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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Joined: 31-Jul-2007
1401 messaggi

CARTA CANTA

I biscotti non sono tutti uguali

Quando l'Italia fu buttata fuori dagli Europei con un pareggio sospetto

i nostri gridarono allo scandalo. Compreso Buffon. Che ora s'indigna

per le indagini sul calcio e perdona chi "fa i conti" sui risultati

di MARCO TRAVAGLIO (l'Espresso | 14 giugno 2012)

Il 22 giugno 2004, allo stadio di Oporto, Danimarca e Svezia disputano il

quarto di finale degli europei di calcio in Portogallo. Se una delle due vince,

passa il turno con l'Italia di Trapattoni. Se invece pareggiano, si

qualificano entrambe e l'Italia torna a casa. Alla vigilia il portiere della

Nazionale azzurra avverte: "Se fanno davvero 2-2, altro che Ufficio inchieste:

direttamente le teste di cuoio in campo ci vogliono!". Quella sera, sugli

spalti di Oporto, le due tifoserie srotolano striscioni beffardi: "2-2 e ciao

Italia". In campo i calciatori scherzano sul pareggio annunciato e sugli

italiani che sospettano il "biscotto". Finisce puntualmente 2-2, dopo una

partita molto combattuta, risolta però all'ultimo minuto con il gol dello

svedese Jonson favorito da una mezza papera del portiere danese

Sorensen. Seguono quattro minuti di melina, prima del fischio finale dell'arbitro.

Le due squadre vanno in semifinale, gli azzurri sono eliminati.

Del Piero alla fine non vuol fare polemiche: "Non cerchiamo scuse". Anche

Trapattoni, subito esonerato, dice: "Non voglio credere a una combine". Ma gli

altri azzurri, da Panucci a Zambrotta, da Pirlo a Cannavaro, fremono di sdegno

e sparano a zero sui colleghi scandinavi e il loro "biscotto" ammazza-Italia.

Il più indignato è sempre il portiere: "Il 2-2 è uno schifo, uno scandalo a

livello mondiale. Ha perso soprattutto lo sport. Provo vergogna, ma non per

noi: per gli svedesi e i danesi. L'hanno fatta proprio sporca. E pensare che

il calcio, non essendo solo soldi e business, dovrebbe dare insegnamenti ed

esempi. Ma dopo questo pareggio che cosa penseranno i giovani? Che è giusto

mettersi d'accordo anche a 13 anni per vincere la coppa della parrocchia".

E chi è questo portiere, autentica reincarnazione di Catone il Censore?

Gianluigi Buffon: toh, lo stesso che l'altro giorno se l'è presa con i pm che

indagano sul calcio scommesse e con i giornalisti che lo raccontano

denunciando la "vergogna" della presunta giustizia a orologeria. Poi ha

giustificato i pareggi in saldo da fine stagione: "Se a due squadre va bene il

pareggio, possono anche pareggiare. Sono affari loro. Alcune volte, se uno ci

pensa bene, che cosa devi fare? Meglio due feriti che un morto. E chiaro che

le squadre le partite se le giocano. Ma ogni tanto anche qualche conto è

giustificato farlo".

Ohibò: pareggiare per convenienza non è più uno schifo? E, dopo queste

dichiarazioni, che cosa penseranno i giovani? Che allora è giusto mettersi

d'accordo anche a 13 anni per vincere la coppa della parrocchia? Anziché

convocare Buffon e dargli qualche ripetizione di lealtà sportiva, il

presidente della Figc Abete s'è affrettato a giustificarlo: "Buffon ha sempre

adottato una linea di trasparenza: un conto è la necessità di vincere o

pareggiare, altro l'accordo che non è accettabile". Sarà, ma in un paese meno

smemorato, Buffon dovrebbe spiegare a cosa si deve e a quando risale la sua

improvvisa conversione al cinismo machiavellico. O aggiungere: "Il pareggio di

convenienza va bene solo se conviene a me". In attesa delle prove sulla

giustizia a orologeria, ecco una bella prova di moralismo a orologeria.

P. S. Nell'ultima giornata del campionato 2004-2005, il Parma pareggiò a

Lecce 3-3: la Fiorentina si salvò e, dopo lo spareggio, il Bologna retrocesse.

Molti giocatori leccesi, tra i fischi dei tifosi e gli urli dell'allenatore

Zeman, s'impegnarono ben poco. Nel processo di Calciopoli, per quel biscotto,

il tribunale di Napoli ha condannato i fratelli Della Valle, il designatore

Bergamo e l'arbitro De Santis. Sentito come teste, Zeman ha spiegato: "Secondo

me qualcuno del Parma ha pregato i miei giocatori di desistere, questo capita

spesso. Ma salvare qualcuno per condannare un altro non è nella mia mentalità

e quindi volevo che la mia squadra, che aveva giocato bene per un'ora,

continuasse a giocare". Sarà mica per questa mentalità deviata che Zeman non

allena in serie A da dieci anni?

e va bene hai ragione te su tutto

basta che la pianti .stica

ah un saluto alla tua

squadra del c.. :interxxx:

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Joined: 14-Jun-2008
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CONTROMANO di CURZIO MALTESE (IL VENERDI DI REPUBBLICA | 8 GIUGNO 2012)

LO SCANDALO DEL CALCIO?

DA NOI CHI È LIMPIDO

NON HA MOLTA FORTUNA

Mario Monti ha avuto il merito, da commissario europeo, di bloccare la

vergognosa legge «salva calcio» proposta dal governo Berlusconi per ridurre

i debiti del Milan e incidentalmente anche di tutte le altre squadre di calcio

italiane, a spese dei contribuenti. Già all’epoca fu un bersaglio degli strali

del popolo del calcio. Tanto più in questi giorni, dopo aver proposto il

blocco del campionato per due o tre anni, come risposta agli scandali

a ripetizione.

È evidente che al professore il calcio non piace. Bloccare il campionato

sarebbe una follia. Non saprei, fra l’altro, come spiegarlo a mio figlio di

dieci anni che ha scoperto la passione per il pallone e ormai parla di

tattiche come Caressa. Ma non mi piace nemmeno la totale assenza di

reazioni da parte degli appassionati al fatto che il calcio italiano, come

evidenziano le inchieste, è per buona parte in mano alle mafie. Intendiamoci,

il business delle scommesse, esploso a livelli incredibili negli ultimi anni (il

60 per cento del commercio sulla rete), costituisce una minaccia per

tutti i campionati del mondo. Ma negli altri Paesi gli scandali scoppiano ogni

dieci, quindici anni. In Italia ogni due o tre. Segno che il sistema è marcio.

Segno anche che il governo del calcio è del tutto inadeguato ad affrontare

il problema. La federazione non ha fatto nulla dopo il primo, il secondo, il

terzo scandalo. Il capitano della nazionale, Buffon, se ne esce con una

filippica contro i magistrati che sembra presa da una registrazione di Ghedini.

In passato i pochi che hanno osato denunciare le storture del calcio, dalla

corruzione al doping, hanno pagato con l’ostracismo dall’ambiente. Uno di

questi è il meraviglioso Zdenek Zeman, una delle poche figure di persone

limpide.

Ma Zeman, che è italiano, e anzi un italiano di cui andare fieri, viene

comunque da fuori. Ora, perché la corruzione in politica evoca strali comuni

e quella nel calcio trova tante complicità? Perché in politica ha vinto questa

strana idea populista per cui gli italiani brava gente non sono responsabili

delle malefatte della classe dirigente. Loro vorrebbero eleggere dei

galantuomini capaci, ma per colpa del fato a ogni elezione vincono dei

manigoldi, piovuti da Marte, frutto di un complotto ordito altrove. Ma il

calcio no, il pallone è sacro. Non si può ammettere che anche il nostro

campionato sia il più corrotto d’Europa, il peggio amministrato, popolato di

mafiosi e delinquenti a tutti i livelli, dai capi ultras ai presidenti. Perché

allora bisognerebbe riflettere sulla complicità di massa che circonda

l’illegalità. Meglio dire che si tratta di poche mele marce, piccoli clan,

probabilmente stranieri infiltrati.

-------

PER POSTA di MICHELE SERRA (IL VENERDI DI REPUBBLICA | 8 GIUGNO 2012)

COSA RESTA DEL CALCIO TRA

SCANDALI E RICATTI NEGLI STADI

Caro Serra, mentre la parte più debole del Paese arranca,

i calciatori, categoria di miliardari, strapagati, mediaticamente

sovraesposti, idolatrati e tenuti in ostaggio da gang di ultrà non

meno che da un giornalismo «specializzato» ai confini della realtà,

non paga dei propri guadagni e averi, trucca le scommesse e si

fa corrompere per brama di possesso ancora superiore, per smania

di ulteriore lucro, per autentica e patologica «lussodipendenza».

L’avidità dei ricchi genera la rabbia dei poveri, ma credo sia da

temere assai più la prima della seconda.

Roberto Pugliese | email

Caro Pugliese, non bisogna generalizzare: sicuramente

ci saranno calciatori muniti di etica sportiva, e perfino

di etica in senso lato. Ma va detto che l’ambiente, nel

suo insieme, qualcosa di respingente e di poco simpatico

ce l’ha. Presidenti dispotici e prepotenti, che licenziano

gli allenatori dopo un paio di sconfitte (dimostrando, loro

per primi, di non sapere perdere) e danno, della figura

del padrone, un’immagine vecchia e desolante. Calciatori

che appaiono tanto narcisi quanto fragili, attaccati ai quattrini

molto più che alla maglia, terrorizzati all’idea di esprimere

anche una mezza idea politica (ammesso che ne abbiamo una).

Frequentazioni spesso compromettenti, quel démi-monde

di trafficoni, starlette, mediatori, scommettitori che pullula

nei locali notturni. E su tutto (e peggio di tutto)

l’incombente, orrenda intrusione delle tifoserie di curva,

molto spesso pesantemente infliltrate dalla malavita, che

ricattano le società, tengono in pugno i calciatori di minor

carattere, condizionano la vita del calcio in maniera

permanente e inaccettabile. L’episodio di Genova (i giocatori

che consegnano a capo chino le maglie ai capobastone

della curva, immagine circolata in tutte le televisioni) è uno

dei punti più bassi mai raggiunti dallo sport mondiale.

Quasi peggio del Calcioscommesse.

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Joined: 14-Jun-2008
11014 messaggi

NO, GRAZIE di PINO CORRIAS (VANITY FAIR | 13.06.2012)

Soldi e scommesse: dai, Buffon,

adesso non fare il Bossi

Non abbiamo fantasia di gioco, non abbiamo il senso della squadra,

non abbiamo attacco. E se è per questo non abbiamo neanche

difesa. Vi sarete accorti anche voi - dopo il 3 a 0 che ci hanno

impartito i mediocri calciatori russi - quanto assomigli la nostra

Nazionale di calcio al Paese che le siede mormorando intorno, l'Italia.

Tutti e due stanno, stiamo, ai bordi dell'Europa, quasi ultimi nella

classifica delle qualificazioni per i prossimi Europei, penultimi in

tutto il resto, dal baratro dello spread a quello della disoccupazione,

senza dimenticarci la vergogna della corruzione.

Siccome quando si tratta di essere i peggiori ce la mettiamo tutta,

non ci siamo neanche negati il terzo, il quarto, anzi l'ennesimo

scandalo scommesse, questa volta esibendo un mercato globale della

truffa, che va da Bergamo a Napoli, passa per la Romania e Singapore.

Abbiamo i calciatori più milionari del mondo, così come abbiamo

il personale politico più pagato di ogni altro in Occidente. Ma

evidentemente i soldi non bastano mai. Oppure sarà colpa della

noia: troppi tatuaggi, troppi benefit, troppe spider, troppe pupe,

troppa televisione. Buffon, pescato a versare un milione e mezzo di

euro l'anno a una sala scommesse, dice che dei suoi soldi ne fa quello

che vuole, almeno fino a quando non viola il codice sportivo e quello

etico. Deve essersi distratto, ultimamente.

Non si è accorto che Umberto Bossi, pescato con il Trota in bocca, ha

detto più o meno la stessa cosa, parlando dei soldi della Lega. Che da

allora è scomparsa. Speriamo che Buffon non faccia la stessa fine tra

i pali della Nazionale.

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Joined: 01-Jun-2005
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CARTA CANTA

I biscotti non sono tutti uguali

Quando l'Italia fu buttata fuori dagli Europei con un pareggio sospetto

i nostri gridarono allo scandalo. Compreso Buffon. Che ora s'indigna

per le indagini sul calcio e perdona chi "fa i conti" sui risultati

di MARCO TRAVAGLIO (l'Espresso | 14 giugno 2012)

Il 22 giugno 2004, allo stadio di Oporto, Danimarca e Svezia disputano il

quarto di finale degli europei di calcio in Portogallo. Se una delle due vince,

passa il turno con l'Italia di Trapattoni. Se invece pareggiano, si

qualificano entrambe e l'Italia torna a casa. Alla vigilia il portiere della

Nazionale azzurra avverte: "Se fanno davvero 2-2, altro che Ufficio inchieste:

direttamente le teste di cuoio in campo ci vogliono!". Quella sera, sugli

spalti di Oporto, le due tifoserie srotolano striscioni beffardi: "2-2 e ciao

Italia". In campo i calciatori scherzano sul pareggio annunciato e sugli

italiani che sospettano il "biscotto". Finisce puntualmente 2-2, dopo una

partita molto combattuta, risolta però all'ultimo minuto con il gol dello

svedese Jonson favorito da una mezza papera del portiere danese

Sorensen. Seguono quattro minuti di melina, prima del fischio finale dell'arbitro.

Le due squadre vanno in semifinale, gli azzurri sono eliminati.

Del Piero alla fine non vuol fare polemiche: "Non cerchiamo scuse". Anche

Trapattoni, subito esonerato, dice: "Non voglio credere a una combine". Ma gli

altri azzurri, da Panucci a Zambrotta, da Pirlo a Cannavaro, fremono di sdegno

e sparano a zero sui colleghi scandinavi e il loro "biscotto" ammazza-Italia.

Il più indignato è sempre il portiere: "Il 2-2 è uno schifo, uno scandalo a

livello mondiale. Ha perso soprattutto lo sport. Provo vergogna, ma non per

noi: per gli svedesi e i danesi. L'hanno fatta proprio sporca. E pensare che

il calcio, non essendo solo soldi e business, dovrebbe dare insegnamenti ed

esempi. Ma dopo questo pareggio che cosa penseranno i giovani? Che è giusto

mettersi d'accordo anche a 13 anni per vincere la coppa della parrocchia".

E chi è questo portiere, autentica reincarnazione di Catone il Censore?

Gianluigi Buffon: toh, lo stesso che l'altro giorno se l'è presa con i pm che

indagano sul calcio scommesse e con i giornalisti che lo raccontano

denunciando la "vergogna" della presunta giustizia a orologeria. Poi ha

giustificato i pareggi in saldo da fine stagione: "Se a due squadre va bene il

pareggio, possono anche pareggiare. Sono affari loro. Alcune volte, se uno ci

pensa bene, che cosa devi fare? Meglio due feriti che un morto. E chiaro che

le squadre le partite se le giocano. Ma ogni tanto anche qualche conto è

giustificato farlo".

Ohibò: pareggiare per convenienza non è più uno schifo? E, dopo queste

dichiarazioni, che cosa penseranno i giovani? Che allora è giusto mettersi

d'accordo anche a 13 anni per vincere la coppa della parrocchia? Anziché

convocare Buffon e dargli qualche ripetizione di lealtà sportiva, il

presidente della Figc Abete s'è affrettato a giustificarlo: "Buffon ha sempre

adottato una linea di trasparenza: un conto è la necessità di vincere o

pareggiare, altro l'accordo che non è accettabile". Sarà, ma in un paese meno

smemorato, Buffon dovrebbe spiegare a cosa si deve e a quando risale la sua

improvvisa conversione al cinismo machiavellico. O aggiungere: "Il pareggio di

convenienza va bene solo se conviene a me". In attesa delle prove sulla

giustizia a orologeria, ecco una bella prova di moralismo a orologeria.

P. S. Nell'ultima giornata del campionato 2004-2005, il Parma pareggiò a

Lecce 3-3: la Fiorentina si salvò e, dopo lo spareggio, il Bologna retrocesse.

Molti giocatori leccesi, tra i fischi dei tifosi e gli urli dell'allenatore

Zeman, s'impegnarono ben poco. Nel processo di Calciopoli, per quel biscotto,

il tribunale di Napoli ha condannato i fratelli Della Valle, il designatore

Bergamo e l'arbitro De Santis. Sentito come teste, Zeman ha spiegato: "Secondo

me qualcuno del Parma ha pregato i miei giocatori di desistere, questo capita

spesso. Ma salvare qualcuno per condannare un altro non è nella mia mentalità

e quindi volevo che la mia squadra, che aveva giocato bene per un'ora,

continuasse a giocare". Sarà mica per questa mentalità deviata che Zeman non

allena in serie A da dieci anni?

Ma davvero ti fa così male il C**O che Buffon abbia denunciato che esseri vergognosi siete tu e la tua associazione a delinquere mediatico giudiziaria?

Adesso dopo l'enorme figura di m***a fatta inquisitore di questo catzo che non sei altro ti vuoi salvare in calcio d'angolo denunciando l'incoerenza di Buffon, uno che i biscotti li ha subiti ed ha imparato che succedono e non te la puoi prendere con nessuno (vedi dichiarazioni di Del Piero). Travaglio sei ancora più ridicolo quando ti affanni ad arrampicarti sugli specchi.

Cerchi sempre di metterti da sopra anche quando gli eventi ti dovrebbero vedere chiedere scusa in ginocchio. VERME!!!!!!!!

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Joined: 10-Sep-2006
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NO, GRAZIE di PINO CORRIAS (VANITY FAIR | 13.06.2012)

Soldi e scommesse: dai, Buffon,

adesso non fare il Bossi

Non abbiamo fantasia di gioco, non abbiamo il senso della squadra,

non abbiamo attacco. E se è per questo non abbiamo neanche

difesa. Vi sarete accorti anche voi - dopo il 3 a 0 che ci hanno

impartito i mediocri calciatori russi - quanto assomigli la nostra

Nazionale di calcio al Paese che le siede mormorando intorno, l'Italia.

Tutti e due stanno, stiamo, ai bordi dell'Europa, quasi ultimi nella

classifica delle qualificazioni per i prossimi Europei, penultimi in

tutto il resto, dal baratro dello spread a quello della disoccupazione,

senza dimenticarci la vergogna della corruzione.

Siccome quando si tratta di essere i peggiori ce la mettiamo tutta,

non ci siamo neanche negati il terzo, il quarto, anzi l'ennesimo

scandalo scommesse, questa volta esibendo un mercato globale della

truffa, che va da Bergamo a Napoli, passa per la Romania e Singapore.

Abbiamo i calciatori più milionari del mondo, così come abbiamo

il personale politico più pagato di ogni altro in Occidente. Ma

evidentemente i soldi non bastano mai. Oppure sarà colpa della

noia: troppi tatuaggi, troppi benefit, troppe spider, troppe pupe,

troppa televisione. Buffon, pescato a versare un milione e mezzo di

euro l'anno a una sala scommesse, dice che dei suoi soldi ne fa quello

che vuole, almeno fino a quando non viola il codice sportivo e quello

etico. Deve essersi distratto, ultimamente.

Non si è accorto che Umberto Bossi, pescato con il Trota in bocca, ha

detto più o meno la stessa cosa, parlando dei soldi della Lega. Che da

allora è scomparsa. Speriamo che Buffon non faccia la stessa fine tra

i pali della Nazionale.

Che catzo di paragone fa?

I soldi della lega nord erano soldi pubblici, dello stato italiano, presi dalle nostre tasche.

I soldi di Buffon sono un corrispettivo contrattato per delle prestazioni che le leggi del mercato del calcio permettono.

Veramente non sanno più che dire.

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Joined: 14-Jun-2008
11014 messaggi
Inviato (modificato)

Avvocati e sport: quali

prospettive per il futuro?

di EDOARDO REVELLO dal blog SPORT & LEGGE (Ġazzetta.it 08-06-2012)

Nella giornata di ieri, si è tenuta la lezione conclusiva del Corso di

perfezionamento post laurea in “Diritto Sportivo e Giustizia Sportiva”,

organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano. Come

da tradizione, sono stati invitati nomi di spicco del panorama giudico-sportivo

nazionale (dal Professor Sandulli all’Avvocato Calcagno fino agli Avvocati

Cassì e Durante per citarne alcuni) con l’intento di riferire circa loro

esperienza personale e ragionare sulle prospettive future di sviluppo della

professione.

Un’occasione sicuramente ghiotta per fare il punto della situazione in merito

alle tante tematiche che ruotano attorno al diritto sportivo e che riempiono

ogni giorno pagine intere dei quotidiani nazionali.

Non potevano certo mancare riferimenti relativi al calcioscommesse e ai

suoi continui sviluppi quotidiani. Essendo gran parte delle indagini tutt’ora

in corso, non ci si è potuti addentrare sugli scenari sanzionatori (che forse

maggiormente interessano i tifosi), ma si è riflettuto sull’importanza della

responsabilità oggettiva. Tale principio viene ad oggi, infatti, contestato da

alcuni presidenti di club, i quali ritengono di non dover pagare per gli

illeciti commessi dai propri tesserati (soprattutto quando la combine ha

generato una sconfitta sul campo), non potendo effettuare sugli stessi

una sorveglianza in stile Grande Fratello. Aldilà di tali rivendicazioni, non si

può mettere in discussione quello che viene definito un pilastro portante

dell’intero sistema di giustizia sportiva a livello internazionale. Si

potranno, semmai, parametrare le sanzioni sulla base dei comportamenti

concreti adottati dalle società, specie in termine di prevenzione. Il tutto,

comunque, non potrà che essere eventualmente discusso quando le

acque, attualmente tempestose, si saranno calmate.

In generale, aldilà degli illeciti sotto i riflettori in questi giorni,

l’intera essenza del diritto sportivo è profondamente mutata rispetto al

passato. Gli interessi in gioco, non soltanto nel calcio, sono aumentati

esponenzialmente da un punto di vista economico e necessitano, di

conseguenza, di un’assistenza legale qualificata e specializzata per

affrontare il crescente numero di contenziosi.

Il c.d. “doping legale” di cui parlava il presidente del Coni nel novembre

scorso in merito alle iniziative giudiziarie a tutto campo della Juventus,

rappresenta il naturale corollario di un’industria – quella sportiva – che

muove numeri sempre più significativi senza subire apparentemente

i contraccolpi della crisi globale.

In questo scenario, è fondamentale che la giustizia, tanto domestica quanto

ordinaria, possa efficacemente porre rimedio a tutte le situazioni patologiche

del sistema. La Corte Costituzionale, con l’ormai famosa sentenza n.49/2011,

è intervenuta sulla ripartizione di competenze tra i due ordinamenti sulla scia

di quanto espressamente previsto dalla legge n. 280/2003 al fine di fare –

definitivamente (?) – chiarezza a riguardo.

Tutte le componenti del mondo dello sport devono cercare di trovare un’intesa

e, a riguardo, viene salutato in maniera positiva l’inserimento delle

associazioni rappresentative degli atleti all’interno della governance delle

singole federazioni. E’, infatti, ancora troppo fresco nella memoria il

ricordo delle roventi polemiche legate al rinnovo dell’accordo collettivo dei

calciatori con la Lega di Serie A per non pensare che l’intero movimento debba

cercare una qualche forma di pacificazione.

Tenuto conto di tutto ciò, e alla luce della delicatezza del momento

attraversato dall’avvocatura in generale, è auspicabile, quindi, che un numero

sempre crescente di giuristi volga il proprio sguardo in direzione del settore

sportivo, un ramo del diritto senz’altro fertile per poter sviluppare la

propria professionalità.

Modificato da Ghost Dog

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Joined: 01-Jun-2005
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«Torno e dico tutto»

Gegic: «Stop alla

fuga: vado dal pm

I big? Puntano...»

Il latitante: «Non sono il boss: in Italia giocatori

disponibili. Ho visto Bertani, non Milanetto e Mauri»

di FRANCESCO CENITI (GaSport 09-06-2012)

«Pronto, sono Almir Gegic...». Non capita tutti i giorni di ricevere

una telefonata da una persona ricercata dal primo giugno 2011 e

considerata dagli inquirenti uno dei «protagonisti principali»

dell'inchiesta sul calcioscommesse. Lo «zingaro» che non è uno zingaro

(è serbo con passaporto turco) ha la voce ferma. L'italiano lo parla benissimo:

«Ci sono delle novità che mi riguardano. Ve le dico, ma prima ti va d'incontrare

mia moglie? Vuole raccontare il suo punto di vista. E' a Chiasso, dove ho giocato

per 4 stagioni e dove vogliamo tornare a vivere quando avrò saldato il

debito con la giustizia. Con lei ci sarà un amico, farà da interprete. Poi

continuiamo l'intervista». Alle 10 di sera, quando Suada Gegic è già lontana (qui

sotto trovate le parole che ci ha detto) il cellulare squilla di nuovo. «Eccomi,

tutto a posto... Mia moglie era contenta: da tempo voleva sfogarsi. Così non

riusciamo più ad andare avanti. Non si può sempre scappare o rimanere

rintanati. Ho una bimba di quasi 4 anni. Ecco perché ho preso la decisione... ».

Gegic, sta per costituirsi?

«Sì, andrò a Cremona. Quando? Molto presto. Dipende dalla Procura: i

contatti li gestirà l'avvocato. Oppure farò da solo. Dopo potrò pensare al

futuro. Credevo fosse possibile una trattativa con le autorità italiane. Che

so: evitare il carcere, ottenere dei domiciliari in cambio di una piena

collaborazione. Ora ho capito che dovrò passare dei giorni in una cella. Va

bene lo stesso. Voglio raccontare tutto al dottor Di Martino. Non sono un

santo, ma neppure quello che raccontate sui giornali».

Ci dica, allora.

«Non sono un boss. Non comando nessuna organizzazione. Certo, mi

piaceva scommettere e cercavo "informazioni" sulle partite di A e B. I soldi

ai giocatori? Non erano mica miei. Ho accompagnato delle persone, facevo

da interprete e poi puntavo di tasca mia. Ilievski? Sì, con lui molte volte sono

stato in Italia e spesso incontravamo i giocatori per comprare le dritte. Ma

non ho mai minacciato nessuno. Non sono il tipo, parla la mia fedina penale.

Neppure una rissa o una guida da ubriaco. Niente di niente. E poi se proprio

vogliamo dirla tutta, non c'era mica bisogno di spaventare i giocatori. . . ».

Che cosa vuol dire?

«Ne ho visti a decine, nessuno ci ha mai mandato a quel paese. Tutti

ascoltavano ed erano interessati. E quelli che all'inizio ci dicevano "no",

poi cambiavano idea e richiamavano. Gervasoni ogni sera mi contattava

via Skype e mi proponeva partite, nomi di calciatori pronti a vendersi.

Le scommesse sono una malattia. E in Italia il virus c'è in tutte le squadre,

Serie A compresa. Anzi, ancora non avete visto nulla. Il dottor Di Martino è

bravo: se continua a indagare arriverà ai pesci grossi».

Lei li conosce?

«No, non vendevano "informazioni". Il problema sono le scommesse: i giocatori

più guadagnano e più non sanno che cosa fare. E allora puntano. Poi non si

fermano. In Italia c'è un terreno fertile: la propensione alle combine è

altissima. E' una questione di mentalità: oggi la vittoria serve a me, domani

te la restituisco. Sono cose che vanno avanti da anni e i dirigenti sono in

prima fila in questo mercato. Solo che prima non c'erano le scommesse: ogni

tanto si sapeva di una gara venduta. Adesso ci sono interessi milionari e i

calciatori sono al centro dell'ingranaggio. Accade così anche in altri Paesi,

da voi si è scoperto questo traffico perché ha indagato la magistratura».

C'è differenza però tra corruzione e accordi in campo.

«Ma pensate davvero che io e Ilievski potevamo ribaltare i campionati se non

c'era dall'altra parte chi ci stava ad ascoltare? E credete che ad agire

c'eravamo solo noi o gli ungheresi? Chiedete a Gervasoni da quanti anni va

avanti a vendere "informazioni". E quante volte ci chiamava per presentarci

nuovi giocatori pronti a fare affari. Non vi faccio nomi: è giusto che ne

parli al dottor Di Martino».

Si era visto con qualcuno degli ultimi arrestati? Mauri e Milanetto?

«Non ho mai conosciuto Mauri e Milanetto. Lazio-Genoa e Lecce-Lazio

combinate? Beh, mi sembra che Di Martino abbia un po' di prove in mano. . .

Quello che so lo riferirò presto ai magistrati».

Bertani lo ha mai incontrato? C'è di mezzo Novara-Siena. . .

«Sì, con Bertani mi sono visto. E uno di quelli che mi ha presentato

Gervasoni. Su quella gara c'è da raccontare. Lo farò con Di Martino».

Ci dica se la Nazionale può stare tranquilla. Sa, c'è l'Europeo. . .

«Ognuno risponde delle proprie azioni. E sono sicuro di non sbagliare se dico

che scommettono anche giocatori importanti. Mi creda: è una malattia. Andrò in

carcere per questo. Ma non sono un boss, un violento, uno che minaccia. . . ».

L’INCONTRO SUADA DIFENDE IL MARITO («ALMIR E’ PERFETTO») E SPERA DI RITORNARE

A VIVERE IN SVIZZERA: «NOSTRA FIGLIA PIANGE SPESSO, LE MANCA CHIASSO»

La moglie: «Non si può continuare a vivere così...»

di FRANCESCO CENITI (GaSport 09-06-2012)

Bella è bella. Disperata è disperata. Suada ha 26 anni: ha sposato Almir Gegic

quando ne aveva 19. Stravede per il suo uomo «è la perfezione in terra», il

papà di Alenya, la bimba di quasi 4 anni che da mesi domanda «Perché non

torniamo in Svizzera?». La latitanza sta per finire, il motivo è anche questo.

Ma prima che le cronache tornino a parlare del marito, Suada vuole raccontare

«chi è veramente». Le cose lette per lei sono lontanissime dalla realtà. Parla

in serbo, ma ogni tanto aggiunge qualche frase in italiano. Scuote la testa,

facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi mentre l'amico traduce. Gli occhi

sono tristi. Mette sul tavolo del bar un piccolo quaderno verde, pieno di

colori e disegni realizzati da Alenya. Lì ci sono i suoi appunti, le parole da

dire al giornalista. «Sono emotiva, poi mi dimentico. Da un anno si parla di

Almir come del diavolo. Non è così». Eccola la versione di Suada.

«Altro che boss» Si parte dal punto che considera fondamentale. «Non è il

boss di nulla. Se lo fosse, dovremmo essere milionari. E invece stiamo ancora

pagando le rate della macchina. Gli piaceva scommettere, lo faceva con i suoi

soldi. Le sue colpe? Ha accompagnato la gente sbagliata. Lui non è capace di

far male a nessuno. Non è un criminale. Chiedete alle persone di Chiasso.

Altro che minacce, pistole. E poi quel nome "zingaro".. . Mio marito era un

calciatore, ha sbagliato e spiegherà al magistrato. So bene di non poterlo

aiutare. So che dovrà andare in carcere. Avevamo una vita tranquilla,

maledette scommesse...». Suada dei giocatori coinvolti sa poco. «Conosco solo

Gervasoni perché chiamava tutti i giorni su Skype e proponeva affari. Quando

andava in Italia non so chi vedeva. Ilievski? Non credo sia stato lui a

sfruttare mio marito, ma persone ancora più in alto. Di questo ne parlerà a

Cremona».

Futuro Dopo un anno passato a nascondersi, adesso Suada guarda oltre.

«Torneremo a vivere a Chiasso. Anche perché mia figlia avrà opportunità

migliori. Che cosa farà mio marito? Nell'ultimo anno in Serbia ha insegnato

calcio a 70 ragazzini. Sarà dura ricominciare dopo il carcere, ma è l'unico

modo per ritornare sereni. Almir è una persona buona, religiosa. Certo, gli

piacerebbe restare nel mondo del calcio. Se non sarà possibile, allora farà

altro. E per favore: non scrivete più che è un pericoloso criminale. . . ».

-------

Palazzo di Vetro di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 09-06-2012)

UEFA E SCOMMESSE, CHI FARÀ LE COPPE?

NAPOLI, LAZIO, UDINESE: C’È SPERANZA

«Il club va valutato a parte» e una penalizzazione, anche un solo -1 in

classifica, significa niente coppe «in linea di principio. A meno che il club

non dimostri la sua completa e totale estraneità. Ma ogni caso va valutato

singolarmente ». Così parlò ieri alla giornalaccio rosa dello Sport Gianni

Infantino, il potentissimo segretario generale dell’Uefa. Una linea del rigore,

per Platini tutti i tesserati coinvolti andrebbero radiati, che è propria

dell’Uefa ma in fondo alla quale si intravede una piccola luce per i club

italiani in odore d’Europa che causa scommessopoli finiranno, chi più chi meno,

con l’essere coinvolti.

Coinvolgimento che dovrebbe riguardare certamente la Lazio quarta

classificata (Lazio-Genoa e Lecce-Lazio, due vittorie che sono sotto la lente

d’ingrandimento delle Procure di Cremona e Bari, oltre che di Palazzi), il

Napoli quinto (il caso del terzo portiere Gianello e del match perso con la

Sampdoria curato dalla Procura di Napoli) e forse l’Udinese terza, per un 3-3

col Bari che è all’attenzione della Procura della città pugliese. Nessuna di

queste tre società, allo stato attuale delle indagini, sembra coinvolta per

responsabilità diretta o presunta. Si ricade dunque nella tradizionale

responsabilità oggettiva provocata dal solo coinvolgimento dei calciatori che

potrebbe costare a Lazio, Napoli e forse Udinese una penalizzazione. Tale da

diventare afflittiva nel campionato appena concluso? Molto, molto improbabile

visto che l’afflittività nel loro caso si dovrebbe tradurre in un’esclusione

dall’Europa. Con cinque (Napoli) sei (Lazio) e sette punti (Udinese) di

vantaggio in classifica sulla coppia Roma-Parma, prime delle escluse

dall’Europa, è difficile ipotizzare penalizzazioni così pesanti, anche alla

luce dei precedenti antichi e recenti fin qui riscontrati e tenendo in

considerazione anche la strada a sconto del patteggiamento.

Si entra dunque nel campo di penalizzazioni minori, da scontare nel prossimo

campionato. A quel punto resta solo l’ostacolo Uefa: si farà convincere che

l’estraneità del club ai misfatti di qualche giocatore è sufficiente per non

escludere i club dall’Europa? Ai piani alti della Federcalcio, dove viene

sottolineato come «concettualmente l’Uefa tende a lasciare la patata bollente

nelle mani della Federazione, nella quale viene riposta la massima fiducia»,

ritengono di sì. Qualche giudice della stessa federcalcio non mostra uguale

ottimismo, ma visto che la questione è più «politica» che altro, è lecito

ritenere ne sappiano di più dalle parti del presidente Abete.

Ps. Da una parte la Procura di Cremona che ha il preannuncio facile

(restiamo in fiduciosa attesa degli «effetti devastanti» relativi agli sviluppi su

Genoa-Sampdoria), dall’altra quella di Napoli che passa alla Federcalcio, dopo

più di un anno di incubazione, 45 paginette sul caso Gianello e dintorni che

più buoniste di così non si può. Ce ne è abbastanza per essere un pochino

perplessi. O no?

Che attendibilità ha uno che racconta le sue verità innestandole su quelle di altri pentiti dopo che esse sono state rese pubbliche a mezzo stampa?

Che attendibilità ha uno che ha truccato partite e che oggi ha deciso di "pentirsi"?

Che attendibilità ha uno abituato a "vendere" le proprie azioni per un vantaggio che sia esso economico o di altra natura?

Che attendibiilità hanno le mogli (quella di Carobbio, quella di Gegic)? Al prossimo giro che facciamo intervistiamo le nonne, i cugini, gli zii?

Cui prodest tutto ciò?

Che il calcio non sia un mondo fatato è chiaro da sempre, ma che si sputtani tutto col gusto di farlo?

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Poteri morti

di MARCO TRAVAGLIO (il Fatto Quotidiano 09-06-2012)

Non è vero, come asseriscono i calunniatori, che il governo dei tecnici sia

noioso e funereo. Da un po’ di tempo anzi ha preso a far ridere. Prendete il

premier, per gli amici Bin Loden, l’uomo che modestamente voleva “salvare

l’Italia” e, già che c’era, pure di “cambiare gli italiani”. L’altroieri s’è

molto lagnato perché “il mio governo e io abbiamo sicuramente perso

l’appoggio di quelli che gli osservatori ci attribuivano, colpevolizzandoci:

i cosiddetti poteri forti. Non incontriamo i favori di un grande quotidiano e

della Confindustr ia”. Ma tu pensa: uno che è stato, nell’ordine, docente,

rettore e presidente della Bocconi, consulente del governo De Mita,

consigliere d’amministrazione di Fiat e Comit, commissario europeo al Mercato

interno e poi alla Concorrenza, membro dei gruppi Bruegel, Bilderberg,

Trilateral e Atlantic Council, advisor di Coca Cola, Goldman Sachs e Moody’s,

editorialista del Corr iere, e ora è senatore a vita, presidente del Consiglio

e ministro del Tesoro, parla di poteri forti. E non guardandosi allo specchio,

ma cercando i colpevoli del fallimento del suo governo. Così, oltre a

suscitare l’ilarità generale, fa un altro passo verso il linguaggio dei

politici dai quali doveva salvarci: quelli che qualunque cosa accada, anche

un foruncolo o un’unghia incarnita, danno sempre la colpa ai “poteri forti”.

Uno dei primi a evocarli – scrive Gian Antonio Stella – fu Rino Formica nel

1991, per squalificare i referendum di Segni che minacciavano la casta della

Prima Repubblica: “La sinistra che appoggia i referendum rischia di lavorare

per il Re di Prussia, ovvero per quei poteri forti che male han digerito l’affermarsi

di grandi partiti popolari”. Poi esplose Tangentopoli, e tutti i ladroni

fecero a gara ad affibbiare al molisano Di Pietro oscure regìe di poteri forti

italiani, ma anche angloamericani. Craxi denunciò “manovre per dare al Paese

una democrazia di facciata ancora più debole, di fronte ai poteri forti, di

quelle latino-americane”. Il sindaco-cognato Pillitteri puntò il dito contro

chi “sta prendendo in mano, forse gratis, Milano e l’Italia: una grande

alleanza tra i poteri forti, come massoneria, Opus dei e grandi famiglie”. Gli

immancabili “poteri forti” divennero un alibi prêt à porter per chiunque

finisse nei guai: dal cardinal Giordano coinvolto in storie di usura, al

ciclista Cipollini escluso dal Tour, ad Al Bano ostracizzato da Sanremo.

Nell’estate '94, quando il neonato governo B. era già alla frutta perché B. si

faceva i c***i suoi e Bossi lo stava mollando, il vicepremier Tatarella (An)

strillò ai “poteri forti ostili al governo e abituati a strumentalizzare la

sinistra” e frullò insieme “Confindustria, Mediobanca, Chiesa, massoneria,

Csm, Consulta, servizi, Opus dei, gruppi industriali ed editoriali”, trascurando

il fatto che B. era dentro quasi tutti. Da sinistra partirono strali, ma due

anni dopo D’Alema ripeté la tiritera (“I poteri forti non vogliono che la

politica prenda forza, hanno un interesse strutturale a tenerla sotto

pressione”): intanto rendeva omaggio a Mediaset e si inumidiva le slip al

cospetto di Cuccia. Fazio intercettato mentre tresca coi furbetti del

quartierino? “Mi han bloccato i poteri forti”. E Ricucci: “A me m’han rovinato

perché ho toccato i poteri forti”. Persino Moggi, beccato a ordinare arbitri à

la carte e a pilotare campionati, lacrima: “Ho agito così per non essere

vittima dei poteri forti”. Il tutto dalla tolda della Juventus, noto potere

debole. L’anno scorso Brunetta sente puzza di cadavere dalle parti del

padrone e gioca d’anticipo: “Il nostro governo con la riforma della scuola e

della giustizia s’è messo contro i poteri forti”. Infatti di lì a poco spira,

rimpiazzato dal nuovo campione dei poteri forti, Monti, che però se ne sente

abbandonato dopo otto mesi appena. Guardacaso mentre il suo governo non

ne azzecca più una. Intendiamoci: i poteri forti esistono eccome, ma in bocca ai

nostri politici assumono tutt’altro significato. Che si traduce così: “Oddio,

non mi sento tanto bene”.

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Cani, zoccole e altri luoghi comuni

di JACK O’MALLEY (IL FOGLIO 09-06-2012)

Si è iniziato a giocare, ma non sono sicuro che sia una

buona notizia. Vedere sulla Rai Polonia-Grecia, con il

portiere ellenico più confuso delle riforme del suo

governo e l’intera squadra nel ruolo già recitato in

Europa – la vittima sacrificale che non ci sta – è pur

meglio della sfilza di luoghi comuni che prima di ogni

manifestazione sportiva siamo costretti a leggere.

Nell’ordine: qualche maltrattamento sugli animali che di

sicuro viene fatto nel paese ospitante (in Corea i cani se

li mangiavano, qui li ammazzano), l’aumento dei prezzi

degli alberghi, le puttane che da tutto il paese si

trasferiscono in zona stadio, le infrastrutture non finite

(c’è sempre una curva con i seggiolini montati all’ultimo

e male), la piaga dei bagarini e i biglietti falsi per la

finale che qualche idiota compra spendendo i risparmi di

una vita da un contrabbandiere ungherese, i soldi

intercettati dalla mafia. Adesso la smetteranno. In attesa

del primo svarione di Buffon, che farà partire una retata

della GdF nelle ricevitorie di Cracovia (per scommesse

sospette in dracme sulla vittoria della Germania).

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E arriva una minaccia per la Supercoppa:

«Potremmo non giocarla»

di DARIO SARNATARO (IL MATTINO 09-06-2012)

«Se non c’è accordo sulla Supercoppa non la giocheremo proprio, si può

anche saltare un’edizione». Una chiara provocazione da parte del presidente

De Laurentiis per una telenovela che sembrava dovesse formalmente aver fine

ieri, con la formalizzazione della data e del luogo di disputa della sfida con la

Juventus. Ed invece tutto è rimandato, nonostante la UVS (United Vansen

International Sports), la società cinese licenziataria dell’evento, aspettasse

una risposta proprio entro la giornata di venerdì.

La data più probabile, e anche quella che sembra l’unica possibile, è sabato

11 agosto. Entro lunedì potrebbe arrivere l'ufficializzazione. Juventus e

Napoli sono state divise da esigenze diverse: i bianconeri avrebbero voluto

disputare la sfida il 19 agosto a Torino, il club azzurro a Pechino. Le

resistenze juventine, legate soprattutto ai programmi tecnici impostati da

Conte, sono state superate, anche perché il settore marketing bianconero

condivide con il Napoli le esigenze di commercializzare in Oriente il brand

del calcio italiano. La diplomazia della Lega di serie A ha nel frattempo

lavorato a dovere. «Mi sono sentito più volte con Andrea e con il dg della

Lega Brunelli – ha precisato il presidente del Napoli – e stiamo per decidere.

C’è un’ipotesi per il 25 agosto che non ama la Juventus, c’è un’altra per l’11

agosto che crea problemi a noi. Per essere cortesi stiamo cercando di

aggiustare le cose per giocare l’11, se non ci riusciamo possiamo anche

evitare di giocarla, per noi è più importante prepararsi bene al prossimo

campionato». Il problema è che il Napoli ha in animo di presentare la nuova

squadra con un’amichevole di lusso al San Paolo l’8 o il 9 agosto: De

Laurentiis lavora da tempo al colpo grosso, ospitare il Barcellona a

Fuorigrotta. Ecco perché il Napoli sta provando ad anticipare il test con i

blaugrana, tenendo conto che anche la Juventus è scesa a patti: i bianconeri

hanno sfide programmate in Usa il 28 luglio (contro il Dc United), il 31

(contro il Psg) e il 5 agosto a Las Vegas contro il Real Madrid e, dunque,

partirebbero direttamente dagli Usa per la Cina. Non essendo possibile giocare

la Supercoppa il 19 agosto (il 15 ci sono gli inderogabili impegni dei vari

Nazionali delle due squadre), ci sarebbe il 25, ma la Vecchia Signora è

contraria nel saltare la prima giornata di campionato, dovendo poi preparare

la seconda (fissata il 2 settembre) con ancora i postumi del jet leg. Ed

allora tutto lascia pensare che la Supercoppa si giocherà l’11 agosto a

Pechino: in ballo ci sono più di 3,6 milioni di introito netto (il 45% a testa

alle due squadre), 3,3 da contratto con la UVS e 200/300mila euro di ulteriori

diritti tv.

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Inviato (modificato)

La Juve si mette il 30 sulle

maglie. Scudetti? No, denari

di MASSIMILIANO GALLO dal blog MI CONSENTO (LINKIESTA 08-06-2012)

Lo scoop è della Ġazza, proprio la rosea detestata dagli juventini moggiani

(cioè la stragrande maggioranza) perché nel 2006, all’epoca degli scandali,

il direttore Verdelli condusse una battaglia per il valore dello sport e loro si

offesero. Ma, si sa, i bianconeri sono fatti così. Magari esultano realizzando

un rigore che non c’è con 39 morti a terra e poi diventano presidenti Uefa.

Comunque, sì, avete ragione, sto perdendo tempo. Veniamo al dunque.

Allo scoop. Sulle magliette della Juventus, il prossimo anno, pur essendoci

solo due stelle, ci sarà una scritta con la parola trenta. Secondo i beninformati

si tratta di una scelta per ricordare che sul campo gli scudetti vinti dalla

vecchia signora sono due in più rispetto a quelli riconosciuti dalle autorità

sportive. Almeno questo è il pensiero dominante.

Per quel che ne so io, invece, il riferimento è a una delle prime trattative

di mercato della gloriosa società torinese. Comprarono un giocatore, non

ricordo bene il nome, per trenta denari. E lui, juventino doc, passò alla

storia. Ricordarlo mi sembra il minimo. I più vivi complimenti ad Andrea

Agnelli.

Modificato da Ghost Dog

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Col motto "30 sul campo" la Juve non fa lo strappo

Svelata la maglia, Petrucci applaude: "Ho molta stima in Agnelli"

Non c'è la 3a stella, si useranno le toppe per coprire le altre due

Marco Iaria - Gasport - 9-06-2012

Il mistero, anticipato ieri dalla giornalaccio rosa, è stato definitivamente svelato. Non ci sarà la terza stella sulle maglie della Juventus della prossima stagione ma sotto lo stemma della società comparirà la scritta «30 sul campo». La conferma è arrivata dal direttore commerciale bianconero Francesco Calvo, il quale ha anche annunciato che la seconda divisa sarà nera. «Per affermare sul campo la nostra identità — ha detto a SkySport24 — e per celebrare nel migliore dei modi la conquista di uno scudetto straordinario, il presidente Agnelli ha proposto al consiglio di amministrazione, che ha approvato con delibera del 10 maggio, un cambio del logo della società che esporrà, sotto al tradizionale ovale, la scritta “30 sul campo”. Per lunghe settimane abbiamo assistito a un dibattito sull’opportunità di esporre la terza stella sulla maglia. Un dibattito alimentato da opinionisti, giornalisti, istituzioni, cui la Juventus si è sottratta nella consapevolezza che solo la società e i propri tifosi possano definire la propria identità. Ecco perché abbiamo chiesto e ottenuto dalla Lega di non esporre nessuna stella».

Stelle Qui, tuttavia, sorge un problema pratico. L’ingegnerizzazione delle maglie da gioco è un processo lungo e laborioso che parte 18 mesi prima del varo ufficiale: tutte le modifiche successive possono essere introdotte soltanto con le patch (le classiche toppe). Cosa significa? Che le divise della Juve 2012-13 destinate alla commercializzazione sono già pronte, con tanto di stelle (due, come negli anni precedenti) stampate sopra il logo. Se ora il club bianconero desidera una maglia immacolata, l’unica soluzione praticabile è coprire quelle stelle, appunto, con delle patch. Si potrebbe farlo prima di distribuirle negli store, ma l’ipotesi più probabile è di inserire dentro la bustina di accompagnamento (quella che contiene, per intenderci, lo scudetto e anche la scritta «30 sul campo») le toppe con cui il tifoso acquirente, se lo vorrà, potrà nascondere le stelle. In queste ore si sta lavorando alacremente, col fornitore Nike molto attento alla conformità del prodotto tecnico.

Reazioni La nuova maglia ha già avuto l’ok di massima da Lega e Federazione. Il presidente del Coni Gianni Petrucci, il cui feeling con Agnelli è stato decisivo, ha spiegato: «Ho molta stima e fiducia nel presidente Agnelli, alla fine conta quello che sarà fatto e so benissimo che non creerà problemi con quelle che sono le regole del mondo del calcio». Prima ancora del trionfo, Pavel Nedved, membro del cda, aveva dichiarato: «In caso di scudetto metteremo la terza stella al 100%. Ne abbiamo 29, e 29 più uno fa 30». Nelle ore immediatamente successive alla vittoria, l’amministratore delegato Beppe Marotta gli aveva fatto eco: «Metteremo la terza stella sulla maglia». Ma ben presto si è capito che la Figc non avrebbe dato l’autorizzazione. Il motto «30 sul campo», con quel riferimento solo implicito ai titoli, è il grimaldello che consente di restare nelle regole e, allo stesso tempo, di cavalcare il sentimento popolare del post-Calciopoli

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E alla fine Moggi attaccò Del Piero

di SEBASTIANO VERNAZZA dalla rubrica NON CI POSSO CREDERE! (SW SPORTWEEK 09-06-2012)

Senti chi parla. A fine maggio Luciano Moggi si è occupato di

Alessandro Del Piero. Lo ha fatto su radio Manà Manà, emittente

romana dove l’ex d. g. conduce una trasmissione, Ieri, Moggi

e domani. Lucianone si è ritagliato i suoi spazi su tv e radio

locali. A volte appare di notte, tra vendite di pentole e di

aggeggi per il fitness. Ecco un estratto del Moggi pensiero

sull’ex capitano bianconero: «Qualche giorno fa ho letto una

dichiarazione di Del Piero che non è stata smentita. Del Piero

diceva che vanno rispettate le sentenze sportive e che gli

scudetti sono 28”. A Del Piero consiglio di ripassarsi bene

l’evoluzione del processo (. . . ). Sono rimasto perplesso, visto

che Del Piero usufruì di tutti i bonus dei vecchi scudetti.

Capisco l’acredine di una persona che dopo 19 anni lascia la

Juve, ma è pur vero che bisognerebbe andarci piano con le

dichiarazioni. La Juventus ha aspettato Del Piero per due anni

dopo il suo infortunio a Udine (nel ’98, ndr) e, mentre recuperava,

lui prendeva lo stesso stipendio di sempre. Lui non ha regalato

nulla alla Juventus e non dovrebbe dire che bisogna rispettare

le sentenze sportive. Del Piero dice che ha dato anche di più? Ci

sono stati dei momenti in cui non ha dato niente». Tutti quegli

juventini che adorano Del Piero e che ritengono Moggi un

martire della giustizia – sono tantissimi: migliaia di migliaia, forse

milioni di tifosi bianconeri – non hanno niente da dire? Quanti

stanno con Ale e quanti col radiato”? Fateci sapere.

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Le reazioni

Gli ultrà sono d'accordo con la società

La curva approva la divisa, i tifosi di Internet la bocciano

Più attesa del top-player, la notizia della nuova maglia della Juve è arrivata all’improvviso generando reazioni diverse nei tifosi bianconeri. Fin dal mattino, dopo l’anticipazione della giornalaccio rosa, il popolo della Rete si è mostrato in gran parte contrario alla decisione della società. Nelle ultime settimane la gente della Juve aveva pensato, sperato, creduto di vedere la terza stella sulla maglia. E per la delusione qualcuno ha addirittura usato per Andrea Agnelli la parola «tradimento» che appare decisamente eccessiva e fuori luogo.

La curva La posizione più equilibrata, e la cosa sorprenderà solo chi non conosce bene la loro realtà, è probabilmente quella degli ultrà. Per i quali conta più vincere che rivendicare, anche se naturalmente nessuno arretra di un passo quando si parla degli scudetti del 2005 e del 2006. Loris Grancini dei Viking analizza così la questione: «Sul campo gli scudetti sono 30, per le istituzioni sono 28 e quindi la società ha fatto una scelta logica. Noi e i giocatori sentiamo nostri anche quei due campionati cancellati, ma non siamo delusi. Anche perché tanto Inter e Milan sono a quota 18… Meglio pensare a rinforzare la squadra». Ciccio, portavoce dei Drughi, scinde il discorso: «Da tifoso dico che gli scudetti sono 30, da persona razionale ritengo giusta la scelta del club sulla maglia. Sono d’accordo con le dichiarazioni di Andrea Agnelli e Conte dopo la vittoria nel campionato, ma la realtà la conosciamo e non si può non tenerne conto». A Radio Juve Web sono arrivati molti commenti e Anna Maria Licata riassume la situazione con spirito critico: «L’errore è stato creare un’aspettativa. Ci faremo piacere la provocazione del presidente, che ha scelto di mettere la scritta “30 sul campo” invece della terza stella. Tra l’altro in Europa il messaggio arriva più chiaramente così, quindi adesso guardiamo avanti. Io, intanto, le tre stelle me le sono tatuate». Fabio Germani a nome di Italia Bianconera applaude Agnelli: «Questa soluzione dimostra ancora una volta che il nostro presidente continua a lottare con l’obiettivo di riavere quei due scudetti. Per noi è un motivo d’orgoglio». E intanto gli ultrà dovrebbero essere i primi, nei prossimi giorni, a vedere la maglia.

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CALCIOSCOMMESSE

Mutti e il giallo Guberti:

quei soldi per Bari-Samp

Il tecnico 2 ore da Palazzi: per Masiello combine saltata dopo un discorso davanti ai compagni. Torchiato pure Bentivoglio.

Maurizio Galdi -Gasport -9-06-2012

Seconda giornata di audizioni in via Po. La Procura federale ha messo sotto torchio Simone Bentivoglio, quattro ore davanti ai vice di Stefano Palazzi. La sua, ieri, era una delle posizioni più «scottanti». Sono in tanti a fare il suo nome e soprattutto Parisi per Palermo-Bari e Carella (amico di Masiello) per il derby con il Lecce. Insomma ha dovuto spiegare a fondo la sua posizione e quella dei suoi compagni di squadra che davanti ai magistrati di Cremona e Bari hanno già fatto molte ammissioni. Anche Daniele Portanova, davanti agli 007 federali, ha dovuto raccontare qualcosa di più di quello che aveva già detto ai magistrati.

Grigliata Al centro dell’audizione di Henry Damian Gimenez la famosa grigliata che ha «anticipato» la visita dei tre amici di Masiello a Portanova a Bologna. L’avvocato Grassani ha detto che Gimenez «non è a conoscenza di comportamenti illeciti che sarebbero stati poi oggetto di obbligo di denuncia» perché quando Portanova avrebbe detto ai suoi compagni di «stare attenti», il calciatore «era infortunato e stava facendo dei massaggi alla caviglia destra e anche ove fosse accaduto l’incontro nello spogliatoio non ne poteva avere fisicamente conoscenza».

Da Bari a Genova L’ex tecnico del Bari, Bortolo Mutti, è venuto in Procura da solo, senza avvocati. «Sono tranquillo», dice, anche se uscendo ha il viso tirato. Nei verbali di Masiello emerge che il tecnico lo avrebbe affrontato davanti ai compagni alla vigilia di Bari-Sampdoria. «Perché ti sei incontrato con Guberti», gli avrebbe chiesto. Messo alle strette il difensore avrebbe rifiutato la proposta fatta da Guberti (denaro in cambio della sconfitta). Il sospetto è che i soldi offerti sarebbero frutto di una «colletta» dei giocatori doriani. Chi avrebbe avvertito Mutti? Anche a Cremona la stessa domanda potrebbe farla il pm Roberto di Martino, convocando Mutti come persona informata dei fatti per poi stringere il cerchio su Guberti. C’è un filo rosso che unisce Bari con Genova: potrebbe esserci una continuità tra l’offerta presentata a Masiello e la successiva proposta per il derby (altra colletta o sono gli stessi soldi non utilizzati per il Bari?). Ieri sentiti pure Viviano e Cherubin. Si riprende lunedì con l’altro ex tecnico del Bari, Gian Piero Ventura.

Caso Iaconi Ieri pomeriggio, intanto, alla Procura federale si è presentato anche l’ex d.s. del Grosseto Iaconi accompagnato dall’avvocato Rigo, l’altro suo legale (Diana) era già con Bentivoglio in via Po. Al centro dell’incontro la richiesta fatta alla Disciplinare di stralcio della sua posizione dopo le dichiarazioni a Cremona di Joelson e Turati. La domanda è arrivata a dibattimento chiuso, ma visto il caso straordinario potrebbe essere accolta. Anche perché da ieri la Procura ha in mano nuove dichiarazioni di Iaconi e la soluzione migliore potrebbe essere di portare il d.s. a processo insieme con Turati e Joelson e probabilmente ancora il Grosseto. Vedremo che cosa deciderà la Disciplinare.

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Modificato da huskylover

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Where’s Darth Vader Gone?

Is the age of football as a substitute for war coming to an end?

By SIMON KUPER (THE Blizzard ISSUE FIVE | June 2012)

If you had to choose a holy English year since the Second World

War, it would be 1966. The year is almost as much a landmark as 1066,

when William the Conqueror created the modern nation. For all the

fuss about club football, the biggest football matches, the ones that

fill living-rooms all along the street, have always been nation versus

nation. When a national team plays, you sometimes get half a country’s

population or more watching on TV. In Germany, for instance, seven of

the eight highest-rated TV programmes until 2008 involved the national

football team playing in a big tournament. No club game can have that

kind of impact. Nationalism is the strongest animating force in

football support. You could even argue that since 1945 in Europe,

football has replaced war as the main outlet for nationalist emotion.

However, in the last few years something significant has changed: emotional

nationalism is fading from international football. It’s being replaced by a

gentler kind of “party nationalism” — people with flags painted on their faces

drinking beer and flirting with fans of the other team — and also by

post-nationalism. Just as old-style nationalism is becoming less important in

politics, it’s fading in football too.

Mihir Bose, in his recent history of modern sport, The Spirit of the Game, dates

the start of sporting nationalism back to Baron de Coubertin’s creation of the

modern Olympics. Nationalism wasn’t what De Coubertin wanted, of course:

he thought that playing sport would turn gentlemen of different nations into

brothers. That’s why the five rings in the Olympic flag were interlaced:

friendship between continents. But in fact, once the modern Olympics took off ,

and after international sporting fixtures became common in the 1930s, countries

began to seek prestige by winning them. Mussolini was probably the pioneer, the

first leader to take propaganda through sport seriously. But during the 1930s the

practice became quite widespread among politicians. At the 1936 Olympics, Albert

Foerster, the Nazi Gauleiter of Gdansk persuaded Hitler to come and watch

Germany thrash little Norway at football. Goebbels, who watched the match with

Hitler, wrote in his diary, “The Führer is very excited. I can barely contain myself.

A real bath of nerves. The crowd rages. A battle like never before. The game as

mass suggestion.” But to Foerster’s mortification, Germany lost 2-0. It seems to

have been the only football match Hitler ever saw.

So football nationalism emerged in the 1930s, but there is one caveat: back then,

“fair play” was as central to national prestige as winning. Watching a football

international in the 1930s seems to have been almost an impartial experience, like

going to the theatre. Even the infamous Germany v England friendly in Berlin in

1938, when the England team gave the Hitler salute just before kick-off , wasn’t

considered at the time to be just about winning. On the Monday after the game, The

News Chronicle newspaper ran the front-page headline, “THE GAME AND NOT ONE

FOUL”. The Times said Len Goulden’s cracking goal for England in the game “drew

gasps of admiration from the crowd and is the talk of the town today.” True, there

was a new football nationalism, but games then weren’t played in the same angry

spirit they would be after the war.

From 1939 through 1945 a different sort of nationalism took over. But after 1945

something remarkable happened: war died out in Europe. The Harvard psychologist

Steven Pinker, in his book The Better Angels of Our Nature, points out that there

have been no interstate wars in western Europe since 1945, and, skirmishes in the

Caucasus excepted, none in eastern Europe since Soviet tanks invaded Hungary in

1956. Pinker writes, “Keep in mind that up until that point European states had

started around two new armed conflicts a year since 1400. ”

After 1945, Europeans no longer expressed nationalist emotions through war.

Instead they began to express them through international football. This probably

started in Germany in 1954 after the West Germans won the World Cup in the mud

of Bern. The story of that day is one of the founding myths of the Federal Republic:

crowds of people clustered around the only TV set in their neighbourhood, the

train carrying the players home being mobbed at every station, people celebrating

on the streets in both West and East Germany, and finally, at the official

celebrations in West Berlin, when the national anthem was played, the West German

president Theodor Heuss frantically trying to coach the crowd in the correct new

lyrics so that they wouldn’t sing the old, taboo line, “Deutschland, Deutschland

über Alles”. Of course most people sang it anyway. It was the national anthem they

knew. The German phrase most associated with that day is, “Wir sind wieder wer”,

“We are somebody again. ” In other words, football had begun to create a proud new

nation.

Over the next four decades, first World Cups and then European championships

gained in importance, as more people bought TV sets and as interest in football

began to spread through all classes of men — though not yet among many women.

This is the era when World Cups became the most watched TV programmes on

earth; a Philips executive once told me that sales of Philips TVs spike in even years,

when there is a major football tournament. The most extreme TV viewing figure I know

of is the 12. 3 million Dutch people — three-quarters of the country’s population —

who watched at least some of the Holland-Uruguay semi-final of the last World

Cup. (The Holland-Spain final actually drew slightly fewer Dutch viewers).

Holland-Uruguay was the biggest shared postwar Dutch experience, just as France’s

victory in 1998 was the biggest shared French communal experience since the

Liberation — with the difference being that in 1998, unlike in 1944, all the

French were on the same side. In the decades after the war, national football

teams had come to constitute the nation. Those 11 young men in synthetic shirts

were the nation made flesh — more alive than the flag, more concrete than gross

domestic product, less individual than the president or queen. In the Dutch

popular mind, for instance, the Dutch football team now is the Netherlands in a

way that nothing else quite is.

Nationalism always needs an enemy, and in this era from the 1950s through the

1990s the enemy for most European countries became Germany. English football’s

anthem, “Three Lions”, is mostly about matches against Germany — which makes it

particularly ironic that while the Germans were on their way to winning Euro 96 in

England they liked to sing the song on their team bus. But it wasn’t just the

English. France’s worst football moment — much more painful than Zinedine Zidane’s

sending-off in the 2006 World Cup final — was losing to West Germany in Seville in

the World Cup semi-final in 1982. The Dutch, the Danes, perhaps half the countries

in Europe date the best and worst moments in their football history to matches

against Germans.

To some degree, we all know why. Here is Lou de Jong, a grey Dutch professor who

spent about 50 years writing the offi cial history of the Netherlands in the

Second World War in umpteen volumes, talking to a newspaper after the best moment

in Holland’s football history, victory over West Germany at the European

Championship of 1988: “When Holland scores I dance through the room. Of course

it’s got to do with the war.” After that match millions of Dutch people celebrated

on the street, in the largest public gathering since the Liberation. The French TV

commentator Georges de Caunes said that for French males of his generation, the

flying kick inflicted by the German keeper Toni Schumacher on France’s Patrick

Battiston that night in Seville reawakened feelings from the war.

But the anti-German feelings weren’t just to do with the war. The near-invincible

post-war West German teams, from 1954 through 1990, were the might of the

wealthy post-war Federal Republic incarnate. That peaceful might provoked resentment,

even hatred. The German-British writer Philip Oltermann, in his new book Keeping

Up with the Germans, writes, “I sometimes wonder if Germany in my lifetime has been

hated with more passion than it ever was in the 1910s or 1940s. ” Holland-Germany

matches have provoked clashes between fans on the countries’ shared border, the

closest the European Union gets to war; and after England-Germany at Euro 96,

Germans — and people who were mistaken for Germans — and German cars, were

beaten up in towns around England.

Yet in those post-war decades we all needed Germany, because the country

gave meaning to international football. David Winner, the Blizzard contributor,

says, “In terms of story the greatest nation in the history of football is Germany.

A World Cup without Germany would be like Star Wars without Darth Vader. ”

Germany was the perfect villain: the bad guy who killed the beautiful teams, like

Hungary in 1954, Holland in 1974, France in 1982.

German dominance peaked in 1990: between July and October, Germany won the

World Cup and achieved reunification. The team’s coach, Franz Beckenbauer,

the incarnation of postwar German superiority, said that with East German players

about to join the team, Germany would be “invincible for years to come”.

I happen to have been a witness to the zenith of post-war Germany. In September

1990 I arrived in Berlin to study for a year and on 3 October 1990, the day of

German reunification, I wandered down Unter den Linden to witness the birth of the

invincible Germany. The avenue was packed, but apart from a few East Germans

scarfing champagne, most people were wandering around quietly too. Like me, they

seemed to be just looking, not celebrating. Walking down the most pompous

boulevard of an empire on the night of its greatest glory, you seldom realise that

this is the moment that the empire starts to decline. But it was.

•••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••

Germany’s slide after 1990 — on the pitch and off it — helped hasten the end of

hypernationalism in Europe. Contrary to what Beckenbauer expected, Germany has

won just one football trophy in the 20 years since reunification. The economy also

went through a long period of turmoil before recently emerging as Europe’s prize

pupil again. Interestingly, many German football fans seem to have welcomed their

team’s decline. Recently, Germans have coined the word “Siegesscham”

victoryshame — to describe their feelings in the post-war decades when their ugly

teams kept winning prizes. A lot of Germans didn’t want to be the old domineering

Germans anymore. In July 2006, early in the morning after Germany had won the

World Cup’s third-place playoff , I was on Unter den Linden again, and I was

amazed to see thousands of people, dressed in German shirts, walking towards

the Brandenburger Tor. I couldn’t work out what they were doing, but it turned

out that they were going to wait around in the baking sun for hours to cheer their

team’s arrival in Berlin later that afternoon. German fans were celebrating losers

— and in many ways were happy to be losers. I’ve been to every World Cup

since 1990, and it was in 2006 that I first noticed the shift from old-style nationalism

to this kind of party nationalism. Oliver Bierhoff , the German team’s general

manager, remarked with surprise in 2006 that fans had become less interested in

results.

This new, larger and yet reduced Germany has ceased to be Darth Vader. The

team just doesn’t provoke the same hatred anymore. At Euro 2004, when

Holland and Germany met again in Porto, the fans of both teams sat together in the

stands. Not only didn’t they fight, but they didn’t even seem to dislike each other.

“A step forward in history,” a security official at Uefa told me later. On the one

hand it’s nice that nobody hates Germany anymore, but on the other hand the

loss of Darth Vader definitely makes European football less interesting. There

may never again be a European football match as loaded as Seville 1982 or Hamburg

1988, and that is a loss. In part, what has happened is that since 1990 the war has

faded from collective European memory. Finally, in Europe, the Second World War is

over; not just the fighting itself, but the war in the head, too. You saw signs of the

burying of the war in 2005, around the celebrations of the sixtieth anniversary of

the liberation of Europe: French schoolchildren had a snowball fight at Auschwitz;

a poll showed that many young Britons didn’t know that “VE Day” stands for

“Victory in Europe”. World War Two was becoming like the American Civil War:

remembered by history buffs but only vaguely by the general public, and no longer

used as a terrible lesson for policymakers. Horst Köhler, Germany’s president in

2005, recognised as much when he urged his country’s parliament “to keep alive the

memories of all the suffering”. What he meant was that the memories were fading.

In fact, the World Cup in 2006 felt like a pan-European party to mark the true

end of Second World War, which was why it had to end in Berlin. The tournament

was a Europeanwide lovefest for the German hosts. A few days before the final,

I attended a conference on football and history at the Haus der Wannsee-Konferenz

in Berlin — the building where Nazi officials in 1942 had planned the Holocaust.

The day I arrived the weather was beautiful and from the garden of this dreadful

villa you could see people sunbathing all around the Wannsee. I went for a stroll

with the official from the DFB, the German football association, whose job it was

to deal with historical questions. If anyone had a question about the DFB and the

war, they had to call him. I asked him if many journalists had called him about

warrelated issues during the World Cup. “No, nobody, ” he said.

True, there was a last fl aring of the old passions at Euro 2008 before

Germany-Poland, when Polish newspapers banged on about old wars. One

paper even printed a montage of the Polish coach Leo Beenhakker (a Dutchman)

holding aloft the heads of Michael Ballack and Germany’s coach Joachim Löw. But

Beenhakker and his players were furious with the story. The newspaper was

humiliated. It presumably won’t try that again this summer. True, you still get the odd

football reference to Nazis and wars — English fans imitating RAF bomber planes

at England-Germany games or Dutch fans in 2006 wearing orange “Stahlhelme”,

modeled on old Germany army helmets — but it’s almost always done tongue-in-cheek,

as a silly joke. The war is being used to spice up what are now really just football

rivalries.

International football is ceasing to be treated as a reenactment of Europe’s

horrible past. In fact, to some degree international football is ceasing to pit

one country against another. More and more, fans watch tournaments

with transnational loyalties instead of the old single-minded nationalism. I first

noticed this at Euro 96, when Nike came up with a great poster for Eric Cantona,

posing in front of an English flag: “’66 was a Great Year for English Football.

Eric Was Born. ” Nike felt confident in mocking oldstyle 1966 nationalism and

appealing to transnationalism instead.

In 1996, the Premier League was just becoming an international league for the

first time and you were seeing some new transnational expressions of fandom.

United fans had a song for Cantona based on the Marseillaise. Arsenal fans briefly

sang “Allez les rouges” for their Frenchmen, and when the German striker Uwe

Rösler became a cult hero at Manchester City, the club’s fans wore T-shirts

saying: “Uwe’s Grandad bombed Old Trafford, ” in honour of the Luftwaffe’s

handiwork. In 1998, when France won the World Cup, the headline in the Daily

Mirror was, “Arsenal Win the World Cup,” above a photo of Patrick Vieira hugging

Emmanuel Petit.

It was getting harder and harder to tell the different national teams apart.

Before the 1990s, each country had had its own style, and that style was seen by

most people as an expression of national character: the Germans were machine-like,

the English played like warriors, the French were fragile artists and so on. But

from the 1990s, as players increasingly moved between countries and played more

international club football, they all started to become the same. Michael Owen

told me that he’d grown up a European player, not an English one — and you saw it

in his dives. Pre-Owen, the English had always considered dives as a marker of

cowardly foreignness and to some extent they still do; but it’s harder to see

things that way now that English players also dive and also kiss teammates on the

cheeks and sometimes also pass like continentals. Today’s European footballers

have joined the transnational wealthy class, which is more at home in first-class

airport lounges than in the streets of their own countries. Members of this class

live like their millionaire foreign peers, and so Cristiano Ronaldo, Wayne Rooney

and Mesut Özil are now more like each other than they are like their ‘normal’

compatriots. Increasingly, when we watch international football, we know that we

are watching cosmopolitans rather than our own countrymen. In the vicious

Holland-Portugal game of 2006, when players kept getting sent off , two of them,

Holland’s Giovanni van Bronckhorst and Portugal’s Deco, sat down next to each

other on the bench and chatted while the match finished. They were teammates

at Barcelona. In the next round, in the Portugal-England quarter-final, Cristiano

Ronaldo helped get his Manchester United teammate Rooney sent off, but after

the game Rooney sent him a friendly text. It’s harder to feel blindly nationalistic

about international football when the protagonists obviously don’t.

Fans were even starting to choose which national team to support. I went to

Brazil’s first match at the 2006 World Cup, against Croatia in Berlin, and tens of

thousands of people showed up in the famous canary shirts. But walking around

the stadium before the game, I realised that very few of them were Brazilians.

They were Germans, Japanese, Brits, people from everywhere who wanted a share

in the Brazilian magic. Or there were the four guys in Argentina shirts I saw in the

metro after one game in 2006 who suddenly started speaking German. I don’t know

how many people support national teams other than their own, but my sense is that

it’s a growing phenomenon.

It’s no coincidence that in the last 15 years post-nationalism has invaded

football, because in the same period post-nationalism has become the underlying

ideology of the global economy. Marx said, “The ruling ideas of each age are the

ideas of the ruling class.” For more than 150 years, from the early nineteenth

century until the late twentieth, the ruling idea was nationalism. As the

historian Eric Hobsbawm has pointed out, nationalism suited the new means of

technology that were then emerging: the train, the highway, and the radio and

later TV that taught peasants the national language. These technologies helped

create the nation.

But as technology improved, nationalism became redundant. The new

technologies have created a supranational world: cheap flights, fast trains over long

distances, international financial markets, the internet and cable TV channels

that have helped teach the young generation the new global language of English.

English, inevitably, has become the language that fans use to talk to each other at

World Cups. In this new world, national governments just don’t matter that much

anymore. National governments in western Europe have forfeited their main tools

of the past: wars, national currencies and national borders. The most important laws

now tend to be made in Brussels. Belgium recently went a year without a national

government — a caretaker administration kept an eye on things — and nobody

noticed. National governments are becoming redundant. This is the backdrop to the

decline of nationalism in international football.

The enmities that get people in Europe going these days tend to be supranational

too. Except in Greece, you rarely see politicians campaigning on a hatred of

Germans. Rather, the great popular motivating forces in Europe of the last 10

years have been anti-Americanism, during the Bush administration, and more

significantly, hatred of Muslims. For many Europeans, Muslims have replaced

Germans as the feared Other. The Euro-crisis has created a new, supranational

reconfiguration of enmities: now it’s northern Europe against southern Europe. The

Dutch don’t hate the Germans anymore; they identify with their fellow northerners

in the fight against supposedly feckless spendthrift southern Europeans.

Of course, most people today still support their national football teams, but

this support is less serious, less of a life-and-death matter than it once was.

This spring I visited Bilbao. Of course lots of people in the city identify

primarily as Basques, not as Spaniards. And when Spain won the World Cup, I’m

told that not many people risked running onto the streets drunk wearing red

Spain shirts in the more Basque-nationalist medieval quarter of town. But in the

newer commercial district, lots of fans did go out into the streets to celebrate

Spain’s world championship. In the past in Bilbao that sort of behaviour could

have got you badly hurt, but not anymore. In Barcelona too, the capital of

Catalonia, in 2008 and 2010, there were large public celebrations of Spain’s

victories. I suspect it’s not that the celebrating hordes felt intensely Spanish and

were out to make a political point. No: they were just enjoying the party. This is a

kind of party nationalism, a holiday nationalism, where you paint your face with

the national flag but wouldn’t dream of dying for your country.

That leaves one last question: if people don’t feel very nationalist anymore,

what do they feel? Well, there’s one thing they don’t seem to feel: European.

There’s a longstanding idea in Brussels that what the EU really needs is a

“Europe” football team. In 1982 the Adonnino committee, led by the Italian MEP

Pietro Adonnino, proposed measures for creating European sentiment: a Eurolottery,

the blue flag with the gold stars and European sports teams.

Today only one such team exists: every other year Europe plays the US in golf’s

Ryder Cup. Even that tends to be an essentially British-Irish team with a handful

of continentals thrown in (a seven-five split in 2010). Nobody outside Brussels

has shown any desire for EU teams in other sports. But 20 years after Adonnino

another Italian tried again: in 2004 Romano Prodi, then president of the European

Commission, proposed sending a united EU team to the next Olympics in Beijing. His

spokesman pointed out that if such a team had competed at the Athens Games, it

would have won nearly three times as many medals as the top country in the medals’

table, the US. However, Prodi’s suggestion was laughed out of the room.

In a Eurobarometer survey for the Commission in 2005, 63% of Europeans claimed

to be “proud” of being European. But almost all of them were proud of their own

countries too. Euro-patriotism doesn’t replace nationalism; it accompanies it. The

two feelings are complementary.

Euro-patriotism is widespread but rather weak. In that same Eurobarometer, only

12% said they were “very proud” of being European. The rest was only “fairly

proud”. Nobody ever ran drunk out of his house waving an EU flag. Football

tournaments are still carnivals of nationalism. Nonetheless, Brussels can be

“fairly proud” of what it has achieved these last 56 years: all those national

flags and painted cheeks are the last, toothless manifestations of old European

nationalism.

So what do people feel now? If they aren’t so nationalist anymore, what is their

identity? Look at Twitter and see how users identify themselves in their short

public biographies. Surprisingly often, they describe themselves as supporters

of giant football clubs. You might have a guy called Ahmed, who gives his location

as “Bangladesh”, and then describes himself not as a Bangladeshi or as a Muslim,

but, usually in English, as, “FCB till I die”, or “You’ll Never Walk Alone – Liverpool

FC”. In a way these Twitter biographies are statements of identity: who you are,

how you want to be seen by others. These people are using an international

medium to identify as international people. When you spend some time on Twitter,

you start to feel that the old nation versus nation set up of European championships

and World Cups is a bit kitsch, outdated. Hobsbawm makes the point that

nationalism is a comparatively recent invention, no more than 200 years old. In

football and outside football, it now seems to be on the way out.

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IL CASO

Narducci, assessore e scrittore

"Pronto a tornare magistrato"

L'ex pm e il suo volume su Calciopoli. "L'incarico in giunta? Sto riflettendo sulla possibilità di continuare"

di DARIO DEL PORTO la repubblica napoli.it - 09-06-2012

Magistrato. Assessore alla legalità. Adesso anche scrittore. E' la terza vita di Giuseppe Narducci. Dodici mesi dopo aver lasciato la Procura, nel bel mezzo del periodo più burrascoso della sua esperienza amminsitrativa in seno alla giunta de Magistris, l'ex pm anticamorra dà alle stampe un libro. Si intitola "Calciopoli, la vera storia" e racconta l'inchiesta più importante e complessa condotta da Narducci durante la sua carriera di pubblico ministero. "Un mestiere che non ho mai abbandonato", ricorda l'assessore. E un mondo nel quale è pronto a rientrare appena si sarà chiusa l'avventura con de Magistris. Quando? Su questo Narducci non si sbilancia. "Per ora sto riflettendo". Il volume, edito da Alegre, sarà invece in libreria mercoledì 13 giugno. La dedica è per Carlo Petrini, l'ex calciatore recentemente scomparso che, per primo, aveva denunciato i mali del mondo del pallone.

Assessore Narducci, perché un libro sull'inchiesta Calciopoli?

"L'idea è venuta a Salvatore Cannavò e dall'editore Alegre. Me l'hanno proposta e l'ho subito condivisa. Innanzitutto perché ci sono già delle sentenze, sia pure di primo grado, dunque non ragioniamo solo di ipotesi. Prima sarebbe stata un'operazione pretenziosa e presuntuosa. Ma la ragione fondamentale è un'altra".

Quale?

"Questo è un Paese che tende a serbare poca memoria. Non trasmette agli altri, a quelli che vengono dopo, il ricordo dei fatti accaduti. A volte invece è necessario. Ed è quello che ho cercato di fare attraverso la requisitoria pronunciata al dibattimento assieme al collega Stefano Capuano (l'indagine fu invece istruita da Narducci con il pm Filippo Beatrice n. d. r.). Quel lavoro, costato uno sforzo notevole, rimette insieme i mille pezzi di una vicenda che ha rappresentato un avvenimento dirompente nella storia italiana, al di là dello stretto ambito calcistico. E ricorda a tutti che Calciopoli non è stata un'invenzione".

Sei anni dopo, cosa resta di quell'indagine?

"Molto più di tante altre, l'inchiesta ha cambiato la fisionomia del calcio italiano. Abbiamo vissuto un momento realmente straordinario, anche grazie al commissario della Federcalcio, Guido Rossi, e alla Procura federale guidata da Stefano Palazzi. In quei giorni si respirava la concreta sensazione che si stesse voltando pagina. E oggi, pur con tutti i problemi che esistono ancora, il calcio italiano non è più quello del 2006".

Sul piano personale invece?

"Un'esperienza straordinaria, di quelle che capitano una sola volta nella vita. è stato un momento professionale ineguagliabile, che mi ha dato l'opportunità di conoscere in modo compiuto il mondo del calcio. Tutto questo ha fatto aumentare la mia dose di disincanto. E mi ha fatto scoprire che dietro le apparenze si nascondono fenomeni e fatti inquietanti. Proprio come aveva scritto Carlo Petrini".

Che pensa del nuovo scandalo scommesse?

"Non mi meraviglia. Il calcio italiano viene ciclicamente scosso da indagini giudiziarie. Non solo si ripropone lo stesso fenomeno, ma addirittura attraverso gli stessi volti. Segno che si tratta di un male strutturale. Per uscirne non basta un'indagine seria e rigorosa, deve essere il mondo del calcio a trovare una soluzione al suo interno".

Che farà da grande Pino Narducci? Ancora l'assessore con de Magistris?

"Sono un magistrato in aspettativa. Non ho mai abbandonato il mio mestiere, non ho mai lasciato la magistratura. Quindi da grande, quando sarà, continuerò a fare quello che ho sempre fatto".

Un anno dopo è pentito di aver lasciato la toga per Palazzo San Giacomo?

"Ho fatto una scelta con convinzione e con molto entusiasmo. Oggi, dinanzi a una situazione che è sotto gli occhi di tutti, sto riflettendo sulla opportunità personale di continuare questa esperienza".

Scriverà un libro anche sui giorni trascorsi in Comune?

"Lo escludo. Ho altri progetti".

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Modificato da huskylover

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IL CASO

Narducci, assessore e scrittore

"Pronto a tornare magistrato"

L'ex pm e il suo volume su Calciopoli. "

L'incarico in giunta? Sto riflettendo

sulla possibilità di continuare"

di DARIO DEL PORTO la repubblica napoli.it - 09-06-2012

Stoccate di de Magistris

all’assessore Narducci

“Resta in giunta ma non

ho necessità di vederlo”

di ROBERTO FUCCILLO (la Repubblica - Napoli 10-06-2012)

«LA presenza di Narducci in giunta non è mai stata messa in discussione, né

da me né da nessuno». Però, se non si fa vivo, «è lui che sta riflettendo».

Inseguito dal fantasma dell’assessore ormai con le valigie in mano, il sindaco

prova a esorcizzare il problema, ma la sua esternazione conferma che il

destino di Narducci è nelle mani dell’assessore stesso, che questi ha

ovviamente facoltà di scegliersi un’altra via e che, in sostanza, quando vorrà,

se ne prenderà atto.

«Narducci l'ho scelto - dice de Magistris - non mi è stato imposto, è una

risorsa come tutti gli assessori, e devono lavorare come lavora il sindaco ».

Prima stoccata: Narducci è uguale a tutti gli altri. Di diverso dagli altri ha

che, come da lui stesso ammesso, sta meditando di chiudere l’esperienza a

Palazzo San Giacomo. De Magistris commenta con citazioni arboriane: «Che

lui voglia un domani tornare a fare il magistrato, come direbbe Catalano,

mi sembra ovvio. Si dice pronto a tornare a fare il pm? Giusto che dica così,

è magistrato ed è sempre pronto a tornare. Solo io non lo posso fare, perché

una volta che ho scelto di fare politica ho smesso di fare il magistrato, ma

questa è un'altra storia che appartiene alla mia etica personale». Seconda

stoccata: c’è una differenza fra la scelta radicale del sindaco, che si è dato

tutto alla politica, e il doppio binario che invece l’assessore si è riservato.

Ce n’è abbastanza per attendersi un incontro chiarificatore fra i due. Invece

il sindaco aspetta: «Io ricevo tutti spiega de Magistris - e lui non ha

bisogno di una convocazione. Se non viene, evidentemente è lui che sta

maturando una riflessione. Per conto mio, mettiamola così: non ho necessità

di vederlo in questo momento». Volendo mantenere la metafora della squadra,

cara a de Magistris, è come se un allenatore di calcio dichiarasse di non

avere bisogno di far allenare un suo giocatore, specie se questo è in trattativa

con un’altra squadra. E in Comune non si aggirano solo le ovvietà di Catalano,

ma anche le immagini di «separati in casa» di Pazzaglia. Condizione dietro

la quale de Magistris evita di fare il primo passo. Una mossa su Narducci

riaprirebbe i giochi del rimpasto, ma Realfonzo deve almeno portare a

compimento l’approvazione del bilancio in Consiglio, e il Pd non può decidere

alcunché prima della celebrazione del suo congresso.

Intanto de Magistris mette sul piatto il suo attivismo. Ieri ha annunciato

l’acquisto entro l’anno di venti stazioni di rifornimento e 400 bici

elettriche. Domani ci sarà la presentazione del World urban forum. Martedì

infine trasferta a Roma, per la presentazione del rapporto Svimez sui Comuni

e per un probabile incontro con Pierluigi Bersani.

___

Il caso Il sindaco e la giunta

De Magistris: per ora non ho

necessità di vedere Narducci

art.non firmato (Corriere del Mezzogiorno - Napoli 10-06-2012)

NAPOLI - «La presenza di Narducci in Giunta non è mai stata messa in

discussione nè da me nè da nessuno». Lo ha detto il sindaco di Napoli, Luigi

de Magistris, parlando dell'assessore comunale alla Sicurezza, Pino Narducci,

e, in merito, sottolinea di «voler essere sincero» spiegando che «tutto questo

proliferare di dichiarazioni sul nulla, mi lascia perplesso».

«Narducci l'ho scelto, non mi è stato imposto - ha ribadito - è una risorsa

come tutti gli assessori e devono lavorare come lavora il sindaco». «Che lui

voglia un domani tornare a fare il magistrato, come direbbe Catalano, mi

sembra ovvio - ha affermato - Solo io non lo posso fare perchè una volta

che ho scelto di fare politica ho smesso di fare il magistrato, ma questa è

un'altra storia che appartiene alla mia etica personale».

Sulle voci che vorrebbero il gelo tra il sindaco e l'ex pm di Calciopoli, de

Magistris fa sapere di «ricevere tutti». «Narducci non ha bisogno di una

convocazione - ha proseguito - Ricevo tutti gli assessori, se non viene

evidentemente è lui che sta maturando una riflessione».

«Io lavoro e devono lavorare anche i miei assessori - ha concluso -

Mettiamola così: non ho necessità di vederlo in questo momento».

«Noi lavoriamo e questa polemica, che leggo solo sui giornali, con molta

attenzione, non mi interessa perchè per quanto mi riguarda discutiamo del

nulla». Il sindaco evidenzia che fu lo stesso Narducci a chiedergli di entrare

nella sua giunta, lo scorso anno, a giugno, ma che non poteva comunque

avocare a se la rappresentanza della legalità nella squadra di governo della città.

Il magistrato di Calciopoli ha riferito al «Corriere» che non aveva contatti con

il sindaco da settimane e la situazione sembra non essere cambiata.

Modificato da Ghost Dog

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PASSAMONTI GUIDA GLI OPERATORI IN REGOLA

«Vogliamo scommesse credibili al 100%

ma senza controlli a tappeto, è tutto inutile»

Il presidente di Sistema Gioco Italia, parte civile al processo di Cremona:

«L’ultimo scandalo ha fatto perdere fiducia alla gente»

di ALVARO MORETTI (TUTTOSPORT 10-06-2012)

ROMA. Si troverà alla sbarra, un giorno, anche Confindustria (il cui

presidente è Squinzi, il patron del Sassuolo) a chiedere i danni ai “signori

del tarocco”. La decisione di proporsi come parte civile nei procedimenti di

Cremona è di Massimo Passamonti, presidente di Sistema Gioco Italia,

che confedera gli operatori in regola, quelli che denunciano, quelli che “il

gioco trasparente vince sempre”.

Ce l’avete con questi del Calcioscommesse?

«Certo, siamo parte lesa: dopo 10 anni di crescita, ecco la prima flessione,

-12%. La crisi c’entra, la credibilità persa ancora di più. Noi, nelle agenzie

in regola coi protocolli italiani, d’esempio nel mondo, vogliamo un prodotto

di divertimento credibile al 100%. In Italia il sistema legale tiene».

Eccesso di tentazione: troppe chance di giocare e taroccare?

«La domanda di divertimento il più variabile possibile c’è. Il problema è

come tenere sotto controllo la domanda di gioco. Il sistema delle concessioni

italiane, coi controlli che imponiamo a chi gioca legale, coi limiti di

giocata a 1.000 euro e la tracciabilità, disincentivano chi vuole barare. Di

quanti galoppini avrebbero bisogno quelli che taroccano le gare a decine

di migliaia di euro se la giocata massima senza lasciare i dati è 1.000 euro?».

Contro chi combattete?

«Contro chi raccoglie scommesse senza i controlli di legge, contro l’on line

gestito fuori dal sistema dei Monopoli. Che è fuori da ogni controllo e ruba

quote di mercato legali, sottrae entrate all’Erario e apre le porte ai

criminali. Un sistema che genera ricavi da 4 miliardi di giocate fisiche e 4

dall’on line nel sistema legale, ma 4 miliardi da on line e 2 dalle giocate

“fisiche” sul mercato parallelo».

Cosa chiedete?

«Controlli a tappeto, c’è attesa per la gara per la concessione di 2. 000

nuovi punti vendita: speriamo che tanti del mercato parallelo emergano alla

luce».

Coi singaporiani come la mettiamo?

«Nel sistema legale le combine sono difficilissime. In Italia escono gli

scandali perché ci sono le segnalazioni, c’è un sistema di controllo e si

fanno le indagini. Altrove non so. Eppoi ha presente la tabaccheria dell’amico

di Buffon? Era tutto legale e in 30 secondi hanno verificato anni di giocate.

Posso dire una cosa che mi dà fastidio?».

Prego.

«Ci chiamano quelli del gioco d’azzardo: no, questo è gioco pubblico, in reti

di raccolta ultra-controllate. Se poi vediamo giocate che sono un investimento,

allora non è quel che dovrebbe essere - un divertimento - ma un’altra cosa».

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BORDOCAMPO

L’ARIA FRITTA DI BUFFON (L’ONOREVOLE)

di MALCOM PAGANI (il Fatto Quotidiano 10-06-2012)

Dall’altare di Sky, Mario Sconcerti pontifica. E con notevole

faccia di bronzo, circondato da cronisti che ammoniscono:

“Bisogna prendere con le pinze i collaboratori di giustizia”

sostiene che “i giornali”, incapaci di continuità tra la

Vandea dei giorni scorsi e l’attuale clima ecumenico che

abbraccia Prandelli “siano un po’ vigliacchi”. Aspettano di

vedere se al ritorno saranno allori o pomodori. Come nel

2006, quando i figli di Moggi partirono per l’Alexander Platz

e riportarono a casa un pezzo di muro utile all’edificazione di

un’altra realtà. Non l’alterazione sistematica dei campionati

dimostrata in sede dibattimentale, ma “il così fan tutti”

utile a confondere e imbandire la tavola con vino e

tarallucci. Anche stavolta i prodromi sono già in dispensa e

sulla linea di porta, allungando il gesso tra sciovinismo e

retorica, danza Buffon. L’uomo che spediva bonifici alla

ricevitoria del Paese dei balocchi, quella della vincita

garantita. Adesso, trascorso qualche giorno, forte del

provincialismo che rende valido un argomento se confinato

nei limiti nazionali e debole ogni soffio che spiri oltrefrontiera,

Gigi si sente meglio. Trafigge i cuori di tenebra smarriti

nella giungla delle suggestioni e straparla, attività nella

quale, va riconosciuto, da sempre eccelle. Sogna di rivedere

“Un’Italia in festa” e “gente orgogliosa”. Aria fritta per poi

arrivare al punto: “Cominciate a ragionare con la vostra

testa, gente, non fatevi depistare da chi di mestiere fa il

semina-zizzania”. Un discorso da statista. Scarpe al chiodo.

Candidatura garantita.

-------

il Fatto Quotidiano 10-06-2012

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BORDOCAMPO

L’ARIA FRITTA DI BUFFON (L’ONOREVOLE)

di MALCOM PAGANI (il Fatto quotidiano 10-06-2012)

il Fatto Quotidiano 10-06-2012

Gemello di travaglio?

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Gemello di travaglio?

Ovvio. Stesso giornale stessa linea editoriale.

L'accanimento contro Buffon ha qualcosa di stupefacente se non spiegato con il velo di ipocrisia che Buffon ha avuto il coraggio di squarciare con le sue dichiarazioni sull'intreccio mafioso mediatico-giudiziario.

Che e' un intreccio anche politico. Il partito dei PM, di cui Il Fatto e La Repubblica sono gli organi di stampa, ha iniziato a fare campagna elettorale. E non e' un caso che ieri Travaglio attaccasse anche Monti.

In questo quadro Buffon e' visto come un pericoloso opinion maker che rischia di svegliare le coscienze delle persone e mandare a pallino una campagna elettorale guidata dai giornali.

Questo e' fascismo.

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Ovvio. Stesso giornale stessa linea editoriale.

L'accanimento contro Buffon ha qualcosa di stupefacente se non spiegato con il velo di ipocrisia che Buffon ha avuto il coraggio di squarciare con le sue dichiarazioni sull'intreccio mafioso mediatico-giudiziario.

Che e' un intreccio anche politico. Il partito dei PM, di cui Il Fatto e La Repubblica sono gli organi di stampa, ha iniziato a fare campagna elettorale. E non e' un caso che ieri Travaglio attaccasse anche Monti.

In questo quadro Buffon e' visto come un pericoloso opinion maker che rischia di svegliare le coscienze delle persone e mandare a pallino una campagna elettorale guidata dai giornali.

Questo e' fascismo.

Aggiungete ... per chiunque e per la visibilità che ha il calcio è PALCOSCENICO ... PALCOSCENICO sul quale affermare, per esempio, dei principi come "Non avrai altro Dio all'infuori de La Repubblica, Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano" ... tutti si fiondano su quel PALCOSCENICO sul quale possono condurre in maniera metaforica le battaglie per il potere (non metaforico) col quale comandare le coscienze delle persone ...

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Calcio & business. Nel torneo degli incassi la Serie A italiana è quarta

L'Inghilterra ha già vinto per ricavi

DISTANZE INCOLMABILI

Le "big five" generano un giro d'affari di 8,4 miliardi pari a oltre

l'80% dei ricavi dei tornei da cui vengono le nazionali di Euro 2012

di MARCO BELLINAZZO (il Sole 24 ORE 10-06-2012)

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Se un giorno, anzichè un torneo per squadre nazionali, la Uefa dovesse

organizzare un campionato europeo per Leghe, con i dream team di Premier,

Bundesliga, Liga Spagnola e Serie A non ci sarebbe storia. Almeno a scorrere

la classifica dei fatturati. Le distanze appaiono davvero incolmabili. Segnale,

anche questo, di un Vecchio Continente che viaggia a più velocità.

Le "big five" generano, infatti, un giro d'affari di 8,4 miliardi, pari a

oltre l'80% dei ricavi prodotti nelle 16 leghe da cui provengono le nazionali

che animeranno "Euro 2012". La Premier resta la regina con i 2,5 miliardi

incassati nel 2011, mentre Bundesliga e Liga si contendono il secondo posto

con fatturati di 1,7 miliardi, ma con opposte prospettive. Il campionato

tedesco è in grande ascesa. I club hanno pochi debiti e tanti punti di forza

(a partire dagli stadi di proprietà) e sono riusciti a crescere gradualmente,

mantenendo il rapporto tra costi e salari intorno al 50 per cento. La Liga

invece dipende eccessivamente da Real Madrid e Barcellona, le due società

europee leader per fatturati (rispettivamente con 479 e 451 milioni nel 2011).

Due società che se producono molta cassa potrebbero dover ridurre le proprie

ambizioni qualora le banche iberiche in crisi di liquidità che le hanno

sostenute in questi anni chiedessero un rientro immediato dai debiti (660

milioni per i Blancos e circa 550 per i Blaugrana).

La serie A ormai può solo guardarsi alle spalle. È vero che rispetto alla

Ligue 1 francese ci sono ancora 500 milioni di vantaggio, ma i transalpini

potranno contare sulla spinta dei prossimi europei di Francia 2016. Gli

investimenti negli stadi che le società d'Oltralpe stanno programmando

e l'iperattivismo del Psg acquisito dalla Qatar Investment Authority fanno

presagire un sorpasso non troppo in là nel tempo. Sempre in chiave futura va

registrata la crescita della Russia che ospiterà la Coppa del mondo nel 2018).

In quasi tutte le leghe i bilanci delle società sono però appesantiti da un

rapporto salari/ricavi oltre il 60% (a parte la Germania, questo rapporto si

mantiene virtuoso in Repubblica Ceca dov'è al 35% e Ucraina, dov'è al 37).

«Il controllo dei costi – spiega Dario Righetti, Partner Deloitte e responsabile

Consumer Business – continua a essere la sfida più grande per le società

di calcio europee. Il rapporto costo dei tesserati/ricavi delle big five,

principale indicatore di performance finanziaria, è incrementato di 6 punti

percentuali nel corso degli ultimi cinque anni, passando dal 60 per cento al

66. Va dunque accolto con favore l'intervento della Uefa su base pan-europea

per aiutare i club a controllare i costi operativi in un'ottica di maggiore

sostenibilità».

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Inviato (modificato)

AFFERRATE QUESTA PARABOLA

Difendi il vicino dalla gogna manettara?

Domattina sarai sputtanato a dovere

di FRED PERRI (TEMPI | 13 giugno 2012)

L’altro giorno alle 6. 30 del mattino ho sentito un gran fracasso sul

pianerottolo. Ho aperto la porta: un plotone di truppe d’assalto stava

trascinando via il mio vicino di casa. Non so bene quale sia la sua

colpa, ma vive lì da dieci anni e conduce sempre la stessa vita, così,

quando mi sono trovato davanti la solita troupe tv con le solite

domande ai presenti, ho detto che quello spiegamento di forze e

soprattutto la sua condanna già proclamata dai media erano vergognosi.

Il giorno dopo il giornale, sopra la mia foto, titolava: “Il palazzo

dei malandrini”. Per non sbagliare, hanno intercettato tutte le utenze

dello stabile e mi hanno beccato mentre facevo l’indiano con una bella

gnocca. Lo so, non si fa, soprattutto se uno è coniugato.

Mia moglie mi ha cacciato di casa, la gente mi guarda scuotendo la

testa e mi giudica un essere schifoso. Io cerco di difendermi: 1) sono

fatti miei; 2) lumare le pupe non è reato; 3) la prova provata che dal

lumare sia passato ad altro non c’è. Nessuno si interroga sul fatto che

ventiquattro ore dopo le mie critiche è arrivata la stangata. Nessuno

ha il sospetto che questo sia il comportamento di uno Stato fascista.

Per tutti sono un fedifrago: non conta come l’hanno scoperto o se

dovevano rispettare la mia privacy.

Afferrate il senso della parabola? Io sto afferrando i bagagli. Meglio

averli lì, capitasse l’occasione di mollare questa nazione di ɱerda.

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