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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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OGGI DISCIPLINARE

Sfoghi estivi

De Laurentiis e Conte

forse patteggiano

di VALERIO PICCIONI (GaSport 07-11-2012)

L’agosto bollente del pallone italiano arriva oggi sul tavolo della Commissione Disciplinare della Federcalcio. Il primo grado della giustizia sportiva dovrà infatti analizzare le parole pronunciate in quelle settimane da Aurelio De Laurentiis e Antonio Conte dopo i deferimenti firmati dal procuratore federale Stefano Palazzi.

Il presidente del Napoli fu durissimo dopo la sconfitta della sua squadra nella Supercoppa di Pechino contro la Juve, quando la formazione di Mazzarri disertò la cerimonia di premiazione. Conte, invece, censurò parlando di «vergogna» la decisione della Corte di giustizia della Federcalcio, il secondo grado di giudizio, di confermare la sua condanna a 10 mesi per omessa denuncia (poi diventati 4 con l’intervento del Tnas). Nelle ultime ore, complice qualche voci filtrata dai palazzi romani, si è fatta strada l’ipotesi di un patteggiamento che porterebbe certamente a una sanzione pecuniaria senza squalifiche (in ogni caso di portata prevedibilmente limitata). Patteggiamento che proprio la Commissione Disciplinare rifiutò in occasione del processo di agosto per il calcio scommesse. Ma questa possibilità non è confermata dalla Juventus.

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Gli errori degli arbitri

Il sistema Moggi al limite è sistema Signora

di LUCIANO MOGGI (Libero 07-11-2012)

Lo definirono “sistema Moggi”, ora avranno cambiato idea. I fatti accaduti nelle ultime due settimane sono la prova che con o senza di me non è cambiato nulla: il palazzo del calcio non obbediva al sottoscritto, semplicemente era ed è in soggezione nei confronti della squadra più forte del momento. C’è stato il tempo del Milan, poi quello della mia Juve, dopo il 2006 è toccato all’Inter e ora di nuovo la Signora. La chiamano “sudditanza psicologica”, una tendenza involontaria ad avvantaggiare la società più influente. Ecco perché, a sei anni da Calciopoli mi va di far notare come certi obbrobri arbitrali non sono frutto di manipolazioni di qualsivoglia “dirigente cattivo”, semplicemente il palazzo del calcio ha sempre avuto soggezione nei confronti del club più influente del momento.

Il presunto “sistema Moggi”è stato rievocato due settimane fa in occasione di Catania-Juve da coloro che così lo definirono nel 2006, rievocato perché la squadra bianconera ha usufruito di due errori madornali. Eppure Moggi adesso segue il calcio da semplice opinionista. L’hanno rievocato ancor di più dopo Juventus-Inter perché la Juve ha usufruito di un gol in fuorigioco e di una mancata espulsione di un suo difensore. Moratti poi ha fatto il resto, nel post-gara, paventando il timore di essere ritornati indietro al 2006, vedeva in tutto questo “la storia delle due società”. Giusto quindi affermare ancora che Moggi non fa più parte del calcio attivo, scrive solo sulle pagine di questo giornale. Ed è di ieri la dichiarazione di Abete: «Ho apprezzato Moratti per i toni, la ferita di Calciopoli avrà bisogno di anni per essere rimarginata». E meno male che sono state considerate pacate le parole di Moratti, d’altra parte il Presidente Federale ha fatto anche di peggio prescrivendo le malefatte interiste quando, ad esempio, Palazzi ha accusato l’Inter di illecito sportivo perciò passibile di retrocessione, o quando, trafugando documenti alla motorizzazione di Latina per una patente falsa che doveva servire a fare un passaporto falso (Recoba), venne comminata alla società nerazzurra una semplice multarella in luogo di una retrocessione come previsto. E pensare che gli interisti riuscirono a reclamare il rigore su Ronaldo, neppure sfiorò loro la mente che potevano essere retrocessi.

Il sistema Moggi è stato confuso anche con la politica, al tempo del Ministro Pisanu, quando questi, in occasione della morte di Papa Wojtyla, mi chiese un parere sul da farsi. A parte che non era una decisione che poteva prendere il Ministro, ma di pertinenza di Lega e Federazione, mi limitai a rispondere che sarebbe stato opportuno rinviare di un giorno le gare, essendo le 20 del sabato, con le squadre in trasferta che avevano già raggiunto la destinazione. Per questo sono stato accusato di commistione con la politica. Si viene successivamente a scoprire una intercettazione (dimenticata..) dell’allora Presidente di Lega nonché V. Pres. del Milan, Galliani, che parlando con i suoi dice «quei figli di.. Moggi e Capello volevano far slittare la partita di un giorno, ma io l’ho fatta slittare di una settimana così potremo recuperare Kakà (infortunato) per il Siena» e questa telefonata, come da intercettazione, ebbe modo di sentirla anche Costacurta, che era ancora in attività: Alla faccia...

Per sistema si deve intendere il modo comportamentale, regolato nel calcio dalla “clausola compromissoria“ che coinvolge tutte le società affiliate alla Figc. È stato tutto bypassato, senza darne spiegazione, la Juve fu messa all’angolo, i suoi dirigenti mandati al massacro. Se gli arbitri dal ’06 ad oggi ne hanno combinate di tutte e di più, se la Juve ha goduto di errori a favore in quest’ultime partite, se Moggi non fa più parte del mondo del calcio e quindi non può più essere il “colpevole”, se i processi sportivi hanno detto che il campionato 04-05 era regolare, se il processo ordinario ha detto che il sorteggio era regolare, viene spontaneo concludere che il sistema Moggi non è mai esistito e al massimo era stato ideato da chi aveva interesse a dare in pasto all’opinione pubblica quei dirigenti e quella società che da tempo stavano dominando, non per combine, bensì per scelte intelligenti. E adesso che la Juve è tornata a far paura, ecco subito le difese di chi non sa operare, intese a paventare chissà quale complotto.

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Posta prioritaria di MARIO GIORDANO (Libero 07-11-2012)

Lo confesso: la Juve sconfitta mi fa godere

Visto che il sig. Marotta vuol fare il simpatico, fategli sapere che lui ha uno sguardo serenamente simpatico.

P.S. Non è una presa per i fondelli, sono serenamente sincero!

Francesco Nicassio

via mail

Caro Nicassio, lo sa che non capisco che cosa vuol dire? L’amico Mattias Mainiero mi dice che lei è un fiero anti-juventino e questo mi rende ogni cosa che lei scrive piuttosto simpatica, anzi: serenamente simpatica. Ma davvero non riesco a capire perché si appassioni alla sguardo del dirigente bianconero come se fosse quello di Belen. Immagino che lei si riferisca alla polemica sulla «spensieratezza» dell’Inter, una frase un po’ avventata che il medesimo Marotta ha pronunciato alla vigilia del big match di sabato scorso e che l’allenatore Stramaccioni (serenamente simpatico pure lui) ha provveduto a fargli rimangiare subito dopo la fine della partita. Sarà. Ma tutto questo non mi interessa nemmeno un po’. Quello che mi interessava era riaccendere un po’ di sano tifo calcistico anche all’interno della Posta Prioritaria, anche se so che è un argomento assai pericoloso perché in Italia si può scherzare su tutto, compresi santi e beati, ma non sul Dio pallone. Comunque corro il rischio e lo confesso, per chi non lo sapesse: sono un fiero anti-juventino anch’io. Tifo Toro da quando mio padre mi avvolse in fasce granata, ho trasmesso questo virus al mio unico figlio maschio, e nella mia redazione sanno che c’è solo un momento in cui non posso essere disturbato: quando gioca il Torino. Che ci vuole fare? Siamo gente così: mi commuovo ancora come un bambino leggendo di Gigi Meroni, nei momenti difficili recito a memoria la formazione del Grande Torino (Bacigalupo, Ballarin, Maroso…) e se penso all’aldilà mi viene in mente un immenso Filadelfia dove mio padre veste la maglia granata e segna un gol su assist di Valentino Mazzola. È un po’ una malattia, me ne rendo conto. E già che ci siamo, malattia per malattia, voglio togliere di mezzo ogni ipocrisia buonista: essere tifosi di una squadra significa anche e soprattutto essere contro un’altra. Soprattutto (mi scusino i bianconeri, ma è la verità) contro la Juve. Domenica, per esempio, il Toro ha ottenuto un buon pareggio a Napoli. Quando Sansone ha fatto gol, già in pieno recupero, ho esultato. Ma mai quanto ho esultato sabato sera quando ho visto fallire l’ennesimo furto bianconero sotto i gol dell’Inter. Allora sì che sono stato davvero spensierato anch’io…

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Libero 10-11-2012

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Modificato da Ghost Dog

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Moratti non replica

(almeno per ora...)

Ma non ha gradito

L’avviso agli arbitri è partito, non si vuole polemizzare con i bianconeri

Ora c’è soltanto da capire se la risposta arriverà oggi da Stramaccioni...

di ANDREA RAMAZZOTTI (CorSport 07-11-2012)

APPIANO GENTILE - Stavolta nessuna replica. Il botta e risposta tra Juventus e Inter successivo agli errori di Tagliavento di sabato sera si è interrotto dopo il duplice affondo bianconero di ieri di Alessio e Bonucci che, presentando la sfida di Champions League contro Nordsjaelland, hanno accusato la società nerazzurra di non saper vincere e di avere uno stile diverso rispetto a quello della Juve. In attesa di capire se oggi Stramaccioni tornerà nuovamente sull’argomento, ieri da corso Vittorio Emanuele nessun commento e nessuna presa di posizione da parte dei tesserati, ma è facile pensare che le stilettate del vice di Conte e del difensore, tra l’altro cresciuto nel vivaio interista, non siano certo piaciute.

NIENTE CONTRO LA JUVE - Del resto Moratti negli scorsi giorni è stato sempre estremamente chiaro nelle sue dichiarazioni e per l’accaduto mai ha attribuito responsabilità, dirette o indirette, al club bianconero. Il patron nerazzurro al massimo riguardo all’errore del fischetto di Terni si è lasciato sfuggire, con il sorriso sulle labbra, un «se c'entrasse la Juventus sarebbe grave», mentre a caldo, dopo aver visto i replay dell’1-0 in tv, ha ammesso di aver pensato «Allora è la solita storia...». Niente di più. Perché i rapporti con il club di Agnelli sono tornati ad essere discreti e il confronto sui temi della riforma del calcio portata avanti dal numero uno della Juventus, è frequente. D’accordo il successo finale in casa nerazzurra ha fatto passare in secondo piano gli errori di Tagliavento (nessuno però li ha cancellati...), ma almeno nei confronti della società di corso Galileo Ferraris Moratti ha tenuto un profilo basso.

ATTENZIONE ARBITRI - Le critiche del numero uno interista erano rivolte alla classe arbitrale che rispetta e stima (lo ha mostrato con più dichiarazioni soprattutto dopo calciopoli), ma dalla quale non si aspetta errori come quelli pro Juve delle ultime giornate di campionato. Perché in corso Vittorio Emanuele tutti si sono resi conto che il campionato attuale potrebbe essere più equilibrato di quello che non si pensasse all’inizio e che dunque certi episodi potrebbero condizionare la classifica. Serve dunque massima attenzione nel prendere le decisioni perché soprattutto il mancato secondo giallo a Lichtsteiner per il fallo su Palacio non è piaciuto (eufemismo...). Né a Moratti né a Stramaccioni: ieri si sono incontrati ad Appiano Gentile visto che il presidente ha voluto salutare la squadra e ringraziarla di persona per la bella prestazione di sabato. Magari tra loro due, il dt Branca e il ds Ausilio il discorso è caduto nuovamente sui fatti di Torino, ma i pensieri sull’accaduto sono rimasti all’interno della Pinetina. All’esterno non filtra niente di più rispetto alle parole di Moratti negli scorsi giorni e la linea pare essere quella di interrompere la polemica. Perché con la Juve i rapporti non vanno guastati e perché ormai il messaggio alla classe arbitrale è stato lanciato, recepito e condiviso da Nicchi.

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ARBITRI

Voltiamo pagina

Tra proteste, recriminazioni e furbizie

la malattia di un sistema in cui i club

puntano soprattutto a creare “crediti”

Nello scorso torneo Conte di tanto in tanto ricordava che la Juve non aveva avuto rigori

Non è detto che la protesta paghi ma di certo aiuta Non si “orienta” solo con i rigori

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 07-11-2012)

Il gioco è antico e in pochi evitano di parteciparvi. Lo scorso anno, all’inizio della stagione, Antonio Conte periodicamente, nelle sue pubbliche sortite, “ricordava” che la Juventus, pur essendo una squadra che giocava molto nella metà campo e nell’area avversaria, non aveva ancora ottenuto rigori. Josè Mourinho è rimasto nella storia del calcio italiano non solo per la “tripletta” ottenuta con l’Inter ma anche per il famoso gesto delle “manette”. Le dichiarazioni polemiche di questi giorni sono solo la conferma della regola: non è detto che il lamento, la protesta più o meno vivace paghi, certo crea un “credito” presso il Palazzo inteso in maniera estensiva, non solo la sede dell’Aia ma anche (soprattutto?) quella federale.

E’ così scoperto il “giochino” che di tanto in tanto in Lega è stata lanciata l’idea dello “sportello reclami” (l’ultimo in ordine di tempo ad accarezzarla è stato Antonio Matarrese). Insomma, via Rosellini come Trenitalia, d’altro canto si può chiedere tutto, il risarcimento in rigori per un arbitraggio negativo e il risarcimento in denaro per un treno arrivato un po’ troppo fuori orario. Solo che nel secondo caso il dato è oggettivo, nel primo l’oggettività non è accertata. Si protesta per guarire ma anche per prevenire. L’Atalanta che deve affrontare l’Inter teme che la squadra di Stramaccioni possa riscuotere in quella sede quello che non le è stato riconosciuto in altre e, allora, attraverso Pierpaolo Marino fa sapere che nella contabilità della giustizia arbitrale il club è iscritto nella colonna dei creditori non dei debitori.

MALATTIA - Il sistema è malato e le innovazioni tecnologiche possono attenuare (anche in misura rilevante) la patologia ma non cancellarla del tutto. Anche perché l’arbitraggio è un lavoro complesso, ricco di dettagli che sfuggono al grande pubblico ma non agli spettatori più attenti o più coinvolti o più addentro alle cose più segrete del calcio. Una partita può essere decisa da un rigore dato o non dato, da un gol di Muntari non visto, da un gol ingiustamente annullato o altrettanto ingiustamente convalidato, ma (e lo spiegavano i vecchi arbitri, ormai da tempo a riposo e semmai aprendo la confessione con la frase di rito: “che resti tra noi” ) per incidere su una partita ci sono modi più sottili, più raffinati. La malafede (assolutamente eventuale e,0 comunque, non dimostrabile anche se Calciopoli, qualche inquietante squarcio lo ha aperto) non può essere occultata nelle “sviste” più clamorose. Gli esperti di questo particolare ramo della scienza calcistica basano i propri giudizi più che sulle scelte (sbagliate) clamorose, sui “dettagli” della conduzione generale di una gara perché si può incidere sull’andamento di una partita fischiando i falli in determinate zone di campo, ammonendo alcuni piuttosto che altri (e questo dal processo di Napoli è emerso), consentendo a una squadra di riavviare l’azione da un determinato punto del terreno di gioco piuttosto che da un altro.

MACHIAVELLI - Parliamoci chiaro: il sospetto non si diraderà mai. E non solo perché manchi la cultura sportiva (che in effetti è carente) ma perché siamo figli, anche nel calcio, di Machiavelli: conta il risultato non il mezzo con il quale viene raggiunto perciò va bene anche un gol in fuorigioco all’ultimo minuto di recupero del secondo tempo purché a beneficiarne sia la squadra del cuore. Per liberare gli arbitri da questa spessa coltre di umori, malumori e pregiudizi, servono interventi seri, coraggiosi, che vanno dalla tecnologia a una riforma vera del sistema, una riforma che nessuno sembra volere realmente perché in questo gioco di debiti e crediti alla fine poi tutti pensano di poter lucrare qualcosa.

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QUALCHE IDEA PER UNA RIFORMA RADICALE

La ricetta? Professionismo e Authority

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 07-11-2012)

Una istituzione autorevole e indipendente per guidare e giudicare il gruppo dei “migliori” Domanda: comprereste un’auto usata dal presidente dell’Aia, Marcello Nicchi? Ovviamente le qualità dell’uomo sono fuori discussione. Il quesito riguarda la sua funzione istituzionale pertanto al suo posto il lettore può metterci chiunque altro. La realtà è che difficilmente il tifoso si recherebbe da Nicchi (o da Braschi o da chi li ha preceduti in quei posti) per acquistare un’auto usata; tutti nutrirebbero il timore di ritrovarsi tra le mani un oggetto dalla carburazione difettosa. Ne ha bruciati più la poltrona di presidente dell’Aia (e di designatore) che quella di Presidente del Consiglio (pur non essendo il nostro Paese noto per la stabilità dei governi). Su tutti è sempre calato il “solito sospetto”. Per addolcire quel sospetto si sono utilizzate (sin dai tempi della prima Inter Euromondiale, quella di Angelo Moratti e Italo Allodi) formulazioni “eleganti” come “sudditanza psicologica” che è una maniera per dire che chi ha potere ha un appeal maggiore.

Di polemica in polemica, la “sudditanza” è stata accettata come un malanno inevitabile, una “influenza” non curabile con l’aspirina e non evitabile con il vaccino. Il fatto è che il calcio (soprattutto chi lo ha governato) ha deciso di non porsi seriamente il problema. Eppure di occasioni ne ha avute. Calciopoli, ad esempio, a chi lo avesse veramente voluto, avrebbe fornito motivazioni validissime per rivoltare il sistema come un pedalino. Ma ci si è fermati forse per non irritare una Casta che si fa scudo delle molte migliaia di partite che dirige nel corso di un anno dimenticando, però, che la “locomotiva” del sistema sono quelle poche centinaia (trecentottanta di campionato) su cui poi si scatena la polemica perché al centro dell’attenzione, perché passate al microscopio, perché sottoposte a una sorta di esame autoptico da giornali, tv, radio, siti, eccetera. Il calcio avrebbe dovuto, tanto per cominciare, “separare” le diverse realtà: una cosa sono gli arbitri di vertice che garantiscono il leale funzionamento della Locomotiva, un’altra quelli che si esibiscono in categorie meno professionistiche o per nulla professionistiche (che essendo molto numerosi incidono, prò, sugli equilibri elettorali). Quella “aristocrazia” rappresenta una realtà a parte, falsamente non professionistica. Ecco, il primo passo è l’abolizione dell’ipocrisia: in A gli arbitri devono essere professionisti e non perché da professionisti sbagliano meno ma perché si potrebbero applicare le regole previste per i professionisti (fuori e subito chi non funziona, dentro chi merita, esame continuo e trasparente delle prestazioni da parte di un organo veramente di garanzia). Ma soprattutto questa “aristocrazia” deve essere tenuta lontano dai centri di potere e deve essere messa nelle condizioni di non trasformarsi in un centro di potere. Fuori dalla federazione, affiliata al Coni, ma separata; un vertice dirigenziale non di ex arbitri perché la frequentazione del Sistema crea troppe amicizie e contiguità ma una Authority realmente autorevole fuori dai giochi di potere dello sport. Insomma, un taglio netto col passato. Ma riesce difficile immaginare che qualcuno lo voglia realmente.

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ALL’ESTERO

In Premier è più facile

scivolare sul razzismo

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 07-11-2012)

Tutto il mondo è paese. Almeno un po’. In Inghilterra, da una decina di giorni infuria il caso Clattenburg. In realtà la vicenda, nata da una pessima direzione arbitrale, ha preso un’altra strada, decisamente più compromettente. L’arbitro è stato accusato di aver rivolto frasi razziste contro il giocatore del Chelsea, Obi Mikel (“stai zitto, scimmia”, avrebbe detto Clattenburg, un insulto che al momento non ha trovato conferme). Il club di Roman Abramovich ha presentato una formale denuncia e adesso sono in corso un paio di inchieste, della Fa, la federazione inglese, e della polizia (il reato ha valore penale). Nel frattempo Clattenburg è stato fermato dalla Professional Game Match Official Board, la struttura, creata undici anni fa, che organizza i direttori di gara che lavorano in Premier. Mark Riley, il direttore generale della Pgmol, aveva sospeso l’arbitro per un solo turno di campionato ma poi, dopo l’apertura delle inchieste, ha preferito tenerlo ancora a riposo. Il caso è esploso in occasione di Chelsea-Manchester United. E qui entra in ballo un altro grande protagonista del calcio inglese, Alex Ferguson. Molti lo accusano (soprattutto Rafa Benitez) di condizionare gli arbitraggi, praticamente “incollandosi” al quarto uomo.

Violentissime lo scorso anno sono state le polemiche che in Spagna hanno contrapposto José Mourinho al Barcellona (culminata con il dito mell’occhio a Tito Vilanova, all’epoca secondo di Guardiola, adesso “titolare di cattedra”). Memorabile la famosa conferenza-stampa dei “porque”. Puntando il dito contro gli arbitri, l’allenatore del Real affermò: “A Barcellona non si può vincere, valgono altre regole”. In realtà la classe arbitrale spagnola “ondeggia” tra lo squadrone di Madrid e il Barca. Dalla commissione arbitrale dell’Uefa Mourinho fu dichiarato “pericolo pubblico numero uno” per aver pesantemente accusato Frisk dopo una sfida di Champions tra il Chelsea e il Barcellona (perseguitato dalle invettive e dalle minacce dei tifosi inglesi, Frisk decise di abbandonare l’attività arbitrale).

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La verifica

San Paolo, dall’Uefa via

libera all’apertura completa

L’appello II club: no ai fumogeni lasciare libere le vie di fuga

di DARIO SARNATARO (IL MATTINO 07-11-2012)

Il San Paolo supera l’esame Uefa. Ci sono volute 7 ore di verifica per dare il placet all’agibilità dello stadio: dopo le 4 del primo sopralluogo del 31 ottobre scorso si sono aggiunte le oltre 3 di ieri. I delegati di Nyon a tarda sera hanno comunicato la decisione, dopo avere studiato alcune relazioni e avendo acquisito una serie ulteriore di documenti e, infine, dopo aver compilato il report completo dei lavori. Dal Calcio Napoli infine la comunicazione: «L’Uefa – ha chiarito il direttore generale del club, Alessandro Formisano, presente all’ispezione - dopo aver accertato la corretta esecuzione da parte della SSC Napoli dei lavori richiesti per lo stadio, ha rimosso l’inibizione alla vendita di alcuni settori, consentendo al Napoli di mettere tutti i settori in vendita per la gara di giovedì contro il Dnipro».

I due delegati, arrivati intorno alle 15, hanno esaminato lo stato dei lavori e se rispondessero sia alle norme di sicurezza che di restyling del protocollo internazionale. Con loro il direttore dei lavori, l’ingegner Portomeo, e i tecnici del Comune. Del resto in 7 giorni la ditta assegnataria, la Cosap, ha eseguito gli interventi volti al ripristino di intonaci e parti in ferro dei varchi d’ingresso sui quali pendeva l’«ammonizione» dell’Uefa del 26 ottobre. L’investimento di 109mila euro per i lavori è stato sostenuto dal Napoli per evitare lungaggini burocratiche. La cifra verrà poi defalcata dai canoni di convenzione con il Comune, la Giunta ha approvato il progetto di ristrutturazione solo il 29 ottobre. Dal 30 il Napoli ha appaltato le opere seguendo i turni di lavoro dalle 6 del mattino alle 22.

Il placet Uefa è essenziale non solo per restituire piena capienza al San Paolo per il match con il Dnipro, ma anche per scongiurare la chiusura dell’impianto per diverse gare internazionali. In tal senso il dg Formisano ha altresì rivolto un appello ai tifosi affinché siano rispettate a menadito altre disposizioni Uefa. «Bisogna evitare di introdurre ed accendere fumogeni e non portare materiali infiammabile all’interno dello stadio. L’Uefa è intransigente, rischieremmo la squalifica del campo. Invito – ha detto a Radio Marte - gli spettatori anche ad evitare di occupare le vie di fuga, ovvero le scale gialle tratteggiate sugli spalti, indispensabili in caso di soccorso. Il Napoli chiede massima collaborazione, dal momento che rischieremmo seriamente di giocare comunque la gara col Psv a porte chiuse anche nel caso di semplice occupazione delle sole scalette».

Col via libera dei delegati di Nyon cade quindi il divieto di vendita di circa 12mila biglietti dei settori inibiti. Gli spettatori di Napoli-Dnipro potranno godere anche di una nuova parziale veste estetica del San Paolo. «La manutenzione - rileva Formisano - avrà un simbolo di ammodernamento rappresentato da colorazioni nuove dell’impianto. L’anello che congiunge la Tribuna Posillipo alla Curva sarà di un altro colore». A breve l’installazione dei led con orologio sugli spalti, con costo, montaggio e gestione a cura del Calcio Napoli. Confermato, infine, l’incremento delle corse della Metropolitana dopo la gara con il Dnipro.

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The posh and David Beckham never an ideal match

by MATTHEW SYED (THE TIMES 07-11-2012)

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The Establishment embraced Beckham as an Olympic ambassador but he still seems to represent an affront to some cultural sensibilities

Matthew Childs/Action Images

David Beckham is as “thick as bat s***”, according to John Key, the Prime Minister of New Zealand. Yeah, that’d be right. Thick. Monosyllabic.

Incapable of understanding Left or Right, except when talking about the flanks on a football pitch.

Beckham is, in many ways, the poster boy for the modern footballing cretin.

Pretty of face, fast of limb, but with a grievous deficiency of grey matter. He may be good at taking a free kick, people say, but, my goodness, have you heard him being interviewed?

It is not just Beckham, of course. This entire generation of footballers get it in the neck for their conspicuous inability to solve differential equations. You only have to scroll to the bottom of any article, blog or essay on the national game and you will see some version of this perspective.

“Just a bunch of thickos”. “Brain-dead mercenaries”. “Ignorant prima donnas, the lot of them”.

And those are just the publishable comments.

Beckham seems to offend people’s intellectual sensibilities more than most.

I suspect that Key did not imagine that he was entering the terrain of controversy when he made the remarks at a school in Auckland (he was responding to a question about a football match that Beckham had played in New Zealand, but has since refused to confirm or deny using the words); he was merely parroting the conventional wisdom. The idea that footballers suffer from some kind of congenital brain impairment is so pervasive that it has reached Down Under.

It is not the only controversy that has engulfed Key in the past seven days, however. Preparing for a golf challenge on Friday he made homophobic comments about the jacket of a radio presenter. “You’re munted mate. You’re never going to make it, you’ve got that gay red top on.”

The gay and lesbian community in New Zealand were, understandably, outraged. One poster on Twitter argued that Key had become his nation’s answer to Borat.

If only by way of contrast, it is worth examining the attitude of Beckham to the gay community. When he was approached by Attitude magazine, a gay publication, to pose on the front cover, he seized the opportunity against the advice of almost everyone in the PR industry. This was a time when posing for a gay magazine was thought to represent commercial suicide. But Beckham took a progressive stand, wearing a rather nice sarong to boot.

But I digress. Is Beckham thick? Are footballers thick? The more one probes the matter, the less clear-cut it seems. Few, even among his most severe critics, could dispute that Beckham attained a rarefied level of skill on the pitch. His ability to execute free kicks, for example; the way in which he was able to create a tangent of artistry with a flourish of his right boot, mesmerised millions. Was he not solving differential equations, if only implicitly, with these parabolic feats?

What of his killer passes? The art of the long ball in football is one of immense computation. Finding a team-mate is not just about identifying where he is, but figuring out where he will be in two or three seconds’ time, what path he will be taking, his relative momentum, and imparting an arc on the ball that eludes opposition defenders. Computer programmers who have sought to model this kind of problem-solving have rapidly succumbed to information overload.

Some would dispute that this is real intelligence, properly understood. It is not, for example, the kind of intelligence that is examined in certain parts of the standard IQ test. But, in conceptual terms, it is strikingly similar to the skill required for diagnosing X-rays, or playing high-level chess, or making rapid decisions in business, politics or the military.

Perhaps we might call it practical intelligence. But, unlike doctors and military strategists, it is footballers who, almost uniquely, find themselves sneered at for their stupidity.

It is not as if the skill of a footballer comes easily or quickly. The stereotype of the lazy, preening layabout is just another one of the curious prejudices that attaches itself to elite players. Beckham astonished his coaches at Manchester United and Real Madrid with his appetite for hard graft.

Even as a young boy, he would walk to the park in Leytonstone to hone his free kick for hours at a time. “His dedication was breathtaking,” his father has said. “It sometimes seemed as if he lived on the local field.”

Of course, the parody of the footballer, pig ignorant and workshy, has been a cornerstone of sporting dialogue for years. Many people really seem to get quite irate about this bunch of Neanderthal reprobates, even when they spend their free time going to watch them play on Saturdays, cheering them to high heavens, or tuning in on Sky Sports. Perhaps footballers are the only people who double as heroes and villains within the very same subculture. And, of course, within the wider culture.

I suspect the old-fashioned pastime of class prejudice is partly to blame for this judgment. It is, of course, true that footballers give simplistic and formulaic answers in press conferences and post-match interviews, but it is not as if they are unique in this. So, too, do tennis and rugby players. Golf professionals, as a group, would give anyone a run for their money (even politicians and lawyers) when it comes to carefully crafted banalities. So why are footballers singled out?

Well, there is one thing about footballers as a group that really does make them pretty unique: their composition. Almost every English top-flight player (with only a tiny handful of exceptions) attended state school. Many were brought up on council estates and learnt their craft on the streets. One might have thought that these humble beginnings would lend weight to their stories, battling against the odds, and all that. But, no. They are tarred, indiscriminately (and without irony), as “thickos”.

Football, as an industry, has often been guilty of this prejudice too. Players with real academic potential have been discouraged from continuing their schoolwork, partly because it could interfere with their playing development, and partly because it was thought to be a waste of time.

Thankfully, clubs are now forging strong links with local schools, and the Premier League has made educational provision one of the criteria for grading club academies. All to the good.

But on the wider point, it is really rather silly to suppose that footballers are all (or even on average) stupid. The very presumption demonstrates the lingering and endlessly depressing tendency to conflate social class and intellect. I have interviewed dozens of footballers over the years and have found them no different, intellectually speaking, than, say, the Great Britain Olympic team. They are merely less likely to have a posh accent.

When it comes to Beckham, the slur is particularly wide of the mark. I have always found him both interesting and personable, and nobody could deny that he has an inspirational back story. Thick as bat s***? No more so than your average Kiwi politician.

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Moggi: l'Inter dovrebbe giocarsi i campionati da sola

L'ex dg della Juve dice la sua sui fatti (in campo e fuori) dell'ultima di campionato. Ma parla anche di Giovinco, Del Piero, Stramaccioni, Abete e Agnelli

La Terza Stella - Panorama.it - 7-11-2012

A distanza di svariati giorni dall'ultima Juve-Inter di campionato, le polemiche non si placano. Poche parole spese sulla partita in sé, tutto o quasi ruota ancora intorno agli arbitraggi e alla condotta delle due società: da Moratti a Marotta, da Stramaccioni ad Alessio, da Abete a Bonucci, non passa giorno senza che qualcuno non torni sull'argomento. Anche Luciano Moggi ha qualcosa da dire in proposito. Sentite un po' cosa ci racconta in questa intervista esclusiva:

Ha visto cos’è successo dopo la partita di sabato sera? Tutti a parlare degli errori arbitrali…ma il problema non era mica Luciano Moggi?

Il fatto è che a Juventus ricomincia a far paura, la cosa è molto semplice. Il problema di fondo è che quando non si riesce ad abbattere l'avversario con le buone si tenta con le cattive. Così ha fatto l'Inter nel passato e così ci riprova ora che si ritiene ancora competitiva.

Moratti ha parlato di un partita che combacia con la storia delle due società...

C’è ovviamente un riferimento ben preciso, agli errori degli arbitri che si ripetono continuamente. Ed è qualcosa che mi scagiona, qualcosa che fa crollare tutto il teorema di Calciopoli: se si ripetono significa che che non esisteva un sistema Moggi. I problemi arbitrali vanno a favore di questa o quella squadra, spesso a favore della Juventus. Il perché bisognerebbe chiederlo agli arbitri. Di certo la Juventus non chiede niente a nessuno.

Anche Stramaccioni ha avuto qualcosa da dire…

Tutti quelli che passano dall’Inter devono recitare da Inter, chi non impara la formuletta a memoria viene cacciato. Anche un ragazzetto come Stramaccioni è entrato subito nella parte: prima di arrivare sul campo ha detto che gli scudetti della Juventus non erano 30, anziché pensare alla partita.

Che poi, lo abbiamo visto , anche senza errori arbitrali la Juve sarebbe ampiamente prima in classifica…

Certo. Moratti non dice che l’Inter ha vinto contro la Sampdoria con un gol in fuorigioco, che nel derby contro il Milan c'era un rigore per atterramento di Robinho da parte di Samuel, che con il Catania c'era un rigore sullo zero a zero a favore dei siciliani. Queste cose non le dice, parla solo di ciò che gli torna comodo.

Torniamo al calcio giocato. Cosa non ha funzionato nella Juve di sabato?

La Juve ha manifestato un problema che si era già intravisto da qualche giornata, il sovraccarico degli impegni: Champions League, turni infrasettimanali, Nazionali. Segni di stanchezza si erano già visti nella partite con il Catania, vinta grazie a due clamorosi errori arbitrali, e in quella col Bologna, vinta in casa all'ultimo secondo. È una Juventus che non pressa più come prima e questo aspetto è stato reso ancor più evidente da una squadra di maggior calibro come l’Inter. Non è però l’Inter che ha corso di più, è la Juventus che ha corso meno del solito.

Giovinco: potrà essere il numero 10 della Juve o resterà sempre il numero 12? Lei che lo ha visto fin dalle giovanili cosa ne pensa?

Dico che quando era nelle giovanili era un fenomeno, adesso è un buon giocatore. Può diventare importante negli ultimi 30 minuti, quando gli avversari sono stanchi, è un giocatore abile nel saltare l'uomo e velocissimo nella tre quarti avversaria, tutte cose che possono portare a segnare gol o a trovare punizioni, tenendo presente che a calciarle c'è Pirlo.

Onestamente, Lei lo avrebbe riportato a Torino a quella cifra?

Assolutamente no. Se è vero che è stato pagato 11 milioni di euro per la metà del cartellino è uno sproposito, ma quando ci sono i soldi si può fare anche questo. Nella mia Juve non c'erano i soldi e quindi non avrei potuto fare un'operazione del genere. A quelle cifre generalmente si portano a casa giocatori più determinanti.

Quindi chi avrebbe preso con lo stesso budget?

Avrei scelto uno alla Ibrahimovic, ma non essendoci sul mercato probabilmente non avrei scelto nessuno. Magari avrei rimpinguato la rosa a centrocampo e in difesa, soprattutto in considerazione degli impegni di Champions League. Non dimentichiamoci che la Juve ha un modulo di gioco in cui la parte degli attaccanti la fanno spesso i centrocampisti, in particolare Pirlo e Vidal, e che porta molti giocatori in zona gol, quest’anno sono già andati a segno 12 giocatori diversi.

Che impressione si è fatto di Bendtner?

È un discreto giocatore, ma se ne poteva stare dov'era. Quando si prende uno straniero credo si debba puntare su qualcuno di più determinante.

Ad esempio? C’è un nuovo Zidane?

I migliori giocatori stranieri ormai se ne vanno dall’Italia ed è dunque inutile parlarne. Per quanto riguarda gli italiani non vedo nessun talento con caratteristiche importanti. Lo stesso campionato ce lo dimostra: se c’è una squadra - l’Inter - che pur perdendo due partite si trova a un solo punto dalla capolista significa che siamo davanti a un torneo dove non ci sono grandi giocatori. Il migliore resta ancora Totti, e questo la dice lunga; ce ne accorgiamo quando manca: senza di lui la Roma perde la sua essenza.

La domanda sorge spontanea: a questo punto la Juve non poteva tenersi Del Piero?

Io non so cosa sia successo. Certamente mandarlo via a cuor leggero può essere stato un errore, però può darsi pure che ci siano stati dei dissapori, che del Piero volesse giocare titolare. Non lo so, non sono più alla Juve, non posso dire se sia stato giusto o sbagliato.

Cosa bisognerebbe fare per riformare il calcio italiano e renderlo più competitivo?

Per riformare il calcio Abete andrebbe preso a calci nel sedere. Si è congratulato con Moratti perché ha smorzato i toni. Ma cosa doveva dire di più? Ha detto che gli sembrava di essere tornato al 2006! Mica dice che il 2006 lo ha costruito lui con le sue intercettazioni all’arbitro Nucini, mica dice quello che hanno detto Cipriani e Tavaroli che hanno pedinato e intercettato illegalmente, mica dice che l’Inter ha fatto i passaporti falsi, che hanno trafugato i documenti alla motorizzazione di Latina per fare patenti false. Parlano ancora del rigore di Ronaldo ma quella partita non dovevano nemmeno giocarla, dovevano essere in serie B. Perché c’è sempre il buon Abete che prescrive le cose. Palazzi ha scritto 52 cartelle sull’illecito sportivo dell’Inter però guarda caso era prescritto. La Federazione arriva sempre tardi quando c’è di mezzo l’Inter. A questo punto mi chiedo perché l’Inter non se li giochi da soli i campionati.

Abete dice che la ferita di Calciopoli difficilmente si rimarginerà…

E io dico che la ferita di quello che sta lasciando lui nel calcio non si rimarginerà mai. Ma secondo voi è pensabile che una Federazione che tutela i suoi tesserati possa nascondere le radiazioni (rif. Preziosi n.d.r)?

Qualche tempo fa – ricordando i parallelismi fra Calciopoli e il caso Conte – abbiamo scritto: in guerra non si va con le fionde . Pensa che la linea della Juve sia troppo morbida?

Moratti con le sue dolci parole fa l’attizzapopolo e la Juventus sta zitta. Io dico che Agnelli è un buon dirigente e che ha senz’altro dato un buon impulso alla squadra; da quando è arrivato ha già vinto un campionato e ha oggi una squadra che malgrado la sconfitta di sabato è ancora prima in classifica. Lui sa tutto di come si lavorava, ha seguito per 12 anni noi e il padre, sa che ciò che è accaduto nel 2006 quando la Juventus prima non si è difesa e poi non ha saputo difendersi. Non so perché oggi non controbatta a Moratti, ma è ingiusto far passare la Juventus come una squadra che vince per grazia ricevuta.

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ESCLUSIVA TJ - Luciano Moggi: "Zeman e Facchetti? La verità è venuta a galla. L'Inter piange e vuol giocare da sola, ma prima c'è la Juve. Altro che Calciopoli..."

07.11.2012 16:30

La settimana in fieri sta facendo emergere tante verità scomode. "Gli errori arbitrali sono sempre esistiti ed esisteranno sempre come la sudditanza verso le grandi squadre": Luciano Moggi si è raccontato a trecentosessanta gradi, in esclusiva, a TuttoJuve.com. Dalle polemiche arbitrali alla lotta Scudetto fra bianconeri e nerazzurri, passando per le vittorie in tribunale su Zeman e Facchetti Jr.

Direttore, oggi ha vinto la causa contro Zeman che l'aveva denunciata per diffamazione. Soddisfatto?

"Certamente. Quello che ho detto all'epoca rappresentava, semplicemente, la verità. Se dire la verità, significa essere querelati allora facciano pure. Non a caso ho vinto anche quella con il figlio di Facchetti. Ho vinto perchè ho detto la verità".

La Juve ha perso contro l'Inter: se lo aspettava?

"Una sconfitta è solo un episodio, non bisogna esagerare. Sto sentendo e leggendo molte cose, ma ricordo a tutti che in testa c'è ancora la Juve. Gli altri parlano e piangono...".

Allude all'Inter?

"Stanno già preparando mediaticamente con proteste e lamentele la gara di domenica a Bergamo. L'Inter vuole giocare da sola...".

Gli errori arbitrali delle ultime settimane smontano le accuse nei suoi confronti di gran manovratore del calcio?

"Direi che è evidente la realtà dei fatti. Gli arbitri possono sbagliare, la sudditanza esiste ed esisterà sempre nei confronti dei grandi club. La Juventus è una vittima, perchè non ha mai chiesto niente a nessuno".

Episodi favorevoli non solo alla Vecchia Signora?

"Gli errori aiutano le grandi squadre, non mi sembra che l'Inter si sia lamentata per aver vinto 3-2 con la Samp grazie ad un gol in fuorigioco. Sono rimasti in silenzio e hanno accettato il favore arbitrale...".

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A tu per tu di MATTIAS MAINIERO (Libero 08-11-2012)

Panchine di lusso per i calciatori

Ogni giorno con molto interesse mi soffermo sulla sua pagina, caro Mainiero. Ora le scrivo per avere informazioni sull'assegno pensionistico dei calciatori miliardari: a fine carriera è vero che percepiscono una gran bella pensione, pagatagli dai contributi versati da noi? A che età vanno in pensione?

Antonio Zaroli

e.mail

Caro Zaroli, innanzitutto la pagina non è mia: è dei lettori, che gentilmente mi ospitano su concessione del direttore. E veniamo a noi, cioè alla pensione dei calciatori, sulla quale c’è poco e molto da dire. Il poco: chi guadagna milioni di euro all’anno può anche permettersi di non pensare all’assegno pensionistico (alto o basso che sia), soprattutto se dopo aver fatto il giocatore continua a vivere nel mondo del calcio (i campioni, una volta terminata l’attività agonistica, non siedono sulle panchine dei giardinetti pubblici, solo panchine di lusso e da allenatori, a volte poltrone da dirigenti). Ho letto che Beppe Baresi ha una pensione di tremila euro lordi al mese per tredici mensilità. Tutto sommato non mi sembra un’esagerazione. Si può tirare a campare, senza fare follie. Però Baresi è allenatore in seconda dell’In - ter, e in quanto tale guadagnerebbe un milione di euro all’anno. I tremila euro della pensione possono andar bene per le mance. Il molto da dire: non tutti i calciatori sono stati famosi e non tutti hanno militato in serie A. Non tutti sono stati convocati in Nazionale o hanno giocato in Coppa dei Campioni. E per un giocatore che non ha sfondato la pensione è misera: in media 1800-2000 euro lordi al mese a 60 anni e con venti di contributi (altrimenti 65 anni). Alcuni vivono con la pensione minima: 500 euro al mese. Una particolarità: un calciatore versa in contributi previdenziali (Enpals, per la precisione) fino al 33 per cento dello stipendio. Non l’intero stipendio: fino ad un tetto di 92 mila euro. Significa che Totti, Buffon, Borriello e tutti gli altri versano più o meno trentamila euro ogni anno, anche se ogni anno portano a casa milioni di euro. Poco male, per loro, visto che della pensione, presumibilmente, non avranno bisogno se non per qualche spesuccia extra. Niente da fare, caro mio: tutto il mondo è paese, e anche nel calcio c’è la Casta. Poi i gironi infernali. Chiedere, per informazioni, alla stragrande maggioranza degli italiani.

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DISCIPLINARE SANZIONI ANCHE PER DE LAURENTIIS

Accuse ai giudici Figc

il tecnico patteggia:

multa di 25 mila euro

di VALERIO PICCIONI (GaSport 08-11-2012)

Il «vergogna» e le altre parole forti con cui commentò la sua condanna a 10 mesi per omessa denuncia confermata dalla Corte Federale (prima dello sconto deciso dal Tnas) sono costate ad Antonio Conte 25mila euro. La stessa cifra pagherà la Juventus per responsabilità oggettiva. La sanzione è figlia dell'istanza di patteggiamento presentata dall'allenatore e dal club, che poche ore prima della riunione della commissione Disciplinare non aveva confermato l'intenzione di scegliere questa strada difensiva. E così il patteggiamento, sfumato nel primo processo per il calcio scommesse per l'opposizione della stessa Disciplinare, ha avuto in questo caso via libera.

De Laurentiis Stesso copione per la posizione del presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis. In questo caso il deferimento era doppio, «per la condotta tenuta davanti ai giornalisti», il «vi metto le mani addosso» pronunciato a margine di un consiglio di Lega, e per la decisione di far disertare la cerimonia di premiazione della Supercoppa per contestare l'arbitraggio della sfida vinta dalla Juve. De Laurentiis e il Napoli (per responsabilità diretta) sono stati sanzionati con due multe di 12mila euro per il primo caso, e di 25mila (20mila per il club) per il secondo.

Gianello La Disciplinare tornerà a occuparsi del Napoli per la vicenda dell'autodenuncia di Matteo Gianello per la combine (sfumata) di Samp-Napoli. Il 10 dicembre sarà discussa anche la posizione della società per responsabilità oggettiva, e di Paolo Cannavaro e Gianluca Grava per omessa denuncia.

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Ġazzetta dello Sport 08-11-2012

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L’allenatore dà un aiuto all’arbitro

e fa espellere il proprio giocatore

Insulti e spintoni all’avversario: “Non ci si comporta così”

La lezione Il direttore di gioco non si era accorto di niente

“L’ho chiamato e avvisato, era il secondo giallo, voglio vincere ma giocando pulito”

di GABRIELE CEREDA (la Repubblica - Milano 08-11-2012)

L’arbitro non vede un fallo di reazione, ma l’allenatore sì e chiede l’espulsione per il proprio difensore. Doppia ammonizione, cartellino rosso e lo stopper finisce sotto la doccia. La sequenza che lascia di stucco avversari e spettatori si è consumata domenica scorsa su un campo brianzolo. Sul rettangolo verde del Triuggio incrociano i tacchetti la squadra di casa e il Nino Ronco, di Ornago: incontro valido per la nona giornata del campionato di Seconda categoria, girone T, quasi l’ultimo gradino del calcio Figc (più sotto c’è solo la Terza categoria, che non ha retrocessioni). Quando all’8° del primo tempo gli ospiti vanno sotto di un gol, il difensore centrale, Davide Verderio, 27 anni, è già stato ammonito per gioco scorretto. Al 24° l’episodio che cambia la storia della partita. Il centravanti della Triuggese simula nell’area di rigore avversaria. L’arbitro non abbocca, ma il difensore non ci sta e prende a male parole il diretto avversario, poi lo spinge. Il fischietto non si accorge di nulla ma la scena non sfugge all’allenatore del Nino Ronco, Francesco Natobuono, 35 anni. «Ho chiamato l’arbitro e fatto presente quanto era accaduto, dicendo che il mio difensore era da ammonire per comportamento antisportivo», racconta l’allenatore. L’arbitro prende dal taschino il cartellino giallo e punisce il difensore. «Ho visto che non era il rosso: mi sono permesso di ricordargli che era il secondo giallo. Da qui l’espulsione automatica », prosegue Natobuono. Detto, fatto. Il Nino Ronco gioca in dieci, sotto di una rete. In uno scontro diretto che vale il quarto posto. «In quell’istante non ho certo pensato ai punti. Era il minimo che potessi fare e lo rifarei — puntualizza l’allenatore — . O si gioca pulito, rispettando le regole, oppure non si gioca.

Tutti vogliamo vincere, ma siamo qui per imparare anche il rispetto degli altri». Natobuono, tifoso del Napoli, seduto in panchina ha già conquistato 10 campionati su 11 fin qui disputati. Ingaggiato all’inizio dell’anno dalla dirigenza della squadra brianzola, che arriva da una promozione, il suo obiettivo è chiarissimo: fare il salto di categoria. Di certo, per ora, si è guadagnato il rispetto dello spogliatoio e quello di molti avversari. «Un bell’esempio — dice il sindaco di Ornago, Maurizia Erba — ce ne fossero di persone come lui in tutti gli ambienti e forse il nostro Paese non sarebbe così malandato». «Non dico che abbia fatto male — precisa Dardo Colombo, presidente dell’associazione sportiva Nino Ronco — quando me l’hanno detto, non sapevo se ridere o piangere. Avrei preferito che la punizione per il nostro difensore fosse rimasta nei confini dello spogliatoio». Dall’inizio della settimana nella cittadina brianzola, 4.670 anime, è l’argomento del giorno, con i pareri che si dividono. Per Walter, pensionato di 73 anni, «l’allenatore ha fatto bene e ci volevano anche due ceffoni per quel ragazzotto ». Stefano, 33 anni, invece, non è così duro: «A volte l’adrenalina in campo ti fa fare cose di cui ti penti dopo un minuto». Per la cronaca, dopo quasi 70 minuti di inferiorità numerica, giocando in contropiede, il Nino Ronco ha acciuffato un prezioso pareggio. Al 90°, a bucare la retroguardia avversaria, N’Doua Barros.

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L’intervista

“È una lezione per i ragazzi che credono che nella vita prevalgono i furbi”

Mondonico: “Ha fatto bene

ma in serie A è più difficile”

di FRANCO VANNI (la Repubblica - Milano 08-11-2012)

Emiliano Mondonico, allenatore di calcio fra serie A e serie B dal 1978, condivide l’atteggiamento dell’allenatore del Nino Ronco?

«Certo. Se un calciatore fa un gesto pericoloso o davvero antipatico, chiedere l’espulsione ci sta. Nelle giovanili della Cremonese mi è capitato di segnalare all’arbitro i falli della mia squadra. Nel 1980, in particolare, allenavo alcuni ragazzi con la testa calda. Ai falli troppo brutti urlavo: buttalo fuori!».

Quelle lezioni sono servite ai calciatori?

«Difficile dirlo, di certo un’espulsione meritata non fa male a nessuno. Soprattutto per i ragazzini di 13 o 14 anni, convinti che la vita sia una giungla in cui vince solo il più forte o il più furbo».

Come mai in serie A di simili casi di fair play non se ne vedono?

«Verrebbe da dire che è perché girano tanti soldi. Ma la verità è che in serie A ci sono in campo dei professionisti. I gesti idioti per fortuna sono rari e vengono sanzionati, farla franca è difficile».

I falli gravissimi non puniti si vedono ancora...

«Sabato scorso, durante Juventus-Inter, si è avuto un esempio di come il fallo non paghi. Lichtsteiner ha fatto un’entrata improponibile, l’arbitro ha lasciato correre, ma la panchina della Juve lo ha subito sostituito con Caceres. La giusta punizione per il calciatore, senza danno per la squadra».

Da ragazzo, quando giocava come ala, era corretto in campo?

«Avevo un carattere mica da ridere. Una volta entrai in area e fui falciato da un difensore. L’arbitro mi disse di rialzarmi. All’azione dopo mi buttai in terra e lui concesse rigore. Lo tirai fuori apposta e dissi all’arbitro: questo non c’era. Giocavo nella Cremonese, doveva essere il 1972».

Ora che allena squadre di dilettanti nella sua Rivolta D’Adda, in attesa di un ingaggio, come insegna ai calciatori il rispetto per gli avversari?

«Gli avversari dei miei calciatori sono spesso i loro padri, quindi li rispettano di per sé! Sto allenando un gruppo di bimbi, la più piccola è Alice, di 4 anni. Facciamo partite piccoli contro papà, con i genitori che se la passano fra loro come il Barcellona e i piccolini che pressano, correndo tutti dietro la palla».

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El silencio sobre los futbolistas gitanos

por JULIO MUÑOZ GIJÓN (EL HUFFINGTON POST 06-11-2012)

Más conocidos como Stoitchkov, Ibrahimovic, o Quaresma; Más sorprendentes como Andrea Pirlo, de la etnia sinti el mismo Eric Cantona, etnia manouche; Cercanos como Arzu, Jesús Navas, Apoño o Rafael Van der Vaart o incluso iconos de la identidad nacional como Zarra, del que se resalta su apellido Zarraonandía y se ocultan sus otros dos: Montoya y Salazar.

Todos son gitanos.

Si en la primera parte de un informativo la coletilla "de étnica gitana" suele formar parte de offs sobre reyertas o robos, una vez que empiezan los deportes, desaparece. Los goles de Ibrahimovic son de un jugador sueco de origen balcánico o, por ejemplo, la panenka de Pirlo es para Intereconomía "la clase brutal de Andrea Pirlo".

La imagen mental que se hace de los gitanos tiene más que ver con chatarra, flamenco, robos, o peleas de clanes, que con éxito deportivo. Se anulan sistemáticamente todos los inputs positivos que puedan mejorar esa imagen, y así se les condena.

El 6 de octubre de 2009, The New York Times dedicó un artíċulo a Jesús Navas. Lo tituló A Free Spirit merits a look at World Cup, algo así como "Un espíritu libre que merece atención en el Mundial". Se explica la libertad en su manera de jugar por su origen gitano, pero también sus problemas de adaptación y su miedo a abandonar a su familia.

En ese artíċulo, se cita a J. A. Muñoz, un responsable de la Unión Romaní que publicó un artíċulo titulado Los gitanos y fútbol y que llama la atención sobre algo.

"Lo más curioso es que la mayoría de los ultras no saben que muchos de sus jugadores más admirados son gitanos".

Seguramente ningún ultra racista del mundo diría no a contar en su equipo con Falcao por panchito, o con Drogba por negro y eso hace que poco a poco, la imagen del sudamericano o del africano, tenga modelos positivos.

En el caso de los gitanos... Solo silencio.

El fútbol es el deporte en el que más gitanos han alcanzado la élite, pero no el único en el que han protagonizado grandes historias. La del boxeador Rukelei es quizá una de las más impactantes y desconocidas de la historia del deporte, a este púgil, se le conoce como "El gitano que ridiculizó al Tercer Reich".

A Johann Trollman, todos lo conocían como Rukelei. Era un boxeador gitano que en 1932 luchó por el título nacional de boxeo en Alemania. La prensa oficial de la Alemania Nazi lo definía con dureza: "Muy afeminado", "Con una técnica que no tiene nada que ver con el boxeo ario".

Se enfrentaba a Adolf Witt y tenía que perder.

Sin embargo, tras seis asaltos, el "afeminado" juego de piernas de Rukelei había destrozado la defensa aria de Witt. Los jueces, ante la sorpresa de todos, pararon el combate y decidieron que el resultado era empate.

El público no opinó lo mismo y exigió que se reconociera a Rukelei. Los jueces, seguramente presas del miedo a la masa, accedieron. Rukelei, el boxeador gitano, recibió el título y lloró de emoción.

Poco después, las autoridades nazis le despojaron del cinturón por aquellas lágrimas. "Pobre comportamiento al llorar en el ring" fue la razón argumentada en el comunicado oficial.

La popularidad de Rukelei creció y las autoridades decidieron cortarla.

Dos meses después de despojarle del título le obligaron a participar en otro combate en el que le prohibieron utilizar su característico juego de piernas ante la amenaza de perder su licencia de púgil.

El combate llegó, y Rukelei apareció ante la mirada atónita de todos con el pelo teñido de rubio y con todo el cuerpo lleno de harina. Se situó en el centro del ring y estuvo encajando golpes sin moverse hasta que no pudo más y cayó ensangrentado.

Su carrera prácticamente acabó ahí. Poco después fue esterilizado y enviado al campo de Neuengamme donde murió. Su historia no, y en diciembre de 2003, la Federación Alemana de Boxeo devolvió postmortem el título a Rukeili.

Modificato da Ghost Dog

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BRUXELLES

I Trust portano il cuore del gioco

nel campo del Parlamento europeo

«Supporters Direct Europe» presenta alla Ue un programma strategico

per migliorare la gestione dei club attraverso il coinvolgimento dei tifosi

Sul tavolo la governance e la funzione sociale dei club ma anche la piaga scommesse

di PIPPO RUSSO (Pubblico 09-11-2012)

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La struttura di proprietà e gestione dell’Amburgo secondo il Supporters Trust del club tedesco

Il cuore del gioco. Una formula romantica e fortemente evocativa per definire quale sia il ruolo dei tifosi e quanto grande la loro centralità nel calcio. Perché al di là di tutte le trasformazioni, e delle modernizzazioni vere o presunte che il calcio sta affrontando, rimane una verità che nemmeno gli alchimisti dell’alta finanza applicata al pallone si sognerebbero di negare: che senza i tifosi il calcio non esisterebbe. Né come fenomeno popolare né tantomeno come businesss – e del resto non vi sarebbe il business se non sussistesse il fenomeno popolare. Su questo assunto si basa il ricco documento presentato mercoledì Supporters Direct Europe presso la sede del Parlamento Europeo. Il titolo del documento è, appunto, The heart of the game. E il sottotitolo specifica ulteriormente il contenuto di questo position paper, dicitura utilizzata per etichettare un documento di carattere strategico: «Why supporters are vital to improving the governance in football». E proprio l’idea che il miglioramento della governance dei club calcistici si ottenga soltanto attraverso il coinvolgimento dei suoi tifosi è da sempre un punto fermo della filosofia di Supporters Direct, un’agenzia fondata in Inghilterra e presto diventata un punto di riferimento in ambito europeo per tutte le compagini di tifosi in cerca d’un modello collaudato per avviare esperimenti d’accesso alla governance dei club.

Presentato in occasione di un Launch Debates, uno di quei dibattiti che si tengono a pranzo mescolando convivialità e scambio d’idee, il position paper elabora una serie di linee guida sulle quali le autorità politiche e sportive europee vengono sollecitate a lavorare per favorire una maggiore partecipazione dei tifosi. Tali linee guida hanno a che fare con sei specifiche aree di criticità: la governance europea del calcio (riferita sia alle leghe che ai singoli club), alla quale necessitano dei gradi maggiori di equilibrio e trasparenza; la sostenibilità finanziaria di club e leghe; la funzione sociale che i club dovrebbero esercitare presso le loro comunità, e che invece viene sempre più spesso dimenticata; il sistema dei trasferimenti dei calciatori attraverso il mercato, che nell’ultimo quindicennio è diventato sempre più controverso a causa dello strapotere degli agenti e dell’operare di enti opachi come i fondi d’investimento o di formule opache come quella della third party ownership (ossia, la proprietà di un calciatore da parte di un attore che non è né il suo club né il calciatore stesso); la piaga delle partite truccate (match fixing), che costituisce lo sviluppo più nefasto della globalizzazione calcistica; e infine la questione riguardante la discriminazione e la violenza, fenomeni dei quali le frange più radicali delle tifoserie si fanno portatrici, ma di cui si sono registrate espressioni sempre più frequenti sui campi da gioco e a opera dei calciatori stessi.

La discussione sul position paper è stata introdotta dall’eurodeputato belga Ivo Belet, componente del gruppo popolare e da tempo impegnato sul fronte dell’analisi e della legislazione sul tema. Fu lui a firmare nel 2007 un rapporto intitolato «Il futuro del calcio professionistico in Europa», che costituisce un documento di riferimento per la riflessione sullo sport a livello comunitario, così come lo è il più recente rapporto intitolato «La dimensione europea dello sport» curato dall’europarlamentare Santiago Fisas. Che è un altro componente del gruppo popolare. E bisognerebbe chiedersi come mai l’eurosinistra continui a essere latitante su questi temi, come se continuassero a agire pregiudizi ormai fuori tempo massimo.

Il dibattito ha visto il coinvolgimento di David Lampitt (direttore generale di Supporters Direct), di William Gaillard (direttore della comunicazione Uefa e ascoltatissimo consigliere di Michel Platini), Christian Müller (amministratore delegato della Dinamo Dresda) e Emanuel Macedo de Medeiros (presidente dell’European Professional Football Leagues, l’associazione che riunisce le leghe professionistiche europee). Quest’ultimo, consapevole di rappresentare l’anello più debole della struttura istituzionale del calcio europeo, si è sforzato di minimizzare la portata della crisi attraversata dal calcio europeo in questi anni. E francamente da lui non sarebbe stato lecito aspettarsi altro.

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Viareggio, la nuova vita di Masiello

«Errori, ma non sono un mostro»

Il difensore ora fa il volontario sui campetti di periferia: «Mi manca il calcio»

di GIOVANNI LORENZINI (GaSport 09-11-2012)

La nuova vita di Andrea Masiello, l'ex capitano del Bari coinvolto (e condannato) nel calcioscommesse, è cominciata su un campetto spelacchiato del quartiere Varignano, nella periferia di Viareggio. «Il calcio professionistico mi manca molto — ha detto il 26enne difensore, squalificato fino al 2014 — ma con i ragazzi dell'associazione La Fenice sto riscoprendo certi valori che prima non riuscivo a mettere a fuoco». E così, la nuova vita di Andrea è nel segno della solidarietà e dell'impegno sociale nella Fenice, un gruppo di volontari che si occupano dell'integrazione di ragazzi e giovani con storie difficili.

Trascinatore «Andrea è un esempio per tutti — racconta il presidente Emma Viviani —: quando abbiamo deciso di costruire il campo per farlo diventare un punto di aggregazione, è stato il primo a rimboccarsi le maniche. Prima era un terreno pieno di buche e rovi. Tutte le famiglie sono contente. Andrea ci ha dato una grande mano, è stato un trascinatore: per ogni lavoretto che abbiamo fatto, è stato anche un indispensabile consigliere». E in poco tempo, come si è visto nella partitella di inaugurazione, Masiello è diventato il leader indiscusso del gruppo. «È stata un'emozione forte — ha detto Masiello — che voglio condividere con questi giovani che mi fanno sentire importante». Il calcio professionistico appare lontano anni luce in mezzo ai condomini di periferia: Masiello sorride, mentre uno dei compagni di squadra segna un gran gol. «Guardo con ottimismo al futuro: ho 26 anni, ho sbagliato una volta, non sono un mostro. Non sbaglierò più anche se mi sono accorto che ci sono persone pronte a voltarti le spalle quando sei in disgrazia invece di esserti vicino per darti un aiuto o un consiglio».

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PAGNOZZI AL VERTICE DI MACAO

Nella lotta alle scommesse illegali

si muovono anche i comitati olimpici

di VALERIO PICCIONI (GaSport 09-11-2012)

Un coordinamento internazionale per contrastare le scommesse illegali. È quanto sta discutendo a Macao, la regione speciale amministrativa della Cina, l'associazione dei comitati olimpici nazionali con il suo comitato esecutivo di cui fa parte Raffaele Pagnozzi, segretario generale del Coni e dei comitati olimpici europei. Pagnozzi e gli altri dirigenti olimpici stanno studiando la creazione di una struttura e la definizione di ulteriori strumenti da adottare per arginare il fenomeno del calcio truccato. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati i tentativi di affrontare su scala internazionale un fenomeno chiaramente globalizzato. Anche sabato scorso, durante la conferenza stampa di presentazione dell'assemblea generale dell'Interpol a Roma, erano stati citati i risultati della collaborazione tra le diverse polizie anche perché ormai evidente che spesso un'organizzazione criminale di un paese può operare per combinare le partite di un altro campionato. A gennaio proprio a Roma si svolgerà il convegno internazionale dell'Interpol per la lotta al calcio truccato.

Bertani Si è chiusa con l'accoglimento del ricorso la vicenda che aveva visto la Sampdoria multata di 50mila euro per responsabilità oggettiva in merito alle violazioni di cui era stato ritenuto responsabile Bertani. «L'illecito ascritto al Bertani — si legge sul sito del club — si è consumato nel periodo in cui egli era un tesserato del Novara e non anche della Sampdoria».

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Ġazzetta dello Sport 09-11-2012

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Trieste Il presidente della società: erano in troppi, non potevamo seguirli tutti

Quei baby calciatori

licenziati con una lettera

Ai bimbi di otto anni: non giocherete più

di ANDREA PASQUALETTO (CorSera 09-11-2012)

Quel giorno Paolino ha trovato una busta chiusa sul tavolo del salotto, indirizzata a lui. La prima lettera dei suoi otto anni di vita. «Con la presente—c’era scritto—ti ringrazio per aver fatto parte, nella stagione sportiva 2011-2012, della nostra società. Purtroppo siamo costretti a comunicarti che per la prossima stagione sportiva 2012-2013 non siamo in grado di darti la possibilità di continuare con noi la tua attività sportiva. Nell’augurarti le migliori fortune sportive colgo l’occasione per porgerti i miei più cordiali saluti». Firmato Spartaco Ventura, presidente del calcio San Giovanni di Trieste: la squadra di Paolino, la sua passione, il suo sogno. Papà Daniele l’ha visto andare nella cameretta, dove i colori sono quelli della Juve e i poster quelli di Buffon: «È uscito dopo due ore — racconta il genitore —: "Non voglio più giocare a calcio, non voglio più fare niente", mi ha detto. Era stato scartato forse perché troppo basso per fare il portiere. Mi chiedo: sarebbe questa la sua colpa? Quella di non essere abbastanza bravo al gioco del calcio? Io non lo portavo perché diventasse un Kakà, un Messi, un Ronaldo. No, solo per divertirsi e per stare con gli altri, per vivere lo spirito di gruppo, per imparare a essere leale». Con il baby portiere del San Giovanni, altri cinque «pulcini» hanno ricevuto lo stesso benservito. «Mio figlio ne ha fatto un dramma — assicura Cesare Lenzi —. Ho cercato di calmarlo, di dirgli che poteva comunque andare in un’altra società: niente. "Non voglio giocare contro imiei amici". Capito? Con il San Giovanni sì, da avversario no. Pian piano l’ho convinto a fare atletica, visto che è rimasto incantato dalle Olimpiadi».

La domanda è dunque quella: possibile che già a questa età, quando i bambini iniziano a tirare i primi calci al pallone, si facciano selezioni del genere, che ci sia un fuori squadra, un fuori rosa, un "libero di accasarsi altrove" come si conviene a un Del Piero, a un Seedorf o a un Julio Cesar con tanto di cordiali saluti, quando la stessa Federcalcio invita le società a non fare selezioni fino ai 12 anni? E la mission sociale?

Abbiamo chiesto lumi al presidente del San Giovanni, quello Spartaco Ventura che ha spedito le missive: «La ragione non è tecnica, di bravura. La mia scelta è stata dettata da un’esigenza: quella di ridurre il numero dei piccoli calciatori della società per il fatto che non eravamo più in grado di seguirli tutti. Mancavano gli allenatori e quindi bisognava asciugare la rosa. I nomi li ho scelti considerando quindi altri parametri. In ogni caso, dopo il 30 giugno di ogni anno, come i bambini e i genitori sono liberi di cambiare società, anche la società è libera di fare le sue scelte. Ricordo poi che, se al sottoscritto prende un colpo, non ne restano a casa 6ma 200».

Parole non proprio riconcilianti, quelle di Ventura. «Invece di chiedere scusa, ferisce un’altra volta», si scalda papà Cesare. «Ho già mandato una lettera alla Federazione, ci sarebbero gli estremi per la procura federale », rilancia papà Daniele. E sono pietre anche dal fronte dell’analisi psicologica della vicenda. Con Vera Slepoj, già psicoterapeuta del Palermo Calcio, che dopo aver premesso come «a quell’età la competizione sia comunque legittima e anche il fallimento sportivo, che però dev’essere supportato da un allenatore in modo che si traduca in una risorsa», bacchetta le modalità di comunicazione: «Mi sembra che questo presidente abbia preso troppo seriamente il proprio ruolo. La lettera è quasi quella di un datore di lavoro a un dipendente. Non è giusto chiudere un rapporto con un bimbo come se la sua fosse un’attività professionale. A quell’età il calcio è gioco, niente di più. Comunque, la forma sbagliata può essere sempre sanata dai genitori». Infatti il padre di Paolino ha già piazzato il suo piccolo fra i pali del San Luigi. Che ora aspetta al varco il San Giovanni di Spartaco.

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LA STORIA

Dietro un giornalista c'è un tifoso?

L'imprecazione di Conte, il club Magath, la tribuna stampa dell'Olimpico. Quando l'ultrà è fra noi

di MAURIZIO CROSETTI (Repubblica.it 08-11-2012)

A volte succede che la vera curva sia la tribuna, nel senso di tribuna stampa: non dovrebbe accadere, ma tant'è. Se tu non fossi stato tifoso da ragazzino, difficilmente avresti deciso di dedicarti poi al giornalismo sportivo perché, come il calcio, anche lo scrivere di sport nasce dalla passione e non è materiale freddo. Lo diventa, nel tempo, quando al tifo si sovrappone il mestiere (oppure il fantacalcio, ma quella è un'altra storia). Quando non succede, sono possibili pericolosi e antipatici cortocircuiti.

Il focoso Conte, ormai sempre più simile anche dal vivo all'imitazione di Crozza, il quale si rivolge alla sala stampa chiedendo chi sia quella m. che ha esultato dopo il gol del Chelsea, fa tornare in mente un'intera casistica. Nella quale, va detto, le m. sono pochissime ma i risentimenti milioni.

Il caso più famoso resta "la medaglietta di Magath". Accadde che dopo la finale di Coppa dei Campioni persa dalla Juventus ad Atene nel 1983 contro ogni pronostico, un gruppetto di giornalisti non proprio filo-bianconeri pensasse di premiare l'autore della rete decisiva, cioè l'occhialuto Felix Magath, con una medaglia ricordo. La cerimonia ebbe luogo qualche tempo più tardi di fronte a un Magath invero assai sorpreso, probabilmente incapace di comprendere il senso dell'evento. Senso che non sfuggì a Boniperti: il presidente ci mise del tempo, usò tutte le sue doti di 007 e alla fine venne a capo di nomi e cognomi. Ogni colpevole fu scritto per sempre sulla lista nera. Oggi, con Facebook e Twitter, sarebbe stato molto più facile e rapido: infatti, i "reprobi" di Conte sono stati identificati nel giro di un paio d'ore.

Tra Juventus e Torino non mancano altri sapidi episodi, a volte è un'impersonificazione di ruoli da commedia dell'arte. Un grande giornalista come Gian Paolo Ormezzano gioca ad essere granata da sempre, dichiara di sognare il derby in serie B, e anche Massimo Gramellini ama calarsi in questa parte. Nessuno, però, si sognerebbe di chiamarli m., anche perché Gpo e Gramellini hanno stile e classe anche quando giocano.

Nella storia del giornalismo sportivo non mancano casi di firme illustri che hanno sempre saputo tenere separate passione (sportiva) e professione. Sandro Ciotti era laziale, come altre famose voci di "Tutto il calcio", ad esempio Claudio Ferretti ed Ezio Luzzi, ma dalle loro radiocronache non si capiva di certo, e neppure si intuiva il cuore genoano di Enrico Ameri. E nessuno ha mai potuto rimproverare Roberto Beccantini di scarsa obiettività, pur essendo egli juventino nel profondo. All'epoca dello storico Novantesino Minuto condotto da Paolo Valenti (amava la Fiorentina) e Maurizio Barendson (lui era del Napoli), molti corrispondenti non nascondevano le loro passioni, dal napoletano Luigi Necco all'ascolano Tonino Carino, però sempre con eleganza: nessuno di loro avrebbe mai esultato contro qualcuno. E non si dimentichi che oggi va di moda la telecronaca del "giornalista tifoso" come opzione per il telespettatore: in parte è un gioco, in parte se ne potrebbe discutere, quando il telecronista è anche un cronista.

Ben altra cosa è l'esibizione delle caricature dei giornalisti-tifosi nelle molte, e per lo più inguardabili, trasmissioni televisive sul calcio di piccole emittenti o bizzarre catene nazionali: lì ci sono "opinionisti" che recitano apposta la parte della macchietta, dando vita a teatrini che non sono proprio il vanto della categoria, però fanno audience.

Un luogo di grande, consueto tifo è la tribuna stampa dell'Olimpico, dove sovente accade di vedere colleghi che esultano per un gol della Roma o della Lazio. Scena che si ripete peraltro in molte città, specialmente di provincia, dove i destini della squadra e il tifo interessato di alcuni giornalisti si intrecciano: perché se la squadra va bene, gira l'Europa, ha visibilità, in qualche modo ci guadagnano pure loro. La gazzarra nella sala-stampa di Catania contro Angelo Alessio dopo la farsa arbitrale del fuorigioco fantasma, da parte di alcuni cronisti locali (poi si sono scusati), fa parte di questa casistica.

Può dunque accadere che il tifo sia un sentimento guidato dall'interesse: le intercettazioni di Calciopoli l'hanno dimostrato, smascherando certi giornalisti assai compiacenti con Moggi e non certo perché da bambini tifassero Juve. Questo ha abituato alcuni club e alcuni allenatori a pensare che i giornalisti siano nemici se solo non tifano per la loro squadra: perché mai?

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Il personaggio

Il presidente del Grosseto ha tolto l’accredito a un collaboratore del Corriere della Maremma

Camilli colpisce ancora

“Via il corvo che gufa...”

A marzo aveva impedito l’accesso allo stadio a due giornalisti

e un fotografo. E poi c’è la storia dei giocatori ubriachi

di BENEDETTO FERRARA (la Repubblica - Firenze 09-11-2012)

Quelli che sparano parole col bazooka e quelli che ti sorridono e poi ti tolgono di mezzo senza lasciar tracce. Piero Camilli è tante cose ma di sicuro di tracce in giro ne lascia parecchie che alla fine ti confondi pure. Lui urla e se non urla scrive sul sito della sua società, l’US Grosseto, quella che nel duemila lui ha pescato nel grande mare del pallone dimenticato per arrivare trionfalmente in serie B. Dopo i quattro giocatori sbattuti fuori perché beccati (causa incidente) alle 5 di mattina reduci da una notte brava, adesso Camilli, con la squadra in bilico sul precipizio, cambia bersaglio e torna a sparare a zero sui giornalisti. Lo fa cacciando dalla tribuna stampa Paolo Pellegrino, collaboratore del Corriere della Maremma. Il presidente annuncia di aver tolto l’accredito al giornalista non mancando di dare lezioni sulla professione e ironiche valutazioni di tassi glicemici. «Il Pellegrino scriva di calcio, ma lasci da parte apprezzamenti personali sul mio conto e resoconti frutto di fervida fantasia o abbassamento di zuccheri». Quindi la sentenza: «Al fine di evitare il protrarsi di simili comportamenti ed avere alle spalle in tribuna un corvo che gufa sul Grosseto è bene che cambi posto e paghi il biglietto come tutti». Quando si dice la manina leggera. Ma non è la prima volta che Camilli se la prende con la stampa. Di accrediti cancellati ce ne sono stati altri. L’ultimo episodio risale al marzo 2012.

Allora furono due cronisti e un fotoreporter a pagare per aver raccontato la litigata in tribuna d’onore tra Camilli e il presidente del Torino Urbano Cairo. Ma Paolo Pellegrino cosa mai avrà raccontato? «Ho scritto che dopo la partita con la Ternana Camilli ha detto: “Somma migliore allenatore mai avuto dopo Pioli”. Una settimana dopo ha urlato “somaro” a Somma durante la partita.

Io ho fatto notare che lui è stato più volte abile e veloce a cambiare idea e allenatore». Beh, che dire: in effetti Camilli ha cambiato 37 allenatori in 11 anni. E i suoi toni di sicuro non sono particolarmente garbati. Però, augurandoci che il collega possa tornare a lavorare in tempi rapidi, una cosa va detta: nel paese dei sindaci che fanno conferenze stampa seduti sul wc e di allenatori scudettati che gridano mer..e a giornalisti che non tifano come lui, il buon Camilli, commerciante di ovini su scala internazionale, appare quasi come un irruento creativo mediatico sprovvisto di sicura. Perché poi ci sono pure quelli che ti tolgono l’accredito senza dirlo in giro per non far brutte figure. Saranno forse meglio loro? Mah.

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Conte, quello nella foto sono

io che esulto al gol del Chelsea

L'allenatore scaglia la sua ira verso i giornalisti in festa: «Chi è quella ɱerda che esulta?», mostrando così la sua visione proprietaria rispetto al nostro povero mestiere. Caro mister, le piacciono i servitorelli del potere o può consentire che un cronista che non tifa Juve sia sereno quando scrive della stessa?

di MICHELE FUSCO (LINKIESTA 09-11-2012)

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Gentile mister Conte, confesso. Sono io la ɱerdaccia che ha esultato per il gol del Chelsea nel recupero, come peraltro l’impietoso fotogramma scattato da un collega juventino «a mia insaputa» evidenzia in modo sin troppo brutale. E’ un gol che vi tiene ancora sui carboni, per questo ho proprio esultato. Allo stesso modo, come me credo abbia esultato qualche altro milione. Come ogni maledetta domenica (o martedì o mercoledì).

L’altra sera, evidentemente, saputa la notizia lei si è molto innervosito. Passando dalla sala stampa, udito il trambusto, lei sarebbe tornato sui suoi passi, avrebbe messo la testolina dentro e sentenziato senza pietà: «Chi è quella ɱerda che ha esultato?»

Mi domando se il suo cambiamento d’umore dipenda – appunto – dal cammino di Champions che rimane impervio o da una visione proprietaria del mestiere giornalistico per cui i cronisti (sportivi o politici poi è lo stesso) debbono essere servitorelli dei potenti altrimenti si trasformano in ɱerdacce da abbattere. Non voglio pensare, poi, che la cosa abbia assunto anche un forma per lei più inaccettabile, visto che ci si trovava all’interno dello «Juventus Stadium», dunque in piena terra bianconera, dove nessun dissenso sarebbe ammesso. Questo particolare non lo voglio nemmeno pensare, lo metto lì, in un cantuccio, come semplice malizia.

Vede mister Conte, questa storia dei cronisti «amici» è una vecchia storia. Che ho già vissuto - ragazzo – quando anch’io scribacchiavo di pallone (insomma, di cazzatelle) e poi, più adulto, quando mi è capitato di occuparmi di politica (cazzatelle non inferiori). Capitava che si venisse assegnati a una certa squadra e a quella ci si dedicava per mesi, alle volte per anni (errore dei capi, è sempre meglio far ruotare le persone per non creare “dipendenza”). Normale che si creassero rapporti, normale che ci fosse una confidenza non comune, normale che all’interno della comunità (squadra+dirigenti+cronisti al seguito) il clima fosse gioviale, quasi complice, al punto che la critica giornalistica, quando emergeva, veniva vissuta sostanzialmente come offesa. «Come - questo era il tono del ragionamento - noi ti accogliamo democraticamente nella nostra famiglia e tu ci spari addosso?»

Vorrei farle una domanda molto diretta, caro mister: lei crede che tutti i giornalisti che esultano per un gol contro la Juventus, poi siano automaticamente in malafede quando debbono scriverne? Lei pensa che un giornalista che tifa Toro o Inter o Milan o Napoli sia per questo inattendibile quando deve raccontare le faccende bianconere e che sol per questa identità smarrisca la serenità di giudizio nei confronti dei lettori? E lo stesso in politica: secondo lei, un osservatore più conservatore non avrebbe l’equilibrio necessario per giudicare il mondo della sinistra solo perché più vicino al primo? Ma questi, caro Antonio Conte, sono steccati da quinta elementare, roba vecchia e fumosa, che con il mestiere vero non hanno nulla a che fare.

Ma giusto per non fare le anime belle, il nostro mondo è anche pieno di tifosi-giornalisti che pur di avere udienza all’interno della società e della squadra si coprono gli occhi quando c’è da raccontare qualcosa di spiacevole. Forse è questo l’atteggiamento che le piace di più, la censura preventiva in nome di un tifo comune? Se così fosse, se dovessimo estendere a tutte le squadre e a tutte le società lo stesso meccanismo, non si verrebbe mai a sapere niente di nessuno, tutto filerebbe sempre a meraviglia, ognuno continuerebbe a coltivare il suo splendido orticello senza essere disturbato.

Spiace doverle comunicare, gentile Conte, che la democrazia ha i suoi costi. Che prevedono anche che i giornalisti esultino perché la Juve va sotto (la Juve non il Paese) e che si divertano assai pensando alla sua faccia torva. Immagino soltanto come avranno goduto in tribuna stampa i cronisti di fede nerazzurra l’altra sera allo «Juventus Stadium»: tutti in malafede quando poi si sono messi alla tastiera?

Si rilassi mister, in fondo il calcio rimane pur sempre la terra dei cachi. (anche se c’è sempre da imparare)

Ps. Chi le scrive è uno dei più grandi milanisti della storia. Peraltro molti e molti anni fa cacciato via da Milanello gestione Galliani perché «indesiderato». Ma se vuole ci vediamo per una pizza e gliela racconto.

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crosetti fa sempre più schifo, se possibile.

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crosetti fa sempre più schifo, se possibile.

Perchè quell'altro, fusco, no?

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The Sports-Corruption Industry

and the Great Cover-Up I

by DECLAN HILL 09-11-2012

Cayman Islands, October 2012: Down in the Caribbean to moderate a conference on anti-money laundering. The islands, concerned about their declining reputation are trying to spruce up their banking practices. One of the highlights of the conference is the speech by the charismatic Vince Cookingham. He is a tough ex-cop – former New York Police Department – and was involved in a number of high-profile investigations, like the Son-of-Sam serial murders and the French Connection drug trade case. During his presentation, he turned on its head pretty much all the shibboleths of the compliance industry. One of the quotes that resonated was his joke, “Terrorism? Not a problem. I can guarantee if any terrorist wanted to invade America, he would be outnumbered a-hundred-to-one by all the consultants in the terrorism industry. The poor guy would not be able to move before all those consultants came swarming all over him.”

I know what Cookingham means. He is in no way trying to claim that terrorism does not exist, but he wants to point out that an industry that has grown up to profit on the ‘fight’ against it. This industry – stacked with consultants – often gets in the way, rather than helps prevent it. It is the same with the sport-corruption industry that has grown up in the last few years.

One example this week from Brasilia, where Transparency International (TI) is hosting a conference on anti-corruption. TI tries to be to corruption, what Amnesty International is to human rights. TI has largely failed, despite some good people in its ranks, and the Brasilia conference is a good illustration of why that is so.

In some of its panel discussions, TI was hosting discussions on sports-corruption. This is a significant event: marquee presentations for the world’s biggest anti-corruption organization at their top conference. So who is not going to be there? Well, actually most of the people who have done most of the work against corruption in sports.

For example, in the last eighteen-months we have seen solid advances in pushing FIFA and other soccer organizations to be more responsive in their governance. This is largely due to the work of Andrew Jennings, the tireless British journalist who has helped expose countless financial scandals within FIFA. Jennings was not be there. Nor was Jens Weinreich – his German counterpart – or Jean-Francois Tanda – their Swiss counterpart. These men have toiled for years to uncover the bribes and kick-backs that senior FIFA executives took in return for lucrative television rights. They were not on stage, because they were not invited. Nor was the courageous Michel Zen-Ruffinen, the first public whistle-blower in FIFA history, who sacrificed his position at the organization to reveal some of the problems there. He was not invited either.

In the last two months, the world has also seen the explosion of the Lance Armstrong scandal. None of the whistle-blowers who risked their reputations and careers to expose Armstrong’s doping practices were on stage. In fact, in TI’s entire exploration of sports corruption there was not a single athlete on-stage.

So who were on-stage? A couple of fourth-generation anti-corruption journalists, an academic who produced a dubious article funded by the gambling industry and lots of sports officials and superannuated policemen. In this issue of sports corruption, some of them are very good, [and on a personal note, some are friends and good colleagues and I do not like to write this about them] but as a group they are not the best people and their unwittingly role – like much of the sports corruption industry – was to help cover up one of the greatest scandals in sports today.

To explain. My work in The Fix is second-generation stuff. I wrote about a group of people – the first generation – who were risking their careers and, at times, their lives to fight against fixing in football. There were, for example, the courageous Malaysian journalists Lazarus Rokk and Johnson Fernandez who had been sued and threatened by the Triads for exposing the wide net of fixing that was going on in their sports leagues. There was a whole selection of other people from players to senior sports officials to policemen. The interesting point, is that almost every single one of these people has been driven out of sport because of their work. However, most of them still understand better than anyone who spoke at the TI Conference the real problems of sports corruption – and again none of them were invited to speak.

After the publication of The Fix, another generation of consultants, academics and journalists emerged. The two most prominent people of this third-generation of anti-corruption activists were Sylvia Schenk (Transparency International) and Chris Eaton (FIFA). Schenk and Eaton had an all too brief time in the official spotlight before their ideas were pushed out of the way and they left their posts. They continue to campaign but with little of the force and attention that they once had.

Now we have a fourth generation of anti-corruption ‘experts’ springing up. They are, for the most part, good people. The problem is that, at the moment, they do not know what they are talking about, and they are, unwittingly, helping cover-up one of the greatest scandals in sports corruption. In the next few weeks, I will post a second article on this specific scandal and why many top-level sports officials are desperate for no one to talk about it – stay tuned.

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Mi dispiace Fusco:

- ma uno che dovrebbe essere imparziale, e quando si presenta allo Juventus Stadium non riesce nemmeno a fare finta di esserlo sarà sicuramente in malafede quando deve scriverne. Come non è riuscito a fare finta di essere imparziale nel posto al mondo in cui più avrebbe dovuto riuscirgli, non riuscirà nemmeno ad esserlo nello scrivere.

- se la democrazia prevede che un giornalista possa tifare liberamente contro la Juventus, permette anche alla Juventus di proibire l'ingresso nel proprio stadio ai giornalisti che non ritiene corretti ed imparziali (vedi risposta sopra).

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Joy That Lasts,

on the Poorest of Playgrounds

by KEN BELSON (The New York Times.com 08-11-2012)

SOMETIMES a soccer ball is more than just a ball. Sometimes, it’s a lifesaver.

Tim Jahnigen has always followed his heart, whether as a carpenter, a chef, a lyricist or now as an entrepreneur. So in 2006, when he saw a documentary about children in Darfur who found solace playing soccer with balls made out of garbage and string, he was inspired to do something about it.

The children, he learned, used trash because the balls donated by relief agencies and sporting goods companies quickly ripped or deflated on the rocky dirt that doubled as soccer fields. Kicking a ball around provided such joy in otherwise stressful and trying conditions that the children would play with practically anything that approximated a ball.

“The only thing that sustained these kids is play,” said Mr. Jahnigen of Berkeley, Calif. “Yet the millions of balls that are donated go flat within 24 hours.”

During the next two years, Mr. Jahnigen, who was also working to develop an infrared medical technology, searched for something that could be made into a ball but never wear out, go flat or need a pump. Many engineers he spoke to were dubious of his project. But Mr. Jahnigen eventually discovered PopFoam, a type of hard foam made of ethylene-vinyl acetate, a class of material similar to that used in Crocs, the popular and durable sandals.

“It’s changed my life,” he said.

Figuring out how to shape PopFoam into a sphere, though, might cost hundreds of thousands of dollars and Mr. Jahnigen’s money was tied up in his other business.

Then he happened to be having breakfast with Sting, a friend from his days in the music business. Mr. Jahnigen told him how soccer helped the children in Darfur cope with their troubles and his efforts to find an indestructible ball. Sting urged Mr. Jahnigen to drop everything and make the ball. Mr. Jahnigen said that developing the ball might cost as much as $300,000. Sting said he would pay for it.

“Even on the harshest of terrain and in the worst of conditions, the ball could survive and the kids could still play,” Sting said in a public service announcement he made with Mr. Jahnigen. “I said, wow, yeah, let’s make it.”

Creating a prototype, it turned out, cost about one-tenth as much as expected and took about a year. Sting called it the One World Futbol, a homage to a song he sang with the Police, “One World (Not Three).”

To test the balls’ durability, Mr. Jahnigen sent them to places like Rwanda, where they were used at a camp for former child soldiers. A lion at the Johannesburg Zoo, who would go through six regular balls a day, played with two balls. A German shepherd spent a year biting on a ball. In every case, the balls withstood the abuse.

“When we tested the first rough prototype on the ground in Rwanda, Haiti and Iraq, it was already infinitely better than a wad of trash or a bottle,” Mr. Jahnigen said.

Mr. Jahnigen has developed a fifth generation of the ball, which is rounder than earlier versions. He carries samples around the world to conferences, potential buyers and sponsors. For effect, he crushes them and even drives cars over them. All of them bounce and hold their shape. By his estimate, the ball can last for 30 years, eliminating the need for thousands of hand-sewn leather balls that are typically donated by relief agencies.

Mr. Jahnigen has produced about 33,000 balls. About half of them were bought for $40 each. For each ball purchased, another is given away. Word has spread. The ball is being used by a hundred different organizations and has made its way to more than 140 countries. Flight attendants, Doctors Without Borders and a United States Army colonel in Afghanistan have taken balls with them on their travels.

“With this ball, we know they can keep the programs going when we leave,” said Nick Gates, the founder of Coaches Across Continents, which helps teachers and coaches in countries like Sudan use soccer as a tool for education and healing. “You can’t do any education without them. They’re more valuable than cows or goats because of the things you can do in the community.”

There are challenges, though. Last year, Unicef bought 5,200 One World Futbols at $17 each and gave them to schools in Kenya and Uganda. But because the balls cannot be deflated, they are more difficult to ship. Cost is another issue.

“In our experience, there is sure a demand for longer-lasting footballs,” said Shanelle Hall, the director of Unicef’s supply division in Copenhagen, which buys about 30,000 balls a year. But “compared to the $2.50 we pay for a regular football, the current cost difference for the more durable solution is currently too high.”

The costs, though, may come down as production increases. In May, Chevrolet, the General Motors division, agreed to buy 1.5 million One World Futbols over the next three years and donate them to needy children.

“We believe in the power of play to unite and heal and provide development for children,” said John McFarland, part of the global marketing strategy team at General Motors. “We don’t want to focus on the beautiful game, but what is beautiful about the game.”

While ecstatic at the demand, Mr. Jahnigen is scrambling to meet it. At the end of September, the factory in Taiwan that produces the balls has been working two shifts a day to meet its target of 45,000 balls a month. Two 40-foot containers of balls are being shipped each week to recipients around the world, including Indonesia and countries in Africa.

In time, Mr. Jahnigen said, he hopes to get millions of other balls into the hands of children.

“A child can play to their heart’s content where there are no content hearts,” he said. “We don’t understand that having a ball is like the best PlayStation 3 or a rocket to Mars.”

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Il pallone indistruttibile

In Darfur si gioca per sempre

“One World Futbol”, progetto finanziato da Sting (300mila dollari)

LA SCOPERTA Una schiuma dura modella l’interno: garantito per 30 anni

di IVO ROMANO (LA STAMPA 10-11-2012)

Un pallone per tutti. E, soprattutto, per sempre. Il sogno di ogni bambino: un pallone indistruttibile, che duri una vita. Ancor più per chi dalla vita ha avuto poco o nulla, e un pallone neanche può permetterselo. Lo aspetta come un dono, che arrivi da lontano. E quando arriva, bontà altrui, non dura che lo spazio di giorni, se va bene, altrimenti di ore. Perché non tutto il mondo è paese, per certi versi. L’altro, il terzo, è per forze di cose una sommatoria di carenza: impianti, strutture, campi, manca tutto. Al ragazzino che voglia sognare tirando calci ad un pallone non resta che lo street football, il calcio giocato per strada, su campetti improvvisati, con mezzi di fortuna.

I palloni arrivano da lontano, spesso gentile dono di chi ha deciso di dedicare la vita a chi è meno fortunato. Ma durano un lampo, maltrattati da superfici pessime, neppure lontane parenti di prati verdi da calcio veri. Poi, ci si arrangia, con palloni fatti in casa, calciati a fatica da piedi sollecitati all’eccesso. Un colpo al cuore per Tim Jahnigen, californiano di Berkeley, guardare in tv un documentario sui bambini del Darfur: giocavano con un oggetto di forma quasi sferica, fatto di immondizia e spago. «L’unica gioia per loro era giocare – ricorda al New York Times l’avrebbero fatto con qualunque oggetto potesse somigliare a un pallone». Di quelli veri, neanche l’ombra: «Milioni di palloni vengono donati ai ragazzi dei paesi poveri dalle più svariate associazioni: diventano inutilizzabili nel giro di 24 ore».

Da lì, l’idea: costruire un pallone indistruttibile, che in nessun caso potesse sgonfiarsi. Una bella idea, di difficile attuazione. Una ricerca lunga, durata un paio d’anni. Poi, la scoperta: una schiuma dura, con cui riempire i palloni. Modellare la schiuma all’interno dei palloni, però, poteva costare centinaia di migliaia di dollari: un grosso ostacolo, quasi insormontabile. Se non fosse stato per Sting, il divo del rock, vecchio amico ai tempi in cui Tim bazzicava il music-business. Gli parlò dei bambini del Darfur, gli spiegò la sua idea. Sting non ci pensò un attimo, gli disse di lasciare qualunque altra cosa, di tuffarsi in quel progetto. E gli consegnò 300 mila dollari. Ci impiegarono un anno, solo per creare un prototipo. Lo spedirono in Ruanda, perché fosse testato. E poi ad Haiti e in Iraq. Era nato il pallone che dura una vita (secondo i test, almeno 30 anni). Era nato One World Futbol, così chiamato da un celebre pezzo di Sting, One World (Not Three). Unico problema, il costo. Circa 40 dollari, all’inizio. Poi, il prezzo è andato scendendo. I primi 33mila esemplari sono stati acquistati per 40 dollari l’uno, l’anno scorso l’Unicef ne ha comprati oltre 5mila a 17 dollari (e li ha spediti alle scuole di Kenya e Uganda). La Chevrolet ha ora deciso di comprarne 1 milione e mezzo nei prossimi 3 anni. Partono da Taiwan, dove vengono prodotti, arrivano dappertutto, in 140 paesi, in ogni angolo del mondo dei bisognosi. I palloni che regalano un sorriso, per sempre.

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Hearts hopeful of ‘short-term’ financial fix

by NEIL GARDNER (THE TIMES 09-11-2012)

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Director Sergejus Fedotovas is encouraging fans to buy shares in the club

SNS Group

Heart of Midlothian are confident that their fans will help them to stave off financial collapse on the back of a “short-term fix” from Vladimir Romanov, the club’s majority shareholder.

Supporters have responded positively to an appeal for emergency financial help after the Scottish Cup holders were presented with a winding-up order for an unpaid tax bill by HM Revenue & Customs on Tuesday.

But Sergejus Fedotovas, a Hearts director, insisted money was still needed to meet the £450,000 tax bill. The Scottish Cup holders have previously paid off similar winding-up orders and although he is optimistic that Romanov will help to keep the club afloat, he warned that any cash injection would be only a short-term loan.

Fedotovas, the closest figure to Romanov on the Hearts board, said: “We have been speaking to the companies of Mr Romanov and we have had some promising response.

“They say they will look at ways to help us out. Obviously not immediately, they require a certain time. I would not take that for granted but at least they are looking at ways to help us.

“At the end of the day any funding will have to be paid back - if we are able to get a fix it will be a short-term fix. So I think the best solution is for supporters to take this club into their own hands and ensure it will be here for many, many years.”

Hearts launched a £1.79 million share issue two weeks ago to pay off a tax bill but the prospectus revealed another tax dispute. Revenue has claimed £1.75 million in unpaid tax liabilities relating to loan agreements for a number of players who joined Hearts from Kaunas, the Lithuanian club who were then run by Romanov.

The Edinburgh club, founded in 1874, has asked fans to ensure the Tynecastle Stadium is sold out for forthcoming home games and to invest in the share issue to help secure the club’s short-term future.

“It is clear to us that there is a very strong will amongst supporters to make sure that we can steer our way through the current position,” a club statement said.

Last year, Hearts had to pay a bill in the region of £500,000 to defeat a similar winding-up order, while others were served in 2009 and 2010. Hearts have had problems meeting wage bills during the past year and are currently under a Scottish Premier League transfer embargo following consecutive late monthly payments to some players and coaches.

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INTERNATIONAL di PAOLO CONDÒ (SPORTWEEK | 10 NOVEMBRE 2012)

COSTA TROPPO

LO STADIO CHE NON C’È

IL SINDACO DI SAN PIETROBURGO È SOTTO ACCUSA PER I RITARDI

NELLA REALIZZAZIONE DEL NUOVO IMPIANTO E IL BUDGET

RICHIESTO, SALITO DA 160 MILIONI A 1 MILIARDO DI EURO

Lo stadio Petrovskij di San Pietroburgo, casa dello Zenit di Luciano Spalletti, sorge su un’isoletta non distante dal centro, e nella geografia della città – fra le più belle del pianeta – risulta essere un bijoux delizioso (per la posizione) ma ormai vetusto. La capienza certificata dall’Uefa è di soli 21. 560 spettatori, pochi per una squadra che dopo aver vinto il titolo russo ha speso follie per acquistare Hulk e Witsel, e adesso partecipa alla Champions. Nel progetto presentato dalla Russia alla Fifa per ottenere il Mondiale 2018 – candidatura premiata dal successo – era ovviamente prevista la costruzione di un impianto nuovo in quella che è la seconda città del Paese. Era già indicata la capienza, 69. 500 spettatori, e l’intitolazione al nuovo santo patrono: la Gazprom.

Due anni dopo l’assegnazione del Mondiale, a settembre, la visita del primo ministro Dimitri Medvedev ha scoperchiato un vaso di Pandora di ritardi e dubbi sull’utilizzo dei fondi stanziati. «Sono stato qui due anni fa», ha detto Medvedev, «e la situazione era esattamente uguale a ora. Questo è molto fastidioso». Il destinatario dell’autorevole arrabbiatura, il sindaco di San Pietroburgo Georgy Poltavchenko, ha abbozzato sostenendo che la richiesta della Fifa di ampliare certe zone dello stadio ne ha rallentato lo sviluppo, fermatosi poi per mesi alla morte del suo architetto, Kisho Kurokawa. Ricorda un po’ la sequela di alibi tirata fuori da John Belushi nei Blues Brothers.

In una corrispondenza dalla Russia per l’Herald Tribune, Anna Kordunsky ha però raccontato, a proposito del sindaco, che le due curve dei tifosi dello Zenit da qualche tempo si rimpallano uno slogan. «Per finire lo stadio...» cantano i primi, «... vendi la tuadacia» replicano i secondi, e il sarcasmo non ha certo bisogno di sottotitoli. L’ultima (per ora) revisione dei prezzi chiesta dalle autorità cittadine eleva il budget del Gazprom Stadium dai 160 milioni di euro del 2007 al miliardo e 80 milioni di oggi. Sono cifre inspiegabili. Costruito sulle rive della Neva, lo stadio di San Pietroburgo dovrebbe essere il fiore all’occhiello del Mondiale russo. Prima però dovrà superare l’esame della magistratura, entrata fatalmente in scena dopo l’eccezionale aumento del budget. «La nostra attenzione sullo stadio non calerà sino al giorno dell’inaugurazione», ha detto a Sovietsky Sport Sergei Stepashin, presidente del tribunale federale.Anche per evitare che l’inefabile Poltavchenko ripeta la battuta che ha fatto infuriare la gente: «Se i tifosi vogliono aiutarci a costruire lo stadio, sono i benvenuti». Fondi che scollinano il miliardo, e poi devono pensarci i tifosi?

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SPORTWEEK | 10 NOVEMBRE 2012

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