orina analizada en agosto fue contaminada “por un error de un técnico”

La responsable de control de calidad del centro madrileño ha dimitido

por CARLOS ARRIBAS (EL PAÍS 22-12-2012)

La Agencia Mundial Antidopaje (AMA) comunicó ayer a la Agencia Estatal Antidopaje (AEA) que había sancionado con tres meses de suspensión para efectuar análisis antidopaje al laboratorio de Madrid, de ella dependiente. En una nota pública, la AMA, el organismo internacional responsable de acreditar los laboratorios antidopaje de acuerdo con las normas del estándar internacional para laboratorios, no explica las razones de la sanción, que comenzó a cumplirse ayer mismo, 21 de diciembre. La directora de la AEA, Ana Muñoz Merino, ha aceptado, por ello, la dimisión de la responsable de control de calidad del laboratorio.

Según la AEA, el problema que ha desembocado en la suspensión se produjo en agosto cuando el contraanálisis de una muestra positiva no confirmó el resultado. Después de una investigación interna en el propio laboratorio madrileño, un segundo análisis de la muestra, se llegó a la conclusión de que en el proceso se había producido una contaminación en la muestra de orina con otra precedente que contenía una elevada concentración de una sustancia prohibida “como consecuencia del error de un técnico de laboratorio”, explica la propia AEA en un comunicado.

“Este hecho provocó que el laboratorio informara de un caso adverso en la muestra A al deportista y a su federación”, continúa el comunicado de la AEA. “Al no verse ratificado el resultado en el contraanálisis, y al reconocer el centro el error, no se siguió procedimiento sancionador contra el deportista”. Aunque el resultado contradictorio se pudo observar en el sistema ADAMS, la red de información mundial antidopaje, fue el propio laboratorio de Madrid quien comunicó a la AMA la irregularidad, señalan las mismas fuentes, por las vías habituales y también por la vía exprés, mediante un correo electrónico.

La sanción de tres meses, la primera que sufre un laboratorio antidopaje en España, donde la AMA también tiene acreditado el de Barcelona, podría ser recortada. Para ello, los técnicos del laboratorio que intervinieron en el procedimiento irregular deberán hacer un curso, y aprobar un examen, y el mismo laboratorio y sus instalaciones deberán someterse a una auditoría externa para probar su fiabilidad y que actúa conforme a los estándares y a la norma de calidad ISO.

Según las estadísticas de la AMA, en 2011, el laboratorio antidopaje de Madrid analizó 7.197 muestras de orina, detectando sustancias prohibidas en 130 de ellas (un 1,81%).

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NATURALIZZAZIONE FORZATA

I gol di Chimba piacciono all’Iran

ma deve diventare musulmano

Ahmadinejad vuole che giochi nella nazionale di Queiroz

O il brasiliano accetta o sarà costretto a lasciare il paese

di LUIGI GUELPA (Pubblico 22-12-2012)

In portoghese chimba è un termine che cerca un difficile compromesso su un duplice e imbarazzante significato. Può voler dire «geniale», inteso come slang di «fico», ma è anche l'appellativo, diretto e per nulla oxfordiano, dell'apparato genitale femminile. Per Luciano Pereira Mendes, 29enne attaccante brasiliano, l’apelido Chimba è un retaggio delle sue doti da fromboliere in area di rigore. Doti però così nascoste alle grandi platee che per vederle affiorare ha dovuto abbandonare la vita precaria ai confini dell’impero del calcio brasiliano (Sao Joao e Linense) e trasferirsi addirittura in Iran. Dove, per intenderci, forse sono all’oscuro del significato boccaccesco del suo soprannome. Dire a questo punto che il presidente iraniano Ahmadinejad si sia innamorato di Chimba (al maschile) è pertinente, non è affatto blasfemo e soprattutto non intacca la morale imposta dal Corano. Calcisticamente parlando il padre-padrone dell’Iran vorrebbe assegnare un passaporto a questo centravanti brasiliano originario di Salvador de Bahia, per offrire la possibilità al ct Carlos Queiroz di poterlo schierare nelle gare decisive di qualificazione ai mondiali del 2014.

L'Iran sta attraversando uno dei momenti più delicati della sua storia. È alleata del dittatore siriano Al Assad (che potrebbe trovare proprio a Teheran un vitale salvacondotto), ha pessimi rapporti diplomatici con l’occidente, degenerati dopo le repressioni dell’Onda Verde (il movimento d’opposizione che fa capo all'intellettuale Hossein Moussavi) e non sa più come mascherare quella corsa al nucleare che terrorizza soprattutto Israele. Un’affermazione sportiva servirebbe a stemperare i contrasti. L’establishment di Teheran è concorde nel ritenere la sfera di cuoio un veicolo pubblicitario di inestimabile valore. Pilotare la squadra di calcio fino alla Coppa del Mondo in Brasile è diventato un imperativo categorico. A costo di ricorrere a qualche mezzuccio che non ha parentele con il fair play.

Ed è qui che entra in scena Chimba, che interpellato dalla stampa locale si è espresso con un certo entusiasmo. «Sarebbe davvero qualcosa di simile a un romanzo giocare per l’Iran e partecipare, da brasiliano, ai Mondiali che si disputeranno nel mio paese. Non mi sentirei affatto un traditore. Menezes e Scolari non pensano certo a me». Insomma non avrebbe alcun problema a ripudiare «Ó Pátria amada!» per cantare, studiando un po’ di idioma farsi, il più inquietante «sangue dei nostri martiri». Purtroppo però se la burocrazia non sembra originare ostacoli, è la spiritualità che rischia di mandare in fumo le pratiche di naturalizzazione. Ahmadinejad è stato chiaro, «ogni cittadino della repubblica islamica dell’Iran deve professare la religione musulmana e comportarsi da perfetto devoto». Una nota stonata per Chimba, che non solo è cattolico praticante, ma che in passato ha anche aderito agli Atletas de Cristo, congregazione tra lo sportivo e il religioso fondata negli anni Ottanta dal connazionale Baltazar e che trova tutt’oggi l’adesione di campioni verdeoro del calibro di Kakà e Felipe Melo.

Chimba sta prendendo tempo, cerca un compromesso, ma nel frattempo continua a segnare a raffica con la maglia del Foolad, club di Ahwaz (a pochi passi dallo stretto dello Shatt Al Arab), appassionando gli oltre 50mila spettatori che accorrono al Ghadir Stadium per vederlo all’opera. Di fatto il Foolad è una piccola succursale brasiliana. Oltre a Chimba ci giocano anche il difensore centrale Padovani e il centrocampista Andrezinho, tutti calciatori che in Brasile hanno vissuto esperienze modeste in una sorta di favelas del futebol bailado. Anche il preparatore atletico Fabio Roger è originario di Fortaleza. Per questa minuscola e colorata comunità sudamericana l'Iran è un piccolo sogno americano. Senza voler creare incidenti diplomatici, con ingaggi da 250mila dollari a stagione, si può davvero vivere in maniera piuttosto agiata anche in un paese che sembra pronto ad esplodere politicamente da un momento all'altro. Chimba però ha preso coscienza di trovarsi a un bivio: conversione o ritorno a casa? Alternative all'orizzonte non se ne intravedono. Un eventuale rifiuto infatti verrebbe interpretato come offesa personale ad Ahmadinejad, che ha inviato il presidente della federcalcio Ali Kafashian ad Ahwaz a risolvere una volta per tutte la questione. «Credo che tutto verrà sistemato - spiega Kafashian - ci sono però delle regole che vanno rispettate». In caso contrario Chimba dovrà preparare la valigia nonostante sia diventato l'idolo del Foolad.

La nazionale iraniana, il “Team Melli” - secondo l’idioma farsi - non è nuovissima a trasfusioni di sangue straniero. Di recente è entrato a far parte della selezione, guidata dal portoghese Queiroz, il centrocampista Ashkan Dejagah, tedesco di padre iraniano. Non un calciatore qualsiasi, ma addirittura l'ex capitano della Germania Under 21. Depennato da Joachim Loew per essersi rifiutato di giocare un’amichevole contro Israele a Tel Aviv. Motivazioni che lo hanno trasformato in un piccolo eroe per l’Iran e in un riferimento sportivo per Ahmadinejad assetato più che mai di populismo.

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SOGNARE E GIOCARE

IL FUTURO È IN UN SORRISO

di ALESSANDRO FIESOLI (IL GIORNO 22-12-2012)

C’è una partita senza fine, giocata nel mondo, in cui l’unico gol che conta è il sorriso di un bambino. Giocano ovunque, nel loro stadio immenso fatto spesso di nulla, se non di fantasia, i bimbi. Giocano in Mauritiana, come nella foto, in ciabatte. Nei campi profughi di Port-au-Prince. Vicino ai cimiteri di Kabul. Sotto le bombe. Ha scritto Galeano: ci sono paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio. Kofi Annan, da segretario Onu, rivendicò il «diritto di tutti i bambini al divertimento e al gioco», e aggiunse: «La passione per il calcio riguarda moltissime vite». L’Onu ha 193 paesi membri. La Fifa, 209. Quante vite, coinvolge il calcio? Una platea di due miliardi, alla tv, per la finale del mondiale 2010, a Johannesburg. A un chilometro dal grande stadio, nella township di Alexandra, nello stesso giorno un centinaio di ragazze e ragazzi, strappati alla violenza, si sfidavano su un campo polveroso. Andammo a vederli. E non era difficile capire dove fosse, in quel primo mondiale africano, la vera magia della notte della finale. Sogni anche scippati. Per un Drogba o un Eto’o, ci sono ventimila ragazzini africani presi nei loro villaggi, portati in Europa dagli scafisti del calcio e spesso abbandonati. Ne hanno fatto anche un film, il “Sole dentro”. C’è una poesia, che si chiude così: «Nel mio sogno vedo che i bambini africani avranno la possibilità di riuscire un giorno a sognare». L’ha scritta un dodicenne, di professione soldato mercenario. La speranza in una vita migliore, comunque in una vita, legata anche a un pallone. Diceva Borges: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio».

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BETLEMME

Adam, il bambino

che sogna la pace

ABBANDONATO ALLA NASCITA, OSPITE IN UN ORFANOTROFIO, UNA

GRANDE PASSIONE PER IL CALCIO MA IL PICCOLO PALESTINESE È

PRIGIONIERO DEL CONFLITTO INTERMINABILE TRA DUE POPOLI

UN’ODISSEA INFINITA Senza documenti e senza cognome, non

può lasciare la città circondata dal muro israeliano né essere adottato

NEL VILLAGGIO SOS Chiuso in un limbo burocratico, sogna di

diventare un campione come Messi. E sorride solo quando ha un pallone

di LORENZO BIANCHI (IL GIORNO 22-12-2012)

LA LUCE del grande albero di Natale che sovrasta la piazza della Mangiatoia non illumina il futuro di Adam. Scriviamo solo il nome, non per vezzo e neppure per scelta. Adam non ha cognome. “E come se non esistesse”, sintetizza crudamente padre Ibrahim Faltas, il parroco latino-cattolico di Gerusalemme, noto al mondo per i 39 giorni di assedio israeliano alla Basilica della Natività nella quale nel 2002 si erano rifugiati 242 miliziani palestinesi, un frangente che si concluse senza spargimento di sangue grazie alle sue doti di acuto negoziatore. Il 15 settembre 1999 i genitori hanno lasciato Adam vicino all’orfanotrofio di Betlemme, la “Crèche” delle Figlie della Carità di San Vincenzo De’ Paoli. Purtroppo succede spesso che madri e padri disperati depositino i neonati vicino alla porta, avvolti in coperte o adagiati in una scatola di cartone con un biberon vicino. Nessuno lo ha più cercato.

NELL’ORFANOTROFIO sono ospitati una sessantina di piccoli. La struttura di accoglienza è all’interno dell’ospedale fondato nel 1895. Per volere della superiora Sophie Bouery, di origini libanesi, avvicendata in gennaio dalla francese Elizabeth Noiret, gli ospiti frequentano un asilo esterno, assieme ai coetanei di Betlemme. Sophie voleva giustamente creare ponti e occasioni di “normalita” ai suoi senza famiglia. Le suore che lo hanno conosciuto descrivono Adam come “un piccoletto sempre triste, che però ha sempre mangiato con impeto”. Molti ospiti sono assistiti da progetti di adozione a distanza. Fra i più importanti quelli di “Impegno Medio Oriente” e il “Progetto sorriso” di San Marino. All’età di sei anni Adam viene spostato nel vicino “Villaggio Sos”, una dozzina di casette a circa dieci minuti di cammino dalla “Créche”, al massimo otto bambini per appartamento seguiti da una “mamma”, un’assistente sociale palestinese. Il passaggio per il piccino senza nome di famiglia non è semplice. Si chiude in se stesso, a volte è aggressivo. Sorride solo quando gioca a calcio.

NEL FRATTEMPO il vulcanico Faltas si è inventato il progetto “bimbi senza confini”, un torneo fra le squadre della zona, anche quelle israeliane. E’ un modo per allontanare i bimbi dalle strade, per sottrarli ai tentacoli della droga e dell’alcool, per insegnargli che nella vita esistono regole che debbono essere rispettate. Ma è anche un sistema per bucare la claustrofobia del muro di separazione da Israele, la barriera che circonda Betlemme su tre lati. Adam incontra la sua passione. “Si allena per ore – si intenerisce il parroco di Gerusalemme – sogna di fare il calciatore, Messi (ndr. l’asso del Barcelona) è il suo idolo”. Ogni estate i giocatori in erba di Betlemme vengono portati in Italia per uno stage estivo. Nel luglio del 2011 toccherebbe anche al piccolo appassionato del football che vive nel “Villaggio Sos”. Un cronista gli ha già dedicato un reportage dal titolo altisonante, “il sinistro di Adam”. Ma le porte del muro per lui non si aprono. Non ha un cognome e neppure un’identità. Gli mancano i requisiti minimi per avere, come gli altri palestinesi, una sorta di carta di identità, il “documento di viaggio” indispensabile per andare all’estero. Il bimbetto, che ora ha tredici anni, è un signor nessuno. Non può neppure essere adottato, a meno che qualcuno dei suoi protettori non abbia un fantastico e ardito colpo di fantasia per mandare in frantumi il limbo burocratico nel quale è rinchiuso.

NELLA SUA stanzetta le luci del Natale, il grande cipresso alto dieci metri illuminato da festoni di lampadine rosse e gialle dal 15 dicembre, non portano un riflesso di speranza. A Betlemme, dopo gli otto giorni dell’operazione “Colonna di nuvole” contro Hamas a Gaza e i lanci di razzi arrivati fino alla periferia sud di Gerusalemme, si preannuncia un Natale sotto tono. L’anno scorso arrivarono 140 mila turisti, un flusso provvidenziale di denari. “Purtroppo – ammette Carmen Ghattas, portavoce della municipalità – sono state cancellate molte prenotazioni. Questo inciderà sulla situazione economica di tutti i concittadini”. E Adam deve aggrapparsi solo a un esile filo di speranza e al culto del suo Leo.

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La Ġazzetta dello Sport 22-12-2012

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SPORTWEEK | 22 dicembre 2012

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INGHILTERRA

Hillsborough, la verità

riapre indagini e ferite

Ventritré anni dopo la tragedia di Sheffield, l’Alta Corte

di Giustizia di Londra ordina una nuova inchiesta

A settembre le scuse di Cameron dopo il rapporto sulle colpe della polizia

Il governo sosterrà le spese legali dei familiari delle vittime nel nuovo processo

Morirono 96 tifosi del Liverpool, 41 avrebbero potuto essere salvati

di LUCA MANES (Pubblico 23-12-2012)

Le hanno collocate accanto al cancello di accesso all’Anfield Road che reca la celeberrima scritta «You’ll never walk alone». Sono le due lastre di marmo che rendono omaggio ai 96 tifosi del Liverpool che il 15 aprile 1989 persero la vita in una delle più spaventose e assurde tragedie della storia dello sport. Accanto ai nomi c’è scritta l’età: 14, 15, 17, 18, 19, 21. Numeri che ti colpiscono con la violenza di un pugno allo stomaco. A rimanere schiacciati sulle gradinate della Leppings Lane dell’Hillsborough, l’impianto dello Sheffield Wednesday, furono quasi tutti giovanissimi, accorsi nella città dello Yorkshire per sostenere i Reds di Dalglish e Rush nel match di semifinale di FA Cup contro il Nottingham Forest. Per 23 anni quei ragazzi non hanno ricevuto giustizia, mentre la loro memoria veniva infangata dalle autorità, pronte a scrollarsi di dosso in ogni modo i loro peccati.

Dopo due decenni di battaglie legali e di incessanti campagne promosse dai familiari delle vittime, la verità sta finalmente venendo a galla. A settembre il rivoluzionario rapporto della commissione indipendente sull’Hillsborough presieduta dal vescovo di Liverpool, James Jones, ha costretto il primo ministro britannico David Cameron a chiedere scusa alle famiglie dei tifosi del Liverpool scomparsi quel maledetto pomeriggio. Giovedì scorso l’Alta Corte di Giustizia di Londra ha spazzato via i risultati dell’indagine che nel 1991 aveva stabilito che quelle morti erano avvenute per cause accidentali. I giudici hanno di fatto avallato quanto scritto nel rapporto indipendente, chiedendo subito l’apertura di una nuova inchiesta e lodando l’impegno dei parenti delle vittime. Il governo si è impegnato a sostenere le spese legali del nuovo processo che dovrebbe cominciare la prossima estate.

Speriamo che questa volta gli inquirenti certifichino quanto un paese intero oramai sa: l’incidente fu causato da una cattiva gestione dell’ordine pubblico e dei soccorsi all’interno dell’impianto da parte della polizia, degli altri servizi di sicurezza e delle autorità locali, che poi si adoperarono per addossare la colpa di quanto accaduto ai tifosi. Non vanno inoltre tralasciate le malefatte dei dirigenti dello Sheffield Wednesday, il cui stadio aveva il certificato di idoneità scaduto da dieci anni. Per raccontare del dramma dell’Hillsborough bisogna riavvolgere il nastro del tempo fino al periodo più cupo della storia del calcio inglese. La violenza dei tifosi, che ebbe il suo culmine con i fatti dell’Heysel nel maggio del 1985, e l’inadeguatezza degli stadi e dell’intero sistema di gestione del football d’oltre Manica finirono per punteggiare di lutti un’epoca, quella dell'Inghilterra tutta tagli e privatizzazione dei governi guidati da Margaret Thatcher, di per sé già ricca di tensioni sociali.

Il «beautiful game» trovò il suo nadir proprio quel fatidico 15 aprile del 1989. Fin dal mattino l’autostrada M62 era un’unica lunga fila di macchine, il traffico era congestionato a causa di una serie di lavori in corso, per cui l’arrivo a Sheffield per moltissimi tifosi avvenne più tardi del previsto. In tanti allora si accalcarono a ridosso delle entrate dell’Hillsborough Stadium, mentre il servizio d’ordine latitava. Come se non bastasse, per accedere alla Leppings Lane, la gradinata destinata ai supporter dei Reds, c’erano solo sette tornelli.

In via del tutto ipotetica quel settore di Hillsborough avrebbe potuto contenere fino a 10mila tifosi, sebbene la suddivisione in sette spicchi recintati, voluta anni prima dalla polizia per controllare meglio i flussi della folla, avesse ridotto la capienza, contribuendo a creare delle specie di lugubri e gigantesche gabbie. Tuttavia questo elemento, allorché furono venduti i biglietti, non fu preso in considerazione. La gradinata iniziò a ingrossarsi come un fiume in piena, ma colpevolmente nessuno pensò a convogliare i tifosi lì dove c’era maggiore spazio e disponibilità di posti. Man mano che passavano i minuti in tanti finirono per essere schiacciati contro la rete di protezione. La trappola mortale era scattata. Nonostante la situazione già fuori controllo, le forze dell’ordine non trovarono niente di meglio da fare che chiudere una porticina che dava un minimo di accesso al campo, aperta in qualche modo da alcuni tifosi.

I poliziotti erano accecati dalla paura degli hooligans e inizialmente spinsero indietro i gruppetti di fan del Liverpool che erano riusciti a salvarsi entrando sul terreno di gioco, a partita iniziata da una manciata di minuti. Solo in un secondo momento un agente si rese conto dell’immane tragedia che si stava consumando davanti ai suoi occhi e facilitò l’ingresso in campo di decine di disperati, il cui intento era tutt’altro che bellicoso. Cercavano solo di salvarsi la vita. Qualcuno fu tirato su a braccia verso il secondo piano della Leppings Lane, evitando il peggio. Molti non ce la fecero, morendo soffocati in un magma infernale di corpi.

L’indagine indipendente ha accertato che se si fosse intervenuti in maniera più tempestiva forse potevano essere salvate 41 vite. Per celare la realtà dei fatti, quel giorno fu eseguita una sistematica alterazione dei verbali redatti dal personale addetto alle ambulanze e dagli agenti in servizio (si parla di ben 160 documenti falsificati). Furono cambiate ore, testimonianze, sparirono nastri delle telecamere dello stadio, insomma si fece di tutto per coprire quanto accaduto, tanto che pochi minuti dopo il dramma i vertici della polizia del South Yorkshire e il deputato conservatore Irvine Patnick erano già impegnati a far trapelare alle agenzie di stampa locali la notizia che erano stati i tifosi del Liverpool a provocare il disastro, vuoi perché ubriachi e violenti, vuoi perché in tanti erano entrati nel settore nonostante non disponessero dei biglietti. Nulla di più lontano dalla realtà, ma la notizia fu lo stesso subito ripresa dal tabloid The Sun con l’ormai tristemente celebre titolo di prima pagina «The Truth». Una verità falsa, che finalmente sta per essere sostituita da quella vera.

___

as color 18-12-2012

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Modificato da Ghost Dog

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il commento di TONY DAMASCELLI (il Giornale 23-12-2012)

TORNEO FALSATO MA I

FALSARI DOVE STANNO?

Uno spasso. Il calciopanettone italiano è davvero irresistibile, roba da nomination per l'Oscar, rispetto ai De Sica&Boldi degli ultimi anni. Mi verrebbero in mente i Soliti Idioti ma non voglio offendere Mandelli&Biggio.

Qui, nel cinematografo football nostrano, ci si scompiscia sul serio, senza bisogno di rutti, pernacchie o esibizione di tette e altre parti del corpo. Il cartellone della compagnia teatrale presenta comici di avanspettacolo ma di presa rapida, per tutti i gusti.

Riassunto delle ultime trasmissioni. Nelle primarie della Lega professionisti, per l'elezione del nuovo presidente, i delegati non riescono ad eleggere un capo e a trovare un accordo nemmeno per pagare il conto al bar. Tra l'altro, stando al tormentone quotidiano, dovrebbe trattarsi di un ritrovo di falsari, gente disonesta e scorretta, perché queste sono le denunce che fioccano come la neve di questo mese.

Pulvirenti fu il primo a lanciare il sospetto, anzi la certezza, dopo la partita con la Juventus e la gag del quartetto Cetra arbitrale: questo è un campionato falsato, bisogna intervenire. De Laurentiis, sodale suo ma del Napoli, ha sottoscritto la denuncia, dopo la penalizzazione in classifica inflitta alla squadra per i casi Giannello, Cannavaro, Grava: il torneo non è regolare, anzi è fasullo, basta con tutto e con tutti, da Blatter a Platini, escluso san Gennaro. Cellino, che non si fa mai mancare nulla, da Miami a Cagliari, ha aggiunto il proprio pensiero delicato ed illustre, con un tono tra il sarcasmo e il disprezzo, confortato dal curriculum eccellente. Il presidente del Cagliari ha accusato la Juventus di giocare con le stellette sulla maglia e di falsare il campionato in sodalizio con Lega e Istituzioni. Altre voci dal palcoscenico sfogano il loro disgusto ma restano attaccati al carro. Non risulta che gli stessi conati di vomito e denunce di falso siano avvenute in occasione delle vicende legate alle scommesse, laddove le partite sono state combinate, addomesticate, aggiustate e non dalla Lega o dal Sindaco o dai media.

Nel frattempo non si sono registrati interventi di Abete, che dovrebbe garantire la regolarità ai tavoli dei casinò.

Silenzio natalizio, con qualche vagito autunnale per confortare Moratti e altri lamentosi. Non posso dire di Beretta, già finito negli archivi senza aver lasciato traccia. Ma gli altri? Cellino, De Laurentiis, Pulvirenti, Moratti sono figli di Oscar Luigi Scalfaro, l'esimio che diceva «Io non ci sto!», dimenticando un dettaglio, cioè il posto dove lui stava seduto, così come i presidenti di cui sopra, pronti a battere cassa per distribuzione degli introiti

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IL PUNTO di MARCO ANSALDO (LA STAMPA 23-12-2012)

LEGA AL PALO SENZA IDEE NÉ FUTURO

Sappiamo che a chi piace il gioco, parlare della politica del calcio procura un accesso di orticaria eppure il benessere del football italiano non può prescindere dalle qualità di chi lo guida, esattamente come il Paese. Anche in questo caso viene da dire che stiamo messi male. Il peggio lo esprime la Lega di serie A che dovrebbe pilotare il vertice del movimento, cioè il traino economico e di immagine dello sport più importante e del fenomeno più trasversale della società italiana. Il motto recente della Lega è «In lites, postponere», in cui si concentra l’essenza di uno tra i suoi esponenti di prestigio: il laziale Lotito.

Non si decide nulla. Si litiga sempre. Giovedì si doveva eleggere il nuovo presidente e il giorno è arrivato senza che si fosse trovata una linea comune: se ne riparlerà a gennaio, con ottime probabilità che si rinvii ancora lasciando la palla all’attuale presidente, Maurizio Beretta, che doveva lasciare la poltrona quando assunse un incarico all’Unicredit, banca che era (e qualcuno dice lo sia ancora) proprietaria della Roma. Sono passati 21 mesi e Beretta è ancora in attesa del sostituto. Nel frattempo, sotto la sua impalpabile guida, la serie A è rimasta in balia dei presidenti più rissosi per cui non c’è riunione che produca una scelta. Non c’è una strategia per portare nuovi introiti ai club, né per arginare la fuga dagli stadi. Non c’è un piano per il futuro dei diritti tv, perché dubitiamo che i network manterranno gli stessi investimenti con il prodotto che hanno. Mancano un marketing efficace, una comunicazione decente, un sistema che riporti nelle casse una parte dei milioni lasciati «in toto» alle società di scommesse. Si naviga a vista. L’esempio dello stadio di Cagliari che ha l’agibilità a domeniche alterne, come la circolazione delle auto quando sale la soglia dello smog, è grottesco. Un’organizzazione che gestisce un campionato professionistico di alto livello doveva pretendere chiarezza fin dall’inizio. Is Arenas ha i requisiti necessari? Si gioca. Non li ha? Non si gioca e non si lamenti il Cagliari se non è stato in grado di dotarsi di una struttura adeguata. Invece la Lega ha demandato la soluzione del problema a un sindaco, a un prefetto, a Cellino, magari al custode del campo, arrivando all’assurdità di stabilire il mercoledì la sede di una partita che si gioca due giorni dopo. Che capolavoro.

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BREAKING POINT

Jose Mourinho cannot afford a

defeat by Manchester United

if he is to survive at Real Madrid

by JOHN CARLIN (THE SUNDAY TIMES 23-12-2012)

Manchester United are much more than the sum of their parts this Christmas; Real Madrid, their Champions League opponents in February, much less. Player by player Real are far the better team. Four Spanish World Cup winners, the best of France, the best of Germany, plus Cristiano Ronaldo. Put them all on the market and they’d fetch at least double the price of the United players. But if football, as they say in Spain, is a state of mind then United look a better bet than the bookmakers, who overwhelmingly favour Real, have chosen to believe.

A lot can change in football in a week. A lot more could change in the seven weeks between now and the most tantalising fixture the European season has yielded so far. But today Real are not in a good place. For Jose Mourinho, the Real manager, these are difficult times, probably the toughest of his stellar career.

You don’t see the accustomed flash of bolshy defiance in the eyes of the Special One these days. He looks subdued. He looks almost sad. Yes, the world is against him, but he’s used to that. He thrives on it. What’s new is that he finds himself in bewilderingly uncharted territory, increasingly alone. The king of manmanagement, whose squads were ready to die for him at Chelsea and Inter Milan, has misplaced his crown. His players are at war with him.

Or too many of them are, at any rate. Enough to explain why a team including individuals of the class of Iker Casillas, Sergio Ramos, Xabi Alonso, Mesut Ozil, Karim Benzema and Ronaldo are third in the Spanish league, 16 points behind Barcelona. Three times they have smashed in five goals, for on a good day their firepower is formidable, but mostly they have struggled, losing to Real Betis and Getafe, whose total wage bills would barely cover Mourinho’s salary.

He is not earning it at the moment. If a manager’s essential function is to maximise the potential of his players — the terrain where Sir Alex Ferguson, the Manchester United manager, is the unchallenged master — Mourinho is failing at his job. Real Madrid Club de Futbol are less a football team, more a soap opera these days. With Mourinho at the drama’s stormy centre, players, board, fans and press thunder and flay. The club president, Florentino Perez, and some of the players trot out on stage with scripted statements — “we’re all behind the manager”, “we remain united” — but all they do is reinforce the general belief that they are trying to paper over cracks. The strife is too great, the noise too loud for the public to be fooled.

First, there’s the evidence of the eyes and ears. Real’s Bernabeu stadium is divided between the Ultras, always behind the goal on the south stand, and the more genteel club members who occupy the rest of the seats. The Ultras are unconditionally behind Mourinho, whom they follow with more zeal than they do the club. They are, to employ the oddly ideological terms in which Spanish football fans describe their allegiances, more “Mourinhistas” than “Madridistas”. What has been happening this season is that every time they chant Mourinho’s name another sector of the crowd responds with boos and jeers. The dissenters don’t like the mechanistic way the team play, they don’t like Mourinho’s manners and they don’t like his increasingly frequent habit of criticising the Bernabeu fans for lack of passion.

In recent months he has been saying the same thing of his players, with Ozil, Real’s most gifted midfielder, most often singled out. During a game at home against Deportivo la Coruña in October, Mourinho replaced the German at half-time. Some of his teammates were upset, none more than Ramos, the swashbuckling Spanish defender. Ramos, the team’s most dominant personality, responded to the manager’s decision by putting on a shirt with Ozil’s name on it underneath his own.

The idea, he later explained, was that were he to have scored in the second half he would have dedicated the goal to his German mate. He didn’t score but the planned gesture was spotted by a photographer from the unashamedly pro-Real sports newspaper Marca. The front-page headline the next day, predictably, read: “Ramos defies Mourinho”.

The press has provided the most compelling body of evidence against Mourinho. For most of last season only El Pais, a serious general newspaper, reported on the divisions between manager and players. The journalist in question, who covers Real Madrid full-time and has one or more Deep Throats in the dressing room, has spent more than a year writing almost weekly behindthe-scenes articles that dramatise the tension at the club, often with verbatim dialogues of what player A or player B said to Mourinho and what the manager replied. Take this from 10 days ago, after Mourinho publicly laid the blame for a bad result, for the umpteenth time, on the players: “I bite my tongue in public for the good of the institution,” Casillas, the Real and Spain captain, reportedly said. “You should do the same! And if you have something to say, say it to our faces.”

Mourinho then turned away, according to El Pais, smiled and mumbled: “I wasn’t referring to anyone in particular, I was talking in general.”

For a while some people thought the newspaper had a vendetta against Mourinho. But this season both Marca and the other pro-Real sports daily, As, have joined the fray, revealing equally detailed cases of bad blood within the club, such as the story of Ramos and Ozil. A spate of hostile antiMourinho columns has been penned by senior journalists who have been undisguised Real partisans all their lives.

Mourinho’s dumbfounding decision last night to drop Casillas for the match against Malaga that Real lost 3-2 confirms just how fraught things are at the club and absolutely guarantees that the manager's breach both with the press and with his players will widen.

The visible source of dressing-room division is the perception shared by a number of the players that Mourinho favours those who, like him, have Jorge Mendes as their agent. These include Ronaldo and defenders Pepe and Fabio Coentrao. Nobody understands why Coentrao was bought for €30m (about £24m) last year when the team already have arguably the world’s best leftback, Marcelo. All, like Mendes, are compatriots of Mourinho’s. A common jibe among the malcontents in the dressing room, according to press reports, is that to get ahead you have to be Portuguese.

Mourinho thrives on tension. His way to get the best out of his players has always been to push them to their mental limits, both with his motivational discourse behind closed doors and the enemies-at-thegates harangues he delivers in press conferences. Last season it worked and they won the league by nine points. Real’s drums beat Barcelona’s violins. But a third season of Mourinho seems to have proved too much for the players. Having pushed them to the limit and beyond, something had to give and — as the poor performances and the divisions that have been laid bare reveal — it has.

“His stressful style of leadership, his persistent and obsessively defiant attitude have ended up exhausting his players,” wrote the editor of As last week. Perez, who has struggled hard and long to keep up the pretence that all is well, let the cat out of the bag on Friday. In a speech at an in-house Christmas lunch he said football “should unite people”, and added: “I don’t think people like tension. In my experience tension is bad for those who generate it and bad for us. It does not bring the best out of people.”

Nobody missed the point. Nobody failed to register to whom it was addressed. The question with Mourinho, though, is that if there is no tension, what is left? And yet already it seems to be draining out of him. He shows signs of losing the stomach for the fight.

It was a surprise and a shock to a club who like to see themselves as an emblem of warrior spirit to hear his defeatist talk after drawing at home to lowly Espanyol last weekend, declaring the Spanish league to be “practically” over. What is not over is the Champions League. That is where all Real’s hopes and aspirations are now turned. Barring a cataclysmic and highly unlikely collapse by Barcelona and an only slightly more likely return to top form by Real, the tie against Manchester United is the one that will determine whether Mourinho goes at the end of the season, as all expect, or is asked to leave sooner, by popular demand.

Ferguson, who knows better than anyone how to keep a team united, might have the fate of his Portuguese friend in his hands.

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I

l difensore recuperato

Bonucci: «Adesso mi sento più forte»

«La vicenda del calcioscommesse mi ha dato qualcosa in più. Conte valore aggiunto»

Francesco Velluzzi - Gasport -23-12-2012

- La botta è stata tremenda, ma Leonardo Bonucci giuria di non essersi preso alcuna rivincita. «Ma è chiaro che questa triste vicenda mi ha dato qualcosa in più. Che ho trasferito sul campo. Ora so anche di chi mi devo fidare e son più convinto dei valori importanti che ho. E’ stata una storia incredibile, ma sono sempre stato consapevole della mia innocenza e la giustizia sportiva per fortuna me ne ha dato atto». Da queste storie o si esce mostruosamente più forti o ci si abbatte a tal punto da non riprendersi più. Il forte difensore ha vissuto la vicenda del calcioscommesse con la voglia di essere più forte di tutto e di tutti. E ce l’ha fatta.

Spirito Juve Il sostegno di Antonio Conte e di uno spogliatoio vincente ha fatto il resto: «Sicuramente. Lo spirito è quello, non si pensa a vincere il campionato o la Champions, si pensa a vincere. E io voglio vincere tutto. Lo spogliatoio nostro è forte, certo il ritorno di Conte è stato importante. Lui è un vero valore aggiunto. E’ rimasta anche la tradizione del discorso di un giocatore prima di entrare in campo a ogni partita. E’ un rituale che continua, ed è bello che sia così».

Carica E a proposito di squadra, Bonucci fa rilevare che venerdì sera, dopo l’insufficiente primo tempo col Cagliari, il tecnico non ha urlato come si immaginava con i suoi ragazzi. «Semplicemente ha detto le cose in maniera molto diretta. E noi siamo andati a giocarci la parte più importante della gara con la voglia di ribaltarla. Il Cagliari era stato bravo a chiuderci gli sfoghi sulle fasce. Il nostro pregio è quello di crederci sempre fino alla fine. Con lo scudetto è aumentata la consapevolezza, sappiamo di essere tornati nel posto che ci compete a livello europeo dove possiamo giocarcela con chiunque. L’obiettivo che mi fisso per il 2013 è quello di ripetere il 2012 e di alzare al cielo qualche trofeo». Quello di campione d’Italia è quasi certo che finirà in bacheca.

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Bonucci: "Più forte dopo Scommessopoli"

"Ero innocente, me ne hanno dato atto. Dentro me però è cambiato qualcosa. Mi godo questo fine anno super, ma non mi accontento. Voglio altri trofei. Un baratto tra campionato e Champions? No, prendo tutto!"

Fabio Riva - Tuttosport - 23-12-2012

A caldo, subito dopo il partitone di Parma, s’è visto un Leonardo Bonucci soddisfatto, carico, goduto. Che davanti alle telecamere ha sfogato di getto l’adrenalina frutto d’una rimonta perentoria, netta, disarmante rimediata dalla Juventus contro il Cagliari e contro l’arbitro Damato . «Una Juventus da record, appunto, una Juventus che è tornata. Abbiamo vissuto un grandissimo anno, di stimolo per migliorarci ulteriormente». A mente più fredda, invece, lontano dagli obiettivi, il difensore bianconero ha accettato di spostare l’attenzione anche su se stesso, in maniera specifica, analizzando un anno che dal punto di vista personale resterà indelebilmente scolpito nella memoria a causa di tutta una serie di vicissitudini extracalcistiche che avrebbero potuto compromettere una carriera, quantomeno “incasinarla”. Ma che invece hanno contribuito a fortificare una personalità, a forgiare un carattere ancor più combattivo. Colpisce il fatto che Bonucci non voglia neppure nominare la parola Scommessopoli: lui parla di «la vicenda a cui alludiamo». Tuttavia l’azzurro non si nasconde e non si trincera dietro un banalissimo “è acqua passata” di circostanza, anzi spiega: «Una conclusione d’anno speciale e ricca di significati, per me? Beh, non è stata un’annata semplicissima... Posso dire che io conosco le mie potenzialità e sicuramente la vicenda a cui alludiamo mi ha dato qualcosa di più a livello umano. Io sono sempre stato consapevole della mia innocenza e alla fine la giustizia sportiva me ne ha dato atto. Ma posso dire che alla fine ho avuto modo di capire di chi mi devo fidare e di chi invece no. Inoltre ho capito quali sono i miei valori».

SVOLTA - All’insegna, insomma, del noto adagio per cui ciò che non ammazza fortifica. Concetto emerso in maniera netta nel caso di Antonio Conte , concetto emerso in maniera netta nel caso di Bonucci. Al tecnico era andata peggio, per carità: quattro lunghi, interminabili mesi di lontananza forzata dalla panchina e dal campo, nelle gare ufficiali. Pure il difensore, però, ha passato delle brutte settimane in estate: prima le voci, poi le accuse, infine il rischio d’una squalifica che sembrava probabile e imminente. Tanto che pure dal mercato giungevano segnali affatto rassicuranti: la Juventus cerca un difensore, uno forte ( Bruno Alves , Salvatore Bocchetti ), in modo da non farsi trovare impreparata nel caso in cui dovesse rinunciare a Bonucci... E invece no, proprio quando sogni e speranze sembravano sgretolarsi malamente, è iniziata la rinascita: tanto per cominciare i primi attestati di stima e vicinanza da parte dei tifosi, della società e dei compagni. Con gesti anche particolarmente simbolici, come la consegna della fascia da capitano in occasione dell’amichevole d’inizio agosto, a Ginevra, contro il Benfica. Avanti così, allora, a suon di assoluzioni, applausi, prestazioni maiuscole. Successi, vittorie, record. In un gruppo sempre più coeso, amalgamato alla grande da Conte. Come ha dimostrato, appunto, una volta di più, la partita contro il Cagliari. Ed ecco, al proposito, un’altra chicca in stile più intimista, roba da dietro le quinte: «Il segreto della vittoria? Il modo in cui Conte ci ha parlato negli spogliatoi: a differenza del solito è stato abbastanza tranquillo, ci ha detto le cose in maniera diversa e questo è stato fondamentale per farci tornare in campo in modo così determinato. In una squadra l’allenatore è una parte determinante, il nostro in questo senso è veramente un valore aggiunto». Però attenzione, il rituale del discorso pre-partita fatto da uno dei giocatori non è cessato: «Affatto! Il rituale continua: è un’abitudine che ha il mister e che noi abbiamo accettato volentieri. E’ un buon modo per responsabilizzarci e darci carica».

SEMPRE PIU’ IN ALTO Fin qui, però, siamo al passato. Figurarsi se Bonucci possa esser tipo da accontentarsi e sentirsi appagato. Lui pensa al futuro, ad un 2013 che si riveli trionfale su più fronti. Anche e soprattutto in Champions. Peraltro l’urna sembra essere stata benevola. Sembra... «Sulla carta possiamo essere avvantaggiati, ma andare a giocare lì dove il Barcellona ha perso non è facile. E’ presto per dire se sia l’anno buono o no: sarà l’anno buono se vinceremo tutte le partite e arriveremo in fondo». Al fine di raggiungere l’obiettivo, la società sembra orientata ad intervenire di nuovo sul mercato. Qualcuno in attacco, qualcuno in difesa. Bonucci non si sbilancia più di tanto, spiega che «per me stiamo bene così, siamo un bel gruppo: poi se manca qualcosa saranno la società e il mister a deciderlo». Tuttavia è disposto a spendere buone parole su Bocchetti e Federico Peluso , che figurano (atalantino in primis) nel novero dei papabili per rimpolpare il reparto arretrato bianconero: «Sono due bravissimi ragazzi, due persone stupende. Entrambi farebbero soltanto il bene della Juventus». E Bonucci - che peraltro non s’era fatto troppi scrupoli al momento di rispondere a muso duro ad Antonio Cassano («Ma quali soldatini, noi siamo professionisti!») - parla a ragion veduta visto che ha avuto modo di conoscere sia Bocchetti sia Peluso in Nazionale. Domandone finale, per chiudere: baratterebbe lo scudetto per la Champions? «No, io voglio vincere tutt’e due!».

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5 domande a Leonardo Bonucci

Massimiliano Nerozzi - La Stampa - 23-12-2012

Leonardo Bonucci, ripensa mai che la volevano squalificare per tre anni?

«Penso che questa vicenda mi abbia dato qualcosa di più a livello umano e mi abbia fatto capire di chi mi devo fidare e quali sono i miei valori».

Che cos’è Antonio Conte?

«È davvero il nostro valore aggiunto».

Aver preso il Celtic in Coppa vuol dire che può essere l’anno buono?

«Lo sarà se le vinciamo tutte e arriviamo in fondo. Sulla carta possiamo essere avvantaggiati, ma andare dove il Barcellona ha perso non sarà facile».

Cosa vi manca per vincere la Champions?

«Per me stiamo bene così, poi se manca qualcosa saranno società e il mister a deciderlo».

Regalerebbe lo scudetto per la Champions?

«No, noi vogliamo vincere tutt’e due».

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Stadi vuoti, divieto di trasferta

E i club fanno finta di nulla...

Spy Calcio - Fulvio Bianchi - repubblica. it - 23-12-2012

Problema stadi: non scopriamo certo nulla dicendo che molto spesso anche quest'anno sono mezzi vuoti. E' un male antico, ormai. Ma volendo qualcosa si può fare: lo ha dimostrato la Juventus. I club, però, dovrebbero darsi una svegliata, venendo incontro finalmente ai loro tifosi. Con iniziative, promozioni, sconti, eccetera. Con un rapporto più stretto con i loro tifosi-clienti. Va risolta anche la situazione delle trasferte: ora possono andarci solo quelli che hanno la tessera del tifoso. Perché sono i bravi e gli altri sono i cattivi? E chi l'ha detto? Dopo gli incidenti di Coppa Italia a San Siro, in occasione della gara con l'Inter, a 63 tifosi del Verona è stato dato il Daspo ed è stata ritirata loro la tessera del tifoso. Altri veronesi, sempre con la mitica tessera del tifoso, erano andati a Livorno per insultare la memoria di Morosini (quattro Daspo) e per cercare di creare disordini, scongiurati dalle attente misure di sicurezza messe in atto dalla questura livornese. Tutti "tesserati", e allora? I tifosi della Roma, abbonati alla curva Sud, riempita dopo anni, hanno utilizzato un voucher di mini-abbonamenti studiato da Fenucci, sono stati schedati come tutti grazie al sistema della "questura on line", però, non avendo la tessera del tifoso, non possono andare in trasferta. Non è giusto: la Roma sta risalendo la classifica, dopo aver fatto fuori il Milan, e merita di essere seguita anche in trasferta dai suoi tifosi. Ci appelliamo all'Osservatorio del Viminale: a Pasquale Ciullo, che la dirige, e a Roberto Massucci, che è il suo vice e che conosce bene il mondo del calcio, non solo in Italia. Facciano in modo che, già girone di ritorno, anche i tifosi giallorossi possano andare in trasferta. All'Olimpico c'erano 2200 sostenitori del Milan: perché la Roma non può avere i suoi al seguito? La situazione dell'ordine pubblico d'altronde è nettamente migliorata in questi anni: un arresto a Roma in un tentativo di agguato ai pullman dei tifosi milanisti. Qualche striscione vergognoso, ogni tanto, soprattutto dove le questure mollano la presa. Ma non ci sono più o quasi incidenti, zero lacrimogeni, pochissimi feriti. Ricordiamo cosa era qualche anno fa, un'autentica vergogna di cui parlava tutta l'Europa. Ora i nostri stadi, pur mezzi vuoti, sono più vivibili. Bisogna però che l'attenzione sia sempre al massimo, e le società collaborino con l'Osservatorio. Cosa che raramente fanno, soprattutto quelle di serie A. E poi bisogna anche che alcune questure si sveglino: non ancora identificati a Roma gli autori del raid a Campò de Fiori (tranne due, ultrà giallorossi, che restano in carcere) e nemmeno chi ha messo striscioni vergognosi a Torino, contro la tragedia di Superga, a Milano, contro Pessotto, e a Bergamo. Troppa tolleranza.

Grottesca poi la situazione dello stadio del Cagliari: un ridicolo balletto fra Prefettura, club, Lega Calcio che dura ormai da troppo tempo. Col risultato che venerdì sera il Cagliari ha dovuto giocare la sua partita "casalinga" con la Juventus a Parma, nel deserto o quasi. Non si sono visti nemmeno i tifosi juventini, figuriamoci quelli sardi. Grandissimo Maurizio Beretta, n.1 della Lega A, che a Stadio Sprint ha dato ragione a tutte e due le società, al Cagliari come alla Juventus. Lui d'altronde non vuole avere grane: chissà mai che lo rieleggano? Ma qui ci vuole una Lega forte. Che si sappia imporre. Che dia credibilità al campionato. Andrea Abodi non si arrende: ha preso 11 voti e deve arrivare almeno a 14 il prossimo 11 gennaio. Non facile. Il suo rivale Simonelli è fermo a sei, pur avendo dalla sua Milan e Lazio. Ci sono due blocchi contrapposti ormai, col rischio di uno stallo sino a primavera. Cosa già successa, in Lega. La Lega di B, di cui Abodi è stato presidente sino a poco tempo fa, invece va all'assemblea il 28 dicembre e potrebbe eleggere l'attuale vicepresidente Salvatore Gualtieri. Anche se ci sono molti presidenti che preferirebbero aspettare e vedere come finisce con la Lega maggiore. Il lavoro in questi due anni di Abodi sta portando i primi frutti: 4-5 Comuni si stanno già interessando al progetto-stadi, anche se la famosa legge è finita, come previsto, nel nulla. La classe politica ha fatto un'altra pessima figura. E ora il Pdl accusa il Pd, e il Pd accusa il Pdl. Che tristezza. Tornando alla B, ecco la novità di fine anno, in stile inglese. Tre giornate in otto giorni: si gioca oggi, mercoledì nel giorno di Santo Stefano e si chiude domenica 30. Poi una lunga sosta, sino al 26 gennaio. Un esperimento. Da altre parti ha avuto successo. La A non ne vuole sapere. Tutti al mare, tutti al mare.

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Ho ricostruito la Juve

Agnelli: «Quando l'ho presa era una società apatica

Ora punta alla Champions Io voglio vincere sempre»

Il presidente tra mercato e calcio da cambiare

«I migliori affari? Pirlo-Barzagli-Pogba per 300

mila euro. Top player? Un giorno arriverà, ma

non sempre spendere 40 milioni serve.

Abete ha fallito. Della Valle ha tempo libero.

Voto Abodi, Beretta faccia un passo indietro»

Ci vuole una sezione speciale dei tribunali ordinari che si occupi

di giustizia sportiva, finanziata se serve dal nostro sistema

Bisogna riformare la responsabilità oggettiva, ma

se un dirigente sbaglia la società deve pagare

di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 24-12-2012)

Presidente Agnelli, lo sa che avete ucciso in culla il campionato?

«Non è così. Il campionato è deciso quando lo dice la matematica. Mancano 20 partite e non abbiamo ucciso un bel niente».

Uomini chiave?

«Non c'è singolo che possa fare la differenza da solo. Questo è un lavoro di gruppo. Fare squadra a tutti i livelli, questo è il nostro credo. Fare squadra ti consente di far sembrare normale una cosa assolutamente non normale, come quella di giocare quattro mesi senza allenatore. Certo, uno dei nomi è indubbiamente quello di Conte. Ma anche lui non sarebbe stato così importante senza la squadra».

Champions, Celtic buon sorteggio. Obiettivi?

«La Juventus ambisce a vincere sempre. La cosa più importante oggi è ripetersi in Italia. La Champions ci permette di sognare, e ci piace sognare. Ce la possiamo giocare con tutti, fino in fondo».

Drogba è il regalo di Natale?

«Preferisco parlare degli uomini che abbiamo. La Juve ha il miglior attacco e la miglior difesa. E uno staff che se ci saranno da cogliere delle opportunità, non se le farà sfuggire. Gennaio è inflazionato da opportunità solo relative. Le spese importanti si fanno d'estate. Valuteremo il da farsi».

La più grande emozione vissuta fin qui?

«La sera dello scudetto conquistato a Trieste. Io ero a casa, in collina, e ho visto e sentito Torino esplodere sotto i miei occhi. Sono rimasto mezzora in giardino ad ascoltare».

Conte il 12 dicembre: «...prendere giocatori da 35-40 milioni. Solo allora potremmo davvero iniziare a paragonarci a Psg, Barca, Real, Bayern e ai due Manchester». Quel giorno arriva e se arriva quando?

«Arriverà senz'altro. Ma non è un giorno che arriva dall'oggi al domani per magia. Ci vuole la giusta gradualità. Questa è una società il cui fatturato è oggi di 215 milioni di euro e l'anno prossimo faremo il nuovo record. Ma occorre raggiungere un fatturato stabile di almeno 300-350 milioni di euro per mettersi al passo. Barca, Real e Manchester United fatturano mediamente 450-500 milioni, il Bayern 350, il Psg è diverso, un'anomalia legata ai suoi investitori arabi. Occorre aumentare le capacità di fuoco della società, ma tutti quanti dobbiamo capire che non sempre il grande investimento è quello che fa fare il salto. I migliori affari dell'attuale Juve sono stati Barzagli, Pirlo e Pogba, che sono costati in tutto 300mila euro».

«Il bilancio del Milan è il migliore fra le grandi italiane...», lo ha detto Galliani giovedì.

«Il Milan chiude i propri bilanci al 31 dicembre mentre noi lo facciamo al 30 giugno, è chiaro che certe cessioni del Milan pesano positivamente sugli ultimi conti. Sono gestioni di tipo diverso. La Juve sta progressivamente sempre meglio. Il nostro è un piano quinquennale: vincere e raggiungere l'equilibrio finanziario. Siamo in linea e i parametri del fairplay finanziario non ci preoccupano».

Quanto pesa la crisi del Paese sulle scelte di mercato?

«Siamo perfettamente consapevoli della realtà che sta vivendo il Paese. Detto questo, la società ha i suoi azionisti e a loro risponde. E qui si continua ad assumere, 80 persone solo negli ultimi 18 mesi. Siamo a un totale di 300 dipendenti, calciatori esclusi».

«Dobbiamo cambiare il calcio italiano». Lo ha detto il 26 ottobre, citando riforma dei campionati, legge 91 sul professionismo, Melandri sui diritti televisivi, legge sugli stadi e migliore tutela dei marchi. Il menù è sempre quello?

«Sì. Quando sono arrivato alla Juve, due anni e mezzo fa, ho trovato una società sostanzialmente apatica, che accettava i risultati che arrivavano e, stadio a parte, non pensava al rinnovamento. Già si diceva che sarebbe stato necessario "cambiare il mondo", sì, ma prima dovevamo cambiare noi. E' da lì che siamo partiti e per ritenerci "arrivati" abbiamo ancora da realizzare due cose: la cittadella Juve di Continassa, un'operazione di 340 milioni di euro tra investimenti diretti e indiretti; e l'allineamento del valore della maglia ai livelli dei competitor europei. Finito il percorso interno alla Juve, dobbiamo pensare alla crescita del calcio in Italia. E lì bisogna intervenire su tutto. Trovare in Lega una guida strategica e un piano, sapendo che ci vorranno tra i 5 e gli 8 anni per riportare il calcio italiano ai vertici di quello europeo. Il nostro stadio mi rende felice e orgoglioso, ma da solo non serve, ne occorrono almeno altri dieci. La sicurezza: a Londra, freddo cane, esco da Stamford Bridge con la giacca della società sulle spalle, qualche giorno dopo ero a Firenze e uscire con mia moglie a braccetto dallo stadio era semplicemente impensabile. I marchi: il Censis dice che il giro d'affari dei marchi contraffatti in Italia, non solo sport, è di 8 miliardi di euro, e non succede niente. Legge Melandri: le linee guida sono corrette, sarà la Spagna prima o poi a doversi allineare. Noi nel passaggio al diritti collettivi ci abbiamo rimesso 30-35 milioni di euro. Tutto o.k. ma i paletti sono troppi e troppo penalizzanti, e con le delibere della Lega che finiscono 15 a 5 con le grandi all'angolo ci rimettiamo sempre. Per non parlare dei diritti tv internazionali, dove il gap con gli inglesi è di uno a dieci. E la legge 91, che ancora tiene insieme l'iperprofessionismo e quello di base. I campionati: scenderemo tra due stagioni a 102 squadre professionistiche, beh, sono ancora troppe».

In conclusione?

«Va ipotizzato un documento comune: una sorta di testo unico dello sport, in cui Coni, Federazioni e Leghe continuino ad avere le loro funzioni, ma all'interno del quale va riscritto praticamente tutto».

Nel frattempo la Lega di serie A non è riuscita a darsi un nuovo presidente. Lei sponsorizzava Abodi, e ora?

«Va riconosciuta la validità della candidatura di Abodi. Trasversale, perché è stato appoggiato da club grandi e piccoli insieme. Un patrimonio di consensi che non deve essere disperso. La Lega oggi fattura un miliardo, deve arrivare a due in cinque anni. Credo che la candidatura di Abodi resti valida, va portata avanti continuando il dialogo con i club che non lo hanno votato».

Beretta?

«Arrivati a questo punto io mi aspetterei da Beretta che fosse lui a fare un passo indietro. Restare lì, approfittando dello sfinimento delle parti, non rappresenta il bene della Lega».

In Lega la storica alleanza Juventus-Milan sul nome di Abodi è venuta meno e in compenso ne è nata un'altra, imprevedibile. Con l'Inter...

«Non ragionerei sul fatto che nasce un'alleanza e ne muore un'altra. Juventus, Inter e Milan rappresentano il 70% del fatturato del calcio italiano e non devono dimenticarlo».

Calciopoli. Sei anni e sette sentenze dopo...

«Mi sembra che di sentenza in sentenza paradossalmente Giraudo e Moggi siano rimasti i soli colpevoli. I mille che c'erano prima non ci sono più».

Il presidente del Coni Petrucci ha più volte definito «un successo» il tavolo della pace dell'autunno 2011, la Ġazzetta lo considerò un fallimento. E lei?

«Valutazione neutra. Un momento di confronto comunque utile, anche se le persone intorno a quel tavolo si parlavano prima e hanno continuato a farlo dopo. Il documento che allora mi fu proposto era assai strano: voltare pagina con la consapevolezza che fu giustizia sommaria, questo c'era scritto. Una bizzarria».

E' sempre in piedi presso il Tar del Lazio il ricorso in cui chiedete danni alla Federcalcio per 443 milioni. E' intenzionato a insistere?

«Sì, il ricorso va avanti».

E insistendo, non crede che questo ricorso possa rappresentare una sorta di «sudditanza psicologica», di «condizionamento» nel succedersi delle stagioni e dei campionati?

«Io credo che la Federazione abbia avuto tutti gli strumenti per decidere sulla questione Inter. Decidendo di non decidere è andata incontro a questa situazione».

Arriverà mai il giorno in cui dirà a tutti, da Moratti ai tifosi della Juventus, «voltiamo pagina e non pensiamoci più»?

«Dipenderà dall'evolversi di molte situazioni. Oggi le condizioni non ci sono. Se si creeranno, chissà. Ma la rivalità storica con l'Inter, sia chiaro, non verrà mai meno».

Scommessopoli. Lei ha sempre creduto a Conte, alla sua innocenza. Ma in privato gli ha almeno detto che la prossima volta deve cercare di essere più «attento» di quanto non si sia mostrato a Bari e a Siena?

«Sì, l'ho fatto. E la risposta me l'ha data lui: "Devo evitare di vincere con tre o quattro giornate d'anticipo!"'».

Riforma della giustizia sportiva.

«Tema delicato, accentuato dal fenomeno criminale di Scommessopoli. Molte cose non funzionano: il principio dell'omessa denuncia, strumento come minimo discutibile, che per giunta rappresenta un limite alle indagini dei p.m. per le ricadute che ci sono sulla giustizia sportiva. Un tesserato non parla perché sa che questo gli costerà la squalifica, è ovvio. E poi la responsabilità oggettiva: paghiamo per il comportamento di certi tifosi e questo è già sbagliato. Ma soprattutto paghiamo o rischiamo di farlo per il comportamento dei tesserati, addirittura per quelli che il presunto reato sportivo lo hanno commesso in un'altra società. E dai giocatori "infedeli" come ci difendiamo? Pedinandoli? Non mi pare il caso».

Il dirigente che si macchia di illecito secondo lei deve costare alla società un coinvolgimento per responsabilità oggettiva?

«Certo che la società deve pagare. Lì c'è la responsabilità diretta».

«Non si possono trattare investimenti da milioni di euro come le dispute di un piccolo circolo sportivo e non ci si può affidare solo a dopolavoristi». Sono sue parole. Che fare?

«Ora abbiamo persone che passano in pochi minuti dal giudizio su un giocatore patrimonialmente importante come Bonucci a quello sull'ultimo dei dilettanti. Perché non dobbiamo avere dei professionisti che si occupano di queste cose? Oggi la giustizia sportiva è interamente controllata dal presidente federale, dove sono la terzietà e l'indipendenza? E non posso sentirmi dire, come fa Abete, che ci sono i principi Fifa e Uefa da rispettare. Abbiamo un problema, come lo risolviamo? Possibile che le istituzioni dicano sempre "dovremmo fare, dovremmo fare" e non succede mai nulla? Occorrono figure che accedano a certi ruoli per concorso. Butto lì un'ipotesi: una sezione speciale dei tribunali che si occupa di vicende e di giustizia sportiva, finanziata se è necessario dallo stesso sistema sportivo. Così si arriverebbe al giusto processo, che in questo Paese manca in assoluto».

Abete sì o no?

«La Nazionale che va in finale all'Europeo non vuol dire che il calcio sta bene e la federazione funziona. Se gareggiamo per ottenere gli Europei e veniamo bocciati, quello è un fallimento. Se gli stadi continuano a non esserci, quello è un fallimento. E chi è deputato a questo cose? Moratti, Galliani, Agnelli, o chi governa il calcio? Chi non ha operato, le società o le istituzioni?»

Una solenne bocciatura. Tavecchio è il nuovo che avanza?

«No. E' tutto il sistema che purtroppo in questo momento non riesce a rinnovarsi».

E' vero che vuole una poltrona nel prossimo Consiglio federale?

«No. Oggi la cosa importante, fondamentale, è la guida della Lega. Il resto non mi interessa, con l'eccezione del posto che occupo nell'Eca, l'organismo europeo dei club. I soldi veri escono da lì, da una Champions che vale 1,2 miliardi l'anno. Campionato d'Europa per club? Commercialmente sarebbe la conclusione più logica ma le tradizioni non lo consentiranno mai».

Della Valle non perde mai occasione per picchiare duro, sia che si tratti di Fiat che di Juventus. Perché?

«Ha tanto tempo libero».

Del Piero, una storia bellissima che forse meritava di finire meglio.

«Meglio era impossibile. Ha alzato la coppa dello scudetto nel suo stadio, il miglior sceneggiatore non poteva studiare un'ultima volta più bella di questa».

Visto che ci troviamo, Pagnozzi o Malagò?

«E' indifferente, sono validi sia l'uno che l'altro. Conta quale sarà la capacità di affrontare i temi sistemici dello sport. Che non può più permettersi una classe dirigente che occupa poltrone e rilascia interviste alle Olimpiadi. No al volontariato. E sì ai manager, ben pagati ma che poi rispondano del loro operato».

E tra Monti, Bersani e Berlusconi?

«Un mondo ancora più distante. Se ognuno si occupasse del proprio mestiere senza preoccuparsi di quello degli altri tutto in questo Paese funzionerebbe molto meglio»

Visto che oltre al prossimo scudetto Juve se ne prevedono in arrivo molti altri, cosa dobbiamo aspettarci? Di andare avanti con «31 sul campo, 32 sul campo, 33 sul campo...»?!

«Mi basta continuare a vincere. Sempre».

___

Intervista al presidente della Juve dei record: la cavalcata scudetto, il ritorno

da protagonisti in Europa, il caso Conte, gli scontri con Inter e Figc. Ma

soprattutto un allarme per il futuro: senza riforme, il pallone rischia il crac

Agnelli

“Il nostro 2012 perfetto ma ora il calcio va rifatto”

La politica Sono per un vero ministro dello sport. Il Coni teme ingerenze formali della politica? Un rischio da correre

Regole da riscrivere Non esiste una ricetta Agnelli. Va riscritto il quadro normativo, a cominciare dal professionismo

Stadi da incubo Priorità agli stadi: senza pubblico, il prodotto non ha senso, senza teatro non c’è spettacolo. Le tv sono d’accordo

Concorsi per i giudici Basta con i giudici nominati tutti e solo dalla stessa persona, il presidente della Figc: esistono i concorsi

La difesa del tecnico Difendere Conte è stato facile, ma non si pensa più che abbiamo giocato 20 partite senza tecnico. Ci provino gli altri

Jolly calciopoli L’articolo 39 consente di chiedere la revisione di sentenze in presenza di fatti nuovi. È un jolly da usare una sola volta

Arbitri autonomi Il sistema Usa funziona, arbitri professionisti autonomi dalle leghe: chi è bravo va avanti, chi sbaglia va via

Le vittorie Vincere è nel nostro destino. Le stelle sulla maglia non mi interessano, preferisco lo scudetto

La Champions Il sorteggio col Celtic non è certo sgradito. Noi andiamo in campo con l’ambizione di vincere anche la Champions

di MAURIZIO CROSETTI & ALIGI PONTANI (la Repubblica 24-12-2012)

La stanza del presidente è piena di cose. Una vecchia casacca della Juve, il casco di Schumacher, una maglia rosa del Giro d’Italia, la foto della partitella di pallone con gli amici, la foto della sua bimba con la coppa gigante dello scudetto (e la replica del trofeo, più piccola, su un ripiano), montagne di dossier e diagrammi. Un disegno fatto da un bambino di dieci anni nel maggio del 1985, con la firma appena a svolazzo: Andrea Agnelli. C’è anche una fotografia in bianco e nero di quello stesso bambino a Villar Perosa, a bordo campo, con gli occhi a sfiorare la Juventus e altri occhi a sfiorare lui, gli occhi di Giovanni Agnelli.

Juve di ieri e Juve del 2012: cosa le unisce, presidente?

«La vittoria. La prima cosa, l’unica. Non saprei dire quante volte siamo arrivati secondi in campionato, non tengo il conto dei fallimenti».

Ma se nello scorso campionato foste arrivati secondi, in fondo non sarebbe stato male, no?

«Sarebbe stato un pessimo risultato».

Lo scudetto degli invincibili.

«Un primato che può essere solo eguagliato, mai battuto».

Fa così orrore, il secondo posto?

«Nel calcio moderno, arrivare secondi o terzi o quarti porta comunque voci di ricavo, ma per la Juve non basta, è chiaro».

Come spiega questo 2012 così fortemente bianconero?

«È tornata la consapevolezza, il senso di quello che siamo da oltre un secolo. È un magnifico destino: vincere. Abbiamo giocato per quattro mesi senza allenatore ed è sembrato normale: di questo ringrazio tutti i dipendenti della Juventus, la nostra macchina viaggia ai 350 all’ora».

Vincere: e poi?

«Raggiungere e mantenere l’equilibrio economico».

E contare nei palazzi del potere?

«Quello non è un obiettivo ma una conseguenza: se vinci pesi, e se pesi conti. Quando arrivai nel 2010, l’attività dell’azienda Juventus era fortemente compromessa, a parte il progetto per il nuovo stadio. Oggi abbiamo di nuovo una società forte e una squadra forte. Senza risultati, la parola potere è astratta. Nelle stanze che contano, però, la Juve è di nuovo un interlocutore».

Prima no?

«Prima, non più».

E ora cosa chiede la Juve?

«Di cambiare radicalmente, innovare, riformare. Il calcio, ma in fondo tutto lo sport ha bisogno di una svolta».

Qual è la priorità del calcio italiano?

«Gli stadi. L’unico nostro prodotto è la partita. Dunque, serve un perfetto contenitore: senza il teatro, lo spettacolo muore».

Sky e Mediaset sono d’accordo su questa precedenza?

«Assolutamente sì: il telespettatore cambia canale quando vede la diretta dentro uno stadio vuoto e brutto».

Però la legge sugli stadi è naufragata insieme al Parlamento: può esistere uno sport forte dentro un sistema politico debole?

«Gli stadi si possono costruire anche senza una legge apposita: noi ci siamo riusciti, ed è un modello legato ad accordi pubblicitari, oltre ovviamente ai mutui del Credito Sportivo. Anche piccoli club ci possono provare».

Ma perché le camere non hanno approvato quella legge?

«Scusate, ma mica dovevamo spingerla noi. Toccava a Coni, Federcalcio e Lega esercitare un’azione di lobbing: per tutta l’impiantistica sportiva italiana, non solo per gli stadi. Il problema era che qualcuno aveva inserito norme speculative nel testo? Bene, leviamo quelle norme. Facciamolo, chiediamo alla politica di agire».

Però lo sport ha da sempre il terrore, non ingiustificato, della politica e delle sue eventuali ingerenze.

«Io penso che invece servirebbe un vero ministro dello sport: le ingerenze ci sono comunque, anche se informali. Capisco che il Coni tema quelle formali, però è un rischio da correre. Il calcio rappresenta poco meno del 2 per cento del prodotto interno lordo del nostro Paese, la serie A paga circa un miliardo di euro all’anno di tasse. Stiamo parlando di una passione popolare che riguarda almeno 40 milioni di persone, tutto lo sport intendo, non solo il pallone: una responsabilità sociale vera».

Come intervenire, nel concreto?

«Occorre riscrivere l’intero quadro normativo attraverso un testo unico dello sport: si cambi la legge sul professionismo sportivo, si faciliti l’impiantistica e si tutelino i marchi. Questo lo deve fare un soggetto politico. La questione non è avere venti club in A — a parte i tedeschi, li hanno tutti — quanto averne ancora 102 professionistici ».

Il Coni sta per cambiare presidente: preferenze?

«Mi auguro che chiunque sieda su quella poltrona diventi un leader di cambiamento».

Il Coni non è però il vostro primo interlocutore.

«No, certo. Noi possiamo incidere solo nel nostro contesto, che è la Lega di A, che adesso non funziona, non incide. Va cambiata profondamente la sua governance, superando i particolarismi. Deve avere la capacità di porsi alla guida di un cambiamento vero portando le sue istanze nella Federcalcio».

Facciamo esempi concreti. Come va riformata la giustizia sportiva?

«Ora è in mano a una sola persona, sempre quella, il presidente federale che di fatto nomina tutti i giudici attraverso il consiglio federale. Accusa e giudizio sono in mano a un unico soggetto, il quale sceglie pure la commissione di garanzia. Questo è contrario ad ogni principio di indipendenza e terzietà della magistratura».

Come scegliere i giudici?

«Esistono i concorsi, no? Ed esistono persone che occupano certi posti da decenni. Guardate, non voglio che si parli di una ricetta Agnelli. Non ho questa presunzione. Voglio però che si pongano i temi sul tavolo, che si offrano soluzioni».

Cosa pensa della responsabilità oggettiva?

«Quello che pensavo cinque mesi fa, e che ora starà pensando il Napoli, la cui vicenda mi ha impressionato. Se tre miei tesserati si mettono d’accordo e scommettono, io che ci posso fare? Sono dipendenti infedeli, mica posso pedinarli. Ma il danno che ne ricevo è enorme».

C’è tempo per cambiare le regole?

«Bisogna farlo subito. Il 2013 dovrà essere l’anno delle riforme ».

Anche quella sull’omessa denuncia?

«Così com’è, non è giustizia. Di fatto rappresenta anche un freno all’indagine penale: non si parla davanti ai pm per evitare di essere condannati dai giudici sportivi per omessa denuncia».

Lei toglierebbe la giustizia sportiva dal controllo dello sport?

«È un’ipotesi seria da prendere in considerazione. Però, ripeto, non ho modelli né formule. Sono le istituzioni a doverne discutere».

Negli Usa, gli arbitri sportivi sono professionisti autonomi dalle leghe. Chi è bravo va avanti, chi è scarso no. Pensa che sia un sistema replicabile?

«Certamente sì. Gli arbitri offrono un servizio: se fossero svincolati dalle leghe ci sarebbero meno sospetti, meno dietrologia, e si premierebbe solo il merito».

Eleggere il nuovo presidente della Lega non sembra facilissimo.

«Penso che il consenso che sta convergendo su Andrea Abodi non sia da disperdere: lo sostengono già undici club molto eterogenei tra loro, con interessi diversi, e questo conta».

Altri esempi di possibili riforme?

«Uno, che sembra piccolo ma non lo è: le squadre B, con un loro campionato. Noi siamo favorevoli, sarebbe un ulteriore incentivo a valorizzare i vivai. Eviterebbe di dover mandare i giovani fuori dopo la Primavera, quando non sono ancora pronti per il salto in prima squadra».

A che punto è la vertenza con la Figc? La Juventus andrà fino in fondo nella richiesta di risarcimento?

«È un iter che va avanti. Bisogna aspettare il terzo grado di giudizio della giustizia ordinaria, molto meno rapida di quella sportiva».

L’articolo 39 del codice di giustizia sportiva offre la possibilità di revisione delle sentenze definitive in caso di fatti nuovi. La Juve intende usarlo per riavere i suoi scudetti?

«La legge stabilisce che quel jolly, sia pure importante, possa essere usato una volta sola. Dunque, bisogna farlo nei tempi giusti: appunto dopo l’ultimo grado di giudizio nei processi ordinari su Calciopoli».

Rimetterete le stelle sulla maglia?

«Lo stemma della Juve è più importante delle stelle, quelle non sono un problema. Mi interessa di più che sulla maglia ci sia lo scudetto. La Juve ne ha vinto statisticamente uno ogni quattro anni dalla sua fondazione e uno ogni tre da quando è gestita dalla mia famiglia».

Con l’Inter e Moratti vi siete davvero riavvicinati?

«La nostra rivalità non morirà mai, e neppure cambierà mai la diversa visione di quanto accadde nel 2006. Dopo di che, sarebbe autolesionista non collaborare alle politiche di sviluppo».

Juve-Celtic: mica male.

«Un sorteggio che non avremmo sgradito a priori, e sono curioso di visitare il Celtic Park».

Potreste vincere la Champions al primo tentativo?

«Andiamo in campo per questo, ci proveremo, siamo la Juve. Per intanto si continua a sognare. E poi bisogna rivincere lo scudetto: una volta può succedere, due è più difficile».

A gennaio comprerete il famoso centravanti?

«Abbiamo già la miglior difesa e il miglior attacco. Il mercato invernale è atipico: se ci saranno occasioni, ben vengano. Vorrei ricordare che Barzagli, Pirlo e Pogba sono stati presi con 300 mila euro».

È Conte il vostro valore aggiunto?

«Anche, ma non solo. Quei famosi quattro mesi hanno visto la crescita di tutti. Difendere il nostro allenatore in quel modo è stata la cosa più normale del mondo: mi è bastato guardarlo negli occhi una sola volta, in primavera, per fidarmi di lui. E se poi qualcuno vuole provare a giocare oltre venti partite senza allenatore, si accomodi».

A mente fredda: la vicenda Del Piero poteva finire diversamente?

«Se uno sceneggiatore avesse immaginato l’addio del capitano nel suo stadio, sollevando il trofeo dello scudetto, sarebbe stato preso per pazzo. Quando Ale è uscito dal campo, per venti minuti nessuno più guardava la partita: tutti gli juventini del mondo guardavano solo Del Piero, un finale perfetto».

Oggi è ultimo in classifica in Australia, però.

«Conosco bene Alessandro, lui vuole solo vincere, dunque so che in questo momento soffre e mi dispiace».

Lei parla sempre alla pancia del tifoso: perché?

«Perché sono un tifoso».

Modificato da Ghost Dog

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“I calciatori francesi dive insensibili”

Il cattivo maestro si vendica in libreria

L’autobiografia dell’ex ct Domenech diventa un best seller

Su Anelka Mi ha insultato e ha provocato lo sciopero della Nazionale: è un dilettante che ha ucciso il gruppo

Su Zidane La finale con l’Italia è ancora un ricordo doloroso. Zidane quella sera si confermò fuoriclasse assoluto

di ANAIS GINORI (la Repubblica 24-12-2012)

PARIGI — Era il simbolo di una vergogna nazionale, mandato via nell’ignominia, tra fischi e fiaschi. Ora Raymond Domenech, 60 anni, assapora un risarcimento postumo in vita, quasi un principio di riabilitazione a mezzo stampa. L’ex “cattivo maestro”, l’allenatore della Nazionale passato dalle vette sfiorate durante i Mondiali 2006 fino al vergognoso ammutinamento dei Bleus nel 2010, sembra definitivamente sdoganato. Da settimane ormai sembra uscito dall’oblìo, almeno sul mercato editoriale. Il suo libro “Tout seul”, Da Solo, è in cima alle classifiche. L’editore Flammarion ha già venduto oltre centomila copie, costretto a ristampare il volume più volte.

Un successo che ha sorpreso un po’ tutti, persino l’urticante Domenech, uomo sempre polemico che ha riconquistato un po’ di consensi attraverso un sincero mea culpa, atto raro nella categoria.

Nelle oltre trecento pagine di autobiografia, l’ex ct ammette gli errori, consapevole di non aver saputo tenere un gruppo di “bad boys” come Franck Ribery, definito «diva insensibile », e Nicolas Anelka, «un dilettante che ha ucciso il gruppo». Fu proprio Anelka a insultarlo provocando il clamoroso “sciopero bianco” della Nazionale, le annesse polemiche, una convocazione all’Eliseo, e infine la sua cacciata da parte della Federazione calcio.

Domenech racconta di essersi sentito più volte abbandonato, critica alcuni Bleus che faticano a cantare la Marsigliese notando invece l’afflato patriottico dell’italiano Gianluigi Buffon. La rievocazione della finale con gli Azzurri del 2006, persa ai rigori e con il famoso “coup de boule” di Zinedine Zidane a Marco Materazzi, è ancora un «ricordo doloroso». L’ex allenatore confessa di aver continuato a sognare, come un incubo, quella vittoria mancata. Nel pagare un tributo al gioco di Materazzi, definito nel bene e nel male come il “vero protagonista della finale”, Domenech ribadisce il valore di Zidane, «fuoriclasse assoluto».

Nonostante un’accoglienza positiva da parte dei lettori e della stampa sportiva, che ha apprezzato lo sforzo di autocritica, il libro di Domenech non ha ricevuto gli stessi giudizi nel mondo del calcio. «L’opinione di una persona incapace non mi interessa» ha detto l’ex giocatore, Robert Pires, che portava la maglia dei Bleus vincitori dei Mondiali ‘98. Il presidente della Federazione francese di calcio, Noel Le Graet, ha commentato: «Il libro è importante soprattutto per Domenech ». Dal 2010 l’ex ct si accontenta di fare il commentatore televisivo, ma spera di tornare presto ad allenare, senza deprimersi per le continue porte sbattute in faccia. «Ho deciso di fare un libro dopo quello che è successo agli ultimi Europei». Il fallimento del suo successore, Laurent Blanc, gli ha rinforzato una antica certezza. I Bleus hanno un grosso problema con il concetto di «fare squadra». E forse i francesi cominciano a essere d’accordo con lui.

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Cristiano Ronaldo e l’arte

dovuta dell’arroganza

L’ossessione del portoghese per la percezione pubblica

della sua figura e le virtù dei nuovi divi della pedata

«In campo non sorrido molto, per questo la gente pensa che io sia antipatico»

Da Ibrahimovic a Balotelli, il successo pare imporre l’ostentazione degli eccessi

L’eccezione è il profilo Mulino Bianco di Messi. Propaganda condotta con altri mezzi

di PIPPO RUSSO (Pubblico 24-12-2012)

Come fosse un premier o un capo di stato, Cristiano Ronaldo ha rilasciato un’intervista di fine anno. L’ha fatto parlando con gli addetti alla comunicazione della federcalcio portoghese, e facendosi apparecchiare il sito web della FPF come fosse un caminetto dal quale parlare al resto del mondo. Guardando ai contenuti della chiacchierata non risulterebbe alcunché di memorabile, non fosse per un passaggio apparentemente secondario ma che forse è il vero motivo dell’intera operazione mediatica. Al compiacente canale web della federazione calcistica nazionale, infatti, l’attaccante del Real Madrid ha affidato uno spunto d’amarezza relativo alla percezione pubblica della sua figura: «Prendo sempre le cose molto sul serio. In campo non riesco a sorridere molto, e questo finisce per essere pregiudizievole per me perché la gente pensa che io sia arrogante o antipatico».

In apparenza si tratta di nulla più che un dettaglio caratteriale, rilasciato nel mezzo di una serie di scontate affermazioni riguardanti gli obiettivi calcistici stagionali e di carriera. Per di più, il lancio di queste dichiarazioni nel gigantesco sistema globale della comunicazione ha preceduto di poco il gossip sulla notte che lo stesso attaccante madridista avrebbe trascorso con la regina assoluta della mignetticrazia italica – uno degli ultimi generi da esportazione del nostro paese, la sola Silicon Valley che siamo riusciti a inventarci. Col risultato che l’intera intervista e la rivendicazione di non arroganza sono rimaste inesorabilmente sommerse dalle ultime notizie dal privè. Nel giro d’una manciata di quarti d’ora il framing nel quale è stata collocata la figura pubblica di Cristiano Ronaldo è tornato a essere quello del gossip, dopo che invano egli stesso aveva provato a imporne uno più attento alla restaurazione dell’immagine personale.

Un vero peccato anche per chi osserva le cose da lontano, perché questa storia della maniacale attenzione riservata dall’attaccante portoghese alla propria reputazione avrebbe meritato un dibattito più diffuso. E non per caso parliamo di «maniacalità». Una rapida ricognizione nel web permette infatti di scoprire che per il golden boy portoghese lo sforzo di scacciare da sé l’aura d’arroganza è diventato negli ultimi tempi un’ossessione. L’operazione di ripulitura della facciata da ogni traccia d’arroganza fa evidentemente parte di una media strategy della quale si trova traccia già nella prima decade dello scorso novembre. In quell’occasione il ragazzo nato nell’isola di Madeira, e battezzato Ronaldo perché il padre era un ammiratore di Ronald Reagan, aveva tenuto a fare chiarezza su questo lato del suo carattere: «Non sono arrogante, ma competitivo. E molti scambiano questa mia voglia di vincere per arroganza, ma se mi conoscessero davvero saprebbero che le cose non stanno così».

A dire il vero, dai frammenti giornalistici datati novembre si capisce anche il senso dell’operazione. Erano i giorni in cui si delineavano in modo definitivo gli equilibri della corsa all’aggiudicazione del Pallone d’Oro (o come si chiama, questo sopravvalutato premio che ormai ha stufato), che danno il portoghese piazzato al secondo posto per il terzo anno consecutivo. Ancora una volta alle spalle di Lionel Messi, la cui immagine pubblica è tutt’altra. Da Mulino Bianco barcellonista, per intenderci. E veritiera o meno che sia quella rappresentazione della figura pubblica dell’argentino, Cristiano Ronaldo sa che essa può essere decisiva nell’incremento del palmares personale dell’uno o dell’altro; e che a parità di rendimento in campo è la capacità di proiettare messaggi socialmente positivi a fare la differenza. Dunque, sono soltanto esigenze di marketing a alimentare in CR7 questa quasi-paranoia rispetto alla propria aura d’arroganza? Molto probabile. Ma ancor più interessante è interrogarsi sull’arroganza stessa come qualità che fa parte d’una sorta di set personale del calciatore contemporaneo. E chiedersi: davvero è possibile per questo nuovo tipo sociale tenersene a distanza? L’interrogativo vale non soltanto nel caso del portoghese, a proposito del quale basta dire che chiunque digiti su Google i parametri «Cristiano Ronaldo + arrogance» troverà una sterminata aneddotica. C’è che nell’arena pubblica di oggi i calciatori hanno assunto specifici role model e espressioni comportamentali un tempo riservati alle rockstar o ai divi del cinema. Collocati su un piano d’amoralità nel quale anche i vizi più beceri finiscono con l’essere seducenti, venendo condonati in seguito all’es i b izione delle virtù pallonare.

I nuovi tipi sociali di riferimento sono loro, che dei divi delle altre «arti» assumono le medesime caratteristiche in termini di tendenza alla stravaganza o all’e ccesso. E fra eccessi e sgradevolezze di vario tipo rientra anche – appunto – l’arroganza. Cioè un atteggiamento di manifesta e manifestata superiorità che sui campi da gioco ha espressione soltanto parziale. Quello che possiamo etichettare come il Nuovo Divo Calcistico assume l’arroganza come un tratto quasi indispensabile della propria rappresentazione pubblica. Un’arte dovuta. Da Ibrahimovic a Balotelli, passando per i capricci di Tevez o le minacce di Samuel Eto’o al giornalista suo connazionale («Conosco il tuo editore, ti faccio licenziare») gli esempi eclatanti si sommano. Ma in generale è il ruolo del calciatore in società, oggi, a essere investito da questo tratto caratteriale. Con poche eccezioni, pare quasi che il successo richieda arroganza, che sia frutto d’una sorta di noblesse d’épée guadagnata attraverso la dura prova e perciò pienamente autorizzata nell’ostentazione. Di quest’ostentazione fanno parte il diritto di esibire l’eccentricità, il «consumo vistoso» come da lezione vebleniana, e l’ostentazione di muscolarità comportamentale sia sul campo di gioco che fuori. Quanto più top è un «top player», tanto più l’arroganza è uno strumento indispensabile della cassetta degli attrezzi in questa insensata corsa al divismo. A meno di essere un Messi, cioè portatore d’un profilo barcellonizzato da «Brave New World» artificiale. Cioè, propaganda condotta con altri mezzi.

Dunque, per Cristiano Ronaldo il dilemma non è «essere o non essere arrogante?», ma «essere arrogante o non essere?». Ci pensi bene, e mediti sul triste destino che gli è toccato: antipatico a tutto tondo, e nemmeno per scelta sua.

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Common sense suffers near-death experience

at the hands of Mr Angry, Sir Alex Ferguson

by TONY EVANS (THE TIMES 24-12-2012)

Sir Alex Ferguson was right. Robin van Persie could have been killed by the ball fired at him by Ashley Williams yesterday. In the same way as the striker could have met a premature end slipping on his studs in the Liberty Stadium tunnel. After all, we read about implausible deaths every day.

Van Persie will no doubt still be shaky from his near-death experience this Christmas Eve morning and hug his children more tightly than ever. Ferguson, on the other hand, should be getting a summons from the FA in his stocking.

It is impossible to escape the conclusion that the Manchester United manager’s rage was inspired less by the threat to Van Persie’s health than the two points dropped by his team. It was a ludicrous, overexcitable statement, the sort that comes when rage short-circuits the synapses of rational thought. It’s part of a dangerous trend.

Chelsea’s accusations against Mark Clattenburg in October had their roots in the same irrationality. They were far more destructive because allegations of racism have to be addressed and treated seriously. Ferguson has launched a million jokes rather than a misdirected inquest into the state of racial relations in the game. However, the forces that drove both outbursts need to calmed.

The Scot could see this clearly in the Clattenburg case. He was one of the first to defend the referee in tones that suggested he understood the enormity of the charge.

Yesterday, though, he was on the attack against Michael Oliver, undermining the official’s reputation and dismissing his performance as “shocking”. He even suggested that the FA needed to take further action, despite Oliver handing out a yellow card.

The discourse around football is becoming increasingly acrimonious. The growth of social media seems to have produced a new level of unpleasantness and tribalism and it feeds off a “my-club-right-or-wrong” ethos.

The Luis Suárez and John Terry cases have proved that there are too many people prepared to check in their principles at the turnstyles and take the most objectionable stances in support of their club.

When arguably the most senior and respected figure in British football takes such an irrationally angry stance, it legitimises legions of zealots to spout even more ludicrous nonsense.

Referees are the main losers. They are over-analysed and held to higher standards of performance than the players they control. Yesterday, Oliver was not only a useless official, but an accomplice to a killing. Almost.

Ferguson should know better. Some managers do.

Last week, David Moyes condemned Marouane Fellaini immediately after the Everton midfielder head-butted Ryan Shawcross, the worst of a series of incidents where Fellaini was aggressively physical. It was also encouraging to hear Moyes shoot down expectations that Fellaini would have time off over Christmas. If anything, the Belgian will be forced to work harder.

But there were plenty of voices prepared to absolve Fellaini. He would not have sent the head in had not Ryan Shawcross been holding him, a widespread line of sophistry said. So the blame was turned on the Stoke City defender . . . and, of course, the referee who let the shirt-tugging happen.

Moyes did not encourage the hysteria. Ferguson embraced it yesterday. The only thing in mortal danger was common sense.

Oh, and Ferguson was right. Williams could have hurt Van Persie. It was right to book the Swansea City man — just not for attempted murder.

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POLITICA E MARKETING

Gli sponsor si sfilano

la maglia della Palestina

e l’affare lo fanno i tifosi

La rinuncia delle grandi aziende ha scatenato la creatività

La più venduta è quella di Sarsak che ora studia diritto

Una casacca verde in onore di Hamas, una rossa per ricordare i martiri

Nella partita contro il Nepal in Coppa d’Africa l’esordio della nuova divisa

La t-shirt vengono cedute a 15 sterline e si possono anche personalizzare

di LUIGI GUELPA (Pubblico 24-12-2012)

Una maglia verde, in onore di Hamas, una rossa, per ricordare il sangue dei martiri, e in arrivo ce n’è anche una versione in giallo, i colori di Fatah, il partito fondato da Yaser Arafat.

Difficile tenere a distanza di sicurezza la politica dallo sport quando si parla di Palestina, soprattutto da quando la nazionale di calcio non è più un manipolo di dilettanti allo sbaraglio, ma una squadra di professionisti di buon livello. Persino Abu Mazen è cosciente di poter trarre un benefico ritorno d’immagine dalle prestazioni sempre più convincenti della squadra di pallone e non è raro vederlo immortalato mentre stringe le mani dei calciatori. L’obiettivo dichiarato è un viaggio premio a Mosca per i Mondiali del 2018. Fallito l’appuntamento iridato brasiliano, si guarda avanti e si pianifica il futuro nei minimi dettagli. Partendo dalla maglietta, diventata una questione spinosa per colpa degli sponsor tecnici. Negli anni si sono alternati un po’ tutti i colossi mondiali per vestire la squadra di una nazione divisa a metà da Israele. A fronte di tante promesse, e di pochi soldi, i matrimoni sono saltati uno dopo l’altro, lasciando gli «Al Fursan», dall’arabo «i cavalieri», nudi e lontani dalla meta. Tutta colpa del merchandising, di un dio denaro che avrebbe voluto trarre profitto anche dalla Palestina, che invece purtroppo non se la fila nessuno. «Non è proprio così - puntualizza il diciottenne Hani Naboulse, difensore della nazionale - le aziende sportive pensano solo ai grandi numeri. Se avessero saputo accontentarsi, la griffe palestinese avrebbe raccolto un discreto successo. Come al solito abbiamo rimediato nell’unico modo che conosciamo: lavorando da soli e senza un sostegno dall’esterno».

Hani conosce bene le dinamiche dello sport palestinese pur essendo nato in Danimarca. I suoi genitori sono profughi e vivono a Kokkedal, 30 chilometri a nord di Copenhagen. Lui gioca nel Lyngby, la squadra che fu di Klaus Berggreen. Frequenta il liceo scientifico ed è entrato a far parte della nazionale grazie a Facebook. «Non avrei mai avuto la possibilità di presentarmi a Gaza o in Cisgiordania, le autorità israeliane non rilasciano i permessi ai figli dei rifugiati politici. Così ho chiesto l’amicizia al commissario tecnico Jamal Mahmoud sul social network. Ho condiviso un paio di video sulla sua bacheca e dopo avermi visto all’opera, seppur con un sistema piuttosto artigianale, mi ha chiamato».

Hani Naboulse ora è in Kuwait, dove la Palestina ha disputato senza infamia e senza lode il West Asian Championship, torneo riservato alle nazionali dell’Asia occidentale. Ma da marzo si fa sul serio. Iniziano le qualificazioni alla Coppa d'Asia del 2015. L’esordio è previsto contro il modesto Nepal. Per l’occasione, la Palestina sfoggerà la nuova casacca, senza sponsor tecnico altisonante, frutto del lavoro artigianale di due giovani sarti di Ramallah che hanno vinto un concorso ideato dalla federcalcio. «Nessuno voleva disegnare la nostra maglia –racconta il presidente della locale federazione Jibril Rajoub - e allora ce la siamo creata noi. Sono arrivati decine e decine di bozzetti. Gli uffici della federazione sembravano un atelier di moda. Quelli di Rafit e Mourad, due giovani stilisti di Ramallah, ci sono sembrati i più originali e hanno messo d’accordo la giuria».

La versione verde è la maglia per le partite casalinghe. Fa sorridere pensare alle gare tra quelle che in codice sportivo si chiamano «mura amiche». La Palestina, salvo rare eccezioni, è costretta per motivi di sicurezza a esibirsi all’estero. Dubai, Abu Dhabi (negli Emirati Arabi) e Doha (in Qatar) sono le roccaforti della squadra diretta da Mahmoud. Per le gare in trasferta ecco la divisa rossa, con tanto di disegno stilizzato della bandiera. «Il rosso è il sangue dei nostri martiri - racconta Hani - è giusto onorarli quando scendiamo in campo. Se il calcio vive anche in Palestina è merito di chi ha combattuto per la nostra libertà». Pur vivendo nella fredda Danimarca, la dottrina politica, unita a una certa avversione epidermica verso Israele, di questo giovane si tastano con mano. «Arriverà anche la maglietta gialla. Per ricordare nostro padre Arafat. Il giallo del suo partito, colore del drappo delle tante battaglie». Arafat, per la cronaca, fu uno dei fondatori della nazionale di calcio palestinese e finanziò di tasca propria, nel lontano 1998, lo stipendio del primo allenatore, l’argentino di origini italiane Ricardo Carugati. Hani sogna il campionato italiano. Per ora lo guarda con trasporto dalla televisione, ma spera un giorno di giocarci. «Quello spagnolo è decisamente più spettacolare, ma per un difensore non c’è scuola migliore di quella italiana».

Evidentemente la storia del catenaccio ha davvero varcato i confini alla velocità della luce, arrivando in Scandinavia e rimbalzando in Palestina. Con la stessa rapidità della storia della maglia fresca di sartoria, che ha ottenuto un’eco notevole perfino sulla stampa locale. I quotidiani Al Ayyam e Al Quds ci hanno dedicato alcuni servizi, intervistando i due giovani stilisti, e ricordando come in realtà la t-shirt goda di un vivace merchandising, contrariamente a quanto sostenevano le aziende leader di articoli sportivi. La federcalcio di Ramallah ha raggiungo un accordo con il negozio on-line britannico Subside Sports che ne sta vendendo parecchi esemplari. «Al momento abbiamo a disposizione soltanto quella verde - raccontano da Chagford i titolari, i due cugini Jerry and Richard Smith - la si può acquistare per 15 sterline. Con un piccolo sovrapprezzo riusciamo anche a personalizzarla». Vanno a ruba i numeri, con tanto di nomi, dell’attaccante Fahed Attal (10) e del difensore Abdelatif Al Bahdari (5), anche se il boom di vendite appartiene alla casacca con il numero 92 e il nome di Mahmoud Sarsak stampato sulle spalle. Ormai è un ex calciatore della nazionale pur avendo appena 25 anni. Il futuro, che avrebbe potuto essere denso di soddisfazioni, è stato frantumato dallo sciopero della fame. Sarsak è il calciatore che venne arrestato dalla polizia israeliana nel giugno del 2009 mentre stava cercando di raggiungere i suoi compagni di nazionale. Tornò in libertà solo il 10 luglio scorso in seguito a un vero e proprio battage mediatico su scala mondiale. Ora vive a Tunisi, ha ripreso gli studi e vuole laurearsi in legge. Si occuperà di diritto sportivo e marketing. Nuove conoscenze che in futuro metterà a disposizione della Palestina, magari anche per far lievitare i profitti di una maglietta «fai da te» che sta vendendo oltre le più rosee aspettative.

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Scommesse Gli sviluppi sul mercato nero del pallone. La procura di Bari

sta per chiudere l’indagine: resta da chiarire il giallo sul caso Colombo

Cremona vicina a chi vendeva la serie A

Grazie ai tabulati telefonici, finiti nel mirino due o tre nuovi personaggi

Giustizia sportiva Palazzi entrerà in azione solo in estate, allora si occuperà della Lazio e del suo capitano Mauri

di ANDREA ARZILLI & ARIANNA RAVELLI (CorSera 24-12-2012)

MILANO — Mister X e i suoi fratelli. La polizia giudiziaria di Cremona continua a cercare di dare un nome a quei personaggi (ormai è chiaro che ce n’è più d’uno) in grado di carpire segreti a diversi protagonisti della serie A per poi mettere sul mercato — a prezzi alti: anche 400 mila euro — le informazioni sulle partite combinate, soprattutto over. La caccia degli investigatori sembra aver dato buoni risultati: soprattutto l’analisi dei tabulati telefonici ha permesso di scoprire numerosi contatti con i soliti noti del calcioscommesse da parte almeno di un paio di persone. L’inchiesta sul calcio in vendita ricomincia da qui: di sicuro caratterizzerà anche il 2013.

Qui Cremona

Il procuratore di Cremona Roberto Di Martino si appresta a festeggiare il Natale abbastanza soddisfatto dei risultati delle indagini: dei re degli over hanno parlato sia Almir Gegic, il rappresentante del gruppo degli slavi che passerà le feste nel carcere di Cremona, sia Massimo Erodiani, il proprietario di una ricevitoria di scommesse. A proposito di Gegic, il suo avvocato Roberto Brunelli ha presentato un’istanza di revoca della misura cautelare, ma il pm Di Martino ha già scritto un lungo parere contrario. Ora si dovrà pronunciare il gip Guido Salvini ed, eventualmente, il tribunale del riesame. Gegic si è presentato ai magistrati dopo oltre un anno e mezzo di latitanza, con pochissima volontà di collaborare. Ha ammesso solo le circostanze non smentibili (15 match combinati, molti dei quali del Siena) e ha fornito una versione «minimalista» del suo ruolo, cercando di smarcarsi dal vero capo Ilievsky. A Cremona non gli credono. Nemmeno quando ripete di non sapere nulla delle partite che riguardano la Lazio. Sul capitano Stefano Mauri si resta ai risultati delle indagini dei mesi scorsi e quindi alle parole di Gervasoni, alla confessione di Horvath (rappresentante del gruppo degli «ungheresi» che ha trattato la gara col Lecce), il telefono e la tessera telefonica «dedicata» che Mauri dice gli serviva per scommettere sull’Nba.

Qui Roma

Il fatto che il pm Di Martino abbia chiesto (e ottenuto) una proroga di altri seimesi per le indagini (l’ultima riguarda 33 persone tra cui il giocatore della Lazio Giuseppe Sculli) fa sì che il procedimento della giustizia sportiva sulla squadra romana slitterà all’estate. È presto per dirloma, probabilmente il procuratore Stefano Palazzi dividerà il caso Lazio dall’altra inchiesta in arrivo sulle scrivanie della Figc, quella sul Bari.

Qui Bari

Il nuovo filone riguarda le stagioni 2007-2008 e 2008-2009. Le partite combinate secondo gli investigatori sono tre: Bari-Treviso (11 maggio 2008), Bari-Piacenza (9 maggio 2009) e Salernitana-Bari (23maggio 2009),ma Cristian Stellini nell’intervista al Corriere ha ammesso la prima e l’ultima. L’inchiesta ora è al traguardo: gli indagati sono una ventina e dopo le feste dovrebbe arrivare la comunicazione di chiusura delle indagini. In quell’occasione è molto probabile che qualcuno dei giocatori decida di farsi risentire. Magari per precisare, o per correggere alcuni punti. Come per esempio l’ormai noto episodio Colombo: l’attaccante (in genere riserva) che era stato scelto da Antonio Conte per la partita con la Salernitana ma si rifiutò di scendere in campo perché «tutti sapevano che sarebbe stata una farsa ». Davanti a chi Colombo ha pronunciato questa frase? Per Kutuzov, Gillet, Esposito e Lanzafame davanti alla squadra, quindi anche all’allenatore Antonio Conte (che a Bari non è indagato) ma che così rischierebbe un’altra omessa denuncia in sede di giustizia sportiva. Per loro Conte avrebbe comunque capito che la squadra (già promossa) voleva affrontare la trasferta a Salerno con arrendevolezza per via del gemellaggio tra le tifoserie. Non sapeva certo dei 160 mila euro che i giocatori, secondo l’accusa, si sono intascati. Poi c’è un gruppo di sette ex che finora ha taciuto: Bianco, Bonomi, Santoruvo, Ganci, Parisi, De Vezze, Galasso, tutti rappresentati dall’avvocato Piero Nacci Manara, che collabora con il legale Paolo Rodella che ha in gestione le sorti sportive del Siena e di Mezzaroma. Un ponte tra Bari e Cremona.

Qui Svizzera

Forse non c’entra con le scommesse, ma altre novità sono attese dalle Procure che indagano sui soldi dei calciatori in Svizzera.

___

CALCIOSCOMMESSE

A Cremona è sempre caccia al “mister X”

di ANDREA RAMAZZOTTI (CorSport 24-12-2012)

MILANO - La Procura di Cremona non si ferma e, dopo gli interrogatori di Gegic e (soprattutto) Erodiani, la polizia giudiziaria ha avviato un’intensa attività per individuare il/i Mister X in grado di vendere, in cambio di 600.000 euro, informazioni certe sull’ “Over” di partite di Serie A che vedevano coinvolte formazioni del centro-sud. I riscontri sono definiti «molto interessati» perché gli accertamenti finora completati sono stati «estremamente produttivi» e hanno evidenziato contatti telefonici delle nuove persone attenzionate con altri indagati dell’inchiesta. Difficile, sostengono a Cremona, che si tratti di un caso anche perché il/i Mister X non sono dirigenti, giocatori o tesserati di qualche club. Le chiamate, dunque, potrebbero essere finalizzate a uno scopo illecito. Il condizionale rimane però d’obbligo e prima di fare qualsiasi altro passo in avanti e magari procedere a nuovi interrogatori, nel palazzo di giustizia della città sul Po l’obiettivo è quello di definire le eventuali responsabilità delle persone coinvolte. Perché, sostengono gli inquirenti, gli uomini in grado di offrire i “servizi” del Mister X descritto da Erodiani e Gegic, potrebbero essere più d’uno. E certi contatti telefonici evidenziati dai tabulati telefonici rafforzerebbero la teoria degli investigatori.

GEGIC LIBERO? - Roberto Brunelli, legale di una delle menti del clan degli zingari, ha intanto presentato istanza di revoca della misura cautelare dopo gli interrogatori già svolti con il gip Salvini e il pm Di Martino. Quest’ultimo ha dato parere negativo, ma l’ultima parola spetta a Salvini che dopo Natale deciderà. C’è infine timida speranza che uno tra Choo Beng Huat e Pho Hock Kheng, entrambi da un anno destinatari di una misura di custodia cautelare, venga estradato da Singapore. Niente da fare invece per il boss Tan Seet Eng.

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L'Uefa studia la norma anti-Psg

Legali al lavoro per bloccare il finanziamento da 800 milioni di euro dell'Ente

del Turismo del Qatar. In gioco la sopravvivenza del fair play finanziario

di GIOVANNI CAPUANO (PANORAMA.IT 23-12-2012)

Sono giornate di grande imbarazzo a Nyon dove i legali dell'Uefa stanno studiando come sterilizzare l'ultima cascata di milioni di euro in arrivo dal Qatar con direzione Psg. Una montagna alta 800 milioni di euro nei prossimi quattro anni e con effetto retroattivo che consente al club dello sceicco Nasser Al-Khelaifi di aggirare le regole del fair play finanziario con la complicità degli enti di controllo del calcio francese.

La partnership è con la QTA, una sorta di Ente del Turismo qatariota il cui presidente Issa bin Mohammes al-Mohammed è stato nominato lo scorso maggio dall'emiro in persona. Il legame con la famiglia regnante è, dunque, strettissimo al pari di quello con la Qatar Sports Investments che detiene la proprietà del club. Nell'accordo c'è l'impegno a versare cifre a cresce da 150 a 200 milioni di euro a stagione fino al 2016.

Il finanziamento è addirittura retroattivo ed incide già sul bilancio della stagione 2011-2012 per la quale il Psg non avrebbe certamente potuto rispettare i parametri dell'Uefa che prevedono un rosso massimo di 45 milioni spalmato in tre esercizi. In tutto saranno quasi 800 milioni di euro in quattro anni che serviranno a coprire il monte-ingaggi destinato a superare quota 200 milioni nella stagione 2014-2015 allineandosi così ad altre grandi società europee.

L'Uefa si sta muovendo ma si è trovata davanti a uno scoglio imprevisto. L'accordo, infatti, è studiato nei minimi dettagli per stare dentro le norme del fair play finanziario sfruttando un 'buco' nel regolamento Uefa dove non è previsto alcun divieto per finanziamenti provenienti da Stati non europei. L'Ente del Turismo del Qatar è un ente statale e, dunque, la pioggia di soldi è ufficialmente giustificata come aiuto di Stato non europeo, fuori dalla giurisdizione di Bruxelles e di Nyon.

I legali sono al lavoro per scrivere una correzione della norma e rendere irricevibile la partnership del Psg. Il rischio è una battaglia durissima e l'obiettivo finale è stabilire un tetto massimo al valore di sponsorizzazioni e accordi commerciali per evitare trucchetti come quello del Manchester City con l'Etihad Airways che pure non è stato sufficiente per evitare un rosso da 120 milioni di euro.

La strada sarà prendere il valore massimo di mercato certificato da un ente terzo, aumentarlo di una percentuale fissa e non accettare accordi superiori. Si tratterà, però, di una legge ad hoc contro gli sceicchi e, come tale, esposta a ricorsi. La battaglia per il fair play finanziario è appena cominciata.

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El laberinto de Florentino Pérez

Al presidente del Madrid le desagrada la idea de destituir a

Mourinho que, según su entorno, intenta forzar su salida. El

dirigente cree que supondría el reconocimiento de un grave error

Zidane le sugirió al presidente que Lippi sería un técnico provisional magnífico

El club ve difícil fichar al italiano, que tiene dos años más de contrato en China

por DIEGO TORRES (EL PAÍS.com 23-12-2012)

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“La tensión no es buena”, dijo Florentino Pérez en la comida de Navidad con la prensa, la semana pasada, “y quien la hace no saca rendimiento”. Aseguran en su entorno que, cuando José Mourinho lo escuchó, se puso furioso porque sintió que el presidente cuestionaba su estilo de gestión basado en la agitación, lanzándole a través de los medios el ataque que no se atreve a dirigirle personalmente.

El mánager del Madrid siempre sospechó que nadie le decía la verdad a la cara. Y con razón. La lista de personas dentro del club que han mantenido una línea coherente hablándole con total franqueza es breve: Pedro León, Lass, Carvalho, Cristiano, Zidane y Casillas son muy poca gente. Paradójicamente, Mourinho no mantiene con ninguno de ellos más trato que el estrictamente profesional, si es que existe algún trato. Mourinho, que exige una sinceridad brutal, es incapaz de ocultar su repugnancia por quienes le contradicen. Conocedor de ello, Florentino Pérez le ha manifestado su apoyo con más fuerza cuanto más ha sopesado la posibilidad de destituirle de manera fulminante. En Valdebebas aseguran que, intuitivo por naturaleza, el técnico no se deja engañar. Al revés. También sostienen que hombres como Karanka o Rui Faria, sus auxiliares, aseguran que en el Madrid solo puede perder prestigio y dinero.

La derrota del sábado en Málaga (3-2), con la suplencia de Casillas como escenificación de la desafección total entre mánager y plantilla, añade complejidad a la ya de por sí la laberíntica relación que mantienen Florentino Pérez y Mourinho. A pesar de la gravedad de la situación, el presidente es incapaz de imaginar un futuro nítido sin el hombre alrededor del cual construyó todo su proyecto.

Hace un mes que Florentino Pérez emprendió una ronda de consultas entre sus hombres de confianza dentro y fuera del club. Unos consejeros, cada vez menos, le recomendaron que mantuviera a Mourinho a cualquier precio porque de otro modo perdería su gran escudo. Otros asesores, los más conectados con el equipo, le advirtieron de que el tiempo se agotaba y que era preciso tomar medidas drásticas para tener alguna posibilidad de salvar la temporada. Le informaron de que al mánager se le había escapado el control del vestuario y que sería prácticamente imposible conquistar un título si antes no lo destituía. Fuentes próximas al presidente admiten que se vio desbordado por los acontecimientos. “No lo tiene claro”, dicen. La victoria en el derbi le permitió ganar algo de tiempo, pero no demasiado. En el mes transcurrido desde que mastica la decisión, el Madrid ha perdido ante el Betis, el Celta (en Copa) y el Málaga, y ha empatado contra el Espanyol. En Liga la brecha de puntos con el Barcelona ha pasado de ocho a dieciséis y la clasificación para los cuartos de final de la Copa ha quedado comprometida tras el 2-1 en Vigo.

Dos factores han persuadido a Florentino Pérez para no echar a Mourinho en el último mes. El primer motivo de cautela es que, según reflexiona el presidente, la destitución supondría el reconocimiento de un grave error del que él es el máximo responsable. Más que un violento giro en su política deportiva, la destitución significaría que el hombre a quien el propio Florentino Pérez concedió más poder que a ningún entrenador en la historia del club, con prerrogativas que incluso le permitieron alterar drásticamente la imagen que proyectaba una institución centenaria, fue el hombre equivocado. El presidente teme que, tras sus continuadas y vehementes muestras de apoyo, su identificación con Mourinho le exponga al juicio de los socios.

El otro factor que inspira cautela en Florentino Pérez es la indemnización por la rescisión unilateral del contrato, que asciende a 20 millones de euros netos. En el Madrid aseguran que la cantidad está reservada desde hace semanas por si, finalmente, se produce lo inevitable. Los 20 millones de la rescisión se sumarían así a los 20 millones que pagaron al Inter por su fichaje, totalizando gastos por 40 millones. El propio Florentino Pérez observa que esta cantidad es difícilmente justificable por un técnico que solo ganó una Copa y una Liga. El desembolso, además, coincidiría con el vencimiento del segundo plazo del pago de Kaká y Cristiano, pudiendo hipotecar los fichajes del año que viene.

Zinedine Zidane se encuentra entre los colaboradores que han invitado a Florentino Pérez a plantearse la destitución de Mourinho si el equipo no funciona. Algunos de estos asesores sostienen que, aunque suponga el reconocimiento de un error, tomar decisiones es un deber del presidente en momentos de crisis. Le han avisado de que, de no echarlo, lo más probable es que se encuentre en marzo fuera de todas las competiciones y, además, rodeado de abonados que se girarán hacia el palco para acusarle de pusilánime. Un asesor que conoce al vestuario le recordó al presidente que cuando Abramóvich despidió a Mourinho del Chelsea en 2008 el equipo reaccionó alcanzando la final de la Champions. El entrenador de reemplazo fue Avram Grant. Como Toril, casi un desconocido. Irrelevante, en cualquier caso, para estimular a una plantilla que, como ahora ocurre a los jugadores del Madrid, estaba deseosa de demostrar que valía más que su mánager. El presidente sabe desde hace un mes que los futbolistas desean liberarse de Mourinho para poder reivindicarse. Pero desconfía de esta solución.

Según fuentes del club, Zidane le sugirió al presidente que Marcello Lippi sería un técnico provisional magnífico para hacerse cargo del equipo hasta junio. Le avala su don de gentes tanto como su maestría para gestionar eliminatorias a doble partido (ningún otro técnico ha dirigido más finales de Champions). Fascinado ante la posibilidad de dar con la tecla, Florentino Pérez investigó la posibilidad de contratar al italiano con resultados decepcionantes. Lippi es el entrenador mejor pagado del planeta y tiene dos años más de contrato con el Guanghzou chino. Su fichaje es una quimera y los rastreadores del club no descubren otro candidato que ofrezca garantías suficientemente tranquilizadoras para un presidente que no encuentra la salida.

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Casillas: “Es una situación difícil”

10.000 personas abarrotan el Palacio de Deportes para mostrar su apoyo al capitán del Madrid

en un partido solidario un día después de que Mourinho le señalara con la suplencia en Málaga

por FAUSTINO SÁEZ (EL PAÍS.com 23-12-2012)

Pocos podían imaginar cuando se convocó la tercera edición del Partido por la Ilusión de la fundación Iker Casillas que el evento iba a adquirir semejante connotación de plebiscito popular. El acto benéfico que convoca anualmente el capitán del Madrid con el objetivo de fomentar el empleo entre los jóvenes en riesgo de exclusión se convirtió en un baño de cariño para el portero en pleno desencanto tras su suplencia en Málaga. Casillas volvió a ser titular y, capitaneando al equipo blanco que estaba dirigido por el exseleccionador Luis Aragonés, se entregó, no sin cierto rubor, a la fiesta solidaria.

Preguntado por el castigo de Mourinho, el portero respondió: "Es una decisión del entrenador y hay que acatarla. Solo me queda entrenar más fuerte si cabe para demostrarle que está equivocado y recuperar su confianza. No estoy acostumbrado a esto y es una situación difícil pero el club, la entidad y los compañeros están por encima de todo", contó el anfitrión del evento que detalló cómo se enteró de que su entrenador le guardaba un asiento en el banquillo de La Rosaleda. "Me lo comunicó poco antes de la charla táctica. "No me explico nada especial. Nuestra relación es normal y ayer nos deseamos Feliz Navidad. No me da explicaciones cuando juego, así que cuando no juego tampoco".

El protagonista absoluto de la noche se esforzó por aparentar normalidad tras recibir la cariñosa ovación de las gradas. “Más o menos podía intuir mi suplencia a lo largo de la semana”, explicó, para acto seguido reconocer que se veía “bien de forma”, en alusión a la explicación de Mourinho tras el partido ante el Málaga justificando la titularidad de Adán por estar en mejor estado. Cuestionado por los rumores de destitución del técnico portugués también recurrió a la diplomacia. "El míster nos ha dado mucho y seguro que puede seguir dándonoslo, pero nos decisiones en las que no me puedo meter."

Unas 10.000 personas entregadas a Iker abarrotaron el Palacio de los Deportes de la Comunidad para vivir el evento que contó con la presencia de Florentino Pérez en el palco de honor. Melendi, Andy y Lucas, Xuso Jones, Henry Mendez, Adrián Rodríguez y Café Quijano entre otros ejercieron de lustrosos teloneros del partidillo de artistas y futbolistas con guiños de apoyo a Casillas hasta que el “¡Iker, Iker, Iker!” recorrió las gradas.

Fernando Llorente, Guti, Morientes, Morata, De la Red, Fernando Hierro y el director de relaciones institucionales del Madrid, Emilio Butragueño -entre la amplia colección de artistas- se vistieron de corto y se significaron con el capitán blanco con su presencia en el acto solidaria arbitrada por Iturralde González y Rafa Guerrero. "No tiene que preocuparse de nada. La gente sabe quién es y el palmarés que tiene. No estoy en la cabeza de Mourinho ni dentro del vestuario para interpretarlo, pero que Iker es el mejor del mundo es indiscutible", resumió Guti tras el partido. Iker fue el último en saltar al tapete, con sonrisa de agradecimiento, vestido de verde esperanza y como titular indiscutible. "Ojalá el 2013 nos traiga entre sus regalos mucha ilusión", cerró.

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Vittorio Oreggia - Tuttosport -24-12-2012

TORINO - Nella pancia dello Stadium, là lungo il corridoio che conduce agli spogliatoi, dove né le telecamere né i comuni mortali possono buttare l’occhio neppure per sbaglio, sono appese le gigantografie in bianco-e-nero di tutti i capitani della Juventus. Alle pareti, ogni tanto, compaiono anche i graffiti di frasi famose pronunciate dai calciatori che la storia della società più scudettata d’Italia l’hanno scolpita negli annali, dal 1897 a oggi. Proprio di rimpetto allo stanzone della prima squadra c’è spazio per il dettato di Omar Sivori, il Cabezòn: «Qui bisogna lottare sempre. E quando sembra che tutto sia perduto, credici ancora. Alla Juventus non si molla mai». A forza di leggerla e rileggerla, Antonio Conte deve averla fatta diventare la colonna sonora della sua esistenza di allenatore-combattente. In campo e fuori..

Buon Natale, Conte. Era da tempo che ne sognava uno così...

«Un buon Natale, sì. Il bilancio del mio 2012 è più che positivo, sotto tutti i punti di vista. Abbiamo conquistato lo scudetto da imbattuti, siamo arrivati a disputare la finale di Coppa Italia, abbiamo vinto la Supercoppa, concludiamo l’anno in testa alla classifica, negli ottavi di Champions League e nei quarti di Coppa Italia... Insomma, più di così».

Togliamoci subito la grana più pelosa: Scommessopoli. Nemmeno questa vicenda le ha rovinato la festa?

«Assolutamente no. Il primo scudetto da tecnico mi ha regalato una gioia indescrivibile, un trionfo che ha superato in termini di emozioni anche il successo ottenuto in Champions League da giocatore. No, niente e nessuno possono sporcare questa felicità, anche se è stata una vicenda dolorosa che mi ha portato a riflettere e a lavorare su me stesso per costruire qualcosa di positivo. Ora posso tranquillamente affermare di essere più forte».

Raccontava Josephine Hart che chi ha subìto un danno è più pericoloso perché sa di poter sopravvivere...

«Io so che è stata dura».

E’ stato anche buon profeta. In quella famosa conferenza stampa “di pancia”, ispirazione per la satira di Maurizio Crozza, Lei lanciò un avvertimento: quello che mi sta capitando adesso può capitare un giorno a chiunque. Ad esempio il Napoli...

«Non sono stato profeta, semmai sono stato obiettivo... C’è qualcosa che non va nel sistema. Vedere cosa accade al Napoli mi dispiace, non lo trovo giusto. Come sostiene il presidente Agnelli c’è bisogno di una riforma della giustizia sportiva. Io ai giocatori del Napoli darei una medaglia: da quanto si legge, loro ascoltano una proposta e la rifiutano categoricamente».

Quattro mesi interminabili, che però sono trascorsi (quasi) come se niente fosse...

«Lo ripeto, questa vicenda ha reso me e la società più forti. Poteva essere un disastro, invece è venuta fuori una compattezza straordinaria e una straordinaria unità di intenti. L’anormalità è diventata ordinaria amministrazione. Anche in questo caso è stato Agnelli a dettare la linea politica a indicare la rotta. Il presidente mi ha fatto sentire più protagonista, più partecipe. Da parte mia, con i giocatori non ho mai accennato a nulla che mi coinvolgesse, le mie grane le ho lasciate fuori dallo spogliatoio».

Lo scudetto dei... miracoli?

«A novembre e dicembre, quando eravamo alla pari con il Milan, a chi mi chiedeva se ce l’avremmo fatta, rispondevo sempre così: per i miracoli ci stiamo attrezzando. In effetti, è stato compiuto qualcosa di eccezionale grazie all’impegno e alla professionalità di tutti, dai dirigenti fino ai giardinieri di Vinovo».

Ma la Coppa Italia l’avete persa: perché?

«Se non avessimo vinto lo scudetto non sarebbe finita in quel modo. Il Napoli è sceso in campo con più rabbia di noi, anche se...».

Anche se?

«Se l’arbitro avesse fischiato il rigore netto su Marchisio...».

Ahi ahi... E la Supercoppa dei veleni?

«E’ stata una partita vinta meritatamente, dominata in maniera netta. Senza discussioni».

La Juventus è tornata antipatica...

«Prevedibile, in un certo senso. L’avevo anticipato: ridiventeremo antipatici nel momento in cui avremo riannodato il filo con il successo. Perché - vi domando - Lippi, Capello e Sacchi sono mai stati simpatici? In più metteteci la componente Juventus: o la ami o la odi. Stop».

Tutto è ri-cominciato con il gol-non-gol di Muntari. Cose Le fa venire in mente quel ricordo?

«La rete annullata a Matri».

Allegri Le sta sull’anima...

«No, assolutamente. E’ un avversario e se c’è una guerra, lo dico in senso lato, diventa un nemico. La guerra esiste anche a livello mediatico, chi meglio la fa più destabilizza l’avversario».

Galliani... Ripronuncerebbe certe frasi?

«E quali?».

La storia del mafioso...

«Mai detto, mai detto. Di Galliani ho grande rispetto perché lo considero un ottimo dirigente calcistico, come lo fu Allodi».

Ora è Moratti che bacchetta...

«Un nemico pure lui nella guerra mediatica di prima... Tutto, però, deve svilupparsi nel rispetto e nell’educazione».

Agnelli sostiene che il vero fuoriclasse della Juventus sia Lei, capace di fare giocare bene chiunque...

«Fossi ancora giocatore mi piacerebbe avere un allenatore come Conte. Mi aiuterebbe a vedere il calcio in maniera diversa».

Definisca del suo calcio.

«Organizzato».

Più Mou o più Guardiola?

«Loro stanno sul piedistallo, io lavoro per collocarmi allo stesso livello».

Quando conta in percentuale un allenatore?

«E’ variabile: il 10 %, il 20 % o di più... Dipende da cosa riesce a trasmettere ai giocatori delle sue idee».

Lei allenatore, perché? La sua è una vocazione?

«Le racconto un aneddoto. Io giocavo nelle giovanili del Lecce ma per divertimento facevo l’allenatore della squadra di mio fratello che frequentava le elementari. Vado oltre?».

Come no, vada...

«Da giocatore sono stato un buon gregario, però non avrei mai potuto raggiungere le vette di un fuoriclasse, di uno Zidane, di un Baggio, di un Del Piero. Ho raccolto il massimo, cinque scudetti, una Champions League, sono diventato capitano della Juventus. Il top del mio top. Da allenatore no: ho sempre pensato di poter arrivare dove non mi sono neppure avvicinato da calciatore».

Vede? Un predestinato...

«Io il calcio lo studio dal punto di vista tecnico, tattico, psicologico, fisico, gestionale. Se sono a casa, scelgo un libro che mi aiuti nella mia professione. Adesso sto leggendo Open, l’autobiografia di André Agassi. Anche questo mi agevola per capire come può essere la testa di un campione. Sto pure studiando inglese e devo ammettere che fatico da bestia: però mi serve con gli stranieri per comunicare in maniera corretta, per essere persuasivo sotto il profilo motivazionale».

Stratega o psicologo?

«Un buon allenatore deve essere un po’ tutto e non può essere una cosa sola».

Dopo la Juventus?

«Dopo vedremo... Per me questo è il coronamento di un sogno. Non a caso, quando smisi di giocare dissi: il mio è un arrivederci, non un addio, perché sulla panchina della Juventus tornerò da allenatore. Mi auguro che sia un percorso lungo... Dopo sarà all’estero».

In Italia no?

«La Nazionale mi piacerebbe, però è uno step successivo».

Torniamo alla Juventus: è più forte di quella dell’anno scorso?

«Sì, lo è. perché un anno di lavoro alle spalle ci ha consentito di superare quattro mesi delicatissimi senza l’allenatore in panchina. Fosse successo la scorsa stagione sarei stato il primo a consigliare Agnelli di cambiare strada».

E’ più forte e potrebbe essere ancora più forte con Drogba...

«Non so come sia uscito il nome di Drogba. A me nessuno ne ha parlato né tantomeno io l’ho chiesto. Detto questo, si tratta di un fuoriclasse che ha alzato la Champions League ci farebbe comodo».

In casi come questi, prevale l’egoismo dell’allenatore o il buonsenso dell’uomo d’azienda?

«Bisogna arrivare a un compromesso. L’egoismo serve alla società per conquistare risultati di prestigio, ma c’è anche l’aspetto dei conti aziendali di cui si è partecipi. Io sono una via di mezzo...».

Cosa si aspetta dal mercato di gennaio?

«Sappiamo cosa ci serve e sappiamo dove intervenire. Sappiamo anche che 50 milioni non li abbiamo da spendere. Ma con la progettualità arriveremo a comprare campioni da 35-40 milioni».

Una frase per convincere il presidente Agnelli a investire su Drogba...

«Non una frase ma una serie di argomentazioni. Beh.... fino adesso è stato contento, potrebbe essere ancora più contento».

Già la Champions League. Il Celtic è un ossicino.

«Da azzannare con la medesima forza del Barcellona o del Real. La presunzione ci ammazzerebbe, dobbiamo volare bassi e stare concentrati».

L’obiettivo è vincere la Champions o entrare tra le prime quattro?

«Rispondo come per lo scudetto: per i miracoli ci stiamo attrezzando. A parte tutto, non possiamo non credere di andare avanti. Sarebbe un delitto. Siamo lì, lotteremo... Io il sogno lo coltivo».

Pirlo è da Pallone d’Oro?

«Lo è. Anche se è difficile non assegnarlo a Messi che ha segnato oltre novanta gol».

Del Piero è più lontano dei chilometri che separano Italia e Australia?

«La gestione di Alessandro non era facile e io me ne sono accorto. Sono stato aiutato dal fatto che i tifosi rispettavano lui e me in eguale misura. E’ stato il mio secondo scudetto. E lo ringrazio: quando la palla scottava, Del Piero c’è sempre stato».

Chi è il nuovo Del Piero?

«Lo zoccolo duro che si è creato, come ai tempi di Lippi. I Padoin, i Caceres, i Giaccherini, i Marrone non li cambio con nessuno, gente che sta fuori e non protesta, gioca e dà il massimo».

Conte, il suo Natale?

«Un Natale da Conte, in famiglia, tranquillo. Non ho mai avuto sfizi da vip. Sono uno così, semplice semplice».

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INTERVISTA IL PRESIDENTE USCENTE TORNERÀ IN FEDERBASKET E LANCIA LA CANDIDATURA PAGNOZZI

«Lo sportitaliano cresce

Il calcio? Si tranquillizzi»

Petrucci: la battaglia contro il doping non è ancora vinta

SÌ ALLA VEZZALI Sarebbe un ottimo presidente, ma le quote rosa nel Coni non servono

Massimiliano Curti - La giornalaccio rosa del Mezzogiorno - 24-12-2012

ROMA. Le emozioni di Londra 2012 con il caso Schwazer che ha rischiato di offuscare le gesta dei campioni azzurri. Ma anche la conferma dell'autonomia finanziaria dello sport italiano in un periodo di crisi e le tante medaglie vinte tra Mondiali ed Europei, compreso il secondo posto della Nazionale di Prandelli nell'ultima rassegna continentale. A conferma della bontà del «prodotto Italia» che, almeno nello sport, tira sempre. Si chiude un anno sicuramente positivo per il Coni ed il suo presidente, Giovanni Petrucci, che a febbraio lascerà il Foro Italico per dedicarsi al rilancio del basket italiano.

Finisce la Sua era al Coni: quale la cosa di cui va più fiero e cosa, tornando indietro, non rifarebbe più?

«Nel '99 c'era la crisi delle schedine, le casse esangui: guardando la situazione oggi dico che sono fiero di aver quindi contribuito a garantire al Coni, insieme al segretario generale Pagnozzi, autonomia e finanziamento ai livelli che conosciamo. Poi ci sono tante pagine di risultati che mi rendono orgoglioso, come tutte le medaglie olimpiche. E il fatto che siano cresciute tante discipline, non c'è più la monocultura calcistica. In assoluto non ci sono cose che non rifarei, semmai sarei meno irruento in certe dichiarazioni, anche se talvolta ti fanno ottenere dei risultati».

Quali sono stati i tre atleti simbolo della sua gestione e i tre episodi negativi che vorrebbe dimenticare?

«Ne indico sei: Vezzali, Belmondo e Pellegrini tra le donne. Antonio Rossi, Massimiliano Rosolino e Armin Zoeggeler tra gli uomini. I casi da dimenticare sono tutti quelli legati al doping».

Sarà il prossimo presidente della Fip: Myers, che con Lei fu portabandiera alle Olimpiadi di Sydney, potrebbe avere un ruolo per la promozione e lo sviluppo di questo sport?

«Ci sono prima le elezioni ma i simboli dello sport meritano sempre con-siderazione. In assoluto occorre pensare in positivo e creare nuovo entusiasmo anche se per i tesserati sono in cresciuti: per il minibasket siamo saliti a 170 mila unità. In questo serve ovviamente una Nazionale vincente, per questo sono contento di vedere sempre più italiani in campo».

Balotelli ed El Sharaawy sono i «nuovi» italiani: lo sport può servire anche ad agevolare l'integrazione?

«E un processo da stimolare e realtà da disciplinare giuridicamente, fanno parte del nostro tessuto sociale ed è giusto che gli venga permesso di gareggiare con l'Italia. Serve una svolta costruttiva in questo senso, che tenga conto dell'importanza della tematica a livello sociale e agonistico».

Il segretario generale Raffaele Pagnozzi, in pole per la Sua successione al Coni, significa innanzitutto continuità: quali sono i tre consigli che si sente di dargli in caso di elezione?

«Non ha bisogno di consigli, lui sta già facendo il Presidente, conosce il Coni alla perfezione. Gli dico solo di continuare sulla strada che già conosce e che ha regalato tanti risultati gratificanti allo sport italiano. Ha esperienza e capacità per perseguire traguardi sempre più prestigiosi».

Il doping resta una delle piaghe da combattere: l'Italia, in questi ultimi anni, ha fatto tantissimo, in cosa eventualmente avrebbe potuto fare di più?

«Il Tas, con una sentenza del 2 agosto 2011, ha riconosciuto al Coni "la serietà e l'impegno con i quali la lotta al doping viene condotta". Ecco, mi rifaccio a questo documento che testimonia la perseveranza che abbiamo profuso, da sempre, nel contrastare il fenomeno. In realtà l'impegno va moltiplicato, ne serve sempre di più perchè si deve rincorrere costantemente».

Polemiche arbitrali e litigiosità dei presidenti: riuscirà il calcio a diventare uno sport "normale" ed a coprire il gap con gli altri Paesi da questo punto di vista?

«Serve più normalità, maggiore tranquillità. Bisognerebbe prendersi meno sul serio, usare buon senso. Rispettare le istituzioni e ragionare in modo sereno. Il calcio italiano però ha risorse infinite, ha superato ogni bufera, rimane un patrimonio inestimabile e ha le risorse per poter cambiare approccio e adottare una mentalità più distesa».

Valentina Vezzali si è "candidata" in futuro a diventare presidente del Coni: non ha mai pensato di istituire quote rosa per la dirigenza sportiva, vista l'assoluta predominanza di uomini?

«Mi sono espresso con favore alla candidatura di Valentina Vezzali e non c'è stata, mai, alcuna preclusione nei confronti delle quote rosa. Lo dimostrano i ruoli ricoperti da Manuela Di Centa, Diana Bianchedi, Giovanna Trillini, Antonella Bellutti nell'ambito dei vertici del Coni nel corso della mia presidenza. Non c'è mai stata disparità, contano i profili d'eccellenza e la volontà di perseguire un percorso dirigenziale al termine della carriera».

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Scommesse e calcio: bufera svanita

Luca De Carolis - Il fatto quotidiano - 24-12-2012

DOVEVA ESSERE una tempesta, ma è stato un temporale: prettamente estivo. II calcioscommesse, ennesimo scandalo del pallone che spesso sguazza nel fango, è costato squalifiche e discredito soprattutto a giocatori e club di seconda e terza fila. Il calcio di serie A se l'è cavata con buffetti e qualche scapaccione, almeno a livello di giustizia sportiva. L'unico condannato di nome è stato Antonio Conte, che in agosto si era preso dieci mesi di squalifica per omessa denuncia, riguardo a due presunte combine ai tempi in cui allenava il Siena. Ma in ottobre i mesi di stop sono stati ridotti a quattro dal Tnas del Coni. Per il resto, tanti assolti (gli juventini Leonardo Bonucci e Simone Pepe, l'ex Bologna Marco Di Vaio) e qualche punticino di squalifica (Torino, Sampdoria, Siena). Pochi giorni fa a pagare dazio è stato il Napoli, con due punti di penalità e le squalifiche per sei mesi di Paolo Cannavaro e Gianluca Grava, rei di omessa denuncia. Rimangono in sospeso le posizioni di Lazio (con l'indagato Stefano Mauri) e Genoa. Intanto la giustizia ordinaria continua a indagare, con tre inchieste: quella principale, a Cremona, da dove nell'estate 2011 è partito tutto, e i due filoni a Bari e Napoli. Le indagini hanno mostrato un mondo di partite aggiustate a la carte, con scommettitori asiatici a comandare sul calcio di mezzo mondo, emissari slavi a contrattare e controllare sui campi, mafiosi che entravano e uscivano dagli spogliatoi. Un verminaio dai confini ancora non certi. Uno dei leader degli scommettori slavi (i cosiddetti "zingari"), il serbo Almir Gegic, si è consegnato alla polizia italiana lo scorso 26 novembre. Al pm di Cremona, Roberto Di Martino, l'ex giocatore Gegic ha raccontato solo cose assodate da tempo. Ma gli inquirenti sono ugualmente convinti di essere vicini a "mister x", l'uomo che avrebbe tirato le fila delle scommesse in serie A. Mentre il macedone Hrystian Ilievski, il capo degli zingari, potrebbe presto costituirsi. Si parla di nuovi arresti in arrivo. E di una bufera prossima ventura perla A: sinora, appena bagnatasi.

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