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K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Frecciarossa Napoli-Milano, 40 minuti

di ritardo per accompagnare l’As Roma

E' quanto accaduto alle centinaia di passeggeri che hanno dovuto raggiungere il capoluogo lombardo e che giurano di non esser stati avvisati. In Rete nessuna notizia, ma l'ufficio stampa di Trenitalia smentisce: "Non è vero, era stato comunicato nelle stazioni e sul treno". Poi l'annuncio: "Rimborseremo il 25% del biglietto"

di PIERLUIGI GIORDANO CARDONE (ilFattoQuotidiano.it 30-10-2012)

Treno Frecciarossa 9544: prima classe euro 133, seconda classe euro 95. Partenza da Napoli alle 14.50, fermate a Roma, Firenze e Bologna, arrivo a Milano centrale alle 19.40. Salvo squadre di calcio presenti a bordo. Tutto vero. Per conferma, chiedere alle centinaia di passeggeri che martedì 30 ottobre hanno dovuto raggiungere il capoluogo lombardo. A quasi un’ora dalla fine dell’itinerario programmato, infatti, il convoglio ha abbandonato la linea dell’alta velocità e si è diretto verso Parma. La spiegazione del cambio di programma direttamente dall’altoparlante interno: sosta straordinaria. Il motivo? Lo si è capito una volta arrivati alla stazione della città ducale, quando dal treno è scesa l’interna delegazione della As Roma, impegnata domani al Tardini contro i padroni di casa nella decima giornata del campionato di Serie A. Tra scarico bagagli di Totti & Co., autografi, sorrisini e proteste assortite, i passeggeri giurano di aver accumulato oltre 40 minuti di ritardo. Una volta arrivati a Milano centrale, poi, qualcuno si è diretto alla Polfer per denunciare l’accaduto, altri hanno segnalato la cosa all’ufficio reclami di Trenitalia, altri ancora hanno raccontato tutto ai giornali.

Segnalazione ricca di dettagli: nessun avviso sui tabelloni presenti negli scali di Napoli, Roma, Firenze e Bologna, idem per quanto riguarda gli avvisi a bordo. Se non per quella “sosta straordinaria” buttata lì dagli altoparlanti del treno. Non solo. Dopo una dettagliata ricerca sulla Rete (e sul sito ufficiale di Trenitalia), del ritardo ‘programmato’ per accompagnare l’undici di Zeman a Parma neanche l’ombra. Chi, quindi, non voleva sorbirsi il ritardo ‘calcistico’ non è stato messo nelle condizioni di poter scegliere un altro treno, magari di un’altra compagnia. Ed è stato costretto a sorbirsi il disagio ‘programmato a sua insaputa’. Un disservizio mica da ridere. Almeno a sentire le testimonianze di chi era bordo del Frecciarossa 9544, che ora minaccia reclami e ricorsi al Codacons pur nella consapevolezza di non potere avere nessun rimborso. Quest’ultimo, infatti, scatta solo dopo 60 minuti di ritardo.

Per il capo ufficio stampa di Trenitalia Federico Fabretti, però, la realtà dei fatti è ben diversa. Il 16 ottobre abbiamo firmato con la As Roma una partnership di collaborazione per cui i giallorossi viaggeranno con i nostri Frecciarossa in occasione di alcune trasferte ha detto Fabbretti al fattoquotidiano.it. Ma i passeggeri erano stati messi al corrente che sulla tratta Napoli-Milano oggi ci sarebbe stato un ritardo di 40 minuti? “Innanzitutto il ritardo accumulato è stato di soli 19 minuti, di cui 14 dovuti a problemi di circolazione. E poi erano stati tutti avvisati”. Come? “Quindici giorni fa c’è stata una comunicazione ufficiale – ha spiegato Fabbretti – e a quanto mi risulta la cosa era segnalata sui tabelloni delle stazioni di competenza nonché comunicata dagli altoparlanti sia prima della partenza che in uscita verso la stazione di Parma”. Numerosi passeggeri, tuttavia, raccontano l’esatto contrario di quanto specificato dal responsabile della comunicazione di Trenitalia. Che poi aggiunge un dettaglio. Non di poco conto. “Abbiamo deciso comunque di rimborsare ai passeggeri che hanno subito disagi il 25% del costo del biglietto”. Un’ammissione di colpa, quindi. “Assolutamente no – ha puntualizzato Fabbretti – E’ un segno d’attenzione verso i nostri clienti”.

A prescindere da questioni dialettiche, è interessante aggiungere un altro dato. Trenitalia ha sottoscritto simili accordi di partnership non solo con l’As Roma, ma anche con Inter, Milan, Juventus, Lazio e altre società del campionato italiano. Avviso ai passeggeri: prima di partire, conviene controllare il calendario di Serie A.

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Quando la Juve fece ritardare il treno

di MARIO BIANCHINI (IL ROMANISTA 05-11-2012)

Un clamoroso scandalo scovato nel tempo, ridimensiona le pretestuose polemiche piovute addosso alla Roma, “colpevole” di aver organizzato la fermata del treno a Parma per consentire di scendere alla comitiva giallorossa.

L’episodio accadde quasi 40 anni fa e, come ti sbagli? Ne fu protagonista la solita Juventus. Era esattamente l’11 gennaio del 1976. In un Olimpico tutto esaurito, i bianconeri si imposero con un gol di Bettega. Nel prosieguo della gara, accadde il finimondo. L’arbitro Agnolin, con una serie di decisioni scandalose, poste in risalto da tutti gli organi di informazione, negò alla Roma ben 4 calci di rigore lampanti come il sole. Le proteste del pubblico vennero fronteggiate dalle forze dell’ordine con un esagerato lancio di lacrimogeni che finì per esasperare maggiormente gli animi. Molte persone rimasero ferite. I giocatori juventini, riuniti in un concitato consiglio, sapevano benissimo di aver perpetrato uno scippo ai danni dei giallorossi. Temendo la reazione della gente, inviperita per l’ingiustizia patita, decisero di ricorrere al loro potere esercitato a tutti i livelli.

Saliti a bordo di un pullman, si fecero condurre alla stazione di Civitavecchia. Le Ferrovie dello Stato si posero sull’attenti e consentirono come si usa fare in autostop, di bloccare il rapido Roma-Torino. Fra lo sconcerto dei passeggeri, allarmati dalla massiccia presenza di poliziotti e dalla brusca fermata non prevista, giocatori, massaggiatori, magazzinieri juventini iniziarono tranquillamente le operazioni di trasferimento a bordo, causando al convoglio un ritardo di tre ore, contro i 33 minuti del Frecciarossa di Parma. A quell’epoca i posti a sedere erano ripartiti in scompartimenti. Nella confusione totale il personale, sorpreso dall’inattesa visita eccellente, si prodigò nell’affannosa ricerca di comode sistemazioni in ossequio al riposo degli esausti “eroi” dell’Olimpico. Quello si che fu vero disagio per i viaggiatori, orfani sventurati del solerte Codacons. L’inaudito “sopruso”, protetto dall’immunità di cui hanno sempre goduto i bianconeri, naturalmente non ebbe seguito, quando invece ci sarebbe potuta scappare una denuncia penale per interruzione di pubblico servizio, ampiamente giustificata. Il presidente della Roma Gaetano Anzalone, conosciuto per i suoi atteggiamenti misurati, quel giorno andò su tutte furie minacciando di rivolgersi alle autorità competenti. Dal campo, la prepotenza juventina si era trasferita anche in una stazione ferroviaria dove dispose a suo piacimento, addirittura di un treno rapido.

Ecco quindi apparire abissalmente diversa la sosta a Parma del Frecciarossa autorizzata dalle Ferrovie, segnalata sul tabellone luminoso della stazione Termini e diffusa dagli altoparlanti. Incuranti della verità, si sono scomodati il Codacons che ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica, gli onorevoli in cerca di pubblicità i quali hanno minacciato un’interrogazione parlamentare, e lo scatenato popolo di Twitter. Ma i puntuali “guardiani” della giustizia, particolarmente agguerriti quando appaiono davanti ai loro occhi i colori giallorossi, forse non immaginavano che il vero scandalo di marca bianconera si consumò tanti anni fa alla stazione di Civitavecchia. E così i signori sono serviti e invitati a riflettere sul paragone fra le due vicende. Troverebbero un pretesto valido per vergognarsi!

Modificato da Ghost Dog

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Il nuovo lavoro inglese del giocatore

che denunciò il tentativo di combine

Farina, simbolo in fuga

da notorietà e minacce

Allena i giovani dell'Aston Villa e dice: «Rivoglio la mia vita»

di STEFANO BOLDRINI (GaSport 31-10-2012)

Una vita tranquilla. E' quello che rincorre Simone Farina, come il personaggio interpretato da Toni Servillo nel film dallo stesso titolo. Ma se in quel caso il protagonista è un ex camorrista scappato in Germania per rifarsi l'esistenza, la fuga di Farina a Birmingham, la seconda città d'Inghilterra, è la ricerca di una dimensione normale dopo un anno in vetrina come simbolo dell'onestà e della lealtà. Valori, questi, che dovrebbero essere la prassi quotidiana, ma che nell'Italia degli scandali e della corruzione, diventano un evento assolutamente straordinario. Farina nel 2011 rifiutò di lasciarsi corrompere da Alessandro Zamperini, ex collega dei tempi della Roma, per alterare il risultato della gara di Coppa Italia tra il Cesena e il suo Gubbio, dove ha giocato dal 2007 al 2012. Il suo rifiuto, che ha portato all'arresto di 17 persone nell'ambito dell'inchiesta sull'ennesimo scandalo scommesse italiano, è assurto a simbolo, stravolgendo la vita di Farina: la convocazione di Prandelli a Coverciano, il premio ricevuto da Blatter alla cerimonia del Pallone d'Oro 2011, l'esposizione mediatica, le minacce della malavita, le paure della famiglia, fino alla conclusione del rapporto col Gubbio e al desiderio di cambiare Paese per recuperare la cosiddetta normalità.

Maestro Oggi Simone, come lo chiamano tutti a Birmingham, compresa la receptionist dello stadio, è il «community coach» dell'Aston Villa. E' un maestro per i giovani, lui che ha appena 30 anni e potrebbe ancora giocare. In Italia qualche club (il Perugia) gli aveva offerto la possibilità di continuare ad esercitare il mestiere di corridore della fascia, ma Simone, biondo come Re Cecconi, figura leggendaria di quella Lazio per cui ha sempre tifato, ha preferito il trasferimento in Inghilterra, lontano da riflettori e mala. Ha portato con sé la moglie Scilla e i figli Francesco e Mia Sole. Lavora in una struttura intitolata a Gordon Cowans, giocatore del Bari dal 1985 al 1988. Sabato ha seguito allo stadio Aston Villa-Norwich. Farina si allontana, appena vede l'ombra di un giornalista.

«Rivoglio la mia vita» Non vuole parlare, neppure di come stiano scorrendo i suoi primi giorni inglesi. Fa rimbalzare tutte le richieste all'Aston Villa, che neutralizza ogni tentativo di avvicinamento. Ma qualcosa trapela. Ad amici fidati, Farina ha detto: «Sono venuto a Birmingham per recuperare la mia vita. Sono sempre stato una persona normale e non mi va di condurre un'esistenza da simbolo. Non mi piace la notorietà, quello che ho fatto è assolutamente normale. La vera stranezza è essere considerato un personaggio straordinario per il solo fatto di essere onesto. Mi mancherà il calcio giocato, anche perché staccare la spina a 30 anni non è facile. Ma supererò anche questo». Le prime parole filtrate attraverso il sito dell'Aston Villa sono state un omaggio al club: «Sono contento di essere qui, a raccontare ai giovani la mia esperienza e ad aiutare i ragazzi a crescere nel rispetto dei valori giusti. Un anno fa non avrei pensato che la mia vita sarebbe stata così stravolta».

Esempio Dietro al trasferimento all'Aston Villa, ci sarebbe la lunga mano di Blatter. Farina conduce una vita tutta casa e campo. Le parole più belle sul suo conto le ha spese Ron Noble, segretario generale dell'Interpol: «Farina è un grande difensore, dentro e fuori dal campo. Ha mostrato integrità e coraggio. Il suo esempio può essere più importante per i giovani di modelli come Messi e Ronaldo». A Birmingham, per ora, la straordinarietà di Farina resiste: un italiano onesto, quassù, è considerato una rarità. In Inghilterra, hanno aperto persino locali intitolati al Bunga Bunga di berlusconiana memoria. Farina riuscirà nell'impresa di ripulire la nostra immagine, alquanto compromessa da queste parti? Sarebbe il suo secondo grande gesto.

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Ecco l’emigrante Farina

dagli imbrogli ai bambini

“Con voi sono felice”

Denunciò le scommesse, riparte da Birmingham

L’etichetta Non voglio passare il resto della mia vita a giustificarmi, a vivere con l’etichetta dell’infame

La sofferenza Ho sofferto molto in questo periodo. E ora la cosa più bella per me è stare con dei ragazzi che pensano solo a giocare

Il sogno So di avere dietro di me la Fifa, l’Interpol e l’Aston Villa. Insegno il rispetto e l’educazione. L’Inghilterra è un sogno

di GIULIANO FOSCHINI (la Repubblica 31-10-2012)

I terzini corrono. E infatti è la storia di una fuga. Non sulla fascia, però. Ma da una vita, da un’etichetta. «Io — confida agli amici — non voglio passare il resto della mia vita a giustificarmi, a vivere con l’etichetta dell’infame ». Simone Farina non è più un terzino. Eppure fugge, pur non essendo né un delinquente e nemmeno un pentito. Banalmente è un cittadino: uno a cui hanno offerto di compiere un reato e lui ha risposto no grazie, e poi lo ha denunciato. Simone Farina doveva essere un simbolo del calcio italiano, in parte lo è stato con Prandelli che lo chiama in nazionale e Blatter che lo invita alla premiazione del Pallone d’oro, doveva diventare un logo, una bandiera da esporre ogni domenica, l’uomo, unico e solo, che aveva denunciato il calcioscommesse. Il buono contro i cattivi.

Doveva diventare una fiction. E invece Simone Farina è diventato il personaggio di un film di Paolo Sorrentino, sembra Toni Servillo con i capelli lunghi biondi, a vivere in una campagna inglese piovosa quando a Roma c’è il sole, emigrante alla ricerca dell’anonimato, calciatore al contrario, allergico ai flash, disturbato dalle interviste, in fuga dai titoli dei giornali. Che è successo? Farina è scappato. Ha denunciato il suo ex compagno Zamparini, ha fatto arrestare 30 persone, inchiodato gli Zingari, scoperchiato una cloaca. E ora è finito nel catalogo dei cervelli in fuga italiani, talento dell’onestà, talento raro nel mondo in cui era capitato. Simone Farina oggi vive qui, Birmingham, Inghilterra. Non gioca più. Insegna calcio e lealtà ai ragazzini. Veste la tuta gloriosa azzurra e bordò dell’Aston Villa, frequenta corsi di inglese intensivi, passa la sua giornata nei tre campetti di allenamento in sintetico del Gordon Cowans park (ve lo ricrodate Gordon Cowans? Centrocampista del Bari), mangia con i bambini qui accanto ai campetti, al The Villa entra solo per le interviste, mentre lavora prova a spiegare artigianalmente cosa sono le finte “no look” («come si dice finta senza guardare? No look, si fa così») ma soprattutto a rappresentare cose che dovrebbero essere banali e che invece hanno la portata di una rivoluzione. «Facciamo così, diciamo che la mia esperienza mi ha portato ad avere questa opportunità: io prometto — ha detto ai tifosi dell’Aston Villa — che ci metterò tutto me stesso, metterò a disposizione tutto quello che ho a questi ragazzi». Cosa? «Cercherò di insegnargli il rispetto, l’educazione, le cose secondo me più importanti per chi si affaccia nel mondo professionistico».

Ma perché Farina è scappato? «Ho sofferto molto in questo periodo — dice ancora ai suoi tifosi — E ora la cosa più bella per me è vedere sorridere i ragazzi, quello che mi hanno dato in questi giorni è la cosa più bella, sono spensierati, pensano soltanto a giocare a calcio. Questo mi rende felice e li ringrazio per questo». In realtà, è giusto dirlo, qualcuno in Italia lo aveva cercato. L’associazione dei calciatori lo voleva come rappresentante dei rappresentanti. Damiano Tommasi è suo amico, «ma Simone — dice — ha scelto così». Anche il presidente della Lega di B, Andrea Abodi, ha lavorato perché lui rimanesse. L’Ascoli lo voleva come calciatore, tanti club erano in fila per accoglierlo come dirigente. Ma lui tentennava, poi è arrivata la Fifa a parlargli dell’Inghilterra. È volato subito, «è un sogno per un calciatore», un sogno strano perché i tassisti con i gagliardetti non ti conoscono, i bambini nei negozi di Constitution Hill al tuo nome fanno la faccia interrogativa e persino gli emigranti italiani che organizzano feste e partite di calcetto si meravigliano (e rammaricano) un po’ di non averti mai visto. «Gli abbiamo anche scritto su Facebook, ma niente» dice Gianpaolo Currò, uno dei ragazzi italiani di Birmingham. In compenso qui al Villa Park anche le segretarie ti chiamano per nome e ti vogliono bene tutti. «Sono felice. So di avere dietro di me l’Interpol, la Fifa e l’Aston Villa. Questo mi riempie di orgoglio». Però?

Paura è una parola che Simone Farina pronuncia a fatica. Ma è come se gliela si legga in faccia. Fa paura essere un rivoluzionario inconsapevole. Un giorno, mentre sei un terzino così così del Gubbio, un giorno viene un vecchio amico che avevi conosciuto ai tempi della Roma, si presenta con una Porsche bianca e ti chiede di vendere una partita della tua squadra. Tu dici no grazie, ne parli con la società, decidi di dirlo alla Federcalcio, come è normale farlo, anche perché le regole prevedono così. Poi scopri che però quello con la Porsche era amico di mafiosi slavi, aveva contatti con gente con il cognome da camorristi o amici della banda della Magliana e quello che tu hai raccontato viene prima tenuto in un cassetto e poi quando un magistrato, quasi per caso, lo riceve sulla scrivania viene giù tutto. Scopri che tutto è cominciato da te. Perché sei l’unico a pensarla così: tu solo hai parlato. Gli altri sono sempre stati zitti. In fondo lo sanno tutti, in serie A e in nazionale, a fine stagione ci sono partite «meglio due feriti che un morto». A fine stagione capita di baciare le scatole di scarpe con i soldi di una combine e l’anno dopo sei a giocare nelle squadre importanti di A. Capita di finire in galera e due mesi dopo esultare sotto la curva dei tuoi tifosi, osannato. All’improvviso, dopo aver denunciato quello con la Porsche bianca, scopri di essere un marziano. E allora la pioggia di Birmingham non è poi così male. Almeno l’estate si sta freschi.

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Calcioscommesse Il processo

La società, Cannavaro e Grava

il 6 dicembre alla Disciplinare

Le accuse Il filone napoletano su due informative di polizia e sulle ammissioni dell’ex portiere Gianello. In serata azzurri in campo con il Psv

di PINO TAORMINA (IL MATTINO 31-10-2012)

Al mattino, a Roma, alle 11, la prima audizione davanti alla Disciplinare. La sera, alle 20,45, l’ultima sfida di Europa League con il Psv al San Paolo. Niente da dire: sarà davvero un 6 dicembre con i fiocchi quello che attende il Napoli e i suoi tifosi. In quel giorno prende il via il processo sportivo al club azzurro, a Grava e Cannavaro e all’ex terzo portiere Matteo Gianello, deferiti dal superprocuratore federale, Stefano Palazzi, lo scorso 25 ottobre.

Diciassette i deferimenti in totale, 11 tesserati (tra gli altri, c’è anche Agostinelli) e 6 club rinviati a giudizio (oltre al Napoli, l’Albinoleffe, il Portogruaro, il Crotone, la Spal e l’Avesa) per responsabilità oggettiva. I numeri dicono molto, se non tutto: dicono che nelle 2 partite prese in esame (una è Napoli-Sampdoria, l’altra Portogruaro-Crotone) dalla Procura Figc nell’analisi del filone di Napoli del calcioscommesse, la regola della mano pesante (la stessa adottata in riferimento a Cremona e Bari) è stata rispettata in pieno.

Trema, il Napoli. Il procedimento che prende il via tra più di un mese rischia, nel peggiore delle ipotesi, di costare una penalizzazione alla società del presidente De Laurentiis. «Fino a ora non abbiamo neppure preso in considerazione l’ipotesi del patteggiamento. Mancano più di 30 giorni e con i dirigenti del Napoli ci incontreremo presto per stabilire una linea difensiva», spiega Mattia Grassani, legale di fiducia del patron.

Stefano Palazzi, secondo indiscrezioni, potrebbe chiedere per il Napoli due punti di penalizzazione per il tentato illecito a cui è stato rinviato a giudizio Matteo Gianello e non meno 200mila euro di multa per le omesse denunce di Cannavaro e Grava (che rischiano tra i 3 e i 4 mesi di stop). Questo è il quadro accusatorio. Il Napoli insiste e si difende strenuamente: «È assurdo, siamo parte lesa». Tutto ruota, come è ormai noto, sulle ammissioni di Gianello rese ai pm napoletani dopo le informative di polizia depositate in procura il 24 maggio e il 14 settembre del 2010. E dove tra l’altro si svela come sia nata l’inchiesta. In un bar, quando Gianello paga il conto di un aperitivo al poliziotto infiltrato. «Matteo, ma paghi sempre tu? Non è giusto anche se il mio stipendio non è come il tuo». Da qui il poliziotto prosegue raccontando che il portiere voleva festeggiare, per sua ammissione «la vincita di una bolletta». Si legge ancora nell’informativa allegata alla richiesta dei deferimenti: «Mi disse che aveva personalmente contattato i difensori Grava e Cannavaro, oltre allo stesso Quagliarella, ricevendo da tutti un netto rifiuto», in vista di Sampdoria-Napoli. Poco importa che l’illecito non è andato in porto. La preoccupazione principale per il Napoli è che la Disciplinare, la prima istanza di giudizio sportivo, raramente ha ribaltato la linea della fiducia ai pentiti tenuta dalla Procura federale. Matteo Gianello, di fatto, viene considerato un pentito. Ma poi c’è la Corte federale e in ultima istanza il Tnas.

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Corriere dello Sport 31-10-2012

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Perché la Juve

spacca l'Italia

Antipatici perché vincenti, sostiene il mondo bianconero. Ma pesano

anche certe aspre battaglie politiche. Come quella per la terza stella...

Rivendicazione legittima o ribellione alle istituzioni? Punti di vista. Come per il caso scommesse

di ANTONIO BARILLÀ (CorSport 31-10-2012)

Antipatici perché vincenti. E’ la chiave di lettura bianconera. Confortano controprove nitide (negli anni bui, i veleni erano svaporati) e paragoni illustri: José Mourinho ha lo stesso destino. Il prezzo del successo, però, non inquieta, anzi gonfia l’orgoglio: «Meglio che simpatici e perdenti» osserva con semplicità Antonio Conte.

STELLE - Il problema è che dietro l’antipatia (dell’altra metà del cielo, sia chiaro, perché gli juventini d’Italia sono 14 milioni) non ci sono soltanto gli scudetti. Incidono battaglie politiche e prese di posizione che spaccano il Paese più del tifo nudo e crudo. Un esempio? Le famose tre stelle: appese in sede, stampate sul pullman, inchiodate all’ingresso dello stadio. Se per il popolo bianconero sono la difesa superba di campionati vinti meritatamente sul campo, per il resto del mondo rappresentano una ribellione al sistema, una mancanza di rispetto verso le sentenze. E siccome la Juve sul punto insiste, si espone a interpetazioni double face: opportunamente tenace o assolutamente arrogante, giustamente battagliera o estremamente presentuosa. Questione di prospettive e di cuore, impossibile tracciare una via di mezzo.

CALDERONE - Capita anche nei giorni caldi delle scommesse, quando alcuni tesserati scivolano nel calderone per fatti legati a squadre precedenti. La Juve s’espone, difende a spada tratta i suoi uomini che professano innocenza, stila comunicati e convoca conferenze, si scaglia contro le crocefissioni mediatiche. E ripiomba in mezzo al guado: paladini, anzi saccenti. Spirito di gruppo, no fazione esasperata. Fa discutere, in particolare, la posizione di Conte. Il tecnico si ribella con forza alle accuse, imbastisce una difesa accorata, respinge il patteggiamento perché non ha colpe e s’incavola quando gli consigliano d’accettarlo e si ritrova clamorosamente punto e a capo. Sopporta aspettando il verdetto, poi urla la sua verità: per gli juventini è un duro e puro, uno che non s’arrende e non ha paura di esternare i sentimenti. Per l’altra metà del cielo un tribuno che si permette di criticare le istituzioni.

SIMBOLI - Per l’allenatore, in verità, è tutto amplificato. La Juve, dice lui stesso, si odia oppure si ama e i suoi simboli ne seguono la sorte. E chi più simbolo di un capitano storico tornato in panchina e subito vincente? Antonio ha trasformato la Juve, ha restituito consapevolezza e rinnovato tradizioni, ha alzato il campo - un’immagine che ama - e anche la voce al momento opportuno: ricordate il rispetto chiesto quando non arrivavano i rigori e si spandeva l’ombra del condizionamento di Calciopoli? Quasi che gli arbitri avessero timore di fischiare a favore della Juve... Lui lo disse e il mondo bianconero applaudì, l’altra metà del mondo lo tacciò di prepotenza.

STRASCICHI - In realtà Calciopoli ha altre code: sospetti, pregiudizi, etichette e ironie - in verità più antiche: basta pensare alla battaglia viola di questi giorni per lo scudetto ‘82 o all’immortalità del gol di Turone -, di cui la Juve comincia a essere stanca. Non capisce come mai gli errori a suo favore vengano puntualmente ingigantiti, non ne può più di cori che alludono a sotterfugi, malsopporta che tribune e curve si scaglino contro i suoi dirigenti. Strascichi di uno scandalo che ha sottratto due scudetti e scaraventato la squadra in serie B: verdetti iniqui, per i biancoreri, che lamentano disparità di giudizio e chiedono milioni di danni. Ben fatto, gridano tifosi e simpatizzanti. Insolenti, urlano tutti gli altri.

VERITA’ - Il post Catania è un simbolo: il presidente Andrea Agnelli rimarca come l’errore sia stato rinconosciuto e denuncia il clima di tensione attorno alla squadra, gli altri contestano le proteste decisive (in cui leggono sfrontatezza) e l’analisi che sorvola l’episodio e lascia balenare l’idea di una vittoria che sarebbe arrivata comunque. Verità, dicono gli juventini che riepilogano palle-gol e contrasti dubbi in area siciliana; mistificazione, replicano gli altri: potevano fermarsi ad ammettere lo sbaglio.

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L'occasione perduta dagli arbitri

Dal post-Calciopoli doveva uscire un sistema nuovo, più lontano

dal potere e indipendente. Ma la sola autonomia non basta

L’Aia siede adesso in Consiglio Federale accanto ai presidenti di club “scontentati” da fischi sfavorevoli

Altra cosa sarebbe stata una totale indipendenza per eliminare ogni ombra e contiguità

di ANTONIO MAGLIE (CorSport 31-10-2012)

Giancarlo Abete invita il mondo del calcio a non criminalizzare la Juve. Ha ragione perché, in realtà, se la classe arbitrale è di qualità mediocre e il sistema nel suo complesso non funziona, la colpa è di tutti, di tutti quelli che, chiamati a risistemare il volto del football italiano dopo la valanga di Calciopoli, si sono guardati bene dall’intervenire in profondità, per paura, per egoismo, per egocentrismo e per garantire la sopravvivenza di antiche rendite di posizione. Insomma, ognuno porta la sua croce, a cominciare dal presidente federale. E anche dal presidente del Coni, Gianni Petrucci, che lancia evangelici inviti all'umiltà. Ma i primi che dovrebbero raccogliere questo invito sono proprio quelli che Foro Italico e via Allegri si sforzano di difendere, cioè gli arbitri, anzi l'Associazione di categoria, l'Aia presieduta da Marcello Nicchi con mano estremamente ferma e sguardo totalmente rivolto al passato. Un passato, soprattutto prossimo, almeno per quanto riguarda gli anni a cavallo tra metà Novanta e metà Duemila, che non è ricchissimo di onore e di onori.

OCCASIONE - Poteva essere una occasione Calciopoli: per cancellare le ombre, per riemergere dalla coltre di sospetti, per affermare la figura dell'arbitro per quella che dovrebbe essere, cioè un giudice monocratico che può sbagliare ma che è come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni pregiudizio o cattivo pensiero. Non è stato così perché la categoria è passata direttamente dallo choc alla riaffermazione orgogliosa del ruolo, un orgoglio non completamente fondato visto che le indagini napoletane avevano determinato la perdita della verginità. Ricordare come fa Nicchi tutte le volte che nasce un caso l'enorme sacrificio di una categoria che dirige migliaia di partite all'anno non serve quasi a nulla, non è un salvacondotto per l'Immortalità. Il calcio è grato per quello che gli arbitri (soprattutto quelli più giovani, che vanno a dirigere partite su campi infuocati) fanno. Ma il problema non è la base, il problema è il vertice; il problema non sono gli uomini, il problema è il sistema. Che era sbagliato prima ed è sbagliato ora. Nicchi ha fatto dell'autonomia il personale totem, è la vittoria che ora gli garantisce un consenso straordinario all'interno della categoria. Ma era altro che gli arbitri dovevano chiedere e dovevano ottenere: una completa “sterilizzazione” del loro mondo, una separazione assoluta dai “poteri forti” che inevitabilmente, anche con la semplice vicinanza, condizionano.

INDIPENDENZA - Bisognava allontanare gli arbitri (o, meglio, le strutture che li rappresentano) da quei poteri, al contrario i vertici dell'Aia si sono avvicinati ancora di più, spacciando per un “puntello” alla tanto pubblicizzata autonomia il fatto di essere presenti nel Consiglio Federale, accanto a quelle leghe (e a quei presidenti) che poi ogni domenica e mercoledì vengono accontentati o scontentati dalle decisioni arbitrali. Si tratta, evidentemente, di uno strano modo di essere autonomi. Ed è stato un peccato che né il Coni né la Federazione si siano accorti del paradosso che si stava costruendo. Bisognava percorrere altre strade: non quella dell'autonomia, ma quella della totale indipendenza, semmai la creazione di una federazione di arbitri affiliata al Coni ma sottoposta a un organismo di garanzia autorevole, una sorta di barriera protettiva non dagli errori commessi in campo ma da quelli eventualmente commessi fuori dal campo. Sono le contiguità che producono le ombre e quelle contiguità non sono state eliminate. Ha ragione Abete: non ha senso criminalizzare un “attore” visto che sono tutti responsabili.

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Old Lady still dogged

by age-old suspicion

by JAMES HORNCASTLE (EUROSPORT.COM 30-10-2012)

"Clamoroso al Cibali" remains to this day one of the most memorable phrases uttered by a football commentator in Italy. It was said by the great Sandro Ciotti, his unmistakable gravel voice revealing to the listeners of 'Tutto il Calcio Minuto per Minuto' on June 4, 1961 that Catania, safe from relegation and with nothing to play for on the final day of the season, had quite miraculously opened up a 2-0 lead over Helenio Herrera's Inter, who, up until that moment, had still been in with a chance of winning the Scudetto.

Over half a century later, Ciotti's expression was adapted by the headline writers at Il Corriere dello Sport to "Scandaloso al Cibali" after Juventus' controversial 1-0 win away to Catania on Sunday afternoon. The visiting champions left the pitch at the final whistle to chants of "Ladri, Ladri, Ladri" - "Thieves, Thieves, Thieves." Their directors had been insulted in the stands. Assistant coach Angelo Alessio, standing in for the suspended Antonio Conte, was then "besieged", in the words of president Andrea Agnelli, by incensed local journalists in the post-match press conference.

What in the name of Calcio had provoked such fury?

To understand the reaction it's necessary to return to the 26th minute of the first half. Catania full-back Giovanni Marchese whips in a cross from the left-hand side. His team-mate Nicolas Spolli flicks it on with a header and sees Francesco Lodi manage to get a touch to improbably direct the ball towards goal. Scrambling across his line, Juventus goalkeeper Gigi Buffon sees it come back off the far post and into the path of Catania's onrushing striker Gonzalo Bergessio who, leaving his marker, Kwadwo Asamoah, makes no mistake and pokes it into the net to give his team a 1-0 lead.

Over on the touchline, Luca Maggiani raises his flag for a split second only to lower it again after seeing referee Andrea Gervasoni give the goal. Spotting his moment of indecision, the Juventus players in the away dug out and in particular Simone Pepe confront Maggiani on his way back to the half-way line for the re-start. Gervasoni comes across, as does Nicola Rizzoli, the official behind the goal, and an impromptu review is conducted in front of everybody.

After 45 seconds, the time it would take for an instant replay to validate their original decision, the Men in Black - or in this case fluorescent green - begin to doubt themselves and come to the wrong conclusion that Bergessio, clearly played onside by a dozing Asamoah, was in a non-existent offside position. The goal is disallowed and all hell breaks lose. Catania president Antonino Pulvirenti is by now apoplectic and, to compound his sense of injustice, is sent off for protesting.

Meanwhile, Juventus keep their heads when all about them are losing theirs and go in front in the 56th minute when Arturo Vidal follows up a Nicklas Bendtner shot, sweeping in a loose ball saved by the otherwise excellent Catania goalkeeper, Mariano Andujar. Replays showed that Bendtner was ever so slightly offside, his right leg planted just ahead of the last line of defence when receiving a through ball from Mirko Vucinic.

Unlike the first major incident, it was a close call, perhaps too close to be detected by the naked eye amid a flurry of movement. Marchese's second yellow card 10 minutes later, even if it was perfectly justified, only added to the feeling that, whatever they did, however they tried, they just weren't meant to beat Juventus.

Reflecting on the match, Catania had every right to be aggrieved, but not every decision went against them. In some respects, they might consider themselves to have been quite lucky. Juventus had a case for a penalty when Nicola Legrottaglie brought down Giorgio Chiellini in the first half. He arguably should have been sent off later on for a foul on Sebastian Giovinco, who had been through on goal. Spolli also went unpunished after appearing to strike Paul Pogba in the face, a red card offence, which also took place in the area.

Of course, any pursuit of balance didn't fit the narrative. This supposedly was "Vecchia Juve", the Old Juventus: one rule for them, another for the rest - in short, a grand conspiracy. "It's the death of football," Pulvirenti insisted. According to him, "Juventus' bench disallowed the goal." Not finished, he claimed that this was "more than 'sudditanza psicologica'," the subconscious instinct referees appear to show in favouring a big club over a small one. "What must we to do to play against Juventus? I thought that certain times were over, but it's not like that."

Pulvirenti's conviction that something other than human error lay behind the refereeing mistakes only grew after it was brought to his attention that there was a page on Facebook in Maggiani's name with a Juventus emblem on it. The AIA, Italy's referees' association, released a statement insisting that it didn't belong to the linesman in question, that it was a fan page, not a personal profile, and even threatened legal action against anyone who claimed otherwise. Maggiani, in the meantime, came out, held his hands up and admitted he had made an honest mistake in disallowing Bergessio's goal.

However, the damage had been done. Pulvirenti, taking issue with Juventus' general manager Beppe Marotta for saying that whether the goal had stood or not ultimately didn't matter because the champions would have won anyway, countered that, if he were so sure, why not re-play the game.

Marotta's logic wasn't without its flaws. True, Juventus are unbeaten in 48 matches, but while they should have scored more than one against Catania and failed to do so because of a mix of poor finishing and Andujar's goalkeeping heroics, he couldn't guarantee a win. Juventus fell behind against Shakhtar and Nordsjælland and could only draw, so who's to say if Bergessio's goal had not been scrubbed off, Catania wouldn't have claimed at least a precious point?

Sunday's events brought up a couple of themes that are worth exploring further. The first regards how persisting without technology is absurd. "The only one 'condemned' not to know, to make decisions in the dark, to get it sensationally wrong, do you know who it is?" asked La Repubblica's Alessandro Vocalelli. "The man who has to make the decisions: the judge, the referee! Does all this seem normal to you?" Not in the 21st century, no, and especially not in a country where decisions are as scrutinised and subject to suspicion as in Italy.

The second thing to discuss is how Juventus are perceived six years after Calciopoli. Talking to Sky Italia on Monday, Agnelli expressed his belief that the coverage in the aftermath of Catania-Juventus has been excessive and "makes you reflect on the hounding" of his club. There were several other refereeing mistakes at the weekend across Serie A — particularly in Lazio's 2-0 defeat to Fiorentina when they had a penalty denied and a Stefano Mauri goal wrongly disallowed, while Milan's 1-0 win at Genoa was sealed by a goal that should have been ruled out for offside.

It's fair to say, however, that none were treated with the same scepticism as those involving Juventus. Did Inter receive the same treatment a week ago when Catania were denied a penalty after Fredy Guarin mistimed a tackle on Alejandro Gomez in the penalty area? It raised eyebrows, sure, but nothing more.

This is the unfortunate but, to a certain extent, understandable legacy of Calciopoli, not to mention the longstanding tradition of mistrust - justified or not in other cases - relating to Juventus in the decades beforehand. Irrespective of the severe punishment served and the work Agnelli and others have done to restore Juventus' reputation, the stain left by the scandal remains tough to remove from the collective consciousness. Juventus have to live with it.

"The great illusion of 2006," wrote Roberto Perrone in Il Corriere della Sera, "is really this: to think that, with the Grande Vecchio [Luciano Moggi and his system of power] eliminated, the referees would no longer make mistakes or that the reverence towards top clubs would disappear."

Everyone sees exactly what he or she wants to see whether it's there or not. Just because it was there in the past, however, doesn't mean it's still there now. Even Inter president Massimo Moratti is prepared to go on the record and say: "I am convinced that the new Juventus has not been reorganised with that system."

It must also be said that Juventus' reputation post-Calciopoli has often counted against them with a number of decisions rather inexplicably not going their way. Forgotten amid the storm that followed Sulley Muntari's 'goal that never was' in the top-of-the-table clash with Milan last February were Conte's claims 10 days earlier that "referees are scared to give penalties in our favour." He found it "impossible" that "after 22 rounds at the top of Serie A there isn't a team, not until the Lega Pro, who has been awarded fewer penalties than us."

After Sunday's game, the magazine Panorama published a study, which sought to 'true-up' the league table, adjusting it to show where everyone would stand had there been no refereeing mistakes in their favour or at their expense. Surprisingly it found that, were it not for poor officiating, Juventus would be even further ahead at the top of Serie A with a five- rather than a three-point gap between themselves and Napoli.

To many, it's an inconvenient truth because it appears to demonstrate there's no falsehood in Juventus' position. Conspiracy theories will continue to be indulged ahead of Wednesday's visit of Bologna and Saturday's Derby d'Italia against a promising Inter side. They deserve credit for seeking to "lower the tone" in the build up. Both coach Andrea Stramaccioni and Moratti have said that they don't see anything sinister behind the decisions made in Juventus's favour at the weekend. "[The scandal] of 2006 was a ghastly stain," Moratti recalled, "I don't believe anyone wants to go back to that time."

Juventus would like to move on. Of course, whether they're allowed to put their past behind them or not remains to be seen.

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Petrucci: «Non esiste

la moviola in campo»

Il presidente Coni: «I club non alzino la voce sul tema. Idem

sulla giustizia». Braschi: «Sul fuorigioco tecnologia inadatta»

di FRANCESCO CENITI & MAURIZIO GALDI (GaSport 31-10-2012)

La moviola nel calcio può attendere. E forse, come Godot, non arriverà mai a dirimere questioni e polemiche. L'apertura dell'International Board alla tecnologia sul gol-non gol sembra al momento l'eccezione che conferma la regola. E la regola da anni è una: il fattore umano (gli arbitri per intenderci) fa parte del gioco, sbagli compresi. L'opinione pubblica, invece, vorrebbe nel Terzo millennio una apertura alla moviola in campo. La giornalaccio rosa ha ipotizzato di utilizzarla in tre situazioni: gol fantasma (esordio in Giappone nel Mondiale per club e poi altro test in Brasile con la Confederations Cup, ci sarà anche l'Italia), condotta violenta (tipo Zidane-Materazzi) e il fuorigioco per evitare altri casi Bergessio. Nel primo caso c'è già l'okay, nel secondo non è da escludere che se ne parli in futuro, sul terzo lo sbarramento è totale: da Braschi a Petrucci, passando per Abete.

Il no di Braschi Il designatore ha spiegato perché è inutile discutere sul fuorigioco, specie quando si parla di centimetri. Non solo, le argomentazioni portate sono un «no» indiretto anche alla moviola: «Per valutare il fuorigioco bisogna cogliere il momento esatto del passaggio. Chi ci assicura che il fotogramma tv immortala quell'istante? Basta uno in meno o in più e tutto cambia. Parliamo di centimetri. Quindi si dovrebbe mettere un sensore nel pallone che stabilisca senza dubbi l'attimo esatto. E mi sa che stiamo parlando di fantascienza... Quando un assistente è chiamato a decidere su distanze minime spesso lavora d'esperienza: fare le pulci è inutile. Bisogna capire che episodi come quello di Abate a San Siro o Bendtner a Catania non sono errori. Diverso è il caso di Bergessio: quella è una svista grave, di solito non le facciamo».

Petrucci e Abete Il presidente del Coni, Gianni Petrucci, rincara: «La tecnologia non mi può piacere dal momento che non c'è. La moviola non è possibile, quando sarà permessa si studierà come applicarla perché pure allora ci saranno discussioni. Per il gol fantasma la Figc ha introdotto gli arbitri di porta. Cosa altro deve fare? Sta facendo il massimo con costi notevoli. Le società si mettano tranquille: devono rifare la governance e rieleggano i presidenti e non alzino la voce, non mettono paura a nessuno. Non solo, certi giudizi sulla giustizia sportiva formata da giudici da dopolavoro è meglio ritirarli. Ci sono seri professionisti: hanno agito ad alto livello avendo grandi responsabilità anche nella vita civile. Suggerirei un passo indietro ai presidenti: dovrebbero essere più umili. Il calcio non è l'Eden». Pensiero condiviso dal presidente della Figc, Giancarlo Abete. «La giustizia sportiva è di qualità: è in mano a professionisti. Dissenso legittimo purché ci sia il rispetto dei giudici».

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Replay: gli ostacoli

di Blatter e Platini

Ma è già stato usato

Da Fifa e Uefa opposizioni tecniche e politiche alla

moviola. Ma ricordate Zidane e la Confederations?

di FABIO LICARI (GaSport 31-10-2012)

Intanto una cosa: con Blatter e Platini ai vertici del calcio mondiale, per la moviola in campo non c'è speranza. Bene sapere che, al momento, trattasi di semplice teoria o discorso da bar. Bene ricordare che per una svolta servirebbe, prima, un cambio politico storico del quale ben pochi sembrano convinti (il presidente Fifa ha rivinto con il 92% dei voti, quello Uefa per acclamazione, le prossime elezioni sono nel 2015). E che l'unica concessione alla tecnologia sono gli strumenti (occhio di falco e goalref) per il gol fantasma. Almeno finché Blatter sarà il boss Fifa. Se Platini ne prenderà il posto — Blatter permettendo — potremmo aspettarci addirittura un passo indietro.

Perché «no» alla tecnologia? I due leader sono d'accordo nel non infrangere la «sacralità» del calcio. Le loro obiezioni più frequenti? 1) Il calcio non ha il tempo effettivo come il basket: come recuperare le interruzioni necessarie per mettersi davanti al video? Il gol non gol è passato perché garantisce, almeno sulla carta, la risposta in meno di un secondo. 2) Il calcio è un flusso. Mettiamo il caso limite: palla che sbatte sulla traversa e non si capisce se sia entrata o no; l'azione prosegue e la squadra che si difendeva va poi in gol. Che cosa fare? Andare al video, annullare la seconda rete e convalidare la prima? Surreale. 3) Il video riduce l'autorità dell'arbitro, unico che può/deve decidere in campo.

Moviola e potere Tra altre spiegazioni sociologiche (neanche la società è perfetta), antropologiche (il calcio piace perché resta lo stesso) e romantiche (decide l'uomo), di sicuro ce n'è una politica: la moviola toglie potere. Fosse stato per lui, Blatter non si sarebbe mai fatto coinvolgere nella storia della tecnologia sul gol fantasma. Poi la reazione violenta dell'opinione pubblica alla rete (non vista) dell'inglese Lampard, al Mondiale 2010, è stata come una folgorazione sulla via di Damasco. E infatti la tecnologia è stata approvata.

Tutti i problemi I problemi, in realtà, ci sono. E parecchi. 1) Chi giudica? L'arbitro chiamato al monitor o un giudice allo stadio in contatto audio con lui (come nel rugby)? 2) In che situazioni? Tutti i casi dubbi è impossibile: ci si dovrebbe limitare a falli da rigore, gol fantasma, fuorigioco, gioco violento. E se qualcuno dicesse: perché non la punizione dal limite? Il rugby giudica soltanto le mete dubbie; il basket il tiro (o il fallo) allo scadere, il canestro da 2/3 punti, se un giocatore è uscito dal campo, a chi tocca la rimessa. 3) Come si applica? C'è un dubbio in area, rigore o no? Si ferma il gioco? E se poi non è rigore che si fa, palla a due? 4) Chi produce le immagini? Un'agenzia indipendente, diversa dalle tv? 5) La tecnologia: sicuri — vedi il fuorigioco — che il «frame» tv dell'attimo della partenza del cross sia quello giusto? 6) E se l'immagine non chiarisse? Succede anche nelle varie moviole tv.

Moviola nascosta? Siamo sinceri: la moviola è già stata applicata, in silenzio. Al Mondiale 2006, per la testata di Zidane. E in Confederations 2009 quando Webb prima assegnò un angolo e poi rigore ed espulsione, per fallo di mano, in Egitto-Brasile dopo evidente imbeccata audio in 40". Il giorno dopo Blatter proibì il monitor in campo al quarto uomo. Tutto chiaro?

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laRovesciata di ROBERTO BECCANTINI (GaSport 31-10-2012)

Moviola? No grazie

siamo in Italia

conosco i miei polli

Molti la promuovono, io sono contro la

tecnologia. Tranne che per i gol fantasma

Tiriamole pure a fine stagione, le somme. In attesa del verdetto, cerco di rispondere alla madre di tutte le domande. Cosa si può fare per evitare gli orrori di Catania-Juventus o Chelsea-Manchester United? La risposta è secca: niente. Al Cibali c’erano un arbitro, due assistenti, due arbitri addizionali più il quarto uomo: totale, sei giudici. A Stamford Bridge c’erano un arbitro, due assistenti più il quarto uomo: totale, quattro giudici.

Non si può far niente, ripeto. A menodi non introdurre la moviola in campo, scenario che molti promuovono. Solo a parole, però: con la tv che traduce subito gli episodi sospetti, i teatrini fondati sulle zuffe verrebbero demoliti e così non pochi giornalisti si ritroverebbero in mezzo a una strada. Il tasso polemico precipiterebbe ai minimi storici: una noia pazzesca.

Sono contro la tecnologia, eccezion fatta per i gol fantasma. In questo caso, alla frenata di Michel Platini (evviva l’occhio umano) preferisco l’accelerata di Joseph Blatter (evviva l’occhio di falco). Solo per i gol fantasma. Punto. Siamo in Italia, mai dimenticarlo: chi riprende chi? e il regista di che partito è? e la parallasse? e i filmatini del giorno dopo che ogni società porterebbe a carico o discarico? Conosco i miei polli. Certo, resta singolare la riunione di condominio che gli sceriffi di Catania hanno tenuto dopo la rete di Bergessio. Quarantaquattro secondi. Più o meno il tempo che fu necessario ai quarti e quinti uomini della finalemondiale tra Italia e Francia per riesumare da un televisore clandestino la testata di Zinedine Zidane a Marco Materazzi e comunicarla al direttore di gara, Horacio Elizondo. Mi sovviene il gol di Maurizio Ganz in Inter-Juventus del 9 marzo 1997, arbitro Pierluigi Collina. Convalidato, «protestato » (da Ciro Ferrara, soprattutto), annullato: Ganz era in fuorigioco. E poi il braccio-rete di Miroslav Klose nell’ultimo Napoli- Lazio. Luca Banti aveva indicato il centrocampo. Furono gli schiamazzi dei giocatori partenopei, alla Pepe, a «convincere » il tedesco. La differenza, rispetto al pasticcio di domenica, è che in tutti gli episodi citati— Ganz, Zidane, Klose—le correzioni non provocarono una topica: la evitarono.

Come non basta cambiare Stefano Palazzi per cambiare la giustizia sportiva (io, comunque, l’avrei già cambiato), così non basta moltiplicare gli arbitri per migliorare l’arbitraggio. Studiando la postura dei giudici di linea — gambe divaricate in posizione ovarola, busto piegato in avanti — un grande giornalista amico mio li ha definiti «arbitri coccodè». Ogni tanto ci azzeccano, ogni tanto no. Costano. L’esperimento del doppio arbitro, caro a Giampiero Boniperti, non ebbe seguito. Vediamo, adesso, come va a finire con gli «addizionali». Non vorrei che, nelle decisioni, l’equipaggio sfrattasse il comandante. E la quantità scalzasse la personalità: a proposito di requisiti cruciali, eccone uno.

Fuor di ipocrisia: per una scelta esatta, saremmo disposti ad attendere anche un minuto, e persino la soffiata di un video rubacchiato, come a Berlino. In caso contrario, o si rigioca (alla Pulvirenti) o si convive con l’errore (all’inglese). E già che ci siamo, perché non (ri)giocare anche Cagliari-Roma? Questa sì sarebbe un’idea.

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Dialoghi di LUIGI CANCRINI psichiatra e psicoterapeuta (l'Unità 31-10-2012)

A proposito della sudditanza psicologica

Sento spesso ripetere alla radio o in tivù da dirigenti sportivi che alcuni arbitri soffrono del complesso di sudditanza psicologica. Il termine complotto viene solo sfiorato, perché passata la rabbia per un torto subito, le affermazioni tornano più serene. Tuttavia quando si incontrano una squadra titolata e una squadra che fatica a salvarsi, le decisioni arbitrali lasciano spesso interdetti. E la moviola in campo è per ora solo un’idea...

FABIO SÌCARI

La sudditanza psicologica c’è. La statistica degli errori più evidenti, quelli che non lasciano dubbi nel momento in cui la moviola li analizza, dimostra in modo incontrovertibile che arbitri, guardalinee e ora arbitri di porta sbagliano quasi esclusivamente a favore (e mai a sfavore) delle squadre più forti o più protette: in campo e fuori. Come ben dimostrato a Catania dal fatto che i giocatori in panchina della Juventus hanno potuto alzarsi dalla panchina e attorniare il guardialinee «reo» di non aver segnalato un fuorigioco senza che nessuno degli arbitri intervenisse contro una modalità di protestare che non è concessa a nessun altro giocatore. Di A, B, Liga o Premier. Invece di annotare il nome sul taccuino e di segnalarlo a chi di dovere, infatti, arbitro e segnalinee hanno ritenuto di doverli ascoltare chiedendo lumi a chi, arbitro di porta, non era in posizione di poter giudicare un fuori gioco ma ha giudicato: per accontentare o calmare la protesta bianconera. La domanda che nasce da un episodio di questo genere a questo punto è molto semplice: come si fa a non capire che la moviola in campo sarebbe utile a prevenire la violenza molto più di tutte le complicazioni legate alla tessera del tifoso?

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Che tristezza il lunedì senza polemiche

La moviola in campo chiuderà il «Bar Sport»

di TOMMASO LORENZINI (Libero 31-10-2012)

Sì, per un’industria come il calcio italiano che, benché apparecchiato come una scalcinata pizzeria, fattura comunque 1,55 miliardi di euro all’anno, è venuto davvero il tempo della tecnologia. Moviola, instant replay, occhio di falco diventeranno i guardiani della rivoluzione, dell’integrità intellettuale, tireranno una riga netta fra il giusto e lo sbagliato, un fischio deciso fra il dentro e il fuori, fra il “gol” e il “non gol”. Perché, in effetti assistere a uno Juventus- Napoli che mette sul campo 400 milioni fra giocatori e stipendi e saperli in balìa di sei signori che durante la settimana fanno i fisioterapisti, i giardinieri o gli elettricisti, e ladomenica si vestono da sgargianti stradini, qualche piccolo moto d’animo e offesuccia spicciola lo provoca.

Dunque siamo tutti d’accordo, ci vuole la tecnologia: risolverà tutti i mali, ci darà la certezza del tifo, la sicurezza che possiamo scommettere senza venire derubati. Sarà un campionato regolare, rego- la-re: fa impressione a pensarlo, figuriamoci a scriverlo o pronunciarlo. Perdonate la lacrimuccia. Finalmente Aldo Biscardi potrà andare in pensione, come un supereroe rimasto da solo in un mondo senza più cattivi. E come lui a casa anche Pistocchi, Tombolini e Paparesta, su Carlo Sassi e Carlo Longhi scenderà il giudizio della storia e l’oblio dell’RVM.

Improvvisamente però scopriremo che la domenica sera non avremo più la scusa per stare sul divano fino alle due di notte per scolarci qualchebirra ed evitare diandare aletto con la moglie;nonci saranno più i carnevaleschi teatrini sulle tv private, non avremo più la soddisfazione di urlare da soli insultando lo schermo del televisore. Ed entrando al bar, il giorno dopo, non ci sarà più nessuno a sbattere i pugni sul bancone o accapigliarsi con la Ġazzetta in mano perché quel ċornuto dell’arbitro non ha visto il fuorigioco e il gol andava annullato: il campo ha già parlato e ha parlato bene la sera prima, perdio. Ve lo immaginate, voi, incontrare i colleghi e discettare di «zona pressing attiva», «diagonale», «azione ritardatrice », invece di gridare loro un liberatorio «ladri»? Noi no. Sarà anche la soluzione, ma “grazie” alla moviola il lunedì sarà ancora più insopportabile.

Modificato da Ghost Dog

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Mark Clattenburg case made

harder by lack of film evidence

by GARY SLAPPER (THE TIMES 31-10-2012)

In legal disputes it is sometimes simply one person’s word against another’s, and the side with the most believable story wins.

The latest football row looks set to fit that bill. The Metropolitan Police have begun an investigation into alleged comments by Mark Clattenburg, the referee, to two Chelsea players. It joins several cases in recent times involving raging disputes about what was said or meant on the pitch. Luis Suárez, the Liverpool striker, was penalised with an eight-match ban when an FA disciplinary panel found him guilty of racially abusing Patrice Evra, the Manchester United defender, last season.

The truth is that short of wiring every player for sound and recording everything, there is no way that football can exclude all disputes about what is said on the pitch. The rules of the game and the law are both clear, so ultimately the best solution to a bitter quarrel is the one that exists: to let a law court or FA panel decide whom to believe after listening to all the evidence.

The Clattenburg case is a potentially explosive matter as the alleged remarks concern inappropriate language and, specifically, racist language. If the allegations were proved, it would ruin the career of a referee commonly regarded as one of the best in the country — Clattenburg refereed last season’s League Cup final, and the Olympic final.

Clattenburg denies the allegations and his officials, who could hear all his remarks through their earphones, back him. Several Chelsea players, however, reportedly corroborate the allegations.

The row will immediately trigger comparisons to the case of John Terry in which conflicting accounts about what was shouted on the pitch were examined in formal hearings. Terry was acquitted of a criminal charge for which it was necessary to prove his state of mind when he spoke. Later, though, he was given a four-match ban and a £220,000 fine by the FA for using abusive or insulting language in a racial way, violating FA Rule E3 (2) — misconduct for which it is not necessary to determine why a person used racist language.

Evidentially, the allegations made against Clattenburg are more problematic than those in the Terry case because there is apparently no relevant film of what, if anything, was said.

In law, there is a complex body of rules concerned with what evidence is admissible and how it can be used. Hearsay evidence where a “witness” did not directly see or hear something important but was informed of it by another person, is generally excluded. Applying the rules of evidence rigorously, and allowing an accused person full opportunity to present their case and to try to discredit their accuser’s case, is the safest way to get to the truth.

In this process, all participants have equal status — no one stands on a pedestal of credibility by virtue of any special status they may occupy such as being a captain or even a referee. It is also not a case of who has the most witnesses. It is important that the evidence is evaluated in the round — as Lord Chief Justice Kenyon said in 1800, witnesses “are not to be numbered but weighed”.

The Clattenburg case will now be scrutinised by millions of people. It involves two of the most popular teams in the world, an allegation of the international problem of racism and the integrity of a world-class referee. It is essential that the case is processed with unimpeachable fairness and due process.

These concerns recall the hallowed dictum of Bill Shankly, the Liverpool manager, in 1973. He said: “Some people believe football is a matter of life and death. I’m very disappointed with that attitude. I can assure you it is much, much more important than that.”

Gary Slapper is Global Professor of Law at New York University, London.

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It is a fallacy to expect 100

per cent certainty in officiating

by MATTHEW SYED (THE TIMES 31-10-2012)

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False positives. They are the bane of medical screening, military intelligence and, to judge by the astonishing reaction to Mark Clattenburg’s decision to issue a second yellow card to Fernando Torres on Sunday afternoon, Premier League football referees.

It is difficult to remember a response so tinged with vitriol. Even abstracting from the allegations of racism made against Clattenburg, this was arguably the most attention directed at a refereeing decision in English football since Wayne Rooney was awarded a penalty against Arsenal in the infamous “Battle of the Buffet” game in 2004.

At least one pundit has described Clattenburg’s performance as the worst in Premier League history. Presumably, this was almost exclusively because of the Torres decision given that the other significant controversy — the goal by Javier Hernández, which ought to be have been disallowed for offside — was the responsibility of an assistant referee. On the other significant decision — the sending-off of Branislav Ivanovic — Clattenburg was widely considered to have got it right.

The stakes were high, of course. United and Chelsea are two bona fide title contenders and, even this early in the season, the three-point swing could have defining implications. There was also a sense of injustice, given that Chelsea had played with verve to battle their way back from two goals down, and were dominating possession. It seemed that the momentum was on their side.

But what seems to have really got people’s goat is that Clattenburg made a decision of such magnitude without being certain. He was not 100 per cent sure. It wasn’t a nailed-on decision or, to use the curious terminology conventional in football, a stonewall sending-off. Clattenburg was — wait for it — guessing. Gambling. Playing fast and loose. Indulging in Russian roulette with Chelsea’s title hopes. You get the idea.

But 100 per cent is some threshold, isn’t it? John Terry was acquitted in court for what many thought was a nailed-on crime with a far lower standard of proof.

O. J. Simpson ditto. One hundred per cent presumably means a referee is so certain that he would be prepared to jump off a cliff to defend his decision (which many Chelsea fans are hoping Clattenburg will do). In a game as fast and furious as football, where decisions are split-second, that is an absurdly high bar.

It is worth saying, before going on, that Torres did not dive. The refereeing lobby has been quick to point out that the guidelines to Law 12 allow a yellow card to be given for simulation even when there is contact provided that the fall is exaggerated. But Torres didn’t exaggerate, either. The contact from Jonny Evans, although slight, was sufficient to cause a man moving at speed to hit the deck. Clattenburg simply got it wrong.

But contrast the reaction to his mistake with decisions that have gone the other way. Rooney, in that “Battle of the Buffet” match, was awarded a penalty where no discernible contact had been made by Sol Campbell. United scored from the spot and the Invincibles crumbled. Or take any other dive that has conned the referee, whether Gareth Bale against Arsenal in February, or Danny Welbeck against Wigan in September, or, to go farther back, Michael Owen’s classic against Argentina at the World Cup in 1998.

All these incidents had consequences, too. Of course they did. Footballers do not dive for fun, or to audition for acting school. They do so to gain an advantage. And they persist in doing so because it often works. But how often does a referee who wrongly awards a foul receive the kind of abuse endured by Clattenburg, who wrongly awarded a dive? It simply doesn’t happen. We are too busy castigating the player who has done a Tom Daley impersonation.

But consider the consequences of this. If a referee knows that he is going to be harangued for a false positive (wrongly awarding a yellow card for simulation) but not for a false negative (wrongly awarding a foul when there is a dive), is it any wonder that diving is so prevalent? We cannot have it both ways. We cannot ask referees to clamp down on diving (as they have been asked to do) and then be surprised when their vigilance leads to the occasional mistake. At the very least, we must weigh the injustice of Clattenburg’s mistake against the yellow cards handed to divers who might otherwise have gone unpunished. According to the Premier League, there have been six yellows for diving this season, far more than at the same stage last season.

But this brings us to a deeper issue. At one time, the ability of a referee was measured by stopping play every time the whistle was blown to see whether he had got the decision right. A friend of mine conducted an experiment of this kind and found that referees were, on average, about 90 per cent accurate.

The Premier League has claimed a similar figure. But the problem with this method should be obvious. Less than half the decisions are being tested.

Referees do not merely make decisions when they blow the whistle. They also make decisions when they wave play on: when they judge that a particular challenge is not a foul; when they rule that the ball has not quite crossed the goalline; when they decide that a player falling in a heap has not engaged in simulation. Every time a referee fails to penalise, the game has been influenced.

This demonstrates another reason why 100 per cent certainty is so silly. It is not just that it requires a level of proof that would scare Descartes; it is also that it would have consequences that, if implemented fully, would destroy football. The whistle would be virtually silenced, providing huge incentives to foul and dive. Every kind of infraction would soar. Rather than the judicious scenario imagined by those who like refereeing certainty, there would be anarchy.

And this is why, for all the stick given to Clattenburg, football would be ill-served by risk-averse referees, fearful of making tough decisions for fear of retribution. Paranoid of awarding a foul unless the attacker is already halfway to A&E.

Fearful of being judged for the decisions they make, but oblivious to the decisions they do not make. Afraid of being judged for false positives, but not for false negatives.

Clattenburg caused an injustice on Sunday. But it would be a far greater injustice if referees dared to issue yellow cards, or second yellow cards, only when they are 100 per cent sure.

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A tu per tu di MATTIAS MAINIERO (Libero 01-11-2012)

Juventus: trenta senza lode

Noto, con disappunto, il risalto che riservate a lettere velenose nei riguardi della Juve. Se poi si aggiunge che nelle pagine dello sport, della Juventus si parla poco o quasi solo per evidenziare alcuni aspetti negativi, si deduce che il vostro quotidiano (che è anche il mio fin dal primo numero) si dimostra molto di parte. Io sono juventino dal 1946 e accetto le critiche purché le stesse siano equamente distribuite, ma così non è nel vostro caso.

Alessandro Maramotti

e.mail

Beh, di solito le rubriche di posta funzionano in modo molto semplice: i lettori scrivono e i giornali, se le lettere non sono offensive o campate in aria, pubblicano, tentando di dare spazio ai vari argomenti e alle varie firme. Evidentemente, alcuni lettori (non noi) non gradiscono certe decisioni arbitrali o certe prese di posizione e se ne lamentano scrivendoci. Se non pubblicassimo quelle lettere, sarebbe censura. Non va. Se le pubblichiamo, siamo antijuventini, anche se non lo siamo, come non siamo antimilanisti o antinapoletani. Mi dica lei: dobbiamo sbagliare nel primo o nel secondo modo? Scherzi a parte: nulla contro i bianconeri. Anzi, dopo la storia di Conte, personalmente anche una certe vicinanza. Ma la verità, forse, è un’altra. Ennio Flaiano diceva che gli italiani salgono sul carro del vincitore. E aveva ragione. Doveva aggiungere, però, che una volta a bordo non se ne stanno buoni. Prima si accomodano beatamente. Poi si presentano al guidatore facendogli mille complimenti. Poi sgomitano per conquistare un posto migliore. Poi prendono il guidatore e lo gettano giù dal carro. A noi italiani piace chi vince, ma non gli perdoniamo di aver vinto. E così gliene diciamo di tutti i colori, anche per non precluderci l’amicizia di eventuali vincitori futuri. Siamo un popolo complicato, e poco riconoscente. La qual cosa vale per la Juve e per tutta la storia nazionale. E, comunque, anche se juventino, deve ammettere che la Juve ci ha messo un po’ di suo: continuare a ripetere, in tutte le sedi, che gli scudetti vinti sono “trenta sul campo” sa tanto di guerra santa. E qualche lettore non ci sta. Le polemiche, caro Maramotti, vivono di polemiche. Nel calcio più che altrove. E andare alle crociate è lecito. Nel conto, però, bisogna mettere la possibilità di ricevere qualche fendente. Va bene il trenta, se agli juventini piace. Pretendere anche la lode (per giunta dai tifosi di parte avversa) è un po’ eccessivo.

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JONATHAN BACHINI

«Datemi un’altra chance

Vorrei allenare i ragazzini»

Radiato a vita per cocaina, l’ex centrocampista di Juve e Brescia è senza lavoro

«Ho strapagato i miei errori, per i colleghi sono morto. Ma qualcosa posso insegnare»

di LUCA CARDINALINI (Pubblico 01-11-2012)

Tra il sogno e l’incubo, a volte, ci sono solo pochi centimetri di distanza. Oggi sei un calciatore famoso, con decine di presenze in serie A e addirittura due in Nazionale, domani sei licenziato, emarginato, buttato giù per sempre dal palcoscenico. Niente più applausi, gli occhi della gente diventano coltelli affilatissimi. «Forse è stata questa la cosa più dura, lo sguardo della gente comune, quella che fino a ieri ti osannava e ora ti giudica. Gli occhi erano gli stessi, tu eri lo stesso, eppure tutto era cambiato».

A 37 anni, Jonathan Bachini, ex centrocampista di Udinese, Brescia, Juventus, è un uomo in cerca di un futuro. All’apice della carriera è caduto due volte, positività alla cocaina. La pena è una manna: nove mesi la prima volta a Brescia, radiazione la seconda volta a Siena. Rescissione immediata del contratto, in entrambi i casi. La strada come approdo. «Mai avuto problemi di dipendenza. La prima volta non assunsi la sostanza volontariamente, la seconda sì, fu un mio errore, ammisi tutto subito».

Nella giustizia ordinaria chi collabora ha diritto a uno sconto di pena.

Io no.

Ha presentato domanda di grazia alla Figc, cosa ti hanno risposto?

Che non dipende più da loro. Forse ci vorrebbe il parere positivo della Wada, l’Agenzia mondiale anti-doping. L’impressione è che non vogliano creare un precedente, forse pensano che potrei rovinare l’immagine del calcio italiano, che un bambino non capirebbe. Ma qui non capisco io.

Cosa?

Per un bambino un calciatore di serie A è un idolo e un esempio, se lo diventi in negativo il danno è doppio. Mi chiedo però cosa possa pensare, quello stesso bambino, quando va allo stadio e vede giocare gente che due mesi fa era sui tg mentre veniva arrestato.

Si riferisce a qualcuno in particolare?

Non mi va di fare i nomi, ma ci vuol poco a capire. Non ce l’ho con nessuno, ma chi danneggia più l’immagine del calcio?

Saldato per sempre i conti con Bachini, il calcio nel frattempo non si è fatto mancare niente, in campo e soprattutto fuori: partite truccate, vendute e comprate.

Vedo che pentiti rei confessi di aver venduto e comprato partite, sono stati puniti con pochi anni di squalifica. Per me c’è stata la radiazione, fine pena mai, nessuna luce in fondo al tunnel. Eppure non ho alterato partite, non ho ingannato né società né colleghi né scommettitori, ho fatto male solo a me stesso e ho strapagato i miei errori. Che non possa avere un’altra chance, è atroce oltre che ingiusto.

Solidarietà ricevuta dagli ex colleghi e alleantori?

Nessuna, nemmeno una telefonata per sapere: Jonathan sei vivo o morto? Sono vivo, comunque.

Proprio nessuno?

Basterebbero le dita di una mano. Qualche volta mi sono incontrato, casualmente, con alcuni di loro, con i quali ho condiviso gioie, dispiaceri, spogliatoio. Hanno abbassato la testa, girandosi dall’altra parte.

E dalle società?

Silenzio assoluto. Da loro mi aspettavo una forma di aiuto, di non essere abbandonato in mare aperto. Sapevano che ero in difficoltà di ogni tipo, mi serviva una mano per aggrapparmi e provare a rimettermi in piedi.

Ha chiesto aiuto?

No, e forse questa mancanza di umiltà mi ha fregato. Ma se so che tu, mio amico, sei in difficoltà, non aspetto la richiesta di aiuto, mi muovo per primo, ti anticipo.

Come hai vissuto in questi sei anni?

Lavoretti saltuari, collaborando qua e là con parenti e amici, ma è dura. Fondamentalmente non so fare niente, tranne giocare a calcio. I problemi sono stati di ordine psicologico, economico, di identità. Sono tornato a Livorno, ma è difficile e strano reinserirsi nella tua città.

In che senso?

Il cognome può diventare un peso, se cerchi un lavoro. Ti stanchi a sentirti dire: «Ma non eri quello che giocava in serie A?»

È caduto nella depressione?

No, per fortuna. Grazie alla mia famiglia che mi è sempre stata vicina, dai primi calci a questi ultimi, che ho ricevuto in bocca.

Mai più stato allo stadio?

Poco. L’ultima volta lo scorso anno, qui a Livorno, dopo la tragedia del povero Morosini. Grazie a Calori, allenatore del Brescia, un amico, giocavamo insieme nell’Udinese di Zaccheroni, mi ha regalato un biglietto gratis.

Zaccheroni, Baggio, Giannichedda... mai più sentiti?

Mai. Strade diverse, ci sta.

Molti suoi colleghi stanno affermandosi come allenatori, commentatori. Quali sentimenti prova nei loro confronti?

Non invidia. Sono contento per loro.

Cosa le manca di quel mondo?

Il momento in cui sbuchi in campo dagli spogliatoi e vedi 30-40 mila persone sedute ad aspettarti.

Più in alto sei e più ti fai male, quando cadi.

È così nella vita, quindi anche nel calcio.

Le è rimasto qualche sogno?

Mi hanno tolto tutto, soldi, fama, divertimento, identità, ora basta. Vorrei tornare al mio mondo, che mi ha dato tanto ma al quale ho dato tanto anche io. Mi piacerebbe allenare, cominciando dai ragazzini.

Ma un allenatore è anche un educatore. Pensa di essere all’altezza?

Certo, sia livello calcistico che morale. Anzi, proprio la mia esperienza di vita servirebbe da monito ai più giovani, avrebbero la dimostrazione vivente di come il sogno può essere raggiunto e svanire da un giorno ad un altro.

Lo scorso anno ha allenato l’Atletico Saviano, una squadra di Livorno che gioca in terza categoria.

Davo una mano ad un mio amico. Era più una cosa per stare insieme che altro, davo consigli, mi tenevo in forma. La domenica però andavo in tribuna.

Ha più rimpianti o rimorsi?

Rimpianti no. È andata così, ho sbagliato e ho pagato per i miei errori. Non sfuggire alle proprie reponsabilità, quando arriva il conto, ti fa crescere.

Chi è passato in storie simili alla sua, sa delle cento notti in bianco passate a dirsi che si darebbe qualsiasi cosa pur di tornare indietro, per non rifare quell’errore che ha fatto deragliare la vita. Quante volte ci ha pensato?

Tante volte, tante volte... Ma non serve, per fortuna sono uno abituato a guardare sempre in avanti.

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Lo stadio

Arriva l’Uefa:

il San Paolo verso l’agibilità

Decisione Atteso l’ok dopo il sopralluogo fissato due giorni prima del Dnipro

di DARIO SARNATARO (IL MATTINO 01-11-2012)

Pioggia, ritardi ed eccesso di zelo hanno reso il sopralluogo Uefa al San Paolo una lunga maratona. Una maxi-ispezione con esito abbastanza positivo anche se la parola definitiva è attesa il 6 novembre, due giorni prima di Napoli-Dnipro. I delegati dell'organismo europeo sono arrivati a Napoli, a causa di ritardi aerei, solo nel pomeriggio e hanno iniziato la verifica dello stato dei lavori richiesti soltanto alle 18. Tante le interruzioni del «giro» dello stadio, a causa della pioggia torrenziale che ha reso a tratti impossibile il sopralluogo, stante anche la scarsa luce. Dopo quasi quattro ore di ispezione, alla quale erano presenti anche il dirigente del club Alessandro Formisano, il responsabile organizzazione gare Luigi Cassano e i tecnici del Comune, i delegati hanno appurato l'inizio dei lavori ed anche l’adeguatezza del progetto volto a rendere il San Paolo sicuro in pochi giorni.

Il sopralluogo ha verificato dunque lo stato dei lavori iniziati di fatto solo martedì mattina per i soliti problemi burocratici. Il via libera del Comune è infatti arrivato lunedì con l’approvazione da parte della Giunta dei fondi - 109mila euro - per il progetto di ristrutturazione. Il Napoli anticiperà i soldi che poi saranno defalcati dal credito che l’amministrazione comunale vanta nei confronti del club per i canoni d’affitto non ancora versati. La buona notizia è che la società azzurra gestirà direttamente i lavori, con turni di lavoro programmati anche di notte per velocizzare i tempi. Martedì mattina la ditta assegnataria ha già iniziato a sistemare i ponteggi e a spicconare gli intonaci finiti sott’accusa dall’Uefa. Quelli pericolanti saranno sostituiti a tempi di record. Il 6 novembre è il termine ultimo entro il quale concludere i lavori.

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Box office status doesn’t

put you above the law

Like bankers and TV celebs, football’s giants have cultivated

an aura of impunity. But wealth won’t protect you for ever

by DAVID AARONOVITCH (THE TIMES 01-11-2012)

I have some ugly prejudices and one of them is against Chelsea Football Club. So when, last weekend, Chelsea made a formal complaint charging that the referee in the match they had just lost to Manchester United had racially abused one of their players, my reaction was one — to say the least — of scepticism.

Referees, unlike Premier League players, are not famous for handing out abuse on the pitch. And Mark Clattenburg, the official concerned, had, an hour or so before the complaint, infuriated Chelsea people with a sending-off that produced the most vitriolic response. I experienced it as a listener to Radio 5’s football phone-in programme, 606. The cold, constant dribble of partisan complaint seeped under the studio door and inundated the airwaves. I felt clammy just listening to it.

But that wasn’t the main reason why my starting assumption was that the accusations were false. The biggest of those was that several people, including two players and a club official, had only recently been — in effect — accused of mendacity by the Football Association itself in the matter of the England captain John Terry.

Terry, you may be unlucky enough to recall, was charged with racially abusing an opposition player in a match last season. His defence was that the words he was caught using on camera were, in fact, a repetition and forceful denial of something that he had been wrongly accused of saying. He was later backed up in this William Brown version of events by his fellow Chelsea and England player Ashley Cole. Although Cole had appeared substantially to change his story over time, the Chelsea club secretary, David Barnard, entered a witness statement to the effect that Cole’s account had remained essentially the same.

The FA’s 63-page judgment in the Terry affair is a shaming document for Chelsea. Refusing to be cowed by Terry’s acquittal in a court of law, the FA established that Terry’s story was “implausible and contrived”. It pointed out that he had lied before — weeks earlier — concerning a deliberate foul on a Barcelona player. It showed conclusively that Cole’s evidence had “evolved” dramatically to suit Terry’s version of events and said of the Chelsea club secretary that “all of this causes the commission to have very real concerns about the accuracy of Mr Barnard’s recollections, and the motivation for the assertions that he makes in his witness statement”.

Bloody hell. As John Terry probably would not say. And this is the outfit now complaining about Mark Clattenburg, I thought. The people who, according to Terry in his eventual statement of apology, he wanted to thank for their “support” through the process of discovering that he had used racial abuse and then dissembled about it — a process that their actions had helped to prolong.

Prejudice shouldn’t really guide me, let alone the authorities. I have to admit that once a player had made a complaint about the referee, Chelsea may have had little choice but to seek an investigation. Although I don’t quite see why clubs must adopt the default position that their own players are always right.

My point here is rather about what appears to be the mentality of Messrs Terry, Cole and Barnard. Cole himself famously tweeted abuse about the FA after its decision — an act that earned him a £90,000 fine, which is what he earns by half-time in any given match. And it’s a point about the mentality of many fans on their behalf.

It appears to be an attitude of contempt for referees, officials, the law and anyone else who may thwart or criticise them or hold them to account. It is, in short, an assumption of impunity. And I hardly need to say that, in this assumption Chelsea — one of our two wealthiest clubs, by reason of zillionaire ownership — is far from being alone.

I don’t believe that John Terry cared much what the court thought, what the FA thought, what the rest of us thought. Incredibly wealthy, hugely famous and enjoying almost automatic support from his employers as long as he played well, as long as his golden goose continued to lay, why should he worry?

In this one way alone — the implied and correct belief that his fame and importance somehow indemnified him from the consequences of his actions (“let’s draw a line under it”) — the John Terry business reminds me of the Jimmy Savile affair.

In a fascinating article in this week’s London Review of Books Andrew O’Hagan recalls how Savile first came to be used by the BBC. Reading The Story of Top of the Pops, O’Hagan came across an account by Johnnie Stewart, the producer of the paleolithic BBC pop show Juke Box Jury of a discussion, on the employment of Savile. “I wanted to use Jim as a bit of variety to give David Jacobs a little break. My boss at the time, the late Tom Sloan, said: ‘I don’t want that man on the television.’ I said: ‘Sorry baby, but that man is box office. In his own sweet way — boy is he box office.’ ”

The sweet way to the stars’ dressing room and the nurse’s home goes by way of the box office. Money and enchantment create what Freud called the “negative hallucination”, in which you hallucinate that you can’t see things that in fact are plainly there. When the bright boys of financial institutions began slagging off their own customers and selling tainted products, their reward was a bonus from the boss and shut-eyed indulgence from a society that thought it was getting richer.

When Piers Morgan, arguably one of the most conscienceless figures in modern British culture, pitched up on video in front of the Leveson Inquiry, he treated it with a contempt that he could well afford. What difference had his misdemeanours made to his career? He was still box office. We still switched on his programmes, advertised in his breaks.

I had a discussion yesterday with a good friend who knows a lot about stardom. I wanted to convince him that the receding tide of wealth and the lust for transparency would uncover, expose and eventually dry out the culture of impunity. And he said he thought that our desire for magic, our need to be dazzled, would keep us hallucinating for ever. Believing what we want to believe, seeing what we need to see. In the end, as in the case of Mr Clattenburg, I had to admit that I can’t possibly know.

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Mi pare che...

La strategia di Moratti

per vincere il derby d’Italia

di LUCIANO MOGGI (Libero 02-11-2012)

Juve-Inter è la sfida tra le due principali candidate allo scudetto. Nell’occasione l’incommensurabile Massimo Moratti ci ha infilato per tempo, ancor prima del turno infrasettimanale, un richiamo tutto pro domo sua ai fatti del 2006, rimuovendo ovviamente tutti gli obbrobri emersi a carico dell’Inter. Dalle telefonate sparite (ricordate quando il pm Narducci disse «Piaccia o non piaccia non ci sono telefonate dell’Inter»?), alla requisitoria di Palazzi quando il procuratore federale, ravveduto ma fuori tempo massimo, indicò gli estremi dell’illecito sportivo a carico del club e dei suoi dirigenti, e Moratti fece l’offeso gridando «non ci sto», «le conclusioni sono stupide». Ma non rinunciò alla prescrizione.

E adesso? Recentemente intervistato dalla Rai ha invece detto che la giustizia sportiva va bene cosi (ci mancherebbe). Dostoevskij ebbe a dire: «Dopo i 40 anni ognuno è responsabile della faccia che ha» e Moratti i 40 li ha superati di gran lunga. Va chiarito, per i lettori, che c’è un tempo entro il quale debbono concludersi le indagini e quel tempo fu superato a misura, rendendo impercorribili gli effetti consequenziali (per illecito la pena automatica è la B) ma non cancellandone il peso morale. È qui che Moratti sbaglia, dice che non bisogna dimenticare il 2006, «quella macchia spaventosa»; è così, ma non alla sua maniera, non la sua verità ma quella reale, venuta fuori pure dal processo Telecom.

Chi si rivede

Non è bastata la sentenza Vieri a ricordarglielo? Gli presenteranno il conto con altre richieste di risarcimento. Fu lui a ordinare - così detto a verità giudiziale da Tavaroli e Cipriani - le spiate e i dossier illegali, quando cercava un alibi alla sua incapacità di gestione dell’Inter: e attenzione che quelle spiate - sempre Tavaroli e Cipriani - nulla accertarono a carico di chiunque, meno che mai del sottoscritto. Nell’agone è ricomparso anche Narducci, l’ex pm ora in giro per l’Italia per la presentazione del suo libro su Calciopoli. Ci potremmo domandare perché venga concessa così tanta libertà ad un giudice che cerca di reclamizzare il suo prodotto. Narducci è quello della presentazione di un volume a Roma, alla quale furono occasionalmente (?) presenti Moratti e Auricchio, quello delle indagini di Calciopoli. E adesso Narducci rilascia un’intervista al sito FcInter1908.it con la sua verità, quella del teorema da lui costruito e così mantenuto anche nella requisitoria finale, ignorando il dibattimento e le regole del nostro sistema processuale.

Sabato caldo

Si preannuncia, com’è chiaro, un sabato di fuoco. Si mormora che i nerazzurri sarebbero più pronti. Questione dei pochi gol che fanno i bianconeri a dispetto del gioco e delle occasioni. Juve-Inter sfugge abitualmente ai pronostici, il fatto importante è che la squadra di Conte ha mantenuto inalterato il distacco. Al di là del valore del Bologna, la gara era delicata per la situazione che si era creata dopo Catania e il pericolo sventato rianima le energie. L’Inter ha totalizzato sei successi di fila, fosse solo per questo è da guardare a vista. Non era facile la sfida con la Samp e il sito della giornalaccio rosa dà ragione a Ferrara (espulso per proteste): il terzo gol nerazzurro era in fuorigioco.

Il Napoli imbarca acqua, senza Cavani la squadra punge poco. In partite del genere manca uno come Lavezzi, i napoletani se ne erano dimenticati. Zeman stavolta se l’è presa con le condizioni del campo, ma l’impraticabilità era anche per il Parma. Giallorossi settimi, immaginate cosa può accadere se la gara con il Cagliari si dovrà rifare. Milan sempre nei guai, a parte El Shaarawy chi dà forza alla squadra? Allegri può aver esagerato con i cinque mediani, ma se i giocatori non li hai, la paura fa novanta.

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letteraAperta di EDOARDO GARRONE (GaSport 02-11-2012)

La Samp trattata

da comparsa

Mi sento tradito

Il patron dei liguri affida alla Ġazzetta

un allarme sul clima del nostro calcio

Caro Direttore, le chiedo un po’ di spazio per una lettera indirizzata ai suoi lettori, tutti e non solo ai tifosi sampdoriani. Credo sia giunto ilmomento di proporre a quanti per amore, professione o interesse seguono il calcio, una riflessione profonda su come il fenomeno stia sgretolandosi davanti a una serie di evidenze che ne minano il valore più importante: la passione. È per passione che si segue una squadra fin da bambini, è per passione che i presidenti investono in una «avventura » economica che, non a caso, scrivo tra virgolette, viste le sicure perdite di bilancio e le incertezze in termini di risorse, garanzie di lungo termine sui diritti tv o sugli impianti sportivi.

Guardando — con la passione del tifoso e del presidente — Inter-Sampdoria in televisione mi sono sentito per l’ennesima volta tradito. Tradito sia come supporter sia comeaddetto ai lavori. Mi sono imposto una «pausa» fisica dalla presenza in tribuna per non caricare di eccessiva tensione una situazione insostenibile come quella che ci vede ormai abbonati ai cartellini rossi a senso unico. Ma evidentemente non è bastato.

Non è abitudine della Sampdoria indossare i panni della vittima o alimentare lo scandalismo contro arbitri, Lega, federazione, poteri forti, media o chicchessia. Ci onoriamo di essere considerati una squadra simbolo di fair play e simpatia. Ma proprio per questo non tollero che un atteggiamento serio e responsabile sia considerato il lasciapassare per trattare la Sampdoria come una comparsa nella sceneggiatura destinata ai grandi attori del lungometraggio della serie A.

Non gridiamo allo scandalo sul singolo episodio o sulla collezione di espulsioni comminate, oltre ai rigori, ai nostri difensori in tre occasioni su tre (regolamento, ci mancherebbe, peccato sia letto con attenzione solo di fronte a una maglia blucerchiata). L’infallibilità non è di questo mondo e dove ci si ostina a non far ricorso alla tecnica ecco apparire due arbitri in più che mi sembra non stiano dando in questa prima fase motivo di serenità al primo fischietto.

Ma il problema è molto più serio. Riguarda il clima che si rischia di creare con atteggiamenti personalistici e incomprensibili sul campo, quando è proprio dal campo che dovrebbe arrivare una lezione di professionalità e correttezza. Ho letto con piacere le poche righe, troppo poche, con le quali i media sottolineavano il gesto del nostro capitano su un calcio d’angolo erroneamente non assegnato agli avversari contro il Torino. È su questi episodi che bisogna costruire il futuro del calcio.

In occasione della squalifica di Maxi Lopez, reo di aver inveito contro la terna arbitrale, lo abbiamomultato e lui ha capito la gravità di quanto accaduto scusandosi con noi e con i tifosi, da serio professionista di una società che non transige su simili comportamenti. Noi continueremo su questa strada. Ma non accetteremo mai più che i nostri atleti in campo non vengano trattati allo stesso modo, con le stesse regole e con la stessa dignità riservata a tutti i partecipanti del nostro campionato. Perché questo non significa far male alla Sampdoria, che con oltre ventimila tessere rappresenta la quinta piazza in Italia per numero di abbonati, e ai suoi straordinari tifosi. Significa far male al calcio. E questo non lo permetteremo.

Nel frattempo, continuerò ad impegnarmi con la stessa passione di sempre e starò vicino al mio direttore sportivo, al mio allenatore e ai miei calciatori — che stimo tutti per serietà e professionalità — ma nel week end andrò a seguire le squadre giovanili accanto alle famiglie dei ragazzi per riassaporare il gusto del calcio sano e vero, non contaminato da interessi e isterismi che poco hanno a che fare con i valori che dovrebbe offrire questo sport.

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WU-MING3

«Futbologia. Ovvero parlare di calcio

tra Brera, Bar sport e piazza Tahrir»

Domani a Bologna una partita di parole con Paolo Sollier e Valerio Mastandrea

«Il racconto del pallone è ambivalente. Metà cultura pop e metà malaffare»

di ALBERTO PICCININI (Pubblico 02-11-2012)

Futbologia. org invita tutti a «parlare di pallone per un giorno intero». Domani alla Biblioteca Salaborsa di Bologna l’associazione fondata da Luca Di Meo (Wu Ming 3) e Christiano Presutti si presenta in pubblico. In programma alle 11. 30 c’è una riflessione dello storico John Foot sul rapporto tra calcio e scrittura; al pomeriggio dalle 15 l’incontro tra l’attore Valerio Mastandrea (tra i primi sostenitori di Futbologia) e Paolo Sollier, il calciatore che negli anni ’70 a Perugia salutava i tifosi col pugno chiuso e leggeva il manifesto . Alle 16 infine la proiezione del film Il Mundial dimenticato – La incredibile storia del mondiale in Patagonia di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni.

Futbologia. org è da qualche mese in Rete. Raccoglie interventi sul Barcellona e sulla differenza tra cucchiaio e pallonetto, storie di calcio palestinese, nostalgie del calcio che fu e riflessioni sulla maniera di tramandare la propria passione ai figli. «L’idea nasce dalle chiacchierate mie e di Cristiano Presutti davanti alle partite del Napoli, di cui siamo tifosi - ci spiega al telefono da Bologna Luca Di Meo - partivamo dalla constatazione che il livello del discorso sul calcio in italia è veramente basso, quasi tutto compreso tra polemiche arbitrali e un calciomercato che dura dodici mesi all’anno. Non volevamo fare gli intelligentoni della situazione. Abbiamo semplicemente messo insieme gente in grado di raccontare il calcio da un altro punto di vista. Quello che si definisce come new football writing».

È un espressione inventata da Simon Kuper una ventina di anni fa. È un ombrello sotto il quale sta un atteggiamento «alto», letterario e saggistico nei confronti del calcio. Mi chiedo però che fine fa l’aspetto triviale e carnevalesco della cosa: i discorsi da bar, i giornali sportivi del lunedì mattina…

Il bar è una parte integrante della cultura calcistica. C’è il cazzeggio, ci sono le prese per il ċulo. È un discorso divertente, interessante, coi suoi risvolti di cultura popolare. A patto che resti nel bar. Il problema nasce quando questo discorso diventa egemone, sfonda in televisione e sui giornali, si prende tutto lo spazio.

Però il giornalismo sportivo non sembra disposto a fare autocritica. E neppure la crisi dei giornali aiuta.

Il giornalismo sportivo in Italia è stato una palestra di penne importanti. Cito Brera, Ghirelli, Arpino, Zavoli. È chiaro che il linguaggio televisivo degli anni ’80 ha conquistato l’egemonia sulla parola, ma questa è una considerazione banale. La cosa importante da dire è che quando si parla di calcio, si parla sempre di un ambivalenza. Ci si trova di fronte a un grande racconto di cultura popolare e contemporaneamente a tutto il peggio che c’è in circolazione da un punto di vista politico, economico, di malaffare. A noi interessano gli autori che evidenziano questi aspetti. Poi c’è il resto: il pallone che fa tornare tutti bambini e muove passioni in ogni angolo del pianeta.

Nelle prime cose che avete pubblicato questo aspetto nostalgico verso il calcio degli anni ’70 e ’80 è molto presente. Che si ricorderanno del calcio di ieri i bambini di oggi?

Intanto non si tratta di fare nessuna retorica dei bei tempi andati, perché i bei tempi non sono mai esistiti, né nel calcio né in nessun altro ambito, dal mio punto di vista. Venendo ai bambini, noi abbiamo creato più generazioni di figli unici che sono come dei detenuti: transitano dalle scuole alle case, alle case degli amici, non sono mai liberi nel gioco in strada come capitava a noi. Io lo vedo come un problema. Certo ci sono le scuole calcio, e ci piacerebbe molto ragionare su queste. Ci sono realtà come quella di cui sta parlando Luca Di Bartolomei, di calcio sociale al quartiere Corviale di Roma. Ci sono esperienze in carcere, coi disagiati psichici, ci sono realtà addirittura meravigliose. Ci interessano tutte.

C’è un altro rischio. È che si finisca a parlare di calcio attraverso il contesto sociale, e si finisca per abbandonare i calciatori. Cosa sono diventati, come vivono la loro dimensione di popstar?

Una delle ultime cose pubblicate sul blog nei giorni scorsi ritrae un fantastico Gigi Riva anni ’70 in un campetto di Cagliari, circondato non da una moltitudine ma da quattro-cinque ragazzini. Una scena che oggi non potresti mai rivedere per questioni di ordine pubblico. Non è nemmeno un problema di personalità dei calciatori. È importante ragionare sullo status di queste figure oggi e cercheremo di farlo, perché la cosa più facile è buttargli un po’ di ɱerda addosso, dipingerli come gente che vive fuori dalla realtà, ma le cose non stanno sempre così.

Ti propongo un altro scoglio per chi si occupa di calcio in maniera non istituzionale, diciamo: le curve, gli ultras.

È una materia delicata. A noi interessano le curve per guardare il più possibile fuori dallo stadio. In Egitto le tifoserie sono state fondamentali nella tenuta di piazza Tahir. Quelli del Al-Ahli hanno subito il massacro di Port Said, una vera propria vendetta delle squadracce di Mubarak: cento morti durante una trasferta, e infatti il campionato egiziano è ancora sospeso a tempo indeterminato. In Tunisia sono successe cose simili. In Grecia l’Aek è all’estrema sinistra e il Panatinaikos all’estrema destra, e così via. Ecco ci interessa uno sguardo che partendo dall’identità ultras, si chieda cosa significa vivere questa dimensione di gruppo in un momento in cui c’è una crisi sociale che non finirà a breve.

Vado a caso: la sudditanza psicologica, Zeman, la crisi del Milan di Berlusconi. Non sono argomenti buoni per Futbologia?

Dipende. Berlusconi in questo momento non ha più un problema politico, ma un problema di soldi. Ha delle aziende decotte. Mediaset è un azienda zombie, non esiste sul web, sul digitale fa scelte sbagliate. E quindi si vende villa Certosa e il Milan. Ma lo valuta una cifra assurda e nessuno glielo compra. Il ricco petroliere russo non gli dà 300 milioni per essere socio di minoranza, ma solo per comprarsi il giocattolo e farci quello che ci pare. . .

I petrolieri russi e gli emiri sono rimasti gli unici a sostenere un idea di calcio superspettacolare. Pensa al Paris Saint Germain, che è l’ultima incarnazione di questo modello.

Eppure, nonostante le risorse apparentamente infinite di questi magnati, non so fino a che punto possa reggere tutto il baraccone. Trovo che sia a rischio la tenuta del grande bacino di afflusso del denaro, cioè quello dei diritti televisivi, perché in paesi scossi dalla crisi come Spagna e Italia gli abbonati alle pay tv potrebbero iniziare a contrarsi. Ce ne stiamo accorgendo quest’anno anche nel pessimo calcio italiano: per necessità ci ritroviamo ad avere dei ventenni interessanti in campo, e questo diventerà un aspetto fondamentale per tutte le società.

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L’indiscrezione

Calcioscommesse Responsabilità oggettiva,

l’Uefa propone ai club l’autocertificazione

Progetto Tante società penalizzate, si studiano correttivi per limitare il fenomeno

di FRANCESCO DE LUCA (IL MATTINO 02-11-2012)

Lo scandalo scommesse si è abbattuto sul calcio italiano nella primavera 2011 e a quasi due anni dall'inizio dell'inchiesta della Procura di Cremona i filoni non si sono esauriti. Ci sono club che finiranno a breve sotto processo, come il Napoli, che dovrà presentarsi con i due difensori Cannavaro e Grava e l'ex Gianello davanti alla Disciplinare per il tentativo di combine attuato dal portiere nel maggio 2010. Il club rischia una penalizzazione; Cannavaro e Grava una squalifica e Gianello, ormai ritiratosi, patteggerà la pena. Sembra di capire che non vi sarebbero riflessi sull'Europa League 2012-2013. «È un problema che riguarda la Federazione italiana», ha detto il dirigente dell'Uefa, Andrea Traverso, ospite a Napoli in un convegno sul fair play finanziario. Ma un punto in più o in meno potrebbe fare la differenza a maggio per l'eventuale partecipazione alla competizione internazionale 2013-2014.

L'Uefa ha anticipato alla Federcalcio italiana un progetto di autocontrollo dei club per limitare l'effetto della responsabilità oggettiva, che potrebbe partire nei prossimi mesi e non avrebbe quindi riflesso sugli imminenti processi. Ci sono società che sono state penalizzate, e a volte costrette al patteggiamento, pur essendo assolutamente estranee. È stato il caso della Sampdoria, partita da -1 per Guberti, che all'epoca dei fatti addebitati non era tesserato per i blucerchiati; è il caso del Napoli, che rischia una penalizzazione per colpa di Gianello, terzo portiere che assisteva alle partite dalla tribuna.

Il progetto richiama la Legge 231, ovvero l’autocertificazione delle società sui comportamenti tenuti da dirigenti e dipendenti. Dovrebbe essere effettuata più volte nel corso di una stagione, con indagini interne in caso di match o movimenti sospetti, e potrebbe fungere da esimente in caso di eventuali rinvii a giudizio delle società per responsabilità oggettiva. La proposta è al vaglio di dirigenti e legali dell'Uefa. Ne è stata informata la Federcalcio italiana perché il carico di penalizzazioni per il calcioscommesse sui club è stato notevole in questa stagione: in serie A: -6 per il Siena, -2 per l'Atalanta, -1 per il Torino e la Sampdoria; in serie B: -7 per il Bari, -6 per il Grosseto, -4 per il Novara, -3 per la Reggina, -2 per Padova Crotone e Modena, -1 per Ascoli Varese ed Empoli. E potrebbero essere tolti punti ad altri tre club di A (Napoli, Lazio e Genoa) e ad uno di B, il Bari. Michel Platini, il presidente dell’Uefa che ha messo in cima al suo mandato la lotta al calcioscommesse, ha ribadito nel programma di Chiambretti su Radio2: «Chi bara deve uscire dal calcio».

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L'intervista I gol, la carriera, il rapporto con il padre e con i tre figli: incontro

con l’ex fuoriclasse della Juve, oggi stella del campionato di calcio australiano

«Io, Del Piero, l'uomo dalle vite parallele»

«Non sono finto ma ho la capacità di sdoppiarmi.

Volete conoscermi? Cercate i miei indizi»

di GAIA PICCARDI (CorSera 02-11-2012)

SYDNEY — Non è vero che Alessandro Del Piero se la tira. Non è vero che è troppo serio. Non è vero che è timido. È vero che è circospetto e magnetico: uno Scorpione doc. Ha ritenuto opportuno trincerare il suo mondo interiore dietro al filo spinato; ma se avverte vibrazioni positive, come è generoso di partite (800 presenze: 705 Juve, 91 nazionale, 4 Sydney Fc) e gol (289-27-3), è generoso di sé. Del Piero è un uomo misterioso per sua stessa ammissione. Ciò che cela, fa parte integrante del suo fascino sottile. Intervistarlo non è facile. Ma se abbracci la sua naturale discrezione, anziché giudicarla, dentro la miniera trovi le pepite d'oro.

Del Piero, in questo calcio che brucia tutto velocemente, incluse le bandiere, si sente mai un panda che andrebbe protetto dal Wwf?

(ride) «Ma no, a me importa essere me stesso, fare le mie scelte lucidamente. Quello che conta è il bilancio fin qui, e io sono felice della mia carriera alla Juve e del mio presente a Sydney».

Ma ha coscienza della sua «diversità»?

«Ho coscienza che quello che è successo a Torino nella mia ultima partita in bianconero (Juve-Atalanta, 13 maggio) è uscito da tutte le regole del calcio».

Cioè la partita interrotta da un'ovazione.

«Mi ha toccato nel profondo. Ho cercato di restare distaccato. So di aver fatto cose importanti, di aver realizzato i miei sogni. Se ti rendi conto della fortuna che hai, puoi goderti meglio le conquiste».

«Ho lavorato molto sul mio autocontrollo», ha detto. Non è che ci ha lavorato troppo? Quell'ovazione non avrebbe forse meritato un piccolo gesto di follia?

«Tolta la maschera pubblica, sono diverso. Ma sento la responsabilità di essere un modello per i giovani, come lo furono i miei idoli per me. Credo sia giusto dare segnali positivi. Non vuol dire essere finti: vuol dire essere coscienti, responsabili».

«Vincere è un'ossessione, quando perdo il dolore è insopportabile». Quali sono le radici di questo feroce giudice interiore?

«Quel pensiero è stato il motore, e il perno, della mia vita. Da bambino stavo male se perdevo a calciobalilla: non potevo fare a meno di misurare il mio valore con le vittorie. È qualcosa che ho dentro dal giorno in cui sono nato».

Oggi, a 38 anni (li compirà venerdì 9), non ha cambiato punto di vista?

«Oggi mi rendo conto che l'ambiente che ho frequentato, cioè quello molto competitivo del calcio in Italia, mi ha condizionato. E vivere in Australia mi fa assaporare cose diverse. Però anche a Sydney la gente viene allo stadio per vedermi vincere e segnare...».

Cosa è rimasto di lei a Saccon, frazione di San Vendemiano, di materiale e spirituale?

«Moltissimo. Mia madre Bruna vive ancora nella casa dove sono cresciuto. Mio fratello e la sua famiglia sono lì, come i miei vecchi amici. Altri ne ho a Torino, la città di mia moglie. Altri me ne farò qui, e non è detto che non ci possa rimanere».

Con l'età ha imparato a dire qualche «ti voglio bene» in più, per non avere rimpianti come dopo la morte di suo padre Gino?

(sorride commosso) «Eh, ci sto lavorando... Sono passato da una volta al mese a tre: in famiglia c'è gente sconvolta! Di sicuro la morte di mio padre è stato uno spartiacque importante».

Perché sua moglie Sonia dice che a Sydney la vede diverso?

«Arrivo da anni molto impegnativi e di grande stress. Soprattutto l'ultimo, a Torino, è stato tosto. La lontananza, il clima, l'ambiente australiano mi hanno reso più libero, sì».

Con i suoi tre bimbi fa il padre come lo faceva il suo con lei o si concede un'interpretazione personale del ruolo?

«Spesso mi chiedo cosa farebbe mio padre al mio posto. È un riferimento molto presente: mi ha lasciato tanto anche se parlava pochissimo».

Il pallone, in fondo, è stato un surrogato?

«Non lo so... So che dai 5 anni in poi per me è esistito solo il calcio. Con i miei figli cerco di essere più presente: uno dei miei sogni è che un giorno pensino di me quello che io penso di mio padre. Sarebbe un trionfo».

Il miglior allenatore che ha mai avuto: quello che l'ha fatta giocare sempre?

«Questa sarebbe un'ottima risposta... In realtà c'è Lippi, con cui ho avuto una storia di 7 anni. E poi gli altri, per periodi più brevi. Ho cercato di prendere il meglio di ciascuno».

Il compagno più illuminato.

«Zidane e Baggio, due geni. In nazionale mi ha sempre impressionato Paolo Maldini».

Un gol. Uno solo.

«Assist di Zidane in un Juve-Brescia al Delle Alpi: gran palla da centrocampo, di piatto, a tagliare la difesa. Mi trovai da solo davanti al portiere. Spettacolo».

Un amico vero nel calcio.

«Angelo Di Livio. Abbiamo una storia comune, cominciata a Padova e proseguita alla Juve. Mi ha vissuto da vicino come pochi altri. Non è vero che non c'è amicizia nel calcio, anche se gli amici del cuore sono quelli del paese».

Cosa la fa ridere?

«Le cose buffe. Una smorfia di Tobias, una parola storpiata da Dorotea, una reazione imprevista di Sasha. Ma i bimbi sono fuori classifica: mi rendono la vita talmente più bella...».

Cosa la fa piangere?

«Certi film, anche da ridere! Sonia ormai lo sa: quando le scoppia la risata, si gira e magari mi vede con gli occhi lucidi».

Cosa la fa indignare?

«Le violenze sui bambini».

La persona più carismatica che ha mai incontrato?

«Quando arrivai a Torino, l'Avvocato mi colpì molto. Ero in soggezione: lui era davvero di un'altra categoria».

Confessi: il soprannome Pinturicchio le è mai piaciuto?

«Diciamo che non ho mai fatto a botte per farmici chiamare!».

Si chiede quale mondo lascerà ai suoi figli?

«Ogni giorno. Anche se sono preoccupato, mi sforzo di pensare al futuro con ottimismo. Vedo i miei bimbi come tre cuccioli, vorrei proteggerli e prepararli al domani con libertà mentale».

Tornerà in Italia per votare?

«Sarà dura».

Ha sempre votato?

«Noooo... Alcune volte ero impegnato».

Se fosse americano, rivoterebbe Obama?

«A me piace. Mi trasmette carisma, mi sembra un uomo giusto. E avere fiducia in un uomo giusto mi fa sentire bene».

Beppe Grillo la fa più ridere come comico o come tentativo di uomo politico?

«Come comico mi faceva impazzire. Come politico, da qui, non saprei giudicare».

Andrea Agnelli dopo 19 anni ha messo fine alla sua storia alla Juve. Che sentimento prevale in lei, pensando al presidente della Juve?

«L'ho detto alla Ġazzetta (indifferenza, ndr) e non desidero altre polemiche. La verità? Sono felice di tutto quello che ho fatto, zero rimpianti. Le decisioni vanno anche rispettate. E poi conta il presente, non il passato».

Da grande si vede più dirigente o allenatore?

«Ho sempre pensato che, una volta smesso, avrei preso le distanze dal calcio: sono quasi 40 anni che gioco... Però mi rendo conto che il legame con questo sport è viscerale. Non sono più disposto a giurare che non farò mai l'allenatore: magari qui a Sydney, dove tutto è così diverso».

Tra cento anni, come le piacerebbe essere ricordato nel suo ambiente?

«Come il migliore».

Soltanto? Auguri.

«È quello che sognavo da piccolo. Essere un giocatore unico, uguale a nessun altro».

Crede nel destino?

«Eccome. Ma credo anche di avere tutto in mano per poterlo determinare».

Dopo tanti anni, cosa non abbiamo ancora capito di Alessandro Del Piero?

«Che conduco più vite parallele. Non sono finto ma ho la capacità di sdoppiarmi. Ci sono tanti aspetti di me poco conosciuti, anche se ho lasciato in giro indizi, come i templari. Dicono: Del Piero non fa mai polemiche. Ma io ho tirato legnate a destra e manca di cui non vi siete mai accorti! In campo sono un figlio di buona donna: la furbata, il colpetto, faccio di tutto per vincere. Poi vado a casa e mi sciolgo con i miei figli. Ho protetto la mia vita privata per poter esprimere il lato più vero di me pienamente. Di quella sono molto geloso. Per me è importante. Anzi, vitale».

Lei ha l'aria pacificata di chi nella vita fa esattamente ciò che è venuto a fare.

«La mia più grande fortuna non sono i soldi: è aver trasformato in lavoro la mia passione. Ci sono volte in cui sono dilaniato dai dubbi, ho avuti infortuni che avrebbero potuto stroncarmi la carriera. Sono un essere umano. È nella semplicità che, spesso, trovo conforto. Ci sono arrivato col tempo e la maturità: leggendo, studiando...».

Parliamone.

«A Torino c'era una persona con cui mi confidavo. Ho letto le prime 50 pagine di Gustav Jung ma mi manca dimestichezza con la psicoanalisi: non devo far passare troppo tempo tra una pagina e l'altra, sennò mi perdo. Anche nei tarocchi c'è profondità: basta avere la curiosità di spingersi oltre in questo mondo in cui vogliamo tutto e subito».

Quando è partito alla ricerca di sé?

«Nel 2001, quando morì mio padre. Arrivavo da un momento difficile: mi tormentavo per la forma fisica e i gol. Poi mi cade in testa la tegola: ho tutti i soldi del mondo e non posso fare niente. Malattia incurabile. Una botta terrificante. Ecco, permettermi di rimettere tutto in prospettiva è stato un altro dei grandi insegnamenti, muti, di mio padre».

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CONTROMANO

di CURZIO MALTESE (IL VENERDI DI REPUBBLICA | 2 NOVEMBRE 2012)

IL NOSTRO PALLONE,

CHE, PRESO A CALCI,

RISCHIA LA BANCAROTTA

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Dal carcere al ritorno al gol

Cadute e risalite del biancoceleste

Il paradosso di Mauri

Da quando è nei guai

gioca da top player

Il centrocampista della Lazio, coinvolto in due inchieste,

si allena e studia per preparare la difesa con l'avvocato

Anche contro il Toro è stato tra i migliori, segnando la prima rete in campionato

Sta diventando un esperto in legge aspettando i processi per il calcioscommesse

di STEFANO CIERI (GaSport 02-11-2012)

Campo e codici. Calci a un pallone e norme da studiare. Allenamenti di giorno, lezioni di diritto la sera. E' la vita di Stefano Mauri da alcuni mesi a questa parte: centrocampista offensivo di professione, aiutante avvocato difensore per hobby. Anzi, per necessità. La sua, visto che dalla scorsa primavera è al centro delle indagini della cosiddetta scommessopoli.

Dal carcere al gol Prima indagato, poi addirittura arrestato, carcerato per una settimana, quindi agli arresti domiciliari, infine di nuovo libero ma con una spada di Damocle grande così che da allora pende sulla sua testa: quella di una possibile squalifica pesante in ambito sportivo e quella di una condanna in ambito penale (è indagato a Cremona per le scommesse e in Svizzera per riciclaggio). Eppure, nonostante tutto, nonostante un macigno del genere, Mauri ha continuato e continua ad allenarsi e a giocare. E lo fa pure bene, tanto che il nuovo allenatore Petkovic, come il suo predecessore Reja, non rinuncia mai a lui. Comunque vadano a finire le vicende giudiziarie e a prescindere da quanto si possa pensare di lui, la sua è comunque una storia cui si fa fatica a credere. Perché continuare a essere al top nonostante tutto è davvero incredibile. E invece, come se niente fosse, Mauri in campo è sempre tra i migliori: corre, cuce la manovra, la illumina e, quando può, finalizza pure. E' accaduto mercoledì sera contro il Torino: il suo primo gol in questo campionato. Ne aveva realizzati tre anche in quello passato, tutti dopo che il suo nome era già finito sul registro degli indagati della Procura di Cremona. E due di queste tre reti non furono gol qualsiasi: con il primo regalò alla Lazio la vittoria nel derby di ritorno. Con il secondo (bellissimo, in semirovesciata) spianò la strada al successo sul Napoli.

Codici e campo Sembra quasi che i guai giudiziari gli abbiano regalato una seconda giovinezza calcistica. Già, perché il Mauri pre-indagini stava vivendo un periodo di involuzione calcistica, quello attuale è invece lo stesso di 4-5 anni fa, quando abitava stabilmente in Nazionale. Chissà, senza i problemi giudiziari, forse pure il Mauri di oggi sarebbe in azzurro. La sua realtà è invece fatta solo di Lazio. E di codici. E non è un modo di dire, perché da quando è finito nel mirino degli investigatori Mauri si è messo a studiare diritto. Collabora attivamente alla organizzazione della strategia difensiva curata dal suo avvocato Matteo Melandri, sta diventando un piccolo esperto in Giurisprudenza. In attesa dei processi (sportivo e penale) che verranno. Nel frattempo spera di portare la Lazio il più in alto possibile. «Sono contento per il gol segnato al Toro e per la prestazione, ma ovviamente non posso essere contento per il risultato. Dobbiamo sfruttare meglio le occasioni», ha scritto ieri sul suo sito personale. Sempre sul pezzo, come se niente fosse.

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Calcio: Moratti, domani non saro' a Torino

02 Novembre 2012 - 13:04

scusate, non me lo fa copiare

Moratti rifiuta l'invito di Agnelli: "Non vedrò Juve-Inter allo stadio"

Venerdì, 2 novembre 2012 - 14:15:00

MORATTI RIFIUTA L'INVITO DI AGNELLI

Massimo Moratti non sara' a Torino domani per seguire Juventus-Inter. Il presidente nerazzurro, intervistato da La Stampa, riporta ''AgenziaInforma'', ha infatti confermato la telefonata con Andrea Agnelli ma ha escluso, per motivi di opportunita', una sua presenza allo Juventus Stadium. ''Mi sono sentito con Andrea (Agnelli ndr), ma non vorrei creare maggior nervosismo e pressione. Lo so e' triste, ma forse non e' ancora ora di venire a Torino. Prima o poi lo faro''', ha detto il patron, che ha ribadito la distanza nelle posizioni delle due societa' su Calciopoli. "Rimangono due posizioni fortemente contrapposte in cui gli offesi dovremmo essere noi e invece gli offesi sono gli altri. I rapporti personali sono buoni, vorrei che si considerasse sempre piu' l'aspetto sportivo e forse ci siamo, anche se quando ci si aspetta grande serenita' a volte capita proprio il contrario''. Moratti, che dalla scorsa estate ha dato il via al progetto per la costruzione del nuovo stadio dell'Inter entro il 2017, ha elogiato lo Juventus Stadium, definendolo ''un'idea vincente che ha fatto cambiare passo alla societa'''.

TAGLIAVENTO DIRIGERA' JUVE-INTER - Paolo Tagliavento della sezione di Terni sara' l'arbitro del big-match dell'11esima giornata di serie A, Juventus-Inter, in programma sabato sera a Torino alle 20.30. Tagliavento sara' coadiuvato dagli assistenti Preti e Marzaloni, giudici di porta Orsato e Banti, quarto uomo Barbirati.

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DOMANI JUVE-INTER

Moratti: stavolta niente polemiche «Sfida decisiva? No, chi va in fuga presto poi si ferma»

"Ho rinunciato a Pogba per un patto con Ferguson"

Moratti si confessa alla vigilia di Juve-Inter, il vero Clasico italiano

"La loro forza è l'aggressività ma finalmente una sfida senza polemiche"

IL BIG MATCH «Non sarà tirchio perché non è decisivo. Chi va in fuga presto, a volte finisce con il fiato corto»

SI E' SENTITO CON aGNELLI

Intervista

PAOLO BRUSORIO - La Stampa -22-11-2012

Presidente, nemmeno il miglior regista avrebbe potuto scrivere un copione simile.

«Vero, ma un regista perfezionista avrebbe fatto pareggiare la Juve con il Bologna. Il calcio ogni tanto regala di queste situazioni inattese, così siamo sicuri che parleremo di pallone e non di polemiche o di rivincita per altri fatti».

Gol irregolari convalidati, rigori dubbi, «ci sentiamo assediati»: con un distacco maggiore si sarebbe discusso d’altro?

«Credo che non siano accadute cose che possano generare polemiche. E se ci sono state si sono rivelate stupide e poco importanti».

Il primo commento sul gol di Pogba? Anzi, facciamo il secondo...

«Sì, è meglio. Sarebbe stato sbagliato andare a Torino illusi che loro fossero in crisi: la verità è che le due squadre stanno girando bene e la distanza al limite può essere colmata da una nostra vittoria».

Pazza Inter, ma nessuno l’avrebbe pensata così in alto.

«È vero, ma mi aspettavo le qualità dell’allenatore. Lo stimavo e mi chiedevo che cosa sarebbe stato capace di fare. Sceglierlo mi è sembrato un tentativo diverso che ci mettesse in condizioni di cominciare un progetto più fresco, di sentirci più liberi. Una cosa totalmente nostra. Stramaccioni è meticoloso ed espansivo, miscela particolare. Lavora tanto e fa subito diventare un patrimonio quello che vede e sente».

Come è nata l'idea Stramaccioni?

«Sceglierlo mi è sembrato un tentativo diverso che ci mettesse in condizioni di cominciare un progetto più fresco, di sentirci più liberi. Una cosa totalmente nostra.»

Qualità di Stramaccioni?

«E meticoloso ed espansivo, miscela particolare. Lavora tanto e fa subito diventare un patrimonio quello che vede e sente». Paura che fosse divorato dallo spogliatoio?

Paura che fosse divorato dallo spogliatoio?

«Ci poteva stare. Ma sapevo che i giocatori non avrebbero fatto apposta qualcosa contro. Si fidavano della mia scelta, condivisa da Branca, e una volta conosciuto Stramaccioni hanno fatto di tutto per sostenerlo».

Altra intuizione: Cassano.

«No, è stata una proposta quasi timorosa dell’allenatore che ho accolto con piacere. Ero curioso: prenderlo ci avrebbe risolto un problema tattico e se me lo proponeva lui andava bene».

Ha «tradito» Samp e Milan: si ripeterà con voi?

«Non credo ai tradimenti perché lascio le persone molto libere. Con Cassano c’è un atteggiamento affettuoso reciproco: si intende di calcio, è una testa in più in campo. Il tempo che vorrà dedicare all’Inter ci andrà comunque bene, niente progetti a lunghissimo tempo».

Tra i giocatori dell’Inter sorpreso da?

«Samuel e Cambiasso: pensavamo che avessero esaurito le energie. E invece sono importanti. Ovviamente Zanetti, ma lui è Nembo Kid, giocherà un altro anno ancora».

Che Juve-Inter sarà?

«Nervosa, ma aperta. Può permettersi di non essere tirchia perché non è decisiva: se la Juve vince dà una bella botta ma chi va in fuga presto a volte finisce con il fiato corto».

Che cosa Le piace della Juve?

«La continuità data dal carattere. È stato molto bravo Conte, tenere l’ambiente costantemente aggressivo in termini calcistici, è una dote mica da poco.

Invece chi Le piace?

Poi mi sembra bravo Pogba. Lo seguivamo anche noi, ma avevamo un accordo con il Manchester United: non trattare giocatori a fine contratto. Era una richiesta di Ferguson, ci siamo tolti, forse sbagliando ma non si possono prendere tutti. E poi Pirlo: fantastico. Migliora di anno in anno. Nel passato? John Charles».

Il cuore della Juve dov’è?

«In Conte e nella volontà del presidente. Questa costante aggressività nei confronti di ogni problema ha prodotto i risultati che voleva. Ha dato carattere alla squadra».

Opinione comune: al calcio italiano mancava la Juve a questi livelli. La pensa così anche Lei?

«No, io non l’ho mai detto».

La squalifica di Conte non ha indebolitola Juve, sorpreso?

«È solo sulla carta. Non poteva cambiare niente, perché non è cambiato niente».

Come Le hanno descritto lo Juventus stadium?

«Mi hanno detto che è bellissimo. È un’idea vincente che ha fatto cambiare passo alla società».

Pronto a vederlo dal vivo?

«Ci stavo pensando, mi sono sentito con Andrea, ma non vorrei creare maggior nervosismo e pressione. Lo so è triste, ma forse non è ancora ora di venire a Torino. Prima o poi lo farò».

Juve-Inter: il meglio e il peggio?

«Il primo scudetto di mio padre nel ’63 con gol vincente di Mazzola. La pagina più brutta? Beh, sfortunatamente per me è troppo facile...».

Niente top-player né per voi né per la Juve: almeno in Italia si può vincere lo stesso?

«Sono cambiate le nostre risorse, ma non significa rinunciare alle ambizioni. Non siamo in rovina, ma come una qualsiasi industria anche il calcio attraversa un momento particolare. Le macerie sono altre: le scommesse, l’uso personale del calcio per delinquere».

Per Agnelli il calcio non può più perdere tempo se non vuole ridimensionarsi in modo irreversibile. D’accordo?

«È stato chiaro: “Guardiamo al domani e mettiamo le basi per affrontarlo”. Servono idee e persone giuste, partendo dalla Lega. Andrea è su questa strada, ha fatto delle proposte intelligenti».

Anche sulla riforma della giustizia sportiva?

«È quello che fa più impressione, detto da Andrea. Con tutte le grane in corso mi sembra un discorso interessato, ma levate le polemiche è vero che servono calma e buon senso per toccare i punti che hanno scricchiolato.Non è il problema centrale del calcio: lo è diventato a causa dei fatti spaventosi che sono accaduti».

Juve e Inter: si volta pagina?

«Rimangono due posizioni fortemente contrapposte in cui gli offesi dovremmo essere noi e invece gli offesi sono gli altri. I rapporti personali sono buoni, vorrei che si considerasse sempre più l’aspetto sportivo e forse ci siamo, anche se quando ci si aspetta grande serenità a volte capita proprio il contrario».

La diverte ancora questo calcio?

«Sì, resta un giallo che stai vivendo e di cui non sai il finale. Per me, ad esempio, il Barcellona è abbastanza noioso, senza Messi sarebbe noioso del tutto. A me piace il calcio veloce, contropiede, tre passaggi e tiro in porta».

Fair play finanziario: spauracchio o curasalutare?

«Servirà ma ci costringerà a lavorare ancora di più per trovare risorse utili. Norma giusta e interessante, vedremo la gradualità dell’applicazione».

Capiranno gli sceicchi del Psg?

«Troveranno la misura, ma non sono i demoni del calcio. Non fanno male i new comers: ben venga chi vivacizza gli scambi, finora hanno arricchito molte società. E poi Parigi merita una grande squadra».

Quanto manca all’Inter Made in China?

«Speravo un po’ di meno, hanno molti problemi legati ai permessi».

Faranno il nuovo stadio nerazzurro: legherà il suo nome anche alla futura casa dell’Inter?

«Arriveranno anche per questo. A me ora, però, interessa l’oggi, la partita di Torino. Il futuro spesso è una scusa per giustificare i problemi del presente».

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«Medicinali vietati nello

spogliatoio del Napoli»

Il Tribunale antidoping del Coni ha condannato

all’inibizione per due anni il «massaggiatore» Salvi

di CRISTINA GENESIN (ilmattinodiPadova.it 01-11-2012)

art.scoperto grazie a Tiger Jack

PADOVA. Dal mondo del ciclismo è arrivato a quello del calcio, e di serie A. Per vie traverse, quella del doping. È la carriera di Antonio Salvi, 48 anni, abruzzese di Palombaro, sottufficiale della Forestale, di fatto massaggiatore ai massimi livelli calcistici (senza patentino). Nel Napoli, per lui, le porte erano spalancate. Grazie a una vecchia amicizia, quella del portiere Morgan De Sanctis, pure abruzzese, ora in Nazionale. Solo che Salvi «non si limitava a massaggiare i giocatori ma era disponibile a sostenerli con medicinali anche vietati (per esempio il Bentelan) e probabilmente con “flebo o capsule magiche”». È quanto si legge nella motivazione della sentenza pronunciata dal Tribunale antidoping del Coni che ha inflitto a Salvi la sanzione (sportiva) dell’inibizione per due anni a tesserarsi e a rivestire cariche nel Coni e in altri enti sportivi, a frequentare impianti o a partecipare a manifestazioni. Sul fronte penale i guai non sono da meno. La decisione dell’organismo di giustizia sportiva è stata adottata sulla base della documentazione trasmessa dal pm padovano Benedetto Roberti, uno dei maggior specialisti di doping. E dei reati che il magistrato contesta a Salvi: possesso, cessione e somministrazione di sostanze dopanti. È il 7 maggio 2010 quando durante una perquisizione nello studio e nella casa del massaggiatore vengono sequestrati molti farmaci dopanti. Che Salvi sia un “uomo del Napoli «non c’è dubbio. Attività da lui ammessa... e documentata dalle dichiarazioni rese da Alfonso De Nicola (medico sociale), Riccardo Bigon (direttore sportivo), Enrico D’Andrea (fisiatra), Morgan De Sanctis, Michele Pazienza e Salvatore Aronica (tutti giocatori all’epoca dei fatti)» si legge nella sentenza, «Praticò stabilmente la funzione di massaggiatore e fu autorizzato dai dirigenti a esercitare in locali della società». Nel dicembre 2009 fu De Sanctis a introdurlo nel giro: «Iniziò a praticare l’attività di massaggiatore a favore di ben 16 giocatori persino nello spogliatoio dello stadio (il San Paolo) risolvendo problemi a Cannavaro, Pazienza, De Sanctis e Lavezzi». Si ricorda la testimonianza di De Sanctis: «Ricordo che in occasione di un’infiammazione al ginocchio Salvi mi disse che, per farla passare, avrei dovuto fare un’unfiltrazione di Bentelan». Lo stesso De Sanctis nella telefonata dell’11 febbraio 2010 con il Salvi raccomanda che, se entrerà nel Napoli, farà solo il fisioterapista e non il dottore e non porterà “flebo o capsule magiche”. Conclude la sentenza: «Salvi non si limitava a massaggiare i giocatori ma era disponibile a sostenerli con prodotti medicinali vietati».

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Why Always Mario?

by CATHERINE MAYER & STEPHAN FARIS (TIME Magazine International | Monday, Nov. 12, 2012)

This game won't turn out well for Mario Balotelli, but Manchester City's star striker is always watchable. A Mohawk adds a bristling inch to his strapping frame, and even by the balletic, fast-paced standards of top-tier football, he moves with a mesmeric grace, twisting past defenders without losing speed. Sometimes he attracts attention for the wrong reasons too. Eighteen and a half minutes into the Oct. 20 match with West Bromwich Albion, his tackle on an opponent is deemed a foul, and the referee brandishes a yellow card. A further infringement risks earning a red card, banishing Balotelli and leaving City a man short. He knows he ought to accept the decision as surely as everyone watching knows he will not. And soon enough he is arguing with the referee, returning at the halftime whistle to remonstrate with him again until a teammate roughly pushes the player away.

Whether on the pitch or in private, Balotelli seems to generate energy rather than burn it. Dramas flare around him; passions ignite. When he isn't playing, he fidgets. But if called to take a penalty, at the very peak of pressure, he turns icily calm. Since signing with the English Premier League club in 2010, "Super Mario" hasn't missed a spot kick at the goal. (Lionel Messi, Barcelona's most prolific scorer and winner of this year's European Golden Boot award for racking up the most goals in the season, had a success rate from penalties of 82%.) "It's just like a game of mind, me and the goalkeeper," says Balotelli of his perfect penalty record. "Me, I know how to control my mind." The secret lies in his distinctive stuttering run-up to the ball, so different from his usual fluidity. He waits for the goalkeeper to guess at the likely trajectory of his shot and in that fraction of a second aims into the opposite corner of the net. "When the goalkeeper moves before me, it means that in this game of mind he lost," he says.

Last season, Balotelli helped the Blues — nicknamed for their team colors rather than the three miserable decades they spent in the doldrums — win the league title, England's most important football trophy. Better yet, City did it by snatching victory from its relentlessly successful red-shirted rival Manchester United. City has invested in a squad of top players since the club's acquisition by Sheik Mansour bin Zayed al-Nahyan, a member of Abu Dhabi's ruling family, four years ago. From the start of the season in the summer of 2011 to its cliff-hanger finale in May, Balotelli repaid his reported $38.5 million price tag with 13 goals, two of them against United in a 6-1 drubbing that signaled City's new-moneyed resurgence. After his first goal against the Reds, Balotelli lifted his shirt to reveal a second shirt, emblazoned with the words WHY ALWAYS ME? His critics interpreted the slogan as a boast, an example of the arrogance they think disfigures his play. He says, on the contrary, the message was a plea to those critics and to the paparazzi who trail him off the pitch: "Just leave me alone."

It's a vain hope for a 22-year-old burdened with instant recognition in Europe and swelling fame far beyond the continent. He fascinates because — penalty shoot-outs aside — he is unpredictable. He should be scoring more goals (his tally put him at 10th place in the rankings of Premier League players last season, behind City strikers Sergio Aguero and Edin Dzeko). He should be creating more opportunities for colleagues like Aguero and Dzeko to score. His play can infuse his teammates with vigor or simply distract them. City's manager — and his longtime mentor — Roberto Mancini leaves Balotelli on the substitutes' bench with increasing frequency, worried about how the mercurial wunderkind will perform. Pundits fill airtime and columns discussing whether Balotelli is more trouble than he's worth.

Red and yellow cards, the sky blue of City, the deeper blue of the Italian national side, the Azzurri, for which he first played in 2008: reports of Super Mario and Bad Mario, Balotelli's alter ego, are always colorful. There is the vivid flair of a prodigy, signed with the top Italian football club Inter Milan at the age of 16. There are flashes of brilliance and scarlet mists of self-destructive anger, dark moods and a grin of heart-wrenching sweetness, lurid tabloid tales and retina-searing photographs of his off-pitch fashion choices. And every frame is shot through with another color that in the internationalized, diverse world of sport might be expected to matter not a jot: the color of Balotelli's skin.

The first black player to represent Italy at major tournaments, Balotelli's early appearances provoked monkey hoots and a chant that speaks volumes about his country of birth: "There's no such thing as a black Italian!" Balotelli, of Ghanaian descent, was born in Italy and has never visited Africa. The racism continues, even as Balotelli's popularity has grown in tandem with his goal tally for Italy. As Italy prepared to meet England in the Euro 2012 championship, the national sports daily Ġazzetta dello Sport published a cartoon depicting Balotelli as King Kong, the giant ape's prehensile legs clasped around the top of Big Ben. Amid protests, the Ġazzetta issued an aggrieved statement: "This newspaper has fought any form of racism in every stadium." Italy may not be color-blind, but a wide strain of Italian culture seems blind to the sensitivities around color. When Balotelli delivered two goals against Germany in the semifinal of the same competition, another leading sports publication, Tuttosport, celebrated his achievement with the headline LI ABBIAMO FATTI NERI, literally "We made them black," a pun on bruising — and race.

Balotelli marked the victory against Germany, which propelled Italy to the final, by running to the crowd barrier to embrace his adoptive mother Silvia, a tiny, white bird of a woman, her face creased with pride and love. It is an image that goes to the heart of Balotelli's complex and engaging personality, and it speaks, too, to the questions that have barely begun to be tackled in Italy and continue to roil English football. The striker is a fascinating study in his own right, because of his talent and his turbulence, but Balotelli's is also a story about Europe and, above all, about identity.

In conversation with TIME, he by turns charms and perplexes, unexpectedly thoughtful but sometimes contradicting himself within a couple of sentences. For Balotelli's life is all about apparent contradictions: Can he be a star and a team player? Madcap and trustworthy? What does it mean to be black and Italian? A national hero and subject to national prejudice? Balotelli's success or failure in reconciling these elements will determine whether he fulfills his potential to shine as one of the greatest sportsmen of the age or flames out like a supernova. And though he declares he has no interest in being a role model, that he just wants to play football, his success or failure will resonate through the constituencies that see in him a reflection of their own struggles or the personification of their own hopes and fears.

The Italian Job

Football superstardom is most often bestowed on the very people least equipped to deal with its temptations and stresses: young men, rich in cash and testosterone, poor in judgment. Balotelli doesn't match that template. Unlike many footballers, he has brains in his head as well as his feet. At school he was good at mathematics; he considered studying sports science at university. Nor does he lack an understanding of what his priorities should be. "I have to train hard every training session. And give everything on the pitch," he says. "You have four or five things that the manager asks you to do, then you have to play like you can play and give everything."

There is no doubting his sincerity. But there is also no doubting his capacity to say one thing and do another, as those closest to him ruefully admit. The Internet is saturated with "Crazy Mario" lists, detailing antics on and off the pitch. A fair number of the latter have been embroidered by tabloid newspapers (he didn't drive through Manchester dressed as Santa Claus, handing out money; he didn't buy everyone in a Manchester pub a drink or pay to fill up the tanks of every car at a Manchester gas station) but his erratic behavior during matches has been remorselessly documented on TV and YouTube. There's an entertaining clip in which he struggles to put on a training bib (a moment inevitably dubbed Bibotelli) and more serious incidents in which he compromises his team's chances. During City's 2011 exhibition match against L.A. Galaxy, for example, he cleared the last defender, then pirouetted before attempting and failing to kick the ball backward into the goal.

A hyperactive child, who regularly demonstrated his nascent football skills by deliberately kicking his ball through the glass pane of a door in his home, he has ripened into a hyperactive adult. "He's always busy with lots of activities. He's doing something and then he has an idea, and he wants to do something else. He has one thought, and he has 100 thoughts after it," says Cristina Balotelli, his adoptive sister. "You make an appointment with him, and he changes twice."

Like her two brothers and her parents, she is protective of the vulnerable boy, still easily glimpsed in the full-grown man, who joined her family after a difficult start in life. She praises how quickly he learned English, his instinct to avoid the flattery and flummery that his celebrity brings. "He's a bit of a mix," she says. "He's smart, he's mature, but at the same time he doesn't want to grow up." His agent, Mino Raiola, describes him as a "free spirit" and "a Peter Pan, in the positive sense."

One key to Balotelli's reluctance to put away childish things seems easy enough to locate, in an early life lacking in childish pleasures. Born in 1990 in Palermo, Sicily, to Ghanaian immigrants named Thomas and Ruth Barwuah, Balotelli spent most of his first year in the hospital, as surgeons conducted a series of operations to fix an intestinal malformation that threatened to kill him. Such medically enforced separations in infancy can create enduring feelings of abandonment, and Balotelli has indicated in interviews that he has just such feelings. But he traces them not to his time in the hospital but to the decision of the Barwuahs, by then living in cramped quarters with another African family in Brescia, northern Italy, to place him in care after his release from the hospital. He wasn't yet 3 years old when he ended up with the foster parents who would later adopt him, the Balotellis. "They say that abandonment is a wound that never heals," Balotelli told Sportweek, the weekly supplement of Ġazzetta dello Sport, in 2008. "I say only that an abandoned child never forgets."

These days Balotelli does not discuss his birth parents; his birth mother, according to Britain's mass-market Daily Mail, has moved to Manchester to be near the only one of her four children whom she did not raise. The footballer may himself become a father soon. His ex-girlfriend Raffaella Fico, a reality-TV star in Italy, is pregnant with a child she says is his. Asked what kind of a parent Balotelli imagines he will be, he pauses as if to give this important question due consideration. "I think [my child will] need a mother who knows how to say no," he says eventually. "Maybe because as a small child, I suffered so much. And so I'll love him so much that maybe I won't be able to say no."

In Silvia, Balotelli found stability and a mother who says no. Balotelli says he listens to her advice and takes her reprimands to heart. When he took to bleaching his Mohawk, she relayed complaints to him from parents in Brescia that their kids were following suit. He gave up the dye. He describes her as "protective. She talks a lot. She's always right, almost always right. Patient. This is the character of my mother. For me my mother is everything."

It is the most Italian of sentiments, but Balotelli has been officially Italian only since 2008. According to Vittorio Rigo, Balotelli's attorney, the Barwuahs opposed Mario's adoption, and he had to wait until he was 18 to become a Balotelli — and an Italian. "Until that moment, he retained Ghanaian citizenship and missed the opportunity to represent Italy at the Beijing Olympics by just a few months," says Rigo.

The Balotellis accepted Mario from the moment they met him. Italy, the land of his birth, has not yet fully embraced him. In 2009, the Torino-based Juventus football club was penalized after its fans spent a match hurling racist abuse at him. Later that year, when Balotelli was out in central Rome, a stranger threw a bunch of bananas at his feet. "When I wasn't famous, I had a lot of friends, almost all of them Italian," he says. "The racism only started when I started to play football."

The Home of the Blues

That may be, in part, because Balotelli started to play football at the moment when Italy, buoyed by the false boom of the euro zone's party years and needing young workers to fill the deficit left by its rapidly aging population, became a magnet for economic migrants. In a photograph of Balotelli's grade-school football team, his is the only black face. It was an experience he repeated when he joined the Italian national under-21 team in 2008. His inclusion in the side reflected wider social change. Italy has become more diverse, and it has done so more rapidly than many other European countries. In 1990, the year of Balotelli's birth, just 1 Italian resident in 100 held a foreign passport. Today, that number is 1 in 12. Many of those migrants are black; many hold menial jobs. But a black middle class is also emerging as the children of migrants, born and raised in Italy and sometimes referred to as the "Balotelli generation," enter the workforce. Balotelli, the most prominent black Italian, has become a symbol of his country's uneasy transition.

Football stadiums across Europe provide pitch-side views of demographic change — and the hostility that change sometimes still provokes. English football has recently been riven by ugly incidents. Premier League club Chelsea's John Terry received nothing more than a fine and a four-match ban for racially abusing another player, provoking a storm of protest and a debate about how to eradicate racism from the sport. Other countries have yet to open that debate in earnest. Italian and Spanish football have long been plagued by a small number of fans throwing abuse and missiles at black players. England's Oct. 16 under-21 game against Serbia continued as Serbian fans made monkey noises at black English players and ended in an on-pitch brawl.

To Balotelli's eyes, Manchester's multiethnic vibrancy looks pretty good. "In England," he says, "everybody is equal." That perception isn't backed by the evidence. If Balotelli wants to see proof of social divisions, he need only take a short drive. A booklet handed to new signings by Manchester City's player-care department advises its stars to look for housing in the lushest, richest triangle of Cheshire, the lush, rich county abutting the west side of Manchester. Alderley Edge "has an elegance and style, which transcends the ephemeral nature of celebritydom," declares the booklet. It fails to mention the Cheshire village's status as the second least deprived area of Britain in a list calculated by a charity called the Church Urban Fund. City's stadium in east Manchester, by contrast, is situated near Collyhurst, the fourth most deprived area of Britain.

A chunk of City's new Middle Eastern wealth is being channeled into improving its neighborhood. That largesse goes down well with City fans, who have always taken pride in their club's homespun integrity. They dismiss United supporters, especially those born outside Manchester borders, as "glory hunters," seduced by the Reds' cabinets full of silver cups. The Blues' faithful, by contrast, have stuck by their team through the leanest of times. Ed Owen, chief executive of the British medical charity the Cystic Fibrosis Trust, and a City devotee since boyhood, remembers watching City win England's third most important domestic tournament. "I thought at the time that's what life was going to be like supporting Manchester City. I never tasted that again until last year," he says. "The worst moment would have been a cold Tuesday night in 1998, going to see City play Wycombe Wanderers in the old Third Division, to see City lose 1-0, which sent City to 10th place in the division."

On a rainy fall day, beneath clouds so gray that dawn bleeds into evening, City's training ground still feels pretty bleak. But Balotelli's white Bentley Continental GT brightens the scene, negotiating the narrow drive past a holding pen full of damp autograph hunters and hinting at the transformative impact of Sheik Mansour's money.

Balotelli parks between the supercars of his gilded colleagues and heads to the changing rooms to prepare for the morning training session. He's come to work in gold-glitter trainers and diamond ear studs, but not the fur-trimmed white cardigan with a skull picked out in rhinestones that he's pictured wearing in many of that day's tabloids. He lopes into reception, passing beneath the billboard proclaiming ABU DHABI TRAVELLERS WELCOME that would seem guaranteed to confuse anyone arriving at the facility for the first time. A 10-year, $643 million sponsorship deal with Abu Dhabi's government-owned Etihad Airways has inscribed the carrier's logo on the players' shirts and their stadium, while City's improved performance inscribed the club's name on the FA Cup, England's most important knockout competition, in 2011 and the Premier League trophy the following year. Three months into the new season, City is ranked third in the league, just after Chelsea and United. Nobody would dismiss its chances of overhauling its rivals by the spring, to carry off the Premiership for a second successive year. "People say, 'You must feel that it's not quite the real thing, [Mansour] paid for success, and that must devalue it.' I've never felt even an iota of that," says Owen.

The sheik has only once braved the Mancunian climate since he picked up the Blues in 2008 for $241 million in a fire sale as Thai authorities investigated corruption allegations against the previous owner, Thailand's former Prime Minister Thaksin Shinawatra. But Mansour's investment has lured others from sunnier reaches: Yaya Touré from the Ivory Coast, Pablo Zabaleta from Argentina, David Silva from Spain. In 2009, the Argentine striker Carlos Tevez traveled just a few miles, decamping from United to join City, but later blamed the weather for a bout of blues at the Blues that saw him take unauthorized leave from the club. (He has now rejoined the side.) Last winter he returned to his native country to bask on the beach and in the glow of celebrity, explaining to a chat-show host what he didn't like about Manchester. "The weather, everything. It has nothing," he said.

Balotelli attempts a more positive gloss on life in England. The rain doesn't bother him, he says, "because I never go out ... so it can rain as much as it wants to, and I'll be in the house." The local paparazzi regularly disprove that notion of a stay-at-home Mario by tracking him to nightspots. Even indoors, he isn't necessarily safe from getting into the scrapes that have raised his profile and risked lowering his game. The night before City's vital clash with United last October, the fire brigade answered an emergency call out to Balotelli's rented Cheshire mansion. A firework, set off inside the bathroom, had started a larger conflagration. He expiated any guilt for the incident — which he blames on an unnamed friend — three times over, with his two goals against United and by fronting a public-service campaign encouraging the safe use of fireworks.

Like the irrepressible child who kept kicking his football inside the house, the adult Balotelli doesn't have a straightforward relationship with authority. He respects some of its representatives and depends on them — after his family, Mancini, whom he describes as "like a father," has been a key figure in his life — but he doesn't always obey these parental figures. In his 2008 Sportweek interview, he wondered aloud about his tendency to react to provocations on the pitch "and how much it has to do with the abandonment." José Mourinho, now at Real Madrid, endured a fractious relationship with Balotelli when the Portuguese coach managed Inter Milan. Both men now appear to see the funny side. "I could write a book of 200 pages [about] my two years [at] Inter with Mario. But the book would be not a drama. The book would be a comedy," Mourinho told CNN. Balotelli concurs: "I think we were two funny people together." He adds, "But the main character would be him, not me."

As Mourinho's predecessor at Inter, Mancini spotted Balotelli's potential, giving the player a spot on the adult team when he was only 17. It was Mancini who later tempted Balotelli to City. These days Mancini seems unsure about his protégé's future. "Every day I say to Mario I've finished my patience, every day," says Mancini. "I've known Mario for six or seven years, and he played the first time in the first team with me. And for this I know very well him, and I can say that his talent is incredible." That talent, Mancini fears, is undermined by a lack of focus. "He needs to think only about his job, that he plays for a very important team, that he is to have good behavior always. Because the career of a player is very short."

A Problem like Mario

City is probably about as friendly a Premier League club as it is possible to find, as good a surrogate family as a player could hope for. Its wealth is too recent for its backroom staff to have acquired airs and graces. Founded in the 19th century by the daughter of a vicar aiming to lure blue collar Mancunians out of pubs and into a healthier form of social activity, the club now faces the challenge of keeping its charges out of pubs and in good health. "Nobody can predict what life will throw at you during the early hours of the morning. Whether it's neighborhood disputes, press invasion or seeking a solution for a domestic issue, we are here for you around the clock," promises the player-care booklet.

For Balotelli, a stranger in a strange country, support from City is critical in helping him handle the fireworks that so often seem to explode in his eventful life. He has formed a bond with Patrick Vieira, a former top footballer who has played in England and Italy and has taken on the job at City of nurturing upcoming talent. "I love Mario, and I get frustrated with him sometimes because of the mistakes he makes," says Vieira. "But he's a lovely, gentle person with a big heart."

Vieira identifies one hurdle for Balotelli in a cultural difference between English and Italian football. Balotelli is sometimes painted as a prima donna, focused too much on his goal tally and too little on team play, but Vieira explains that "Italian strikers are not used to defending. Mario is not used to tracking the defenders. Italian strikers have to score goals, but in England we ask them to work for the team, to defend. Mario hasn't had this football education."

The larger hurdle, though, is Balotelli himself, with his astonishing gift for football and his bewildering ability to compromise that gift. "Sometimes I have a discussion with him, saying 'Why are you doing all these stupid things because that's not you?' And he laughs, because he knows it's the truth," says Vieira. He has made a wager with Balotelli that the young player will behave himself this year. He declines to name the exact terms, but it's surely far from a safe bet.

And it's far from a safe bet that Balotelli's fans want their idol to learn to behave, or that it's entirely in his financial interest to do so. He may not yet be judged the world's greatest footballer — and he may never realize his potential — but he's already international football's greatest character, magnetic, funny, surprising and marketable. His question "Why always me?" inspired a track by the Ghanaian-born British rapper Tinchy Stryder. Balotelli and Stryder later collaborated with sportswear manufacturer Umbro to produce a shirt bearing the slogan. There's a chant that City supporters take up when Balotelli comes out to play: "He does what he wants, he does what he wants. Balotelli, he does what he wants."

"We'd hate him if he wasn't playing for us," says Blues fan Owen. "We love him because he's ours. Because he's so fantastic a player but so crazy. If he played for United, he would be the absolute hate figure. He's flashy, he's arrogant, he's brilliant — and he's ours." The last point may not be true for long, if Mancini's patience runs out or Balotelli's impulses take him elsewhere. Raiola declines to comment on a fresh flurry of speculation that his client is considering a return to Italy to play for A.C. Milan, but adds, "That Mario is in demand is not in question." And the decisions Balotelli makes won't just determine the colors he wears or whether he plays in rain or sun; they could shape or destroy his legacy, give him the stability to succeed or help him to squander that amazing talent. Balotelli, like his club, his country and his continent, is in transition. Nobody can predict how the game will end.

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Rangers in fresh trouble as club’s

key shareholder faces tax inquiry

by ALEXI MOSTROUS (THE TIMES 02-11-2012)

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Rangers went into administration after tax problems at Ibrox mounted

Times photographer, James Glossop

Criminal investigations have been launched into tax schemes sold by a key shareholder in Rangers Football Club, The Times has learnt.

Richard Hughes, the co-founder of Zeus Capital, the finance company at the centre of the Rangers takeover, also set up Zeus Partners, which created and marketed a £134 million film investment scheme that HM Revenue & Customs suspects may be part of an illegal effort to generate millions of pounds in tax relief.

The Revenue is understood to be investigating 17 companies set up by Zeus Partners. Criminal investigations by HMRC are reserved for the most serious cases of suspected illegality including those where “only a criminal sanction is appropriate”.

Mr Hughes, who has more than two million shares in Rangers, a stake of 6.8 per cent, played a pivotal role in the purchase of the Glasgow club after it went into administration in February. The collapse came after Rangers’ previous owners became embroiled in disputes with the Revenue. The club has been beset by tax problems that led to the new Rangers, who play at Ibrox Stadium, being forced to start from the fourth tier of Scottish football this season.

The Revenue claims to be owed an estimated £73 million in tax and penalties after the club used a tax avoidance scheme to pay its players for nearly a decade. Rangers went into administration over a separate tax problem, when Craig Whyte, who bought it last year, failed to pay an £18 million PAYE bill.

When Zeus Capital and the businessman Charles Green bought the club for £5.5 million in June, they presented their consortium of investors as a “new beginning”. But a year before the acquisition, Revenue officials raided premises associated with Zeus Partners, two sources told The Times, as well as offices of Seven Arts Entertainment, the US film company that was counterparty to the deal. Neither Zeus Partners nor HMRC commented on the alleged raid.

“They showed up, knocked on the door, and said, ‘We want to come and look at the records’,” one person said of the Seven Arts raid. “They took everything under the sun.”

Mr Hughes, who has one of the biggest shareholdings in Rangers, founded Zeus Partners as an offshoot of Zeus Capital, in 2006. It was set up so wealthy individuals could access “returns that Zeus Capital has been achieving for its corporate clients”. Two other partners run the day-to-day business, although one said that Mr Hughes retained an “active role”.

Mr Hughes stands to make millions of pounds when Rangers floats on the stockmarket before Christmas. Three other Zeus Capital executives, who do not work at Zeus Partners, own stakes in the club, making the finance house collectively its largest owner. There is no evidence that Zeus Capital marketed schemes similar to those offered by Zeus Partners. The Revenue is not investigating Zeus Capital, the company involved in the Rangers takeover.

Zeus Partners’ controversial film deal attracted about 165 high-net worth individuals including Hugh Sloane, the hedge-fund mogul and Tory donor, and Laurie McIlwee, chief finance officer of Tesco. Individual investors are not being investigated by HMRC, however.

Each investor was offered a “high-risk film production” deal to buy a total of eight new films and some library content from Seven Arts.

The deal was structured so that, in the event that the films were “blockbusters”, the investors would double their money. If they did badly, the investment would be largely wiped out and the cost could be written off against the investors’ other income.

Films purchased from Seven Arts included Knife Edge, a 2009 British thriller starring Hugh Bonneville and Tamsin Egerton, The Winter Queen, starring Milla Jovovich, and Autopsy, a horror film directed by Adam Gierasch.

None appears to have achieved anywhere close to the “blockbuster” level that would have generated profit. American Summer made only $2,269, according to Box Office Mojo. Deal, a 2008 film starring Burt Reynolds, is said to have made $61,625.

A year after signing the deal in May 2008, Zeus Partners declared that each of the 17 companies was worthless, their accounts show, enabling investors to claim tax relief.

At the time, however, a number of films had yet to be released. One, The Winter Queen, had not been made. “One of the key questions is how would the investors have known the stock was worthless as early as 2009, when some of the titles had yet to be released,” a person close to Seven Arts said.

Up to 84 per cent of an investor’s contribution was financed by a loan from Seven Arts. The loan was secured against the companies, so investors were not personally liable if films failed.

An investor who put in £160,000 could borrow about £840,000 and claim tax relief on the full £1 million without being liable to pay back the loan. For a high-net-worth investor the tax relief would be between £400,000 and £500,000.

Rebus Investment Solutions, a company representing several disgruntled Zeus investors, said their clients had been advised that the film deal was a “win-win scenario”. “The deal was based on the notion that, if the films were successful, investors would see huge returns and, if they were unsuccessful, they would be able to claim tax relief on the losses,” a spokesman said. “Such a bullish view failed to take into account the significant risks, including potential challenges by HMRC.”

A Rangers spokesman said yesterday that Mr Hughes was “one of a number of minority investors” and had “no involvement in the management of the club”, and that Rangers had “no business relationship with Zeus Capital”.

However, in June, Zeus Capital said that it “worked in conjunction with Charles Green to complete the £5.5 million acquisition of Rangers”. In the same month, Zeus Capital was described by Malcolm Murray, the new chairman, as “the primary advisers” on the Rangers deal.

Mr Hughes is understood to believe that the focus of the criminal investigation is on Seven Arts, not Zeus Partners. He denied that the film investments could be illegal or amounted to tax avoidance. The investments had been approved by qualified accountants before being marketed. He also said that he had not been contacted by HMRC in relation to the film investigation since it began about 18 months ago.

A spokesman for Zeus Partners said: “Zeus Partners provided a number of high-risk investment opportunities, backing highly successful entrepreneurs with a proven track record across a number of sectors. Individual investors had the option of claiming HMRC statutory relief in the event that the investments were unsuccessful. We are aware that there is an HMRC investigation into these and other investments under way at this time and Zeus Partners is providing its full co-operation to HMRC.”

Seven Arts strongly denied claims that it, rather than Zeus, was the focus of the Revenue investigation. Peter Hoffman, chief executive of Seven Arts, said: “There was nothing fraudulent about the transaction, it was perfectly valid. These were real movies we were intending to make money on.”

Mr Sloane said he had not claimed for tax relief on the Seven Arts investment. Mr McIlwee and the Revenue both declined to comment.

Modificato da Ghost Dog

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Bentornato derby d'Italia (la Repubblica SERA 02-11-2012)

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Juventus, un silenzio che sa di paura

Scritto da Eurosport | Pallonate

La squadra più forte d'Italia non parla. La Juventus, forte dello scudetto sul petto e di un filotto di 49 partite(dicasi 49!) senza sconfitte, decide ancora una volta di non presentare nessun suo rappresentante a parlare in conferenza stampa prima della partita più importante. Certo, non siamo a una giornata dal termine del campionato e Juventus e Inter non sono a un punto di distanza, ma è innegabile che il match in programma allo Juventus Stadium sabato sera sia uno dei più importanti di questo inizio stagione.

Un successo bianconero vorrebbe dire "tentativo di fuga", uno nerazzurro sancirebbe la chiusura di un ciclo da urlo. Ebbene, la conferenza stampa che si doveva tenere alla vigilia del Derby d'Italia invece salta, e nemmeno senza troppo clamore. Ma come, Angelo Alessio, Massimo Carrera, nemmeno il buon Claudio Filippi (preparatore dei portieri "lanciato" nel pre-partita contro la Roma) poteva palesarsi per rappresentare la squadra più titolata d'Italia che affronta un'altra delle squadre più blasonate d'Italia, che arriva da otto vittorie in fila?

Il rumoroso silenzio della Juve continua: anche prima del match contro il Bologna nessuna si era esposto. Incombevano ancora pesantissime le polemiche dopo il match super-contestato del Massimino, e poi, ovviamente si entrava nella settimana pre-Inter. "Non si volevano fomentare polemiche e veleni": questa sembra essere la motivazione "a latere" della decisione, anche se in realtà i veleni paventati stanno "a zero", dopo le sbandierate telefonate tra Agnelli e Moratti, e dopo che lo stesso presidente nerazzurro aveva addirittura stigmatizzato sui fatti di Catania.

La scelta del club di Corso Galileo Ferraris non poteva che essere sottolineata.Vedetela voi come volete, ma più che una scelta di non belligeranze a noi sembra un piccolo ma evidente segnale d'allarme, uno scricchiolio di paura da parte di una corazzata che sa che, sabato come non mai, il proprio record potrebbe anche crollare. Un'insicurezza che di questi tempi potrebbe costare cara. "La Juve ha quattro punti più di noi, ha lo scudetto sul petto, non fa la conferenza stampa, e gli devo pure dire la formazione?": Andrea Stramaccioni guarda al match con la Juventus a testa alta; perché Conte e i suoi non fanno lo stesso?

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L’INCHIESTA

Quelle triangolazioni proibite

che insospettiscono il fisco

Da Bottinelli a Roncaglia tutti i calciatori ceduti a club esteri solo di passaggio

Parte dall’Argentina uno scandalo che mina la legalità del mercato mondiale

I trasferimenti dei club sotto ispezione sono 444 mentre 146 sono gli agenti

La vicenda è stata seguita da un giudice discusso: è Norberto Oyarbide

di PIPPO RUSSO (Pubblico 03-11-2012)

Tutto parte da Jonathan Bottinelli, difensore argentino classe 1984 protagonista d’un fugace passaggio alla Sampdoria nel 2008-09. Di quell’avventura genovese rimangono negli archivi soltanto il gol della vittoria contro il Siviglia che qualifica i blucerchiati ai sedicesimi di Coppa Uefa e il repentino ritorno in patria a gennaio 2009, motivato da nostalgia e ragioni familiari. Lo scorso agosto Bottinelli fa parlare di sé per il passaggio dal San Lorenzo de Almagro al River Plate. Ma il motivo di tanto interesse mediatico non riguarda l’aspetto calcistico dell’affare, quanto il fatto che esso richiami l’attenzione dell’Administracion Federal de Ingresos Publicos, l’agenzia argentina delle entrate. L’Afip vuol vederci chiaro su un dettaglio: perché mai il giocatore transita attraverso il club cileno dell’Unión San Felipe anziché passare direttamente dal San Lorenzo al River?

Per la cronaca, Bottinelli in Cile non mette piede. Il suo passaggio dall’Unión San Felipe avviene soltanto sulla carta. E qualsiasi operatore del calciomercato globale risponderebbe al quesito dell’Afip con un’alzata di spalle, specificando che il meccanismo in questione si chiama “triangulacion” e in Argentina è la norma. Ma per l’agenzia una risposta così non è soddisfacente. Quella triangolazione significa ben altro. Certamente evasione fiscale, dato che la transazione via estero permette d’alleggerire il pagamento di tasse; e probabilmente anche riciclaggio di denaro.

Il trasferimento di Bottinelli viene bloccato in attesa di chiarimenti, e il giocatore riesce a tornare in campo soltanto a settembre dopo aver pagato all’Afip una multa da 2 milioni e 500 mila pesos (circa 15.500 euro). Ma a quel punto lo scandalo ha già preso delle dimensioni esorbitanti. I trasferimenti di calciatori messi sotto ispezione dal fisco sono 444 e, assieme a essi, vengono valutate le posizioni di 146 agenti di calciatori. La lista degli atleti coinvolti annovera sia nomi sconosciuti che illustri. Fra gli altri: Andrés D’Alessandro, Mariano Andujar, Ever Banega, Maxi Lopez, Facundo Roncaglia, Javier Pastore, Martin De Michelis, Sergio ‘El Kun’ Aguero, Javier Mascherano, Ezequiel Lavezzi, Fabricio Coloccini, Gabriel Heinze. Vi si trovano anche nomi di calciatori stranieri, ma in passato impegnati nel campionato argentino come l’uruguaiano Diego Forlan, quello dell’ex azzurro Mauro German Camoranesi, e quelli di ex atleti argentini come il portiere della nazionale Roberto Abbondanzieri, lo juventino Juan Pablo Sorin, il bomber “loco” Martin Palermo, Gabriel Milito (fratello dell’attaccante interista) e persino Gustavo Grondona; che non meriterebbe particolarmente la menzione se non fosse nipote di Julio Grondona, presidente-satrapo della federcalcio argentina dal 1979 nonché vicepresidente della Fifa.

La questione assume una dimensione gigantesca anche per impulso del giudice federale Norberto Oyarbide. Che in Argentina è personaggio quantomeno discusso, come racconta la biografia “Sr. Juez” scritta da Daniel Santoro, giornalista del quotidiano “Clarin”. Per dire, alla fine degli anni Novanta, il giudice si trova a respingere l’accusa d’aver coperto il bordello gay “Spartacus”, del quale risulta essere un cliente vip. Si parla pure d’un video imbarazzante. Come uno Scajola ante litteram, Oyarbide si difese dicendo d’essersi trovato più volte in quel locale senza sapere che tipo di attività vi si svolgesse. Di sicuro il giudice è molto vicino al regime della famiglia presidenziale (l’ex presidente Nestor Kirchner, deceduto nel 2010, e la moglie Cristina Fernández eletta capo di stato nel 2007), e trova sempre il modo di vedersi assegnare i dossier giudiziari più rumorosi in termini mediatici. All’affaire delle triangolazioni approda da un altro versante: quello che riguarda la falsificazione di passaporti fatta allo scopo di acquisire lo status di cittadino comunitario. Indagando sulle concessioni di cittadinanza comunitaria a Diego Placente dell’Argentinos Juniors, a Diego Forlìn (attualmente in forza all ’Espanyol Barcellona), e al portiere Juan Pablo Carrizo (ex Lazio e Catania), Oyarbide s’imbatte in quegli oscuri meccanismi di mercato e li segnala all’Afip. Il cui presidente Ricardo Echegaray, anch’egli di stretta osservanza kirchneriana, sferra un attacco al calcio che fra agosto e settembre rischia di paralizzare il campionato. La quarta giornata del torneo, disputata nell’ultimo weekend di agosto, registra la defezione di una ventina di giocatori fermati dai loro club a scopo cautelativo su richiesta dell’Afip. In quei giorni il quotidiano sportivo “Olé” si diverte a costruire un fotomontaggio allineando gli 11 più forti fra i ”congelati”, e chiedendo quale altra squadra del campionato sarebbe stata capace di battere una formazione così.

Ma poi lo scandalo si allarga in dimensioni tali da rendere impossibile estendere questa misura a tutti i coinvolti in trasferimenti sospetti. Mentre il pallone riprende a rotolare dentro una finzione di normalità, l’inchiesta va avanti. E porta alla luce l’esistenza di una serie di club la cui funzione sul mercato è fare da sponda per le triangolazioni: uno in Svizzera (il Locarno), sette in Uruguay (Sud America, Fenix, Progreso, Bella Vista, Cerro, Rampla Juniors e Boston River) e due in Cile (Rangers e Unión San Felipe). Dal Fenix “transita” la scorsa estate Facundo Roncaglia prima di approdare alla Fiorentina. Per quanto riguarda invece il già citato Unión San Felipe, si segnala per una curiosità: il suo proprietario è Ramón Raúl Delgado, ex cronista del quotidiano conservatore “La Nacion” che rivestì il ruolo di portavoce dell’ex presidente della repubblica argentina Carlos Menem. Altro personaggio opaco del quale ci si occuperà. Di questo gigantesco scandalo del calcio argentino in Italia si parla poco o nulla. Come fosse soltanto una remota vicenda di calcio estero. Ma quando lo scorso 3 ottobre i militari della Guardia di Finanza conducono una perquisizione nelle sedi del Napoli e della Figc, in cerca di contratti sospetti, il nesso emerge immediato. Forse l’ondata sta per arrivare anche qui.

(1/ continua)

Modificato da Ghost Dog

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