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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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«Manata a un raccattapalle»:

inchiesta su De Sanctis

Gli insulti Il giudice multa l’Atalanta di 10mila euro per i cori razzisti a Cannavaro

di PINO TAORMINA (IL MATTINO 03-11-2012)

C’è qualcuno che prima o poi dovrà spiegare come funzionano le multe del giudice sportivo. L’Atalanta, infatti, dovrà pagare un’ammenda di diecimila euro per cori di «discriminazione territoriale» verso un avversario (e per aver lanciato un fumogeno). Il coro a cui si riferisce il giudice sportivo è quello indirizzato al capitano Cannavaro, napoletano doc, nel corso della gara apostrofato come «ţerrone».

Fin qui, bene. Ma i 10 mila euro che dovrà pagare (giustamente) l’Atalanta fanno ancor di più stupore se si pensa che appena 9 giorni fa, per ben altri cori molto più offensivi rivolti al Napoli e alla sua tifoseria, quelli che invitavano il Vesuvio a «lavare tutta la città» erano stati giudicati e catalogati come «insultanti» e la Juventus, per questo, punita con un’ammenda di 7 mila euro.

A lasciar altrettanto perplessi un’altra decisione del giudice sportivo. Sembrava tutto chiuso con il cartellino giallo dell’arbitro Orsato. Invece non è così: Gianpaolo Tosel ha deciso di trasmettere al procuratore federale copia degli atti relativi alla lite tra Morgan De Sanctis e il raccattapalle dell’Atalanta. Il portiere del Napoli, secondo quanto riferito ai collaboratori della procura dal responsabile della sicurezza dell’Atalanta, «ha colpito con una manata, ovvero uno schiaffo, un raccattapalle, reo di aver ritardato la rimessa in giuoco del pallone». Orsato su richiesta del giudice sportivo ha precisato, in un supplemento del referto, di avere adottato tale provvedimento in quanto «in modo non regolamentare (brusco) De Sanctis strappava dalle mani di un raccattapalle il pallone per accelerare la ripresa di gioco». Molto probabile che non succeda nulla, perché «il giallo» di Orsato di fatto fa sì che l’episodio sia stato già visto e giudicato dall’arbitro. E, di per sé, lascia perplessi la decisione di inviare gli atti alla procura federale da parte di Tosel per un episodio già sanzionato nel corso della gara. Non vale anche nella giustizia sportiva, il principio del «ne bis in idem»? De Sanctis, comunque, rischia al massimo una forte multa. Sia come sia, la figura del raccattapalle è ormai entrata nell’aneddotica della serie A. Il caso degli Azzurri d’Italia è solo l’ultimo della serie. Il secondo che vede protagonista Morgan: una volta, a Udine, rimproverò bruscamente un raccattapalle dell’Udinese, la sua squadra d’allora, per aver esultato al gol juventino di Trezeguet. In principio fu Domenico Citeroni, il 12 gennaio 1975. Si gioca Ascoli-Bologna, Savoldi supera il portiere avversario con un tocco morbido, la palla rotola verso la rete ma il raccattapalle Citeroni, appostato vicino alla porta dell’Ascoli, infila la punta del piede nella rete e respinge il pallone. L’arbitro crede che sia palo e non convalida il gol.

Niente a confronto dei calci che prese da Daniel Passarella un raccattapalle della Sampdoria che non rimetteva in campo la palla: si beccò sei giornate. Grandi polemiche a Napoli con Pagliuca protagonista: in un Napoli-Inter del 1997 Pagliuca apostrofò i raccattapalle chiamandoli «terroni».

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La Ġazzetta dello Sport 03-11-2012

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Le scelte delle squadre e i prezzi

alla scoperta di un’ossessione

Quanto costa ai campioni

la mania per le maglie

Miccoli per regalarle ai tifosi spende 25 mila euro a stagione

Le società ne danno una a partita, le altre se le fanno pagare

di FRANCESCO VELLUZZI (GaSport 03-11-2012)

Sudata piace di più. Il bollo della Lega è imprescindibile. L'autografo e la dedica hanno un valore importante. Si chiama ossessione da maglia. Il fenomeno è tipicamente italiano, ma pure in Premier, Liga e Bundesliga la «caccia» esiste eccome. Il problema è che i giocatori non ne possono più. Al tifoso interessa ben poco. Perché chi se ne importa se Di Natale o Miccoli, due tra i più richiesti, per non parlare dei napoletani che fanno storia a sé, spendono migliaia di euro all'anno per accontentare parenti, amici, amici degli amici, belle ragazze, ristoratori, meccanici, portinai, politici, idraulici, bambini, malati, associazioni e pure i giornalisti. A tutto ciò bisogna aggiungere gli scambi: i protagonisti le collezionano e hanno il piacere di togliersi la casacca a fine partita e scambiarla con l'amico del cuore, con l'ex compagno. Francesco Totti merita la palma di generoso doc: a Natale regala a tanti la sua 10 autografata.

Braccino Pescara I calciatori sono in difficoltà e non lo negano. Ma il tifoso non vuol sentire ragioni. Perché ritiene che un giocatore che guadagna tanto la maglia debba dargliela. E se non ce l'ha dal club la compra. Ma non tutte le società sono generose come Juve, Milan, Inter (l'altro giorno Ranocchia ha regalato la sua 23 a un tifoso ad Appiano: gli aveva pronosticato il gol) e Fiorentina che concedono ai propri campioni due maglie a gara. Prendete l'esempio del Pescara che ha il braccino decisamente corto: ogni giocatore ha 19 maglie all'anno (le partite, solo di campionato, sono 38). Esaurito il bonus, quelle scambiate sul campo costano carissime: 100 euro l'una. E i pantaloncini, un tempo snobbati e ora di tendenza, soprattutto tra i giovanissimi in spiaggia, 50 euro. «Io ho già quasi raggiunto le 19», racconta il portiere del Pescara Perin. Ma in società incoraggiano all'acquisto allo store delle maglie in versione replica (diverse solo per il bollo della Lega) che costano 55 euro. Vuoi accontentare qualcuno? Vieni in negozio. Questo il concetto. Ma i pescaresi non hanno l'ingaggio di Ibra e comprarne 20 alla fine costa 2 mila euro. Si calcola che un calciatore una settantina di maglie a stagione le regali. La media dei club (Atalanta, Bologna, Roma, Lazio, Napoli, Catania, Chievo, Samp, Torino, Parma, Palermo, Udinese) è di una a partita, le altre vanno comprate...

Se vinci Ci sono poi società con regole particolari. Al Cagliari le maglie sono collegate ai risultati: i giocatori ne hanno una se vincono in casa, due se vincono in trasferta, una se pareggiano fuori casa, ma zero se perdono o pareggiano in casa. E comprarle costa un botto: 70 euro. Il premio maglietta c'è anche al Genoa. Più o meno come al Cagliari: una se vinci in casa, due se vinci fuori. Ma se le paghi te la cavi con 50 euro. I cugini della Samp, genovesi pure loro, sono meno tirchi: una maglia fissa e 45 euro l'una quando esaurisci il bonus. Anche a Siena se si vince, ma i Mezzaroma sanno che non capita spesso, scatta il jolly: due maglie omaggio. Mentre a Palermo, sono in linea con la spending review: hanno ridotto da due a una e quando si acquista lo si fa a 65 euro. Fabrizio Miccoli ne sa qualcosa. «Spendo 20-25 mila euro a stagione. Una a partita ce l'ho, fate voi i calcoli. A Palermo le richieste sono esorbitanti, ma ne mando tante in giro per l'Italia. Sono felice». Il conto è fatto: 350-400 maglie a stagione. Ma gli idoli del Chievo non scherzano: Sorrentino e Pellissier distribuiscono 100 maglie a stagione. All'Udinese i giocatori ne hanno una a partita, le altre le pagano 42 euro. Immaginiamo che Totò Di Natale abbia un accordo speciale perché ogni anno regala più di 150 maglie. Lo scorso anno l'Udinese aveva il braccino più corto (solo 25), ma per un problema: le maglie non c'erano. E la squadra spesso è stata costretta a giocare in verde o in arancione. Anche Lazio e Bologna non scherzano perché detraggono dallo stipendio 60 euro per maglia. Il Parma è a 50. Il Siena a 45. Il Napoli 44. Uno sconticino? Forse. A Napoli chiunque la chiede ai propri idoli. Per fortuna Lavezzi è partito: era ossessionato. A Parigi sono più snob.

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RIPARTENZE di LUIGI GARLANDO (SPORTWEEK | 3 NOVEMBRE 2012)

UN CALCIO AL

LIBERO PENSIERO

FABIO QUAGLIARELLA: Io non ho nulla contro Zeman. Anzi, se devo essere sincero, lo stimo. Fa un gioco offensivo ideale per gli attaccanti, un giorno mi piacerebbe essere allenato da lui. I tifosi sono liberi di esprimere le loro preferenze, io ho le mie.

Titolare nelle previsioni della vigilia, Fabio Quagliarella si è ritrovato in tribuna a Copenaghen nell’ultimo turno di Champions. Una soluzione a sorpresa, anche perché la rinuncia a Vucinic sembrava spalancargli il campo. Più di un esegeta ha messo in relazione la tribunacon la confessione dell’attaccante: «Mi piacerebbe essere allenato da Zeman». Che non è esattamente il miglior amico della Signora e tanto meno di Conte, tutt’altro che immune dalla permalosità. Il silenzio con cui la Juve ha fatto circolare l’interpretazione degli osservatori è parsa una mezza conferma. Solo Quagliarella si è affannato a precisare il senso delle sue parole: una stima generale per il gioco di Zeman, non un desiderio di raggiungerlo al più presto, nessun accenno di insofferenza per lo scarso impiego, nessuno strappo con la Juve, dove giura di essere felice e di voler invecchiare. Se non un’abiura galileiana, di sicuro una professione pubblica di fedeltà che avrà fatto piacere all’ortodossia juventina.

Maicosuel Reginaldo de Matos, detto O Mago, ha fatto anche di più. Dopo il gol-partita al Pescara del 21 ottobre, il brasiliano dell’Udinese ha unito le mani in segno di supplica, ha piegato leggermente la schiena in un inchino e ha chiesto perdono a tutti. Come un penitente. Sulla coscienza gli gravava ancora il rigore sbagliato il 28 agosto con lo Sporting Braga, nel preliminare di Champions. Colpa di un maldestro cucchiaio. Ok, quel rigore fu di una leggerezza sconsiderata e contribuì a un’eliminazione che ha comportato un danno economico importante. Ma è stato pur sempre un errore tecnico, non di comportamento o di inadempienza contrattuale. Un lavoro fatto male, come capita a tutti. Di più, il tentativo di regalare una cosa bella, una pennellata scappata di mano. Censurarlo dalla lista di Europa League per un errore di lavoro, per uno sgorbio d’artista, è stato come strappargli le mostrine dalla giacca davanti alla truppa. Neppure in questo caso c’è la conferma della volontà punitiva, anzi, il ds Larini si è affrettato a dare un’interpretazione tecnica all’esclusione del Mago dalla lista di coppa. Resta il fatto che due mesi di rieducazione del ragazzo lontano dai titolari sono parsi lunghi.

Perfino nella Roma di Zeman, il profeta del libero pensiero, si accende la spia rossa. Daniele De Rossi è stato recluso in panca perché colto in debito di impegno, sì, ma dopo che aveva espresso pubblicamente le sue riserve sul progetto tecnico in seguito alla disfatta di Torino.

Quagliarella, Maicosuel, De Rossi: nessuna purga conclamata. Ma è già fastidiosa la zona grigia di sospetto in cui temere che si possa essere puniti per ciò che si esprime a parole e con i piedi, nell’anno di grazia 2012. Timore che Cassano ha racchiuso in una parola: “soldatini”.

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Perché Stramaccioni è diventato credibile nella parte del piccolo rottamatore

LA SCALATA DEL GIOVANE ALLENATORE DELL’INTER E LA SFIDA CON LA JUVENTUS. RITRATTO DI UN MISTER ANTI INCENTIVI

di BEPPE DI CORRADO (IL FOGLIO 03-11-2012)

Andrea Stramaccioni è credibile. Lo capisci quando ogni volta che l’Inter segna e uno, uno a turno dei giocatori, si gira verso la panchina e lo indica. Lui sta esultando, col pugno in alto o in basso, con i denti digrignati: “E andiamo”. Juventus- Inter è l’interrogazione preparata, quella che fai quando hai studiato, quella dove arrivi preparato. Può perdere Stramax, va bene. Ma arriva a Torino con le pagine del libro sottolineate davvero. In piedi davanti alla cattedra del pallone a raccontare la storia di uno che si sta costruendo, uno che fosse in una piccola sarebbe già il caso sportivo dell’anno. Il sottinteso di inizio campionato era di quelli che ci vuol poco a capire: l’Inter è troppo per lui, l’Inter non si dà a un ragazzino, l’Inter gli scoppierà in mano. Ora a scoppiare è il fegato dei criticoni, dei contrari a prescindere, dei professorini che lo hanno impallinato persino sul modo di parlare. Erano quelli partiti subito con il ritornello più facile e più stucchevole: troppo giovane. Già, perché la dignità non arriva da un’idea, ma dal capello bianco. Già, perché la capacità non arriva dalla voglia, dall’impegno, dalla sapienza, ma dall’esperienza. L’avevano visto bruciato già prima di cominciare e facevano finta di piangere preventivamente per lui: “Poveraccio, è bravo, ma così lo mandano al macello”. L’implicito qui era un altro: se ce la fa lui, siamo tutti fregati. Perché se uno ce la fa a 36 anni nell’Inter allora può mandare in prepensionamento gli altri, quelli troppo vecchi per essere giovani e troppo giovani per essere vecchi. Gli hanno tirato i piedi e l’effetto è stato che l’hanno rafforzato. Dieci giornate dopo, Stramaccioni è secondo in classifica con una squadra più debole sulla carta di altre che oggi la seguono; è secondo dopo un mercato a costo praticamente zero; è secondo vincendo sei volte di seguito tra campionato e coppa. Eccolo, Stramax: con una gestualità che va ancora affinata, con delle movenze a volte troppo accentuate, con tutto quello che vi pare, ma cre-di-bi-le. Come quei cantanti di “X Factor” che sembrano già pronti per un disco. Perde stasera con la Juventus? Possibile, diciamo anche probabile. Embè? Zeman è stato travolto. Stramaccioni che se la gioca per il secondo posto sarebbe già di più di quanto tutti pensassero all’inizio del campionato. E se è per questo, molti pensavano che neanche sarebbe arrivato alla decima giornata. Sono scomparsi, adesso. Ovvio. Restano lì sugli alberi di Appiano Gentile pronti a ricalare sulla terra nel momento in cui Andrea dovesse cadere. Godono a quest’idea e soffrono ora. Incapaci di ammettere che l’Inter ha scelto la cosa più difficile: la passione al posto dell’esperienza, la luce negli occhi al posto del pelo sullo stomaco. Chi prevede una fine facile e immediata potrà anche avere ragione, ma non ha prospettiva. Stramaccioni è un progetto: bisogna crederci. L’Inter ci sta credendo. E soprattutto: lui ci sta credendo. Sbruffone? Può essere. E’ una difesa contro i barbari che lo vogliono morto. Dicevano: come farà a mettere in panchina uno come Zanetti che è capitano, ha vinto tutto ed è anche due anni più grande di lui? La risposta è stata il pallone che rotola, che va così e così, che a volte gira male, ma poi si riprende, va, funziona. Gol, e dopo il gol lo sguardo verso di lui. Come a dire: Andre, noi siamo con te. Perché lui non è un ragazzo, lui è l’allenatore dell’Inter. Lui studia, lui capisce, lui decide. Non serve altro, se non la possibilità di lasciargli fare il suo mestiere. Lo sta facendo: ha scelto lui che Pazzini non avrebbe dovuto far parte dei suoi piani; ha scelto lui come gestire Antonio Cassano. Il suo arrivo era stato preceduto dagli sghignazzi: “Vediamo ora come se la cava il ragazzino con quel matto di Cassano”. Se la cava così: in dieci giornate, Tonino ha fatto cinque gol e altrettanti assist. Gioca, si diverte, gode, trascina. E Stramaccioni? Sta lì in panchina: Cassano non funziona? Fuori. Così Palacio, così gli altri. Essere giovani non significa essere codardi. Stramax deve solo scegliere, basta. Siamo un paese che si lamenta costantemente della sua gerontocrazia. Diciamo: guarda gli Stati Uniti che hanno eletto alla Casa Bianca un Under 50, guarda la Spagna dove uno come Guardiola è stato preso dal nulla ed è stato messo ad allenare la squadra più forte del mondo. Ci riempiamo la bocca con le politiche per i giovani, gli incentivi ai giovani, gli aiuti ai giovani. Diciamo: largo ai ragazzi, poi diciamo “e però serve l’esperienza”. Così se vince e non lo si può attaccare sui risultati, si usa altro. L’hanno punzecchiato quando perché s’è storto quando hanno definito la sua Inter “provinciale”. Gli hanno detto: “Permaloso”. Facile, no? Però provino a dirlo a un altro che una squadra che ha vinto diciotto scudetti possa mai essere definita una provinciale. Non scherziamo, dai. La verità, l’unica, è che quell’aggettivo non era riferito alla squadra, ma a lui. E allora ha fatto bene a prendersela, ha fatto bene a rispondere, ha fatto bene a precisare. Non è che l’età debba essere una fregatura per lui: è giovane, allora ha più diritto di sbagliare, non meno. Ed è meglio che sia permaloso lui che un sessantenne. Qualcuno ha mai provato a mettersi nei panni di Stramax in questi mesi? A ogni sostituzione, a ogni gol sbagliato da uno scelto da lui, a ogni buco della difesa scelta da lui, era già pronta la canzoncina: “Non è ancora pronto”. S’è sentito tutti i se, i ma, i boh. Con quest’Italia, Moratti e Stramaccioni hanno già vinto: hanno capito che chi non ha aspettato di vederlo in panchina e in campo prima di giudicarlo aveva soltanto paura. E’ dura vedere avere successo uno con i capelli ancora neri, con la faccia da ragazzotto un po’ secchione, da giovanotto impertinente. E’ umano, in fondo: il tempo che passa fa male, il tempo che gioca per un altro fa peggio. Il bello è che Javier Zanetti e gli altri giocatori l’hanno capito: Stramaccioni va seguito perché sa lavorare, se gli avessero fatto la guerra solo perché l’allenatore è più giovane di loro, avrebbero già perso. Quelli che non l’hanno ancora capito, invece, stanno fuori dal campo. E anche fuori dal tempo.

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UFFICIO DI GENE di GENE GNOCCHI (SPORTWEEK | 3 NOVEMBRE 2012)

Qual è l’hobby preferito di Stramaccioni?

L’hobby preferito di Stramaccioni è fare l’allenatore,

perché il suo lavoro è sparare cazzate.

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NEOLINGUA

Meglio non parlare al

Carofiglio nerazzurro

di PIPPO RUSSO (Pubblico 05-11-2012)

Sta lavorando per diventare un fenomeno della panchina. Intanto lo è già sul piano linguistico perché con lui le parole non sono mai banali, loro malgrado. E dunque attenti a ciò che dite quando vi rivolgete a Andrea Stramaccioni. Potreste innescare reazioni inattese, ai limiti del nonsense. Se n’era già avuto esempio la sera della prima trasferta a Torino, quando dapprima s’inalberò nel sentir definire «provinciale» la sua squadra («Sciacquatevi la bocca!» fu la composta reazione) e poi mollò stizzito il collegamento Rai perché Emiliano Mondonico aveva osato equiparare la sua Inter a quella trapattoniana dei record. Sabato scorso, altro giro a Torino e altra guerra dialettica. Stavolta la furia è stata indirizzata contro il direttore generale juventino Beppe Marotta, che di Stramaccioni aveva osato rimarcare la «spensieratezza» tattica. Manco gli avesse insultato la mamma e la sorella, figurarsi. «Ci vuole rispetto!», ha sbraitato il tecnico nerazzurro nel dopo-partita. E via con quella smorfia ingrugnita, al cui confronto il Mourinho che denunciava la prostituzione intellettuale dei giornalisti sembrava il Dalai Lama. Roba che nella sala stampa della Pinetina, anziché il pannello degli sponsor, dovrebbero mettergli alle spalle un festone con l’ammonimento rivolto a ogni singolo cronista: «Bada come parli!».

E allora ditelo che questo qui non è soltanto il più promettente degli allenatori italiani. Perché qui siamo oltre: siamo al cospetto del Gianrico Carofiglio della panchina. Tanto quello, esperto in manomissione delle parole, s’incazza nel sentirsi dare del «mestierante scribacchino», tanto Stramaccioni perde le staffe se sente etichettarsi come «spensierato». Sicché viene spontaneo chiedersi: ma quale vocabolario useranno questi due? Frutto di quale impermalita neolingua? Sarebbe bello entrarne in possesso. E capire quanto si rischi rivolgendo loro aggettivi come «suscettibile» («Ora non t’allargare, eh?»), o «generoso» («Come Ciccio Graziani? Non t’azzardare mai più!»), o «metrosexual» («Piano con le insinuazioni! E portami tua sorella che ti faccio vedere!»). Dunque, d’ora innanzi per chi deve parlare con Stramaccioni meglio girare tenendo in tasca i pizzini delle parole consentite. Con in più un’avvertenza: non parlate con lui mentre sta camminando. Ché se mai doveste dargli del «peripatetico », capace che vi pianta una querela con richiesta di risarcimento da mandarvi in rovina fino alla settima generazione.

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Palazzo di vetro

Federazioni ed elezioni Se per caso perdo poi faccio ricorso

DI RUGGIERO PALOMBO - Gasport -3-11-2012

Già tre casi: sport equestri, hockey e pallamano. Una cattiva abitudine spesso figlia di regolamenti astrusi C'è una moda che si va diffondendo tra le federazioni che non fa molto onore allo sport italiano: è quella dei ricorsi. Funziona cosi: si fanno le elezioni, si perdono, e si presenta ricorso all'Alta Corte di giustizia. E' già successo tre volte negli ultimi due mesi. Hanno presentato ricorso il detentore Paulgross (per via societaria) battuto dalla sfidante Dallari nella corsa alla Fise (sport equestri), lo sfidante Mignardi sconfitto dal detentore Di Mauro nell'hockey ed è in viaggio quello di Montauti, altro sfidante, contro il rieletto Purromuto nella pallamano. Ricorre chi era presidente in carica e cioè giocava «in casa», e questo è davvero curioso, e chi in quanto sfidante si ritiene vessato da qualche inghippo assembleare. Si arriva al caso estremo di Montauti, che firme alla mano di suoi presunti elettori ipotizza dei veri e propri brogli. I voti contenuti nelle schede non corrisponderebbero a quelli promessigli dai suoi (sempre presunti) elettori. Ci guardiamo bene dall'entrare nelle «tecnicalità» delle singole contestazioni e tanto più in quelle dei «casi estremi», anche se avere l'avvocato Guido Valori quale vicepresidente dell'assemblea e l'avvocato Carlo Porceddu quale presidente della commissione verifica poteri, come è accaduto per la pallamano, è doppio sinonimo di garanzia. Duello che qui ci preme sottolineare è l'andazzo. Pessimo, al punto da creare un danno d'immagine collettivo. Per continuare a farsi del male, inoltre, basta leggere sui vari siti delle Federazioni, all'interno degli Statuti, le modalità elettive: ciascuna diversa dall'altra, quasi tutte degli autentici rompicapo, con buona pace del «riordino» dei suddetti Statuti che ormai va avanti da un anno. Domanda ingenua, per un futuro migliore: è troppo chiedere di mettere mano a questa materia cosi da indirizzarla verso soluzioni comuni, semplificate e trasparenti? O bisogna rassegnarsi all'idea che lo sport italiano è fotocopia del Paese, dove di nuova legge elettorale si parla da anni senza mai venire a capo di nulla? Poche nuove dai fronti Pagnozzi e Malagò. Puntuale è arrivata la dichiarazione di voto settimanale pro-Pagnozzi, stavolta è toccato a Roda (Fisi), mentre dall'altra parte ci si ferma agli altrettanto soliti sussurri di una rivoluzione molto ma molto silente. Pagnozzi ha segnato un punto in Consiglio Nazionale coi 411 milioni del Governo messi a bilancio per il 2013. I suoi avversari sottolineano con malizia che quel 15% di contributi alle federazioni tenuto nelle casse Coni è un'arma un po' troppo impropria di condizionamento. Solo schermaglie, per ora.

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LUCA DI BARTOLOMEI

«Mio padre che voleva solo

spiegare calcio ai bambini»

Il figlio di Agostino parla del libro che raccoglie i consigli per i giovanissimi

«Ago sapeva che molto non andava nel suo mondo. L’importante è l’esempio»

«Lui e Zeman si sarebbero stimati. Per vincere devi fare un gol in più»

di MATTEO PATRONO & BORIS SOLLAZZO (Pubblico 04-11-2012)

Domani a Roma (Fandango Incontro, ore 18.30) Luca Di Bartolomei presenta il libro che suo padre Agostino, indimenticabile capitano della Roma anni ’80, scrisse per tutti gli appassionati di calcio, piccoli e grandi, prima di togliersi la vita in una mattina di maggio del 1994. É un manuale, un racconto di vita sportiva, un manifesto dedicato a tutti coloro che credono alla semplicità e alla bellezza del gioco del calcio, ieri come oggi. Era nascosto in un armadio insieme a un mucchio di appunti da 18 anni, Luca e la sua famiglia hanno deciso di pubblicarlo per un debito di gratitudine e di amore. «Volevamo restituire qualcosa di suo – spiega Luca, un ragazzo serio e giusto come suo padre, che lavora nel Pd - a tutti quei tifosi che da allora ci ricoprono di affetto, raccontandoci cosa rappresentava Ago per loro». Si intitola «Il Manuale del calcio». Un inno al calcio pulito, al rispetto delle regole e all ’etica del gioco (Fandango 2012, 272 pg, 15 euro). Un testo che andrebbe distribuito e condiviso sui campetti ma anche nelle scuole, negli stadi, nelle famiglie. L’eredità di un campione umile e leale, che amava calciare punizioni e rigori, ma anche leggere Trilussa e andare per musei col Barone Liedholm. E soprattutto insegnare ai bambini. Il senso del libro è tutto in una frase che Agostino Di Bartolomei scrisse una volta accanto a uno schizzo di Renato Guttuso. «Il calcio è semplicità».

Come è saltato fuori il manuale?

Dieci mesi fa, aprendo casualmente una serie di pacchi nella stanza degli armadi di casa, è spuntato fuori il libro nella sua versione quasi definitiva. C’erano molti appunti, i primi del 1985, gli ultimi del 1993. Sapevamo che lui prima di morire stava scrivendo un manuale di calcio per ragazzi, passava intere giornate a scrivere. Ma nel mare magnum che si scatena dopo una tragedia di quel tipo, ci sono cose che metti in un cassetto perché ritieni che in quel momento non abbiano la priorità e le metti in un cassetto, anche mentale. Questo libro è stato lì per molti anni. Noi lo abbiamo solo integrato in piccole sezioni, quelle relative al regolamento, e in alcune parti che lo rendessero ancora più agevole alla lettura, soprattutto per i ragazzi. Ad esempio abbiamo anticipato il decalogo, perché avevamo capito subito che il collante di tutto il manuale era il richiamo alla sportività, alla lealtà, all'etica. Ago lo aveva messo in fondo e per perfezionismo non aveva mai cercato un editore. Conoscendo quanto era meticoloso, penso proprio che se non fosse morto sarebbe ancora lì a lavorarci.

Hai mai pensato che il libro fosse per te?

Sì, forse il manuale è anche destinato a me. È una sorta di testamento, anche se è brutto definirlo così, ecco direi una testimonianza per tutti i ragazzi, suo figlio compreso. Tutti scrivono per lasciare a chi viene dopo, e questo credo fosse anche il senso che lui dava al suo insegnamento: una sorta di maieutica dello sport. Probabilmente il libro nasce anche da come insegnava lo sport a me e a tutti i miei amici. Lui adorava i bambini, insegnar loro a giocare e parlargli di calcio. Il libro in parte parla di tecnica e tattica, in parte di insegnamenti di base per chi a 8 o 10 anni si approccia allo sport: come rispettare e conoscere il proprio fisico, le regole, come comportarsi dentro e fuori dal campo. Arriva anche a dire come pulire i piedi, da curare come il pianista fa con le sue mani, dice Ago. Parla di carichi di lavoro, del giusto impegno, del fatto che a dieci anni lo sport deve essere soprattutto se non esclusivamente gioco.

Il libro però non parla solo ai bambini.

Sembra banale ma quanta competitività vedi oggi sui campi dei giovanissimi: questo manuale finisce per essere anche per i genitori. Cioè, se lo regali ai bambini e lo leggono anche i genitori aiuta. Ago lo ha scritto tra i 27 e i 34 anni proprio quando un uomo comincia a pensare di diventare padre. E ora che mi trovo in quest'etá lo capisco ancora meglio. E poi ci vuole anche una grande forza ora a educare dei bambini, e il coraggio di non delegare la loro formazione a terzi, come la tv, internet o altro. Sono luoghi in cui possiamo avere idoli, eroi e miti ma rimane importante avere un esempio terzo e reale. Questa è la differenza tra educazione e delegazione. Se invece gli mostri solo il giocatore scorretto e arrogante in tv e non lo educhi, allora stai mancando al tuo compito. Quegli esempi da soli non servono. Poi certo ci sono quelli come Zanardi che dalla sfortuna escono con il coraggio non solo di riprendersi ma anche di fare altro, riuscendoci alla grande. Quello devi mostrare, come gli devi raccontare per esempio il calcio sociale che giocano i ragazzi di Corviale alla periferia di Roma perché così impara che la diversità non gli deve far paura, ma anzi deve capire che per lui sarà una ricchezza che lo aiuterà e forgerà nella vita, spingendolo a migliorare e a comprendere. Ecco, nel libro credo ci sia molto di questo modo di vedere il calcio e la vita.

C’è una scuola calcio a Empoli che all’e ntrata ha affisso il cartello. «Se pensate che i vostri figli siano campioni, portateli altrove».

Il problema vero è che all'inizio davanti a quel cartello si fermano tutti ed entrano convinti. Poi magari dopo un anno un cattivo maestro gli si avvicina, ce ne sono tantissimi, e allora cominciano a volere altro ed arrabbiarsi se il figlio non vince o non gioca. Penso a quei procuratori squallidi che mi fanno venire in mente Castellitto ne “L’uomo delle stelle”che cerca giovani calciatori per tutta la Sicilia. Sono veri e propri adescatori di talenti veri o presunti senza alcuno scrupolo. Che in pochi minuti annientano il lavoro di anni di ottimi educatori, perché in questo paese e in questo tempo si è radicato il culto della scorciatoia, magari al limite o oltre ciò che è giusto.

Già ai tempi di Agostino, l’età dell’oro del calcio italiano, questo era inquinato da scandali e scommesse. Lui, in quel contesto, sembrava un marziano.

Nel 1980 c’è il primo scandalo del Totonero, poi ancora nel 1986. Ago aveva capito la deriva che il calcio aveva preso e credo che il manuale nascesse anche da questo, voleva dire a un'intera generazione che non contavano solo le luci della ribalta e il successo a qualunque costo. Voleva togliere l'etica dell' «inganno che va bene finché non viene scoperto». Lui sapeva che il calcio professionistico è per pochissimi, per gli altri è una bella esperienza solo se ne fanno una via di crescita, di rafforzamento del carattere, di motore di valori. Si era accorto che molto non andava nel suo mondo e pensava che qualcosa andasse fatto, soprattutto guardando al futuro. Lui credeva fortemente che un calciatore dovesse essere d'esempio. Sapeva di esserlo e prendeva questo compito con grande serietà, forse pure eccessiva. Era un dovere. Si ricordava sempre che lo vedevano centinaia di migliaia di persone. Ora non si pensa che una capocciata in una finale mondiale sarà vista da mezzo miliardo di persone e che si ripeterà forse in altre migliaia di campi in cui giocano bambini. E così il calcione o lo sputo. E risalteranno molto di più di una palla restituita, di un fallo ammesso, di un comportamento corretto. In questa generazione, va detto, fa più notizia la scorrettezza anche per un difetto culturale tipico di questi anni.

Ago e come lui Scirea avrebbero fatto fatica a resistere nel calcio di oggi?

Sono stati esempi meravigliosi insieme a tanti altri e forse sarebbero stati fagocitati da questo calcio. Oggi però le società sono sotto i riflettori, le loro malefatte sono più evidenti e qui, forse, avrebbero avuto più spazio. Il punto è che persone come loro le avremmo dovuto recuperare anni fa, e questo non andava delegato alle società di calcio, ma allo sport in generale. Purtroppo non è successo. Dovevamo metterli nei settori giovanili, dovevamo permettere loro di formare le nuove generazioni. Io, per esempio, provo profonda tristezza quando penso a un ragazzo come Simone Farina che deve andare a insegnare calcio e etica all'Aston Villa. Mi fa ribrezzo che non ci sia stato spazio per lui in altre squadre italiane e soprattutto in Federazione o al Coni. Neanche su un albero ha trovato spazio. É così strano da lasciarmi perplesso.

Vedi affinità tra Agostino e Zeman?

Tanti silenzi di sicuro. Si fossero conosciuti, si sarebbero stimati, e ancora più divertiti perché il mister, almeno per quelle due volte che l'ho incontrato l'ho scoperto come una persona molto ironica. La cosa che più di tutte li avrebbe accomunati è la loro interdisciplinarietá. Zeman sa tirare fuori il meglio dai suoi anche per la grande conoscenza degli altri sport, per la capacità di prepararli fisicamente facendoli crescere in maniera armonica e non forzata. E questo rispetto per il proprio fisico lo trovi nel libro di Ago, per essere un corpo esteticamente bello e utile allo sport e a se stessi devi essere omogeneo, proporzionato. colpisce.

Altro punto di contatto è una frase che hanno detto entrambi, Ago nel libro e Zdenek nelle interviste: il calcio è allegria e per vincere devi fare un gol in più. Due cose molto legate, perché quando vuoi vincere facendo un gol in meno il calcio diventa lotta, tensione, cinismo, diventa un'altra cosa. Quasi in una dimensione bellica. Il calcio è allegria perché è gol. É semplice. Se tu pensi al calcio, pensi a qualcosa che procede, avanza, verso una porta. La proiezione della vita, portare il pallone oltre una linea. È normale che la strada più breve è quella più semplice, come nella vita. E così il 4-3-3, con quattro che difendono e spingono, tre che fanno lo stesso e tre che attaccano è ciò che di più divertente, semplice e immediato si può immaginare. E anche lo schema che più lascia spazio all'estro. Convincetemi del contrario, e mi ricrederò ma francamente la via più semplice e divertente è questa e anche la più redditizia. Purtroppo in Italia non si guarda oltre i propri piedi, al massimo la punta delle scarpe.

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«Scommesse: in arrivo

straordinari sviluppi»

Annuncio del capo della Polizia Manganelli,

che chiede più aiuto agli altri Paesi

di VALERIO PICCIONI (GaSport 04-11-2012)

L'Italia ospiterà a gennaio un summit internazionale sul calcio scommesse organizzato dall'Interpol. Lo si è appreso ieri a margine della conferenza stampa che ha presentato i lavori dell'81a assemblea dell'organismo che riunisce le polizie di 190 Paesi, in programma martedì a Roma e che sarà preceduta domani da un vertice con la presenza di 103 ministri in carica. D'altronde l'argomento calcio truccato, che pure non figura direttamente nell'ordine del giorno, è un'emergenza sempre tale se il capo della polizia Antonio Manganelli ha approfittato dell'occasione per tornare sull'argomento annunciando nuovi sviluppi: «Stiamo raggiungendo risultati straordinari e altri ne arriveranno nelle prossime settimane e nei prossimi mesi».

Non si può fare da soli Le parole di Manganelli, che seguono quanto detto tre settimane fa, si riferiscono probabilmente al lavoro della procura di Bari e alle novità che potrebbero arrivare nell'inchiesta di Cremona con il rientro del latitante Almir Gegic, il referente degli «zingari». Il capo della Polizia ha dato atto all'Interpol di un fondamentale lavoro di coordinamento «visto che ci siamo trovati a condividere in questi mesi momenti molto importanti». In ogni caso, ha spiegato il segretario generale Ronald K. Noble, non esiste una vita autarchica alla lotta al pallone sporco. «Nessun Paese può pensare di affrontare da solo il problema delle scommesse illegali. Spesso le partite truccate si giocano in un Paese, ma la combine si organizza in un altro. Abbiamo creato un centro per l'integrità dello sport a Singapore attivo e in molti Paesi esistono apposite unità che seguono questo filone».

Porta a porta È stato Francesco Cirillo, vicecapo della polizia a parlare di «Italia come capofila nella lotta al fenomeno delle partite truccate» e a entrare nello specifico del «porta a porta», definizione sua, con cui è cominciata una sorta di opera preventiva di informazione per i giovani calciatori. Che fare per reagire quando ci si trova di fronte una proposta illegale, come denunciarne gli autori, quali interlocutori cercare. «Abbiamo cominciato con le nazionali giovanili grazie al grande aiuto fornito dalla Federcalcio. Siamo stati al raduno degli arbitri. La prossima settimana saremo in Sicilia per parlare con calciatori, tecnici e dirigenti dei club di Lega Pro. Il calcio è anche questo, non c'è soltanto Messi». Cirillo risponde anche a una domanda sulla possibilità che le mafie, quelle italiane e quelle di fuori, siano entrate nel business del calcio truccato: «Non ce n'è ancora traccia nei risultati investigativi fin qui raccolti, ma è evidente una cosa: dove c'è tanto denaro esiste sempre un interesse della criminalità organizzata».

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Ha fondato il Censis GIUSEPPE De Rita, 80 anni, è il più grande sociologo italiano. E’ presidente del Censis (Centro studi investimenti sociali), che nel 1964 ha contribuito a fondare. È stato presidente del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) dal 1989 al 2000. È membro della Fondazione Italia-Usa.

Giuseppe De Rita

«Il calcio resta sempre vicino alla gente»

E’ il mezzo più rapido ed efficace per arrivare alle persone.

Guardate Agnelli: in poco tempo è diventato popolarissimo

Eppoi il tifo resiste a tutto: nessuno rigetta il Torino

per Cairo o il Milan per Allegri. Pirlo è toscaniniano

di GUIDO VACIAGO (TUTTOSPORT 04-11-2012)

BUONGIORNO dottor De Rita: studiandola da un punto di vista scientifico, ci può dire se l’Italia è un Paese normale? Perché osservandolo dal lato sportivo, la risposta sarebbe: non più.

«Non è un Paese normale per una ragione semplice ed evidente. Stiamo perdendo l’autostima collettiva. Questo è un Paese che può essere anche pieno di difetti, ma un po’ di orgoglio l’ha sempre avuto, a livello nazionale o a livello settoriale. Poteva esserci orgoglio per le nostre imprese, per i mestieri, per i nostri migranti, anche per il nostro calcio o il nostro sport. Ora dall’industria al calcio stiamo perdendo l’autostima. Il che ci allontana dalla normalità, perché è necessario credere in quello che si fa, per farlo bene e avvicinarsi alla normalità».

Effettivamente sembra di respirare questo sentimento anche intorno alla Nazionale di calcio.

«La disaffezione nei confronti della Nazionale è un fenomeno che è iniziato una decina di anni fa. Anche il Mondiale e l’Europeo sono stati vissuti senza l’entusiasmo orgoglioso del passato. Successi quasi casuali: nel 2006 nessuno credeva in Lippi che alla fine ha vinto, ma non siamo riusciti a sentirci fino in fondo grandi come gli altri. Più recentemente, la batosta con la Spagna nella finale degli Europei è stata percepita come una conferma che il nostro calcio non è all’altezza di quello spagnolo».

Il calcio perde credibilità. Se Berlusconi dovesse iniziare adesso il suo percorso pubblico, lo rifarebbe partendo dal Milan?

«Sì. Perché la sua strategia politica è sempre stata quella di fare rappresentazione, non rappresentanza: lo votava chi si riconosceva in lui, non chi voleva essere rappresentato. E per fare “rappresentazione”, oggi, il calcio è ancora il mezzo più efficace e rapido. L’esempio di Andrea Agnelli è impressionante, in un anno e mezzo è diventato un personaggio estremamente popolare: è vero che arrivava da una famiglia importante di cui porta il cognome, ma il calcio rimane un veicolo mostruoso. Noi con il Censis abbiamo bisogno di farci sentire e farci leggere, ma riusciamo a organizzare 10 eventi ben calibrati all’anno più uno, grande, per il Rapporto Annuale. Il calcio offre 45 settimane di partite e una presenza mediatica di 350 giorni su 365. No, non credo che Berlusconi oggi inizierebbe, chessò, dallo sci! Ripartirebbe dal calcio e dal Milan. Il tifoso, anche se è arrabbiato con la squadra, si informa sul risultato, sbircia i gol in tv e le pagine sportive e, quindi, ti vede».

La politica avvizzisce nelle passioni degli italiani, mentre il tifo calcistico resiste.

«Beh, certo. Uno può dire: seguivo Moro e Andreotti, ora me ne frego. La squadra di calcio resiste anche a presidenti, giocatori o allenatori poco amati: nessuno rigetta il Torino per Cairo o il Milan per Allegri».

Le metafore sportive, di cui da Berlusconi in poi si abusa, hanno arricchito o impoverito il linguaggio politico?

«La metafora se azzeccata arricchisce sempre. Ma ogni parola o concetto tende poi alla stanchezza, quindi bisogna essere bravi a reinterpretarlo e farlo rivivere. Il Censis negli Anni 70 si inventò il concetto di “economia sommersa” in un momento in cui il dibattito sul lavoro nero era davvero stanco. Per quarant’anni il concetto di “economia sommersa” ha retto bene, ma ora dà segni di stanchezza, servirebbe una nuova idea. In politica ci sono parole come “programma” che sono estremamente stanche: o si riesce a rivalutarle dando loro sostanza oppure, per sopravvivere, si deve fare ricorso a nuove metafore».

Giorgio Tosatti scriveva di Fulvio Bernardini: «Il delicato periodo di passaggio fra il fallimento del ‘74 e il ‘77 fu gestito, con mano salda e assoluta noncuranza dell’impopolarità, da Bernardini, che collezionò sconfitte e feroci critiche, ma riuscì a formare un nucleo di freschi talenti accomunati dalla qualità tecnica e dalla disciplina di squadra». E’ una descrizione che si potrebbe adattare a Mario Monti?

«Bernardini era un tipo particolare e lo conoscevo personalmente. Tre cose colpivano di lui. La prima era l’attenzione ai fondamentali, che è poi il discorso dei “piedi buoni” e io, quando lui alla fine della carriera allenava una piccola squadra romana, la Mater, l’ho visto insegnare “lo stop” a un manipolo di ragazzini, insistendo per trenta o quaranta volte sullo stesso esercizio. La seconda: è stato il primo “modulista” italiano, il primo che ha ragionato seriamente sul modulo, passando dai due terzini alla mediana a tre, cioè al doppio wm, insomma era uno che non improvvisava niente, fino al limite del fanatismo. La terza: pur essendo un intellettuale, nutriva un orgoglio e una durezza caratteriale notevoli: non era presunzione, ma un fortissimo credo nelle cose che faceva. Quindi, tornando al paragone con Monti direi che il premier e Bernardini in comune hanno l’attenzione ai fondamentali e la sicurezza, a volte un po’ troppo forte, in se stessi e nel loro stile di vita. Non mi sembra invece che Monti abbia una cultura tattica, cioè la consapevolezza di come si mettono insieme le forze, si distribuiscono i compiti, si superano le difficoltà organizzative».

Lei è stato o è tifoso?

«Mi confesso tifoso della Lazio praticante, nel senso che vado alla partita quasi sempre, pur avendo 80 anni. Da tifoso non ci si dimette mai, nonostante delusioni e frustrazioni. Credo che si diventi tifosi intorno ai 9/10 anni, che è l’età della latenza con qualche tentazione masochista. E un tifoso, della Lazio in particolare, non può che essere in fondo un poco masochista. Io credo di aver messo nella mia tifoseria tutto il masochismo e la mia infanzia negli anni di guerra».

Come sono cambiati socialmente gli stadi negli ultimi trent’anni?

«Per chi come me ha frequentato lo stadio del Testaccio negli Anni 30 e il Flaminio nei 40, la differenza con quelli di oggi non è grande (la Juventus resta un isolatissimo caso a parte). C’è maggiore ordine e controllo, una migliore distribuzione delle persone, ma il clima è sempre quello. Di diverso c’è la sensazione che possa scattare una dimostrazione di violenza improvvisa per un nonnulla: si vive sul filo della tensione. Ma questo è in linea con quanto accade fuori dagli stadi: dai No Tav ai No Monti a un comizio in periferia».

Com’è lo sportivo praticante italiano? Si è evoluto dal fantozzismo degli Anni 70?

«Quello degli sportivi praticanti è un mondo molto segmentato nelle varie discipline, ognuna con particolari caratteristiche, ma lo “sportivo” mi sembra diventato un italiano molto consapevole e coerente con quello che fa».

Ha mai praticato uno sport?

«Calcio, basket e tennis. Sono un pessimo tennista, un mediocre mediano sinistro e un buon playmaker. Il basket è dove sono riuscito a esprimermi meglio: lì devi fare gruppo e il basket mi ha condizionato anche nel mio mestiere dove sapere dirigere l’orchestra ha un senso».

Oggi si celebra la genialità di Pirlo.

«C’è l’uomo che fa gol e l’uomo che fa l’uomo. Pirlo appartiene a questa seconda categoria».

Perché Zdenek Zeman è così popolare?

«Perché ha un gioco d’attacco molto bello e alla fine - anche se ti fa imbelvire, e io da laziale ne so qualcosa - ti entusiasma con lo spostare tutta l’attenzione psichica verso l’attacco. In un calcio spesso avaro come il nostro, non è poca cosa».

Da laziale e da sociologo come giudica Klose, l’uomo che ammette di aver segnato di mano?

«Klose è uno stimatissimo straniero. Lo si vede in campo che è diverso dagli altri: ciondola, sembra non metterci l’anima come i nostri che anche solo per 10 minuti sembrano combattere la battaglia della vita. E’ oggettivamente straniero, anche nel suo comportamento con gli arbitri, ma resta molto stimato anche per quel carattere compassato».

A quale giocatore è più affezionato della Lazio attuale?

«A Ledesma: non ha la genialità toscaniniana di Pirlo, ma una sua rocciosità che è mancata nella Lazio troppo spesso piena di pariolini».

Una ragione perché gli italiani devono essere preoccupati.

«Devono essere preoccupati per la perdita generalizzata di sovranità. Tutti gli operatori in questo momento non hanno più sovranità: non ce l’ha il governo per paura dello spread, dei mercati, della Merkel... Non ce l’ha l’Europa, debolissima rispetto alla speculazione internazionale. Non hanno sovranità vera neppure le grandi banche mondiali e gli Usa non hanno più la sovranità di dieci anni fa: Bush era l’imperatore del mondo, Obama non lo è. Nel nostro Paese non ha sovranità la politica e, a scendere, non ce l’hanno le istituzioni. Gli unici ad averne un po’ sembrano essere gli imprenditori sulle loro imprese, ma poi se le cose vanno male si ammazzano. Un Paese che riduce così tanto la sovranità smette di avere dei destini collettivi».

E una buona ragione perché gli italiani devono essere ottimisti?

«La speranza è che ciascuno riacquisti la propria responsabilità e così ci si riappropri della sovranità. Dalla politica in giù. E’ un processo faticosissimo e lungo, ma che va affrontato. Sto seguendo con interesse il percorso delle banche che in Italia avevano chiuso gli sportelli locali e stanno tornando indietro per riavvicinarsi alle persone e diventare un soggetto della vita e del tessuto sociale. Ma è un percorso da formichina, quello che aspetta gli italiani. Stavolta non basta un colpo di genio».

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INTER FANTASTICA MA LO SCEMPIO RESTA

di STEFANO AGRESTI - Corsport - 4-11-2012

Hanno provato a rovinare Juve-Inter in 18 secondi (secondi, non minuti); hanno cercato di annientare definitivamente la credibilità del campionato (e già ne aveva poca); hanno alimentato l'indignazione di milioni di tifosi di tutte le squadre, a tutte le latitudini (rimbalzata subito via web). Quello che sono riusciti a fare ieri sera a Torino tre arbitri e due guardalinee è al di fuori di ogni immaginazione. Prima il gol irregolare assegnato ai bianconeri con un fuorigioco macroscopico, poi (ancora peggio) la mancata espulsione di Llchtsteiner che - già ammonito - ha commesso un fallo clamoroso. Così evidente che se n'è accorta perfino la panchina della Juve, che l'ha subito sostituito. Per fortuna di tutti, e Innanzitutto degli arbitri, Inter di ieri era troppo forte. Troppo forte per la Juve, che ha perso l'imbattibilità in campionato dopo 49 partite; troppo forte perfino per le vergognose decisioni dl quegli uomini vestiti dl viola. Cosi, nella ripresa, Milito ha trascinato i nerazzurrl a una straordinaria e sacrosanta rimonta, che riapre completamente la corsa allo scudetto. Un applauso speciale va a Stramaccioni, che se l'è giocata come non avremmo immaginato: con tre attaccanti. Un coraggio premiato dall'andamento del match, prim'ancora che dal risultato. Forse abbiamo trovato un grande allenatore. Ma, se questo 1-3 ha fatto giustizia per quanto visto in campo, le scelleratezze arbitrali di ieri non possono e non devono passare sotto silenzio. Anche perché arrivano appena una settimana dopo le nefandezze dl Catania. E allora, per quanto sia scomodo soprattutto dopo la rimonta interista, forse è il caso di dirlo in modo chiaro. Arbitri e guardalinee non solo sono scarsi (e lo sono), non solo soffrono di sudditanza psicologica, ma questo sentimento emerge in modo imbarazzante quando si trovano davanti i bianconeri. Del resto, fu l'avvocato Agnelli il primo a riconoscere che la sudditanza psicologica esisteva in ogni campo della vita e quindi anche nel calcio, nei confronti dl una società potente come la Juve. Ma non è che adesso si stia esagerando?

Qui non riesco ad esimermi da un commento personale: DELINQUENZIALE

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IL PRESIDENTE NERAZZURRO

IRONIA PER COMMENTARE IL GOL BIANCONERO E COMPLIMENTI AL SUO TECNICO

Moratti: «L'inizio combacia con la storia dei due club»

«Il mister mi aveva spiegato tutto prima, è andata proprio come diceva lui»

NICOLA CECERE - Gasport - 4-11-2012

Al telefono la voce di Massimo Moratti trasmette entusiasmo. Ma dalle sue prime parole si intuisce che questo entusiasmo non è riferito tanto al col-paccio appena compiuto quanto al fatto che tale successo convalida l'idea di partenza: affidare a un tecnico giovane un'Inter da rilanciare senza folli spese. «Non sono sorpreso. Prima della partita il nostro allenatore me l'aveva spiegata, dico dal nostro punto di vista, e posso garantire che poi si è svolta esattamente come me l'aveva descritta, cioè la nostra squadra ha fatto per filo e per segno quello che doveva fare. Per questo dico che mi sono accostato alla sfida con animo addirittura tranquillo».

Beh, immaginiamo presidente che pochi secondi dopo il via questa tranquillità sia notevolmente scemata...

«Ah beh, quell'inizio combacia in maniera perfetta con la storia delle due società, potrei definirlo lo specchio o il riassunto esatto dei due club...».

Quindi i suoi sono stati ancora più bravi.

«Sì, sì, molto bravi a reagire in quel modo. Ma, ripeto, Stramaccioni mi aveva descritto il tipo di partita che avremmo fatto».

Lei dunque era l'unico a sapere delle tre punte: a molti sembrava un azzardo, troppo rischioso.

«Avrebbe potuto esserlo se non ci fossimo comportati in quel modo. Alla fine il tridente si è rivelato una mossa intelligente perché la squadra è rimasta equilibrata: l'ha preparata proprio bene».

Certo è che da quando è entrato Palacio, I'Inter sa solo vincere...

«E Milito è sui suoi livelli migliori, chiaro. Tutti i giocatori meritano un grande elogio, ma questa è stata anzitutto la vittoria del nostro tecnico«.

E adesso si lotta ufficialmente per lo scudetto.

«Beh fate voi. Grazie dei complimenti, arrivederci«.

E Massimo Moratti si fa volentieri travolgere dai festeggiamenti.

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Furia Cassano nel tunnel: «Taglia, ma dove vai?»

L'attaccante all'arbitro: «Noi parliamo con educazione, tu fai il fenomeno»

LUCA TAIDELLI - Gasport -4-11-2012

A modo suo ha messo in riga i «soldatini)). Anche se ha lasciato il posto a Guarin quando si era ancora sull'1-1, Antonio Cassano è stato protagonista a modo suo di una serata storica. Dopo il gol di Palacio ha abbracciato a lungo Stramaccioni, sulle cui spalle è saltato come un koala al fischio finale. E da Milano la moglie Carolina, in attesa del secondo figlio, gioiva via twitter: «Mo partorisco!» ha postato dopo il 3-1. Ma Cassano durante l'intervallo era imbestialito per il doppio errore arbitrale e nel tunnel che riporta agli spogliatoi ha cercato di chiedere spiegazioni a Tagliavento (foto in alto. Sky Sport). Tra i tanti nerazzurri vicini al fischietto di Terni, lui è stato il più schietto. Visto che l'altro dribblava il gruppetto, Antonio gli ha detto: «Taglia, perché te ne vai? Noi stiamo parlando con educazione, tu fai finta di niente e ci dai le spalle. Fai il fenomeno e te ne vai».

Zanetti, sassolini e dedica Sull'episodio minimizza con classe capitan Zanetti («Abbiamo cercato di parlare con l'arbitro, ma poi iniziava il secondo tempo...») che dedica la vittoria a Facchetti e si toglie un sassolino dalle scarpe: «Grande gara, siamo un gruppo nuovo, vogliamo diventare protagonisti e lottare per lo scudetto. Abbiamo reagito a quello che avete visto e vinto. Mi fanno piacere i complimenti, l'anno scorso le cose non andavano bene e le critiche erano sempre contro me e Cambiasso. Noi abbiamo sempre corso, io il giorno in cui riconoscerò che non potrò più dare qualcosa all'Inter mi ritirerò. Ma ora ho voglia di continuare, di indossare questa fascia, di stare con i miei compagni e sentirmi importante».

Rano e Guaro Ranocchia: «Dico solo bello bello. Handanovic è stato bravo a contenere gli inserimenti di Marchisio e Vidal. Speravo in una serata così. Abbiamo dato un segnale forte. Stessa gioia del derby». Chiude Guarin, decisivo dalla panchina: Non era facile entrare in una gara con quei ritmi, ma Strama mi ha spiegato benissimo cosa dovevo fare».

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Lo Sport

Gran colpodell'Inter sconfitta la Juve a Torino

TUTTO RIAPERTO LA DIFFERENZA È IL CENTRAVANTI

MAURIZIO CROSETTI - La Repubblica - 4-11-2012

DIFFICILE dire se adesso comincia un altro campionato, forse sì, forse solo l'Inter poteva strappare l'aureola alla Juve, perché l'Inter ha quello che la Juve si sogna: il centravanti. La doppietta di Milito accorcia la classifica: il calcio è più semplice di quello che sembra, e i solisti alla fine contano più dei coristi, anche se non può essere una sco nfitta dopo 49 partite a limare la grandezza del collettivo bianconero.

Però, 9 vittorie nerazzurre consecutive tra campionato ed Europa League sono ilvero numero d'attualità, forse un trailer per il prossimo film della serie A, non più un noioso monologo juventino.

Serata strana e fortemente aritmica, con quel gigantesco abbaglio iniziale di guardalinee e arbitro (Tagliavento, vedi alla voce "manette" e "Muntari", designazione sballata come previsto) che ha regalato ai bianconeri un gol irregolare dopo 18 secondi: se fosse stato il pallone definitivo, avremmo avuto un'altra maledizione biblica, un'altra piaga da antico testamento per tutta l'eternità del calcio. Per fortuna di arbitro, designatore, Aia, Coni, Parlamento, Unicef, Onu e Nato, il solito fuorigioco invisibile non è stato il marchio della sfida. Però, ragazzi, come diavolo li addestrate questi assistenti? E cosa cavolo assistono? Seguirà dibattito sulla moviola in campo: per adesso è nello spogliatoio, dove Tagliavento e soci devono averlamolto utilizzata, vista e rivista, se nel secondo tempo hanno usato solo la bilancia, non più fischietto e bandierine.

La cantonata iniziale ha innervosito i giocatori e condizionato il resto dell'arbitraggio, assai compensativo a cominciare dal rigore su Milito, non evidentissimo cocchio nudo, anchesegiusto. Il rapido e sapido vantaggio, alla lunga ha devitalizzato la Juve che aveva già vacillato in Danimarca, a Catania e contro il Bologna: naturale stanchezza, e I'Inter è comunque il meglio che c'è in Italia insieme alla Juve: non poteva sprecare l'occasione e non l'ha fatto.

Ora il campionato si riapre, diventa più interessante. La Juventus rimane la squadra migliore, anche se non ha tutti i giocatori più bravi, e a gennaio dovrà per forza comprare un bomber. Il suo attacco è stato un'altra volta anemico, ed è il motivo per cui i bianconeri rischiano di uscire subito dalla Champions. Finora, almeno in Italia, i coristi avevano compensato debolezzee latitanzed'area: la nuova Inter dell'interessantissimo Stramaccioni, così semplice ed esatta (hai il centravanti, dunque fai gol), dimostra cheil gruppo potrebbenon bastare più a Conte. Di sicuro, stavolta la Grande Nemica non ha rubato niente.

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SETTE GIORNI DI CATTIVI PENSIERI

LE MULTE E I BUFFETTI AI RINOCERONTI

CHE SECCATURA SQUALIFICARE UN CAMPO

Gianni Mura - La Repubblica -4-11-2012

MOLTE multe troverete in questa rubrica notoriamente moralistica, al cui autore garberebbe assai di più la trattazione di argomenti meno pesanti. Sarà per un'altra volta. Torno su Juve-Napoli. In tv a tratti, ma allo stadio (già diffidato) in continuazione si sono sentiti cori offensivi contro Napoli e i napoletani. Multa ridicola: 7 mila euro. Al Napoli, 10mila perché un suo magazziniere aveva preso a schiaffi uno steward sul recinto di gioco, dal quale doveva essere allontanato in quanto non autorizzato. Più 7 mila per bagni divelti. Altre due multe ridicole. La più ridicola è la prima, perché il rapporto pervenuto al giudice Toselparla di "un coro al 25' st". Un coro, uno solo? E stato un martellamento, lo hanno sentito tutti tranne l'unico ufficialmente delegato a riferire. Ecco perché i cattivi pensieri sono due. O a Torino è stato inviato un sordo, oppure è poco chic squalificare gli stadi, meglio continuare con uno sgocciolio di ammende che sono come buffetti sulla guancia di un rinoceronte.

Si monetizza e si evitano un sacco di seccature. Giocare a porte chiuse crea comunque un problema di ordine pubblico, giocare in campo neutro più ancora. Senza questa incombenza, prefetti e questori possono pensare ad altro. Più pesante (50mila e diffida) il colpo al Verona, dopo gli insulti livornesi a Morosini. La società s'è dissociata (e vorrei anche vedere), il sindaco Tosi s'è mosso bene costituendosi parte civile, resta il fatto che allo stadio continua ad entrare un po' di gente che ritiene necessario insultare i morti (Morosini, le foibe, Superga, Scirea, l'Heysel, Curi) per dare un senso alla sua partita. La responsabilità oggettiva sarà discutibile, ma di meglio non si trova e forse sarebbe il caso di chiedere più responsabilità a chi di dovere. Uno stadio non è una chiesa, diceva quel sant'uomo di Carraro. SI e no, ha le sue liturgie, i suoi celebranti, i suoi fedeli. Ma non è nemmeno una fogna, non è nemmeno l'ultimo villaggio del West con l'ufficio dello sceriffo a 65 miglia. E un luogo da cui tutto ci arriva in casa, il meglio e il peggio. Sul peggio, spero sempre che l'allenatore o i giocatori o anche un giocatore della squadra dai cui tifosi proviene il peggio dica a gesti o a voce basta, piantatela, questo non è tifo, non ci serve, non lo vogliamo. Può farlo anche il presidente, può farlo l'altoparlante, ma il segnale dal campo sarebbe più forte. Altrimenti, ci si rassegni. Abbiamo più esempi sanzionabifl che sanzioni esemplari. Quelle, è patetico chiederle in un panorama del genere. Il rinoceronte ringrazia.

Altra multa. A Michael Ballack, che in Spagna, provincia di Caceres, viaggiava in auto a 211 orari. Condannato a pagare 10mila euro e al ritiro della patente per due anni e mezzo.Il suo legale, JesusGallego Rol, ha chiesto di abbassare la multa a mille euro e di ridurre a diciotto mesi il ritiro della patente. Ballack, 37 anni, ha lasciato l'attività alla fine della scorsa stagione, dopo anni nel Bayern e nel Chelsea. Secondo l'avvocato Gallego Rol, «Ballack è senza lavoro e non percepisce alcun introito. Essere un calciatore famoso non significa necessariamente disporre di un patrimonio». Come no, una tesi da far invidia all'avvocato Paniz. Ballack è un poveraccio, chissà le risate di Abramovich.

Infine, allargabile in futuro, un dibattito lanciato da La Lettura e rilanciato da Sette. Si parte dal famoso pezzo di Pasolini, sul Giorno, nel '71, per arrivare a una Nazionale di "citati", da poeti, scrittori o cantautori. Eccola (come si sarebbe data nel '71): Zoff; Burgnich, Facchetti; F. Baresi, Vierchowod, Oriali; Meroni, Bulgarelli, P. Rossi, Rivera, Riva. Qualcuno ha obiettato che sarebbe una squadra sbilanciata, un 4-2-4, con Meroni e Rivera che si ritroverebbero per vocazione sulla linea d'attacco. Vecchia storia. Oggi,vedendo un vero, eretico, sfacciato 4-2-4 (non quello accreditato a Ventura) penso che mi divertirei. Certamente Pasolini capiva di calcio, lo giocava anche benino, da ala destra, soprannome Stukas. Quel pezzo del '71 sta ancora in piedi, con le sue intuizioni: Bulgarelli prosatore realista, Riva poeta realista, Corso poeta maudit, Rivera prosatore, ma poetico, da elzeviro. Elzevirista anche Mazzola, ma capace di interrompere la prosaepiazzaredueversifolgoranti. Difficile trovare poeti nei difensori, forse il mitico Villa, stopper bassino, potrebbe uscire da un poema eroicomico. Facile trovarne nei portieri, nei trequartisti e nelle punte. Un centrocampista di fatica è inchiodato alla prosa. Poi c'è la prosa di Manzoni e quella di Lansdale, la poesia di Omero e quella di Corazzini. Sarebbe interessante buttar giù altre formazioni, seguendo ifiloni. Me lo assegno come compito a casa.

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La prossima volta spetterà a repubblica stabilire l'entità delle multe.

Ecchekkazzo!

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Scommesse sul calcio,

è boom di quelle illegali

L’illegalità nel settore delle scommesse è in aumento, grazie anche all’utilizzo sempre più diffuso di internet da parte degli improvvisati bookmaker. La fa da padrone il calcio, che copre il 70 per cento del mercato illegale. Dietro c’è di tutto, dalla mafia al riciclaggio di denaro sporco nei paradisi fiscali.

di ANDREA BALLONE (LINKIESTA 04-11-2012)

Sempre più scommesse sul calcio e non solo in Italia. Al punto che gli addetti ai lavori, cioè gestori, aziende che si occupano di scommesse ed esponenti delle federazioni sportive hanno deciso di creare una sorta di authority internazionale, che avrà sede probabilmente a Losanna, per vigilare.

Il progetto è ancora in fase embrionale, ma la voglia di una cooperazione internazionale, per combattere quella che ormai è una multinazionale del crimine c’è. Il lavoro non è semplice e molto c’è ancora da fare, sia nel campo della prevenzione, che in quello investigativo. In qualche caso la collaborazione internazionale ha già funzionato. Proprio tra Italia e Francia, ad esempio, nel caso della partita Livorno-Spezia, di cui ha parlato Linkiesta. Nella notte è intercorsa una telefonata tra i rappresentanti dei monopoli di stato, che gestiscono le scommesse in Italia, e quelli dell’equivalente agenzia francese, per verificare eventuali puntate anomale. Sembrerebbe che non ce ne siano state, anche se oggi è ancora difficile, nel mondo del calcio scommesse fare uno screening di tutto. Si possono infatti controllare soltanto le agenzie legali, che purtroppo rappresentano soltanto la minoranza.

In tutto, nel 2011, si sono registrati 308 casi di illecito accertati al mondo, il 38 per cento dei quali nell’Europa dell’Ovest. Tra gli sport la fa da padrone il calcio, con il 70 per cento del mercato illegale. Per dare il polso della situazione si parla di appena 250 operatori di scommesse legali, su un totale di 10mila. L’illegalità nel settore è in aumento, secondo gli addetti ai lavori, anche grazie all’utilizzo sempre più diffuso di internet da parte degli improvvisati bookmaker, che però sono abili a imparare il mestiere in breve tempo. Il campo è naturalmente delicato e anche le stime del sommerso sono, per ovvi motivi approssimative.

L’interpol parla di un mercato illegale che viaggia tra i 100 e gli 800 miliardi, ma è la punta dell’iceberg. I Paesi a rischio in questo momento sono quelli asiatici, quelli dell’Est Europa, la Turchia e la Grecia. In Cina si arriva a scommettere addirittura sui campionati giovanili. «L’Europa ha un problema di mafia», ha spiegato Thierry Pujol, direttore Fjd security and risk management. «La criminalità olandese è arrivata a minacciare un giocatore tedesco, ma non è il solo caso allarmante. In Italia si è parlato di 150 partite comprate, in Grecia di 41».

Ci sono poi casi estremi come il modello della Turchia. In quel caso, il presidente del Fenerbahçe, già condannato per reati inerenti il calcio scommesse, ha allontanato addirittura dei giornalisti dallo stadio. Il sistema appare dunque piuttosto intricato. È lo stesso Pujol a spiegare come i “runner”, cioè coloro che reclutano arbitri e giocatori, «siano soltanto una parte di un’organizzazione, che comprende scommettitori, finanzieri e altre figure oscure, e che passa attraverso i paradisi fiscali, Panama in primis».

In ogni Paese si incontrano realtà diverse. «In Cina – continua – sono coinvolti anche politici e associazioni sportive, mentre gli Usa hanno provato a risolvere il problema, vietando le scommesse, in tutto il territorio, tolta Las Vegas; ma questa non è la soluzione». La soluzione deve tener conto anche del fatto che le scommesse vivono grazie al riciclaggio di denaro sporco, che si sa essere incalcolabile.

La Francia ha provato a combattere il fenomeno attraverso un’autorità nazionale di controllo, ma il business del calcio scommesse, come dimostrano anche i processi di Cremona, è ormai transnazionale. Anche per questo le aziende che si occupano di scommesse, le prime danneggiate dagli illeciti, stanno pensando, in collaborazione con le federazioni sportive (anche loro parte lesa), a una autorità internazionale. È Luca Turchi dell’Aams, l’amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato, a spiegare come il controllo non sia semplice. «Noi – dice – ci teniamo in contatto con le autorità e con la Guardia di finanza, ma il nostro ruolo può essere soltanto quello di segnalare delle anomalie, che riguardano soprattutto i centri di raccolta scommesse legali. Capita che un singolo esercente chiami per informarci su un flusso di denaro strano nella sua ricevitoria, o anche capita di vedere su internet alcuni server presi d’assalto. Ma è molto più complesso capire cosa accada sui server illegali. Due settimane fa dalla Francia ci è arrivata una segnalazione su un match si serie B italiana, che un sito internet transalpino definiva come “acquistato”, tirando in mezzo anche la mafia (vedi su Linkiesta). Abbiamo verificato sui server e non c’erano anomalie, ma c’è pur sempre una remotissima possibilità che qualcuno abbia scommesso in qualche sito internet illegale».

In merito ai controlli sono emersi comunque passi da gigante, rispetto al 2008 quando addirittura erano i bookmaker a togliere le partite sommerse. La magistratura italiana ha messo sotto inchiesta cinquanta persone nell’ultimo anno, ma anche i giornalisti rivendicano il loro ruolo. «I nostri cronisti – dice il direttore della Ġazzetta dello Sport, Andrea Monti – hanno avuto il coraggio di definire “porcata” una partita in cui avevano registrato qualcosa di strano. È giusto operare in questo modo, perché non solo tutela la nostra passione, ma anche quello che è il nostro lavoro e la professione di molte altre persone che lavorano onestamente».

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Viaggio nella città

che ha perso il calcio che conta

Triestina come i Rangers

Non è stata abbandonata

Fallimento e salto indietro di 4 categorie come la grande di Glasgow

Ma i tifosi rispondono. E Bruno Rocco guida il vivaio della rinascita

Il progetto dei tifosi: acquistare il marchio per decidere se e a chi concederlo

Dopo la partenza stentata, la squadra sta risalendo rapida l’Eccellenza

di PAOLO CONDÒ (GaSport 06-11-2012)

I bambini per ora sono una quarantina, vanno dal 2002 al 2007, categorie pulcini e primi calci. Da scuola arrivano trafelati al campo Soncini, impianto storico di Trieste da poco tirato a lucido, si infilano nelle magliette rosse fiammanti con l'alabarda bianca cucita sul petto, e corrono dai loro allenatori. A bordo campo, col viso burbero e il cuore allegro, li osserva l'uomo che ha accettato di riorganizzare il settore giovanile della società. Si chiama Bruno Rocco. È il figlio maggiore del Paron. La Triestina è stata massacrata, depredata, vilipesa e infine rasa al suolo da ogni tipo di bandito a caccia nelle praterie senza legge del nostro calcio. Poi, quando la polvere sulle macerie si è diradata e qualche persona di buona volontà ha cominciato a ragionare su come ricominciare, la famiglia-totem dello sport cittadino è tornata in prima linea a spendere il suo carisma. Oggi questi sono soltanto pulcini, ma cresceranno bene.

Amore popolare Fatte le debite proporzioni, quella della Triestina è la versione italiana della storia dei Rangers di Glasgow, una delle due gambe dell'Old Firm scozzese (l'altra è il Celtic) precipitata in quarta serie dopo il fallimento, eppure furiosamente seguita ancora da 40 mila tifosi che non si perdono una gara a Ibrox. La Triestina non è caduta da così in alto, ma in comune con i Rangers ha il fallimento, un salto indietro di quattro categorie e l'amore della sua gente, visto che allo stadio Rocco continuano ad andare dalle 2 alle 4 mila persone. Per un campionato che nella scala calcistica è il sesto, e la cui denominazione - Eccellenza - suona vagamente irridente, sono numeri da fantascienza. Molti club di città importanti sono falliti in questi anni, dal Palermo al Napoli e alla Fiorentina, ma oltre la quarta serie non è mai sceso nessuno. La Federcalcio avrebbe concesso volentieri la D (quinta categoria) alla Triestina, perché trecento tifosi in trasferta sport-enogastronomica nei paesini del Friuli iscritti all'Eccellenza sono complicati da gestire anche se animati dalle migliori intenzioni; ma occorrevano 300 mila euro di cauzione, e la cordata che ha preso il club dal curatore fallimentare non ha voluto fare il passo più lungo della gamba. Ce n'era un'altra in corsa, sulla carta più nobile, ma al redde rationem gli assegni circolari non si sono materializzati; così il sindaco Roberto Cosolini ha dato il via libera ai cinque superstiti della riunione preliminare tra le forze imprenditoriali della città, pomposa formula per descrivere chiunque, in tempi di crisi dura, abbia ancora due euro in tasca. «Eravamo in cinquanta, ma quando mi sono alzato per dire "bene, quanti soldi mettiamo a testa?" c'è stato un fuggi-fuggi» racconta Davide Zotti, il costruttore edile diventato presidente. «Io faccio il broker assicurativo - racconta Andrea Puglia, amministratore del club - e siccome lavoro molto con gli enti pubblici mi è sembrato giusto reinvestire qualcosa su un tema che sta a cuore alla città». Gli altri tre soci sono un ristoratore, un ex-finanziere (nel senso di Guardia di finanza) e un'impresa di spurghi. Sarà il caso di ricordare che pecunia non olet. Nessuno di loro si è svenato, e gli abbonamenti hanno rifuso in fretta la cauzione di 100 mila euro versata per partecipare all'Eccellenza; ma questi sono i coraggiosi che hanno accettato di prendere in mano la Triestina, le altre chiacchiere stanno a zero.

Il marchio Si diceva degli abbonamenti. Ne sono stati staccati 1600, numero accettabile persino in serie B e dunque incredibile a queste profondità, ma il contributo più rilevante dei tifosi potrebbe essere un altro. «Stiamo raccogliendo i soldi per acquistare il marchio della Triestina dal curatore fallimentare - racconta il portavoce Sergio Marassi -. Dovrebbero bastare 70 mila euro, siamo arrivati a metà strada e abbiamo tempo fino a giugno. Per ora l'abbiamo affittato, e dato poi in comodato gratuito alla nuova dirigenza perché ci ha dato garanzie di serietà. Se davvero diventassimo proprietari del marchio, avremmo il diritto di scegliere a chi concederlo e a chi negarlo, evitando gli orrori del recente passato». In città nessuno ha dimenticato l'umiliante parentesi di Tonellotto, quello che voleva fare il clistere ai giocatori; nel deserto di attenzioni locali (dalle Generali a Illy, la grande impresa Triestina non si è mai interessata alla squadra), il ruolo di guardiani assunto dai tifosi - con i club e gli ultrà saldati nel progetto, e Il Piccolo a sostenerlo - può rivelarsi salvifico.

La squadra Il resto è cronaca di una risalita ancora abbozzata. Per essere stata allestita in venti giorni la rosa non è malvagia, e il ritorno in panchina di Maurizio Costantini - difensore di una Triestina amatissima, quella promossa in B nell'83 - ha già portato i primi frutti: 3-0 al Lignano giovedì, 2-0 alla Gemonese ieri, la distanza dalla capolista Monfalcone si è ridotta a cinque punti. Non è difficile immaginare che la prossima estate l'Unione Triestina 2012, comunque vada questo campionato, verrà trattata con attenzione dalla Federcalcio. Se poi il Comune riuscirà a stimolare il sistema di piccoli sponsor - in tempi di crisi va bene tutto - che nei progetti dovrebbe portare altri 150 mila euro, la cauzione per la D non sarà un problema. Nel frattempo, darebbe già un aiuto aprendo lo stadio al sabato per la rifinitura della squadra: in settimana ci si allena ad Aurisina, su un terreno che non è certo il Camp Nou. «Contro di noi gli avversari giocano la partita della vita esaltati dallo stadio Rocco - racconta Costantini -. Io vorrei trasformarlo in un vantaggio per noi, come dovrebbe essere».

Il futuro Un'ora dopo la fine del match con il Lignano, nel clima contento che le vittorie creano a ogni livello, fuori dai cancelli Bruno Rocco sta brindando con i genitori del suo vivaio. «A gennaio presenterò un piano definitivo alla dirigenza. Loro vorrebbero ricreare subito l'intero settore giovanile, andato perduto con l'ultimo fallimento. Io preferirei andare col nostro passo, perché gli allenatori federali vanno pagati e una struttura troppo grande diventa costosa. Aspettiamo che crescano questi bambini». I piccoli Rangers di Trieste lo guardano adoranti.

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Il Tnas non crede

a Carobbio e

scagiona Gheller

Su Novara-Siena «nessun riscontro»

Sulla partita era caduta pure l'accusa per Conte

di VALERIO PICCIONI (GaSport 06-11-2012)

Dai tre anni e sei mesi chiesti dal procuratore Palazzi per illecito sportivo all'annullamento della squalifica di sei mesi per omessa denuncia decisa dalla Disciplinare. L'istanza di Mavillo Gheller, giocatore del Novara ai tempi del Novara-Siena 1-1 incriminato, è stata accolta dal Tribunale Nazionale di Arbitrato Sportivo, che ha inoltre «posto a carico della Federcalcio il pagamento dei diritti degli Arbitri e dei diritti amministrativi del Tribunale».

Carobbio sì e no Morale delle motivazioni: le parole del pentito Filippo Carobbio non sono sempre oro. Il grande accusatore aveva puntato il dito contro Gheller, che avrebbe dato una «sorta di conferma» dell'avvenuta combine prima della partita (poi vissuta, però, in tribuna). Per il Tnas «non emerge alcun significativo quadro di riscontro circa la univocità delle dichiarazioni di incolpazione rese dal Carobbio». Quindi, la «prova del fatto illecito all'istante deve ritenersi non raggiunta, neppure nella prospettiva delle specifiche regole del sistema giudiziale sportivo».

L'incrocio con Conte Ma come la storia di Gheller - oggi, svincolato, si allena con il Borgomanero - traversa il resto del filone «senese» del calcio scommesse che ha portato alla squalifica di Antonio Conte? La decisione del collegio del Tnas - presidente Maurizio Cinelli - cita proprio le conclusioni della Corte Federale della Figc su Novara-Siena 1-1, che cancellarono la partita dai capi d'accusa per Conte, pur mantenendo invariati i 10 mesi di squalifica poi ridotti a 4 in sede Tnas. L'allenatore juventino e il suo vice sono stati invece condannati per AlbinoLeffe-Siena, una partita su cui - secondo la Corte Figc - le parole di Carobbio hanno trovato altri riscontri. A differenza di quanto accaduto per Novara-Siena. Così Gheller ora può cercare una squadra per tornare a giocare.

___

LE FALLE DELL’INCHIESTA L’EX GIOCATORE DEGLI AZZURRI ERA STATO SQUALIFICATO PER SEI MESI.

DA IERI PUO’ TROVARSI UNA NUOVA SQUADRA. E AVVERTE: «LA GIUSTIZIA SPORTIVA VA RIFORMATA»

GHELLER ASSOLTO:

«FINE DI UN INCUBO»

La sentenza Il Tnas lo ha prosciolto dall’accusa di omessa denuncia riguardo Novara-Siena

di GIULIO MOLA (Quotidiano Sportivo 06-11-2012)

«MI HANNO ASSOLTO!». All’ora dell’aperitivo Mavillo Gheller, 37enne calciatore disoccupato per colpa di una giustizia sportiva malata e frettolosa, manda a chi lo conosce bene un sms liberatorio. Tre parole per urlare la sua gioia dopo mesi vissuti nel tunnel della paura che pareva senza uscita. E invece ieri mattina il Tnas ha annullato la squalifica di 6 mesi comminata all’ex calciatore di Novara e Pavia, prosciogliendolo dall’addebito di omessa denuncia in relazione alla gara Novara-Siena del 30 aprile 2011. A tirare in ballo il calciatore (assieme a due suoi ex compagni di squadra Drashek e Bertani) era stato il superpentito dell’inchiesta sul calcioscommesse, ovvero Filippo Carobbio. Che, evidentemente, da ieri è molto meno credibile. Peccato che nel frattempo Gheller abbia perso il posto di lavoro (a fine agosto il Pavia ha rescisso il contratto biennale) e trascorso gli ultimi mesi in malo modo, nonostante continuasse a dichiararsi innocente. Il fatto che da gennaio possa trovarsi una nuova squadra lo ripaga solo in parte dai torti subìto. «Ho vissuto cinque mesi da incubo, un vero inferno. Non ho ancora letto le motivazioni perché ero troppo contento per la notizia ricevuta dai miei legali, ma finalmente posso dire che la verità è venuta a galla».

Cosa si sente di dire al procuratore federale Palazzi?

«Niente. Voglio cancellare questo periodo. Spero però che la giustizia sportiva cambi radicalmente. Ma non voglio essere deferito di nuovo e quindi non aggiungo altro».

Qual è la cosa che più le ha fatto male in questa vicenda?

«Vorrei risponderle fra qualche ora. Sono curioso di vedere come i media commenteranno la notizia del mio proscioglimento dopo che il mio nome per giorni è finito sulle prime pagine dei giornali. Spero che ora sia dato lo stesso risalto. E poi quanta invidia ho visto nei miei confronti, gente cattiva: ora qualcuno tornerà nella tana e rimarrà un bel po’. A chi mi riferisco? Chi vuol intendere intenda».

Le spiace che il Pavia l’abbia mollata nel pieno della vicenda?

«Si, tanto, anche se i rapporti non erano più quelli dell’inizio. Mi lascia sconcertato che davanti mi dicevano di stare tranquillo, e invece poi ho scoperto che dopo la squalifica dell’11 agosto avevano già chiesto la rescissione del contratto».

Pensa che Carobbio a questo punto sia molto meno credibile?

«Lo spero. Come me ce ne sono tanti altri di giocatori in queste condizioni. Penso a Fontana, Bertani, Drashek...Carobbio si è visto, già con Conte è stato sbugiardato..del resto se uno gli promette certe cose. Ma il problema non è solo Carobbio...».

Voltiamo pagina. Adesso può tornare in campo..

«Da alcuni mesi mi alleno col Borgomanero, formazione di Eccellenza che mi ha dato cortese disponibilità. Aspetto gennaio, ma sono già a disposizione di chiunque anche per una provino».

Dopo questa brutta avventura a lieto fine chi vuole ringraziare?

«La mia famiglia che mi è stata vicinissima, prima di tutto. E poi il mio avvocato Sara Agostini, bravissima a studiare il caso in pochissimo tempo. E poi, se permettete, il mio amico Drashek. Quel venerdì di luglio quando mi arrivò il deferimento volevo mollare, lui però mi ha dato forza dicendomi: “Sei matto, ne uscirai pulito”. Ha avuto ragione. Spero adesso che finisca bene anche per lui».

Modificato da Ghost Dog

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E se il gioco

alla fine si rompe?

di GUIDO VACIAGO (TUTTOSPORT 06-11-2012)

IL MIGLIOR esempio di come la memoria umana sia selettiva sono gli errori arbitrali: quelli contro si ricordano in eterno (eventualmente aiutandosi con dispositivi elettronici), quelli a favore tendono a sbiadire molto velocemente, fino a sparire. Chi oggi protesta scandalizzato e preoccupato, l’altro ieri aveva goduto dell’umana fallacità degli arbitri. E’ capitato a tutti i dirigenti e presidenti italiani. Massimo Moratti, che deve aver freudianamente rimosso il derby e il gol di Montolivo, è solo l’ultimo in ordine di tempo. E’ così da sempre e la cosa non dovrebbe preoccupare più di tanto.

Più preoccupante è il clima sul quale si innestano le polemiche. Dalla ferita di Calciopoli continuano a sgorgare veleni e novità. C’è un popolo, quello bianconero, che ha scoperto le ingiustizie del 2006 e non è più disposto a far passare niente, forse vagamente paranoico, ma comprensibilmente sconcertato da certe scoperte. Massimo Moratti e gli interisti, per contro, continuano a sventolare proprio i fatti di Calciopoli con battute e riferimenti assortiti, come vessilli di una battaglia giustamente vinta. Posizioni, per ora, inconciliabili e che rendono ipersensibili gli animi di milioni di tifosi. Per questo è davvero rischioso aggirarsi larvatamente negli scivolosi territori del sospetto, alludendo, sottointendendo e ipotizzando una malafede (in questo caso juventina) degli arbitri. Soprattutto se quest’opera dovesse essere strategica e preventiva. Il giocattolo, già piuttosto malandato, potrebbe rompersi. E a quel punto presidenti, arbitri e giocatori si troverebbero soli e senza neppure una buona ragione per litigare.

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E Abete sta con Moratti

«C'è stato un errore chiaro: Lichtsteiner andava espulso A Catania altri sbagli ma gli arbitri d'area funzionano»

Il peso della richiesta da postcalciopoli della Juve alla Figc? Nessun intimo tra fatti tecnici e politici»

dl Andrea Santon - Corsport -6-11-2012

Presidente Abete, ha letto le accuse delpresidente Moratti?

«Sì, e credo che abbia ragione».

Anche per Lei la mancata espulsione di Lichtsteiner è un errore voluto di Tagliavento?

«Mi spiego. Penso che il terzino della Juve dovesse essere ammonito una seconda volta per il fallo su Palacio e dunque espulso. C’è stato uno sbaglio. Parlerei però di una mancata espulsione dovuta, non di una volontà. E mi pare che tutti, Juve compresa, hanno convenuto su questo punto».

Polemiche motivate dunque.

«Io ho apprezzato di Moratti in questi giorni i toni e anche le sue precisazioni».

Ma nel Paese che ha inventato la dietrologia, quanto può inquinare il clima il peso della richiesta multimilionaria di risarcimento post Calciopoli fatta dalla Juve contro la sua Federazione?

«Guai mescolare i fatti tecnici a quelli di politica sportiva. Comunque la ferita di Calciopoli avrà bisogno di anni per essere rimarginata del tutto».

Tornando al calcio arbitrato, sabato a Torino sono state prese altre decisioni infelici

«Guardi, io ho seguito la partita in tv. A velocità normale l’azione del gol lampo di Vidal a me era parsa regolare, con Asamoah affiancato subito da Samuel e Juan Jesus in mezzo al campo in linea. Nessun commentatore lì per lì ha detto niente, né i giocatori dell’Inter hanno protestato. Poi è arrivato il replay che ha mostrato il netto fuorigioco in partenza di Asamoah. Questa è la realtà».

Ma prima di adesso non era mai successo che la realtà, meglio la verità, fosse negata e ribaltata come accaduto a Catania.

«Vogliamo parlarne? Lì c’è stato un piccolo cortocircuito e una rappresentazione plastica delle difficoltà di mettere a punto un nuovo modo di gestire la partita».

E il tempo infausto dell’assemblearismo arbitrale...

«Io non sarei ironico. Ricordo che finali di Champions, Europa League, Europeo e Mondiale sono affidate alle cinquine arbitrali. Certo, dobbiamo abituarci noi spettatori ad assistere ai molti conciliaboli in campo, debbono abituarsi gli arbitri a questa nuova epoca, per non cadere in confusione».

Come a Catania..

«L’errore nasce nell’incertezza in partenza dell’assistente Maggiani. In definitiva non ha cambiato idea: era già in dubbio al momento del gol di Bergessio. Gli juventini in panchina hanno fatto leva su questo. A Rizzoli, arbitro d’area, che non è tenuto a segnalare il fuorigioco, sono stati chiesti lumi: lui ha confermato un secondo tocco di un catanese nell’azione. E alla fine il gol è stato annullato».

Un disastro.

«Io piuttosto voglio sottolineare quante scelte corrette sono state prese grazie agli arbitri d’area, sui gol-non gol, dalla prima giornata, in Juventus-Parma, all’ultima, in Catania-Lazio».

Ci possiamo rasserenare pensando a un campionato (ri)aperto e avvincente?

«Certamente ma senza dimenticare che il valore del nostro calcio deve trovare riscontri anche in Europa. Questa è una settimana chiave per le nostre 6 squadre impegnate nelle coppe. Vorrei che non si sprecassero energie nervose in discussioni che di sicuro non migliorano il nostro ranking».

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Stramaccioni sa come si vince, ma rischia di montarsi la testa

Luciano Moggi - Libero - 6-11-2012

“Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere’, sono le note di una vecchia canzone che non si addicono ai confronti tra juventini e interisti, la riprova si è avuta sabato sera dopo il fischio finale del poco bravo Tagliavento. La Juve ha saputo perdere con stile, riconoscendo addirittura all’Inter di aver vinto con merito, (per Buffon era quasi da plaudire), l’Inter invece non ha saputo “vincere”, forse non era più abituata a tanto. Attenuanti per nessun interista, Stramaccioni era ancora sul terreno dello Juventus Stadium che già sussurrava a tutti che gli scudetti non erano trenta, chissà cosa avrà pensato in quel momento il suo attuale DG Fassone che, nel 2006, da dipendente della Juve diceva dell’Inter di tutto e di più, al ragazzo si dovrebbe far capire che non ha vinto ancora niente e che prima in classifica è ancora la Juve, anziché fargli imparare a memoria le solite “recite dell’Interista”. Men che meno attenuanti per Moratti, irritante, a tratti addirittura un attizza popolo, il pensiero a quell’inizio che combacerebbe «con la storia delle due società», non è niente altro che lo “specchio” dei suoi contorcimenti interni. Rancoroso il suo giudizio sull’arbitraggio, «il fuorigioco sul gol di Vidal, facciamo finta che si potesse non vedere, ma il mancato intervento sul rosso a Lichtsteiner è voluto». Moratti dovrebbe allora spiegare come a suo tempo giudicò il rigore non concesso al Chievo, e il mancato annullamento del gol di Pereira in fuorigioco (arbitro Peruzzo), e nel derby di San Siro il rigore non dato al Milan per fallo su Robinho (arbitro Valeri). Ancora in Catania-Inter sull’1-0 l’arbitro Russo non vide l’atterramento di Gomez, in Bologna-Inter Cambiasso in fuorigioco sul terzo gol, in Inter-Samp offside di Nagatomo sul terzo gol, quello decisivo (arbitro Doveri). La nostra idea è che l’Inter potrebbe essere più simpatica se avesse un presidente meno permaloso. Il clima avvelenato tra i due club si è accentuato con l’attuale patron, l’ambizione a ripercorrere le glorie del padre si è sposata però con troppi errori di gestione, le operazioni di mercato senza senso e le iniziative sopra le righe da lui adottate per disarmare gli avversari, come le spiate e i dossier da lui ordinati, verità giudiziali di Tavaroli e Cipriani. Per sua fortuna una prescrizione su misura lo ha salvato da un processo per illecito sportivo, trovando modo intanto di mettere in bacheca uno scudetto immeritato, regalato da un ex componente del suo cda, non revocato da una Federazione più pavida che incompetente, come essa stessa si è dichiarata”.

La conclusione sul calo della Juventus: “Juve delusa per la prima sconfitta dopo 49 gare da imbattuta. Erano venuti chiari segnali di involuzione dalle ultime gare, la Juve non appariva più la squadra dell’inizio di stagione. In sostanza un calo atletico e sullo sfondo l’identità offensiva non ancora definita. D’altronde il nostro avvertimento partì ancor prima dell’inizio di campionato, per il titolo ci sarebbe stata anche l’Inter”.

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II caso

Le società di serie A sono insoddisfatte del livello tecnico di chi dirige le partite

Arbitri, errori sempre più gravi In rosso la gestione Nicchi-Braschi

Fischietti e assistenti preparati male e con i giudici di porta è il caos

Fabio Monti - Corsera - 6-11-2012

Sbagliano tutti, presidenti, allenatori, giocatori. Stanno sbagliando molto gli arbitri e questo sta diventando un problema, perché la gravità degli errori denuncia un grado di impreparazione, che rischia di alterare la regolarità del campionato. Il livello dei fischietti di B è modesto e gli sbagli sono così frequenti, che le società hanno ridotto al minimo le polemiche, perché è tempo perso. Ma è in serie A che la situazione sta precipitando e le società sono pesantemente insoddisfatte di quanto sta avvenendo, e che va molto al di là degli episodi di Juve- Inter. Il presidente Moratti, ha sintetizzato: «Non c’è nessun astio, ma bisogna far sì che non ci sia una ripetizione degli errori». E il vice-presidente vicario del Milan, Galliani, è stato ancora più caustico: «Ho visto che Tagliavento ha arbitrato la sfida scudetto di febbraio, che era Milan-Juve e quella di quest’anno che era Juve-Inter. E non aggiungo altro. Mi è tornato in mente il gol di Muntari? Quello non l’ho mai dimenticato ». Beppe Marotta, amministratore delegato della Juve, ha spiegato: «Affidarsi esclusivamente alla moviola è una impresa che non debellerebbe completamente gli errori arbitrali».

La buonafede di arbitri e assistenti non è in discussione, così l’uso della moviola a bordocampo è tecnicamente impossibile (se non per casi specifici, tipo la testata di Zidane a Materazzi o il gol/non gol), ma è evidente che la gestione della coppia Nicchi (presidente Aia) e Braschi (designatore della A) non garantisce un adeguato grado di preparazione a chi va in campo. Tre ragioni aiutano a capire che cosa sta succedendo. La prima. Si va sempre in campo: da arbitro centrale, da arbitro di porta o da quarto uomo. A tutti sono stati garantiti guadagni adeguati a chi è professionista (150.000 euro all’anno a salire) e allora bisogna impiegarli, anche dopo errori importanti. Il concetto di un arbitro che riparte dalla serie B dopo un paio di turni di stop per un errore grave è tramontato. Tre giorni dopo Catania-Juve, Gervasoni era già in campo come arbitro d’area di Cagliari- Siena e due giorni fa era a Siena- Genoa. E questo anche perché con gli arbitri d’area gli impegni sono aumentati, mentre è rimasto invariato l’organico della serie A: 21 fischietti, salvo estemporanee integrazioni.

Seconda ragione: pensando di dividere le responsabilità, l’esatto contrario dello spirito arbitrale, Nicchi ha immediatamente dato il via libera agli arbitri d’area. Ma l’ha fatto in modo confuso, senza procedere ad un’adeguata preparazione tecnica della «squadra», con specifica assegnazione dei ruoli. La novità dei due giudici ha dato risultati ottimi a Euro 2012, perché, oltre al collaudo nelle coppe europee, Collina aveva provveduto a costruire le basi per un’adeguata preparazione. Qui invece è il caos, perché tutti fanno tutto, con arbitri internazionali che finiscono sulla linea di porta e sovrastano nelle decisioni l’arbitro centrale (vedi Rizzoli). Persino il presidente della Figc, Abete, ieri ha ammesso: «Ci sono automatismi che devono essere migliorati». In più stanno vivendo un’annata negativa gli assistenti, che sbagliano troppo sul fuorigioco e che non vogliono più prendersi responsabilità su episodi che avvengono a due metri da loro (il rigore non dato al Catania con l’Inter; il fallo di Lichtsteiner, in Juve-Inter, per «un’espulsione dovuta», come ha detto lo stesso Abete).

La terza ragione: anche se nessuno è pronto a riconoscerlo, è evidente che Nicchi, urlante in Consiglio federale, nel tentativo (riuscito) di salvare il posto nel governo della Figc, ha inciso su alcune designazioni in questi primi due mesi e mezzo di attività, anche perché è aperta la campagna elettorale, che porterà alle elezioni di sabato (lotta dura fra Nicchi, che punta alla riconferma e Boggi, che ha denunciato anche episodi inquietanti). Di certo l’insistenza con la quale Nicchi e Braschi hanno parlato di semplici errori, ma di una squadra con grandissimi arbitri non aiuta i fischietti e nemmeno gli assistenti a crescere e a migliorare, anche attraverso il confronto (e lo scontro) tra personalità forti. E soprattutto è sparita la rigida preparazione sul campo dei tempi di Collina.

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I NERAZZURRI ACCUSANO, GLI ARBITRI STANNO ZITTI

«Errore voluto» non fa scandalo

Tagliavento combinaguai deve continuare a dirigere? Galliani ricorda Muntari. E Abete sta con Moratti

Riccardo Signori - Il Giornale -6-11-2012

Moratti è stato pesantino e diretto: «Quello su Lichtsteiner errore voluto». Poi, ieri, ha cercato di mitigare: «Scelta azzardata, molto sfavorevole a noi». Galliani è stato allusivo: «Hovisto che Tagliavento haarbitrato la sfida scudetto dell'anno scorso, che era Milan-Juve, e che quest'anno forse ha arbitrato la sfida scudetto Juve-Inter. E non aggiungo altro».Già,Tagliaventoèstato l'arbitro del gol fantasma di Muntari. E Gallani non sièlasciato sfuggire labattuta: «Se mi è tomato in mente quel gol? Non l'ho mai dimenticato».AggiungetecheMilito non è stato tenero sul mancato rosso a Lichtsteiner e non dimenticate tutto quel parolare sul web, circa la rete in fuorigioco della luve, per dimostrare che Tagliavento avrebbe ricevuto indicazione giusta dal guardalinee, masi sarebbe convintoa continuare sulla sua strada (sbagliata).

Da tutto questo ne esce un atto di accusa pesante, diretto, senza scusa all'arbitro, che potrebbe essere avallato da chiunque abbiavistola partitainTvoindiretta.Accusagrave (quella sul rosso mancato a Lichtsteiner) perché si va a lambire la concezione di buona o mala fede. L'idea di errori "voluti" ci insegue nella storia: da Lo Bello a Ceccarini. Ma forse mai l'accusa è stata così diretta e precisa, forse mai è stata convalidata da tanta unità di opinioni. Avrebbe potuto accettarla perfino Agnelli (solo per il rosso mancato). Qualcuno penserà: Tagliavento succube juventino. Esagerati! Ma non puòessere solo un caso che sia finito in polemiche devastanti: le manette di Mourinho, il caso Muntari, queste ultime decisioni fasulle e clamorose. Sarebbe ora di pensare che qualcosa non va in questo arbitro, pur se tecnicamente valido.

E se la dirigenza dei fischietti, che tanto si era spesa dopo Catania-Juve, stavolta ha evitato di far cordone sanitario intomo al combinaguai, significa ochel'arbitro ècolpevole oltre ogni limite o che perfino Braschi non riesce a usare altro tennine rispetto a quello indicato da Moratti. Eppure l'accusa è così grave che un qualsiasi arbitro, non solo i capi, avrebbe dovuto alzare la voce per respingerla. Così si apre un varco, anzi una voragine su quanto si possa dir loro.

O forse è dawero ora di smetterla con le follie di Tagliavento? Ieri perfino Abete, il federale presidente-tentenna, ha espresso una opinione chiara: «Monatti ha fatto una riflessione, ha espresso un giudizio sull'arbitro che ha deciso male non estraendo il cartellino giallo, tutti hanno concordato che il giallo c'è e l'espulsione era dovuta. No, Moratti ha detto: voluta. Abete è slittato sulla parolina, ma ha decapitato l'arbitro. Voluta o dovuta, comunque un atto di accusa.

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Detto dopo

IL TEATRINO DELLE DECISIONI COLLETTIVE

d i Tony Damascelli Il Giornale - 6-11-2012

Secondo buone abitudini nostrane qualunque innovazione e/o riforma, in qualunque settore, vive per un paio di settimane e poi finisce a ramengo, nella consueta confusione condominiale. L'arrivo di due nuovi assistenti per l'arbitro, i collaboratori lungo la linea di fondo, aveva e dovrebbe avere, un significato solo: agevolare nei casi specifici l'operato del direttore di gara, supportarlo nelle situazioni più critiche ma di pertinenza. Dalla monocrazia dell'uomo solo al comando, l'unico con il fischietto in bocca e i cartellini giallo e rosso nel taschino, si è passati al centro sociale, al collettivo, all'assemblea di condominio chiamate a decidere anche un calcio d'angolo, un fallo laterale, una rimessa dal fondo. Siamo alla solita commedia all'italiana, ognuno vuole mettere lingua e testa, ognuno vuole porre l'ultima parola. Pensate che cosa sarebbe successo ai tempi di Lo Bello odi Collina, per citare i due arbitri migliori della nostra storia calcistica. Pensate al siciliano che quando deve espellere Nereo Rocco all'Olimpico si consulta con i suoi assistenti, con il quarto uomo, mettendosi la mano dinanzi alla bocca per non farsi intendere dagli astanti. Pensate a Collina che il pomeriggio di Perugia non passeggia con l'ombrello tra le pozzanghere del Curi ma convoca i cinque colleghi e con loro stabilisce se sia il caso di giocare oppure no. II calcio è uno sport fantastico che abbiamo provveduto a incasinare oltre ogni ragione. Gli errori degli arbitri, errori «voluti» seguendo il nuovo dizionario, fanno parte della sua storia ma la sceneggiate di Catania e di Torino, le consultazioni febbrili con una mano all'auricolare e l'altra, come dicevo, dinanzi alle labbra, appartengono ormai al nostro teatro. La categoria (non soltanto quella arbitrale) è peggiorata ma la riforma suggerita dall'Uefa viene male applicata e interpretata. L'arbitro è uno, gli altri sono assistenti, dedica dunque in base alla propria coscienza e non scarichi sull'anello più debole eventuali errori e omissioni. Anche l'ammonizione per chi si sfila la maglia (o addirittura incomincia a sfilarla, come nel caso di Destro) è sciocca se applicata in modo burocratico mentre si sorvola, con criteri diametralmente opposti, su interventi pericolosi e fallosi che danneggiano lo spirito dello sport e non lo spettacolo. Ma è una battaglia persa: per Nicchi, Braschi e il resto della comitiva va tutto bene, per i presidenti va tutto male. E per i calciatori l'importante è incassare.

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LEGA PRELIEVO PER LA MUTUALITÀ E RIPARTIZIONE I NODI

Proventi tv, le big studiano un ricorso contro le piccole

MARCO IARIA - Gasport -6-11-2012

Grandi contro piccole. È sempre il solito film in Lega, paralizzata quando c'è da discutere di soldi, e sono tanti — un miliardo di euro all'anno — quelli che piovono dalle tv. Una seduta-fiume, prima in consiglio poi in assemblea, non è servita per mettersi d'accordo sulla ripartizione dei proventi per il triennio 2012-15. Il primo biennio di applicazione della Legge Melandri si è consumato tra litigi e battaglie legali. La storia potrebbe ripetersi: ieri Claudio Lotito, patron della Lazio, ha sbattuto più volte i pugni sul tavolo polemizzando col vicepresidente dell'Udinese Stefano Campoccia.

Mutualità ma non solo Il pomo della discordia non è tanto quel 5% suddiviso in base alla popolazione che almeno 10 società su 20 vorrebbero eliminare ripartendolo secondo i risultati degli ultimi 5 anni. No, la rabbia delle big cova per altro: ogni anno la Serie A devolve il 10% degli introiti tv per la mutualità, inoltre assicura un paracadute (che le medio-piccole vorrebbero aumentare) per le retrocesse. Questo tesoretto, incluso il compenso per l'advisor Infront, ammonta a 170 milioni e, anziché prelevarlo in parti uguali, pesa sui club proporzionalmente ai loro ricavi. «Perché devono essere le grandi, che già lamentano una scarsa competitività con le concorrenti europee, a sobbarcarsi in misura maggiore questo esborso?», è il ragionamento delle big. Le medio-piccole ribattono che è una consuetudine introdotta ormai alcune stagioni fa. Se il muro contro muro continuasse, Inter, Juve, Lazio, Milan, Napoli e Roma potrebbero presentare un ricorso alla Corte di giustizia sportiva. Il metodo di prelievo delle «tasse» di solidarietà s'intreccia con la ripartizione delle risorse, che le medio-piccole (sicuramente Atalanta, Bologna, Catania, Fiorentina, Palermo, Parma, Pescara, Sampdoria, Siena e Udinese) vorrebbero modificare assegnando un peso maggiore alla meritocrazia. Se venisse eliminata la quota legata alla popolazione del comune in cui gioca la squadra, Lazio e Roma sarebbero fortemente penalizzate (-5 milioni a testa). È vero che spostare quei soldi sulla componente sportiva — appunto i risultati degli ultimi 5 campionati — non sarebbe una tragedia per Juve, Milan o Inter. Ma qui c'è una battaglia di principio da portare avanti: il gruppo delle 6 vuole procedere compatto, anche perché basta che un solo club si defili per rompere il blocco anti-maggioranza (le delibere di natura economica richiedono 15 voti).

Aiuto Al di là delle minacce legali, le grandi hanno comunque un'arma da giocare: la fretta delle piccole di trovare un accordo perché, in assenza di certezze sui ricavi tv, le sofferenze finanziarie incombono. Lunedì, quando è stata riconvocata l'assemblea (ore 15), il gruppo delle 6 potrebbe offrire una soluzione tampone: stabilire un minimo garantito da 20 milioni per tutte, buona merce di scambio per ottenere gli anticipi dalle banche. Ma quale sarà la contropartita?

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LEGA DI SERIE A

Diritti tv: saranno garantiti almeno 20 milioni per club

STEFANO SCACCHI - Tuttosport -6-11-2012

MILANO. Potrebbe essere un minimo garantito di circa 20 milioni di euro a favore di ogni club a sbloccare la trattativa sulla ripartizione dei diritti tv di Serie A per il prossimo triennio. E' la proposta uscita ieri durante la maratona negoziale iniziata alle 10 di mattina con il Consiglio di Lega e finita nel tardo pomeriggio con l'assemblea. Tutto infruttuoso al punto che è stata subito convocata una nuova assemblea per lunedì prossimo con lo stesso ordine del giorno di ieri. Durante la giornata sono state discusse le quattro proposte elaborate dalle commissioni tecniche. Tabelle che, con qualche variante, hanno due obiettivi: premiare maggiormente il merito con una distribuzione vantaggiosa per chi chiude nei primi 10-12 posti della classifica dell'ultimo campionato e ridurre il peso del 5% assegnato in base alla popolazione del Comune di appartenenza della squadra. Questo 5% viene contestato dalle provinciali perché produce una duplicazione degli abitanti delle metropoli con due squadre: Milano, Genova, Torino e Roma. In particolare la Capitale che, essendo la più popolosa, permette a Roma e Lazio di incassare più di 5 milioni a testa a stagione sui 40 totali di questa voce. Le provinciali vorrebbero spostare queste risorse sulla posizione di classifica degli ultimi 5 anni. Ma le "grandi" non ci stanno perché non vogliono delibere eccessivamente punitive nei confronti di singole società. Al termine dell'assemblea Inter, Milan, Juventus e Lazio hanno parlato a lungo di questo aspetto in una riunione informale. Da questo empasse è uscita una proposta che potrebbe mettere tutti d'accordo: assicurare un plafond minimo di circa 20 milioni per ogni società (somma che verrebbe poi aumentata secondo la posizione di classifica e la distribuzione dei cosiddetti ricavi "incrementali"). In questo modo tutti i club di A programmerebbero con una certa stabilità ogni triennio, potendosi permettere anche rapporti più stabili con le banche. E' stato fissato a giovedì il termine per presentare le proposte di delibera da votare lunedì prossimo.

SECONDO MANDATO Intanto si avvicinano le elezioni per il rinnovo della presidenza. Appuntamento per metà dicembre perché i presidenti vogliono aspettare il rientro di Maurizio Zamparini, inibito fino a inizio dicembre nell'ambito dell'inchiesta sulle plusvalenze fittizie. L'attua-le presidente di Via Rosellini, Maurizio Beretta si pronuncia in modo interlocutorio sull'ipotesi di una sua ricandidatura: «Ora è giusto lasciar lavorare i presidenti in serenità per capire quale sia il profilo più utile per questa carica».

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IL CASO ARBITRALE L'ARBITRO DIRIGERA' GARE DI SECONDA FASCIA O FARA' IL GIUDICE DI PORTA.

Preti: un mese di stop. Tagliavento «ridimensionato»

FRANCESCO CENITI - Gasport -6-11-2012

Il conto più salato è per l'assistente Fabiano Preti: un mese di stop dopo l'errore sul fuorigioco non visto di Asamoah. Lo stesso «trattamento» riservato al collega Maggiani perla topica di Catania (prima convalidata e poi annullata la rete valida a Ber-gessio). La sosta forzata è sì una punizione, ma soprattutto un modo di recuperare in pieno un guardalinee considerato tra i più promettenti: la serenità e l'equilibrio sono indispensabili per chi deve fare valutazioni di centimetri in pochi istanti. Insomma, occorre del tempo per metabolizzare la svista e sterilizzarla. Se fosse per i diretti interessati, ritornerebbero in campo il giorno stesso. Un po' quello che capita ai giocatori dopo una sconfitta. Ma il rischio di bruciarsi è alto. In teoria il discorso dovrebbe valere anche per Tagliavento che ha risparmiato a Lichtsteiner il secondo giallo dopo un fallaccio che da solo valeva «l'arancione»: la gestione, però, è più complicata e tecnicamente per il fischietto di Terni non ci sarà una sospensione, ma solo un «ridimensionamen-to» fino alla sosta natalizia. Cerchiamo di capire meglio i dettagli.

Colloquio Stefano Braschi, come abitudine, ha lasciato passare un po' di ore prima di confrontarsi con la sestina reduce da Juve-Inter. Quando le cose non vanno bene il designatore evita analisi a caldo. Sarebbero dannose. La disamina degli errori è stata affrontata a freddo e i due errori gravi (fuorigioco e mancata espulsione) scandagliati. Nel primo caso a Braschi non è piaciuto l'approccio di Preti: farsi trovare fuori posizione non è sinonimo di concentrazione, cosa imperdonabile per un assistente giovane che si era conquistato il big match a suon di ottime prestazioni. Tagliavento, invece, è finito in un angolo per la gestione insufficiente dei cartellini e perla poca personalità. Proprio il contrario delle sue caratteristiche. Certo, sul mancato secondo giallo non è stato aiutato da Preti e Orsato (il giudice di porta era vicinissimo all'azione), ma un fischietto della sua esperienza avrebbe dovuto cogliere alcuni segnali (tipo le immediate scuse di Lichtsteiner a Palacio) per intuire la gravità del fallo e prendere il giusto provvedimento. Non sarà fermato, però. Come mai? Il numero di arbitri a disposizione della Can A è esiguo (solo 21): se a ogni svista seguisse uno stop in campo andrebbero Braschi e Nicchi... E allora si agirà con buon senso: forse il fischietto di Terni farà un giro in più del normale come giudice di porta, di sicuro quando tornerà a dirigere e fino alla pausa del campionato sarà designato per partite di seconda fascia. Se farà bene, e Braschi ne è convinto, nel 2013 avrà lo spazio che gli compete anche sulle sfide più importanti.

Galliani Nel frattempo il fischietto deve incassare la frecciata di Adriano Galliani. «Tagliavento ha diretto nella passata stagione la sfida scudetto tra Milan-Juve. E quest'anno gli è toccata Juve-Inter. Non aggiungo altro». E a chi gli ricordava il gol non visto di Muntari, l'a.d. rossonero ha risposto: «Impossibile da dimenticare».

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L’odissea di Thabo e gli altri

vittime degli scafisti del calcio

La tratta dei giovani calciatori africani in un film

“Il sole dentro” di Bianchini prende spunto da storie vere. Col patrocinio della Federcalcio

di CORRADO ZUNINO (la Repubblica 07-11-2012)

La terra rossa è lo sfondo, su cui la telecamera indugia. Gli autobus che non viaggiano più, tolte le ruote, sono diventati spogliatoi del calcio, i “vestiaires”. Le piste del deserto (è il Sahara) sono tagliate a rettangoli dalla desertificazione e sulla spiaggia (potrebbe essere Conakry, capitale della Nuova Guinea) i bambini fanno rotolare pneumatici inservibili con un legno. Per cento minuti il film Il sole dentro mette al centro l’Africa occidentale con le sue speranze di emancipazione: saranno gelate a diecimila metri d’altezza, cinquanta gradi sotto zero. Le speranze di successo calcistico saranno gelate, invece, dagli scafisti del football, pronti ad abbandonare in un autogrill italiano Thabo, uno dei 19.999 (su ventimila aspiranti) che non ce la farà. In sala dal prossimo 15 novembre, Il sole dentro è stato scritto e realizzato da Paolo Bianchini, regista con una lunga confidenza con gli spot pubblicitari e la fiction tv, che qui riecheggia. Per realizzare il lavoro ha impiegato quattro anni e si è impegnato casa, come le famiglie dei talenti calcistici africani.

Ci sono volti conosciuti del cinema italiano a contorno di due storie vere che consentono di raccontare l’ultima fase del colonialismo europeo nei confronti dell’Africa: chi sogna (di far conoscere ai potenti le miserie di casa o di vivere di calcio) deve imbarcarsi di frodo su un aereo di linea della Sabena oppure tornare in nave, a piedi, in camion dalla Puglia all’Africa occidentale per liberarsi dal fallimento. Angela Finocchiaro, buonista per attitudine, è l’addetta aeroportuale che il 2 agosto del 1999 scoprì a Bruxelles nel vano del carrello ruote i corpi abbracciati e congelati di Fode Tounkara, 14 anni, di Conakry, e dell’amico Yaguine Koita, lui nato a Freetown in Sierra Leone, 15 anni. In spiaggia e con il vocabolario di francese a fianco, Fode e Yaguine avevano preparato una lettera per il Parlamento europeo che sarà recuperata nella stiva dell’airbus. L’ormai famosa “Excellence e messieurs”, «alle loro eccellenze i signori membri e responsabili dell’Europa».

Quei fogli su carta a righe vengono letti alla fine e valgono il film. Dicono: «Abbiamo l’onore e il piacere e la grande fiducia di scrivervi per parlarvi delle ragioni del nostro viaggio e la sofferenza di noi bambini dell’Africa. Vi supplichiamo per l’amore per il vostro continente, per i sentimenti che avete per il vostro popolo e, soprattutto, per i vostri figli che amate sopra ogni cosa. Dio onnipotente a voi ha dato tutte le opportunità e le ricchezze per costruire e ben organizzare il vostro continente, in Africa abbiamo la guerra, la malattia... Abbiamo molte scuole, ma una grande mancanza di istruzione, salvo nelle scuole private dove ci vogliono molti soldi... Anche noi vogliamo andare a scuola, fino all’università, e diventare presidenti della Repubblica». Gli amici Yaguine e Fode avrebbero voluto consegnare la lettera di persona alle “excellence” e così una notte lasciarono l’aeroporto di Conakry — dove la sera andavano a studiare perché è l’unica zona della città dove vi è certezza di luce — per entrare in pista e nascondersi nella stiva. Meno cinquanta, calo dell’ossigeno nel sangue: la scoperta a Bruxelles.

Questa storia tragica è, come la terra rossa, lo sfondo del film mentre la storia cinematografica «s’ispira a cinque accadimenti veri » fondendoli nell’amicizia tra Thabo, ragazzo africano abbandonato per strada con la scusa di un provino con la Fiorentina, e un piccolo pugliese, Rocco, che ricorda il Cassano sfrontato padrone di Bari vecchia. «Mentre giravo in Congo uno spot per l’Eni», ricorda il regista Bianchini, «mi raccontarono della scomparsa di un ragazzo da un villaggio razziato da uno di questi avventurieri che offrono speranze di Champions League a famiglie pronte a indebitarsi. Quel ragazzo non l’hanno più ritrovato e io ho iniziato una ricerca tra l’Unicef e la Federcalcio per capire di più su un mercato di carne umana a me sconosciuto».

Ne Il sole dentro c’è una traversata palla al piede di uno dei sette “sentieri delle scarpe” nel deserto del Sahara, una bella invenzione filmica. Altre scene sono meno credibili e le comparse rischiano di sembrare macchiette di un’Africa sempre vinta. Giobbe Covatta qui è un razzista qualunquista, Diego Bianchi un console onorario. Avrebbe dovuto essere una fiction Rai in due puntate, «ma mi hanno chiesto di trasformare Thabo l’africano in un giovane calciatore turco e allora mi sono impegnato per il cinema». La Federcalcio patrocina il film, e somiglia a un senso di colpa.

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L’INCHIESTA

La strana storia di Pedro Soares

il Lavitola del calcio portoghese

Lo spregiudicato padrone del Belenenses

tra ascesa politica, televisioni e affari loschi

Una carriera fulminea e il legame con i socialisti

Un fondo d’investimento controlla il club

di PIPPO RUSSO (Pubblico 07-11-2012)

Bisogna essere dei veri appassionati di calcio internazionale per conoscere il Belenenses. E ciò a dispetto del fatto che il terzo club di Lisbona, espressione del quartiere storico di Belem, sia fra i più nobili del calcio lusitano nonché uno dei soli due capaci di interrompere nei campionati a girone unico la dittatura delle tre grandi: Benfica, Porto e Sporting Lisbona. Il Belenenses vinse il suo campionato nel lontano 1946. L’altro club capace di spezzare il dominio della triade è stato il Boavista Porto, vincitore del torneo 2000-01. Adesso entrambi i club sono sprofondati nelle categorie inferiori e affrontano pesanti problemi finanziari.

A dire il vero, giusto domenica scorsa, il Belenenses (in B dal 2010) ha trovato il modo di risolvere i suoi. Ma c’è da dubitare che la soluzione trovata sia quella più felice. Perché dalle otto di sera del 4 novembre 2012 il glorioso club lisboeta è passato sotto il controllo di un fondo d’investimento specializzato nell’acquisizione di diritti sui calciatori, il Codecity Players Investment (Cpi).

Al termine di un’assemblea rassegnata a subire la mutazione genetica, il voto ha sancito in modo schiacciante la fine della proprietà diffusa come modello di governance: 197 sì, 20 no, 27 astenuti. Passa la proposta di aprire le porte alla Cpi, pronta a versare denari freschi e risollevare una situazione non più sostenibile attraverso i sacrifici individuali dei circa 15.000 soci. Nelle prossime settimane si procederà a un aumento di capitale del quale Cpi sottoscriverà una quota fra 60 e 80%. L’oscillazione dipende da ciò che i soci riusciranno a sottoscrivere, ma tutto lascia presagire che il fondo metta le mani sui quattro quinti del pacchetto. E a quel punto diventerà ufficiale la presa di potere dell’uomo che assieme al fratello Carlos ha fondato Cpi, e che domenica sera si è presentato ai soci come salvatore della patria: il quarantenne Rui Pedro Soares, che negli ultimi anni ha occupato rumorosamente la vita pubblica portoghese. Una specie di Valterino Lavitola locale.

Di Rui Pedro Soares stupisce la fulminea carriera. Diplomato presso l’Instituto Português de Administração de Marketing (Ipam), si lega presto al partito Socialista e alla sua compagine più spregiudicata dacché il paese è tornato alla democrazia: quella guidata da José Sócrates, primo ministro per due legislature e fino a giugno 2011. Di Sócrates, Rui Pedro Soares è un fedelissimo; e grazie a questo infeudamento viene nominato amministratore delegato di Portugal Telecom (Pt) alla verde età di 36 anni.

La stampa portoghese fa appena in tempo a chiedersi come possa un manager così giovane vedersi affidare un incarico di tale responsabilità presso una delle principali aziende pubbliche del paese, e ecco che arrivano gli scandali. Prima l’indagine Face Oculta, avviata dalla polizia di Aveiro nel 2009 e riguardante l’acquisizione da parte di Pt dell’emittente Tvi, la seconda stazione privata del paese: una scalata orchestrata dai nomi più in vista della politica e della finanza vicini al Ps allo scopo di arruolare una voce mediatica nella campagna per le elezioni politiche di quell’anno. Inoltre, dalle intercettazioni legate a Face Oculta, emerge un altro affaire che per la prima volta mette in luce le relazioni pericolose fra Rui Pedro Soares e il mondo del calcio: il caso Taguspark, nel quale viene coinvolto Luis Figo. Taguspark è una sorta di Mit portoghese finanziato con denari pubblici. Nel giugno 2009 Figo, appena ritiratosi dall’attività agonistica, presta la propria immagine per la promozione dell’ente in cambio di 750 mila euro. A settembre dello stesso anno, quando si è a ridosso delle elezioni politiche, l’attuale ambasciatore dell’Inter dichiara pubblicamente il proprio appoggio a Sócrates. Gli inquirenti vogliono capire se quel ricco contratto pubblicitario sia un finanziamento indiretto per ottenere l’endorsement. Di sicuro c’è che Rui Pedro Soares (il cui ruolo in entrambe le vicende è di primissimo piano, compresa la gestione dei contatti con l’ex calciatore) viene rinviato a giudizio. Quanto a Figo, per lui arriva il proscioglimento in fase istruttoria: formalmente il suo contratto è ineccepibile. E inoltre egli dichiara che, al momento di firmarlo, non sapeva che Taguspark è un’impresa a capitale pubblico. Vabbe’ dai.

Gli infortuni a ripetizione spingono Rui Pedro Soares a dimettersi da Pt, e nel frattempo il sistema di potere di Sócrates crolla sotto il peso degli scandali. Al giovane manager tocca reinventarsi. Lo fa rafforzando la propria presenza nel mondo che più ama: quello del pallone. Socio sin da giovane del Porto, tenta il colpaccio come broker di diritti televisivi sul calcio. Si allea con un giornalista molto in vista e potente, Emídio Rangel, e i due costituiscono una società che nel gennaio 2011 strappa i diritti sulla Liga spagnola a Sport Tv. Rimane l’interrogativo su chi finanzi l’operazione. Fra gli ambiziosi piani della coppia c’è quello di acquisire anche i diritti sulle partite del Benfica, ma l’alleanza dura poco. Difficile che due squali vadano d’accordo oltre il breve termine. Soares rivende quei diritti e a marzo 2012 si lancia nel nuovo business: acquisto e gestione di diritti sui calciatori. Una pratica che Fifa e Uefa stanno vanamente cercando di stroncare con le norme che mettono al bando le third parties, e che invece in Portogallo viene condotta alla luce del sole. Due settimane prima della scalata al Belenenses, Soares afferma che dismetterà quell’attività. Ma poi non fa più riferimento al tema. Sicché da domenica si è chiuso il cerchio: un fondo d’investimento controlla ufficialmente un gruppo di calciatori e un club in un campionato europeo. È legale? Giriamo l’interrogativo a Fifa e Uefa.

(2/continua)

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Il fenomeno Mazzarri torna ad allenare ma il bisogno di staccare è diffuso

Gli stressati e gli irriducibili del calcio

Le due facce dello stesso pallone

di GAIA PICCARDI (CorSera 07-11-2012)

«Non siamo tutti uguali, per fortuna...». Gli occhi spiritati dell'uomo che fu posseduto dal calcio tornarono sulla terra dopo l'esperienza ansiogena sulla panchina del Parma. Febbraio 2001. Doveva essere un ritorno a casa, onusto dei fasti milanisti; si rivelò un capolinea con il batticuore. «Non si può morire di stress né di calcio» ricorda Arrigo Sacchi a proposito di quei 23 lunghissimi giorni durante i quali capì che, a 54 anni, dopo aver terremotato il calcio italiano, stava molto meglio lontano dall'epicentro. Walter Mazzarri ieri è tornato ad allenare il Napoli a Castelvolturno. Una notte di ricovero alla clinica Montevergine di Mercogliano, e nessuna voglia di parlare. Quello che doveva e voleva dire, era già stato detto: «A fine stagione potrei anche stare fermo». Come Pep Guardiola dopo la grande abbuffata a Barcellona, Luis Enrique prosciugato dalle aspettative della Roma, Francesco Guidolin da Castelfranco Veneto, che il venerdì sera comincia a non dormire più e la domenica suda freddo al capezzale della sua Udinese: «Mi sento sempre più svuotato, forse mi serve un anno sabbatico...».

L'allenatore sul lettino. E il pallone in analisi. Sostiene Sacchi che non dipende dal logorio del calcio moderno. «Venticinque anni fa, quando arrivai al Milan, era già tutto stressante e ansiogeno. In Italia, da questo punto di vista, siamo campioni del mondo: il calcio è considerato rivendicazione sociale, metodo e merito sono totalmente disconosciuti. Conta solo il risultato. Il campionato più stressante in assoluto. Quando hai allenato da noi, sei vaccinato per allenare ovunque. Napoli piazza difficile? A Igea Marina sarebbe la stessa cosa... Alla base del risultato ad ogni costo ci sono maleducazione, mancanza di cultura sportiva e ignoranza. Poi non siamo tutti uguali: c'è chi è più sensibile e chi vive la pressione in modo più rilassato e meno ossessivo». Si spiega così, forse, l'elisir di lunga vita di due totem conficcati con forza dentro il calcio europeo. Alexander Chapman Ferguson da Glasgow e Giovanni Luciano Giuseppe Trapattoni da Cusano Milanino, separati alla nascita, 143 anni in due, una vita nel pallone. Ogni (rara) volta che hanno accennato all'idea di smettere Cathy e la signora Paola, le vedove bianche sposate con il calcio, li hanno rispediti in panca con un calcio nel sedere. Impossibile immaginare Fergie e il Trap («Lo stress sta alla Breda, non in campo...») lontano dal profumo di uno schema, dal bagliore di una sfida, dal fragore di un gol. L'altra faccia degli stressati, sono gli irriducibili. «Non siamo tutti uguali...» è il mantra dell'Arrigo. E Arsene Wenger (16 anni all'Arsenal) e Josè Mourinho (quasi cinquant'anni sulle barricate: il 26 gennaio 2013, auguri) sembrano destinati a raccogliere l'eredità dei matusalemme a cui il calcio allunga la vita. Essere o non essere? Gerovital o stress? «Lo stress non esiste: esiste un'ansia da prestazione mista a una paura molto profonda di non essere all'altezza — spiega Rosa Maria Vijogini, life coach e fondatrice di Cuore di Smeraldo —, gli stati ansiogeni sono il prodotto di un conflitto spietato tra la struttura della personalità e l'essere». Esiste un modo di primeggiare sano? «Creare per gioia e per passione, seguendo la propria anima e non il cervello o la società. Però la magia della creazione ha bisogno di molto coraggio. Il calcio è una delle identificazioni più forti dell'individuo, un gioco fisico che produce l'illusione di una conquista in assenza di sforzo. Il gol è una gratificazione dell'ego».

Gioco, segno, alleno, ergo sum.

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La provocazione

Gli arbitri italiani?

Una scuola che produce

fischi di seconda mano

di PAOLO CASARIN (CorSera 07-11-2012)

Che cos'è diventato l'arbitraggio oggi in Italia? Un insieme di fischi poveri, intempestivi, senza una radice originale, si direbbe fischi di seconda mano. Frettolosi o lenti, perfino cancellati dall'incertezza e mescolati alla paura. Una vita arbitrale ormai scandita da questo modo di fischiare, che deve far quadrare i bilanci domestici, certamente onesti ma anche presuntuosi, privi dello splendore della ricerca faticosa e infinita. Fischi sottoposti a contratto. Fischi senza l'arte coraggiosa della meditazione, avvolti nell'imballaggio anonimo della confezione di serie, fogli sgradevoli come le multe per divieto di sosta. E pensare che il fischio di quel tipo di uomo che è l'arbitro è sempre stato e potrebbe ancora rappresentare la sintesi di una conoscenza sempre incompleta e perciò stimolante, dello studio di una regola del gioco elementare, ma per tutti difficile perché onesta e giusta. Un messaggio forte che ogni arbitro, anche il più giovane e sconosciuto, potrebbe trasmettere con gioia, perché il servizio è realmente prezioso, in nome di tutti e non solo per i ventidue. Un canto armonioso più che un sibilo prodotto dalla plastica. E pensare che il campo di calcio con centomila respiri, con il tifo liberato dai sentimenti, è il luogo perfetto per far nascere quel fischio, che è arte proprio nel momento in cui l'arbitro è riuscito a farsi circondare e sommergere nel proprio silenzio neutrale, è riuscito a calmare il battito del cuore mentre entrava in area di rigore e può, solo in quel momento e in quello stato, aprire con volontà e ostinazione gli occhi in direzione della realtà del gioco che vuole essere arbitrato. È ancora possibile frequentare quella scuola di arbitraggio, che sembra così lontana e a taluni mai esistita? È sempre aperta, ha bisogno soltanto di studenti senza programmi di studio semplificati. L'arbitraggio non è un quiz, che con fortuna si può centrare subito. Ha bisogno di lavorare sugli errori, sui pregiudizi, sulla limitazione della propria autorità, sulla capacità di raggiungere l'indipendenza da tutti. Ma proprio da tutti.

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