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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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La violenza In una partita del campionato allievi

Arbitro minorenne

pestato a sangue

da baby calciatori

Calci, spinte e pugni in provincia di Salerno radiati tre giocatori

di FULVIO SCARLATA (IL MATTINO 30-03-2012)

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Salerno. È il 34esimo del secondo tempo quando il Comprensorio Valdianese,

formazione di casa, mette a segno la rete del sofferto pareggio contro i

rivali di Serre del Mario Opromolla. Non è certo Milan-Barcellona, ma i

ragazzi di 16-17 anni, tutti della zona del Vallo di Diano, festeggiano il 2-2

come se fosse il gol della vita nel campionato allievi provinciali di Salerno,

vissuto come una piccola Champions League per chi spera di conquistare ben

altri palcoscenici. Non così l’allenatore della squadra di Serre: Ivano

Mennella scatta in campo in direzione dell’arbitro che aveva convalidato il

gol e lo spinge via scaricandogli addosso tutti gli insulti di cui è a

conoscenza. È il segnale: scatta una caccia all’uomo per tutto il rettangolo

che fu di gioco in cui il ragazzo con la giacchetta nera, anche lui appena 17

anni, anche lui della stessa zona essendo originario di Sala Consilina, viene

inseguito, colpito, sgambettato, buttato a terra e picchiato.

Il giovane cerca la salvezza negli spogliatoi. Inutilmente. Perché i

giocatori del Mario Opromolla che non partecipano direttamente alla rissa, si

danno da fare per impedire al loro coetaneo di trovare un posto sicuro. Si

mettono in mezzo bloccando ogni accesso (moltiplicando invece insulti di ogni

genere, razza e lingua), così da lasciare la possibilità ai più esagitati di

colpire ancora duramente. Un incubo. Il direttore di gara non ha scampo:

raggiunto di nuovo con calci e pugni sempre più violenti. Alla fine qualcuno

sembra cominciare a rinsavire. Il 17enne di Sala Consilina che da tre anni

coltiva l’hobby di dirigere le partite di calcio dopo aver superato un

apposito corso, arriva negli spogliatoi. Ma non è finita: ormai completamente

fuori di testa i ragazzi di Serre assalgono la sua stanza, sfondano la porta a

calci e lo minacciano di morte prima di allontanarsi. Non c’è più tempo per

pensare al pallone e alla partita sospesa. Qualcuno si muove a compassione e

infila il giovanissimo arbitro in auto: di corsa verso l’ospedale con ferite

alla testa, al volto, alle gambe, all’addome tanto che gli operatori sanitari

del pronto soccorso del presidio di Polla hanno preferito ricoverarlo per

poter controllare le sue condizioni nel corso di 24 ore.

La cosa più incredibile è anche partita e botte finite, nessuno ha voluto

rimettere un minimo di valori sportivi al suo posto. Non un ripensamento, un

rimorso o il senso di avere esagerato, né dai ragazzi né da allenatore e

dirigenti del Mario Opromolla. Di più: nessuna testimonianza. Così è toccato

solo al 17enne vittima dell’aggressione provare a ricordare chi lo ha colpito.

E lui, in questa sorta di sabba della violenza gratuita per ragioni di

straordinaria inutilità, è riuscito ad individuare tra i tanti solo chi lo ha

picchiato ripetutamente. In attesa di una eventuale denuncia penale, è

scattata la giustizia sportiva. Che ha fermato per un anno Mennella, che pure

aveva dato il via con il suo atteggiamento alla rissa tutti contro uno, a cui

sono state imputate solo alcune spinte e una valanga di insulti come se da un

allenatore di una squadra di giovanissimi non si dovesse esigere un

comportamento più consono al ruolo ricoperto. Due anni ad un ragazzo di 16

anni, la proposta della radiazione a vita per altri tre allievi che in un

pomeriggio di inutile infantile violenza hanno cancellato qualsiasi futuro

calcistico. Nessuna decisione, almeno per ora, nei confronti del club perché

il giudice sportivo è in attesa di ulteriori accertamenti «finalizzati anche

ad ulteriori provvedimenti a carico dei singoli tesserati e della Società

Mario Oprolla». Per ora davvero poco per una delle peggiori pagine del calcio

dilettantistico giovanile.

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IL VENERDI DI REPUBBLICA 29 MARZO 2012

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Stile Conte, la Juve si esalta

"Ma non sarò mai simpatico"

Una squadra ricostruita nel gioco e nello spirito, un campionato giocato al vertice, il sogno scudetto ancora vivo. Dal rapporto con i giocatori alle polemiche, il tecnico bianconero si racconta: "Tiro dritto per la mia strada, chi allena questo club non potrà mai piacere troppo"

di EMANUELE GAMBA - repubblica.it -30-03-2012

TORINO - Antonio Conte, lei riterrebbe il suo lavoro positivo anche se quest'anno la Juventus arrivasse due volte seconda?

"Mi era stato chiesto di provare a tornare in Champions perché è fondamentale sia a livello economico sia per attrarre grandi giocatori. In più vedo che è rinato l'entusiasmo, che lo stadio è sempre stracolmo: da questo punto di vista abbiamo già vinto. Però dobbiamo arrivare almeno secondi. La Champions è vita".

E lo scudetto?

"Ci sono gli obiettivi minimi, per i quali non firmerei a priori, e ci sono i sogni, che sono quelli che inseguo ma che sono difficilissimi da realizzare. Noi quest'anno abbiamo fatto tanta strada, forse sarebbe stato anche giusto crescere in maniera più graduale. Però siamo la Juve, qui conta solo la vittoria, quindi bisogna accelerare e cercare di arrivarci quanto prima. Il problema è che il Milan è avanti di qualche anno. Con le altre abbiamo colmato il gap, con loro no".

Basterà un mercato a colmarlo?

"Oltre che comprare bisogna crescere, tutti quanti. Molti di noi hanno vissuto vigilie mai capitate, hanno giocato per la prima volta per una finale, per il primo posto, e sono cose che si pagano a livello di emozioni, di stress mentale. Dopo la semifinale di Coppa Italia ho dovuto dare un giorno libero alla squadra perché ho capito che non c'erano più energie. Questo per dire che

tra le tante cose ci manca l'esperienza. Siamo nati per attaccare, non sappiamo speculare".

Lei era convinto di imporsi già al primo anno?

"Sì. Non sarei certo venuto a suicidarmi. Ho fiducia in me, nei miei quattro anni di gavetta ho quasi sempre vinto".

Si sente diverso da quello che era a luglio?

"Ogni stagione che passa ti migliora a livello professionale, gestionale, didattico. Ad esempio non avrei mai creduto che un giorno avrei cambiato sistema di gioco. Un anno in una grande ne vale cinque o sei altrove, per questo oggi mi sento molto più maturo. Ma sono arrivato preparato perché ho giocato tredici anni ad alto livello e sapevo cosa aspettarmi, anche se un giocatore l'ansia da vittoria l'avverte in minima parte, rispetto a un allenatore".

Lei rappresenta totalmente la Juventus: non è troppo, per un semidebuttante?

"La Juventus non sono io, ma gli Agnelli. Però siamo giovani anche come società, quindi ci va dato tempo per crescere. Ma siccome ce n'è poco, abbiamo dovuto farlo in fretta. A me tocca una parte importante perché sono il più presente a livello mediatico e quindi, se c'è da mandare un messaggio, quello passa da me".

Quindi Conte è anche un dirigente?

"I tempi sono cambiati, oggi un allenatore deve gestire anche la comunicazione".

Pensa di avere attirato più stima o più simpatia, in questi mesi?

"Chi vince non è simpatico, io rimango di questa idea. E poi in questo mondo vorremmo essere sempre gli unici a fare bene, e vorremmo che tutti gli altri facessero male".

Sta dicendo che quindi ha attirato invidia?

"Io vado dritto per la mia strada, se poi genero stima, invidia o antipatia è secondario. So che chi allena la Juve non sarà mai un simpaticone".

Amici non ne ha, dunque?

"Sono un cane sciolto. Non uscivo con i miei compagni neanche quando giocavo, a parte Ferrara. Però mi sento con i vecchi maestri, con Lippi, con Sacchi: a loro consigli ne chiedo".

Lei è marchiato come juventino: questo le negherà la panchina di altre grandi squadre italiane?

"Mi sorprendo quando qualcuno mi paragona a questo o a quell'altro, magari per ciò che dico o perché faccio silenzio stampa. Guardate che io sono sempre stato così, non è stata la Juve a cambiarmi. Ero così ad Arezzo, a Siena, a Bergamo, a Bari. Io sono questo: passionale, istintivo. Anzi, sto migliorando perché prima ero anche peggio. Vivo in maniera totale il lavoro, non ho vie di mezzo, mi butto anima e corpo in quello che faccio perché soltanto concedendomi completamente posso guadagnare rispetto. Non è la mia juventinità a farmi apparire così, ma sono proprio io".

Quindi potrebbe lavorare all'Inter, al Milan?

"Sono un professionista e l'ho dimostrato. Chi conosce l'odio che c'è tra Lecce e Bari mi capirà: da leccese mi sono totalmente incarnato nel Bari".

L'inglese lo sta studiando per la Champions o per poter lavorare all'estero?

"Più che altro, lo studio da anni perché in quella materia sono un po' duro di comprendonio. Comunque, lo voglio imparare perché è la lingua del calcio. E perché prima o poi mi piacerebbe un'esperienza altrove".

Quanto pensa di poter durare, agitandosi in questo modo in panchina?

"Mi ha moglie mi ha detto che, se non cambio, tra otto o nove anni mi sarò consumato. Mi auguro che l'esperienza mi insegni a consumarmi di meno, perché troppo spesso mi capita di non dormire la notte, anche se poi alle cinque del mattino sono lucidissimo: è a quell'ora che risolvo i problemi, pure quelli sulla formazione".

Lei consuma se stesso, ma non rischia di consumare anche i giocatori?

"I miei ex continuano a ringraziarmi perché con me hanno capito cosa significa vincere. Il fatto che mi rimangano legati mi fa capire che sono riuscito a lasciare qualcosa, anche a gente con cui ho litigato".

È arrivato un altro giovane, Stramaccioni: che ne pensa?

"Penso che Gasperini sia un grandissimo, uno dei più bravi, quindi la crisi dell'Inter non è tutta colpa sua. Se non viene supportato dalla società e non trova calciatori che danno una mano, anche l'allenatore più fenomenale del mondo è destinato a fallire. Io lo so perché mi è successo".

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Truffa alla Roma, c'è Moggi: «Mi sono rotto le scatole»

Tuttosport.it - 30-03-2012

Massoni, sospetti tentativi di truffe, sms per incastrare dirigenti della Roma, e strane telefonate. Con il nome di Luciano Moggi tirato in ballo nella vicenda tutta capitolina. Per una telefonata in cui l'ex dg della Juve contatterebbe Paolo Calabresi, la "Iena" che ha realizzato il servizio sulla tentata truffa ai giallorossi, protagonisti il giornalista Roberto Renga e i conduttori radiofonici Giuseppe Lomonaco e Mario Corsi, tutti indagati dalla procura della Repubblica


ROMA - Massoni, sospetti tentativi di truffe, sms per incastrare dirigenti della Roma, e strane telefonate. Con il nome di Luciano Moggi tirato in ballo nella vicenda tutta capitolina. Per una telefonata in cui l'ex dg della Juve contatterebbe Paolo Calabresi, la 'Ienà che ha realizzato il servizio sulla tentata truffa ai giallorossi, protagonisti il giornalista Roberto Renga e i conduttori radiofonici Giuseppe Lomonaco e Mario Corsi, tutti indagati dalla procura della Repubblica. Il botta e risposta tra la Iena e l'ex dirigente bianconero va in scena a distanza, con Calabresi che racconta di essere stato chiamato da Moggi proprio nei giorni in cui stava realizzando i filmati. «Mi sono proprio rotto le scatole - sbotta Lucianone con l'ANSA, lasciando intendere di voler adire le vie legali - La vicenda parla da sola, se vengo chiamato in causa da uno che per vivere è costretto a travestirsi da cardinale...». Un riferimento, quello del travestimento, che però nel racconto di Calabresi diventa proprio l'elemento su cui Moggi avrebbe scherzato nel chiamare la Iena: «Gioviale, carino: ha esordito chiamandomi "cardinale", ripensando allo scherzo che gli ho fatto qualche anno fa... Però a me quella telefonata è sembrata strana, non mi aveva mai chiamato prima», la replica di Calabresi.

I FATTI DELL'INCHIESTA - Una chiamata arrivata quando lui aveva già realizzato i video in cui Renga gli mostra lo "scoop", facendogli vedere alcuni documenti, trascrizioni di sms provenienti secondo Renga dalla Digos e dai quali emergerebbe che Franco Baldini e Mauro Baldissoni (consigliere d'amministrazione del club giallorosso) sarebbero massoni. Una versione poi confermata anche da Lomonaco (che parla però di compagnie telefoniche come fonte e non più Digos), fino alla marcia indietro quando il conduttore radio si accorge di essere ripreso dalla telecamera. «Ho ricevuto una telefonata da Moggi - dice Calabresi all'ANSA - proprio nei giorni in cui avevo fatto i video, non lo avevo mai sentito prima. L'unico precedente, lo scherzo che gli avevo fatto nel 2007 vestendomi da cardinale. Allora ci rise su. Poi due anni fa gli ho chiesto un'intervista e mi disse di no. Mi sono chiesto perchè mi avesse chiamato, ma zero cenni a questa vicenda. Ci siamo visti in uno studio legale e lui stava con due avvocati. Sono uscito da lì con un punto interrogativo: ma che voleva Moggi da me?». Calabresi racconta però anche un altro particolare: «Senza fare dietrologia, però all'inizio dell'incontro mi ha chiesto di mio figlio - racconta ancora la Iena -. Uno dei due legali ha detto se ero il padre di quel ragazzo che gioca nella Roma, 'è fortissimo, è molto bravò. E Moggi ha anche aggiunto 'Ha fatto un torneo importantè, e mi ha stupito che lo sapesse. 'Lo possiamo seguire, dare un'occhiatà aveva anche aggiunto. Ma io l'ho tenuto a distanza, dicendo che mio figlio è giovane, ci ho glissato su. Io spero solo che tutto questo serva a dare un senso all'informazione deviata che c'è a Roma: nelle radio qui si parla di tutto, tranne che di sport. E quello che abbiamo mostrato nel servizio è chiaro...».

LA RISPOSTA DI PRIORESCHI - «Ho ricevuto mandato di agire giudizialmente contro chi accosta in modo indebito il nome di Luciano Moggi con la storia del dossier a danno del dirigente della Roma calcio, Franco Baldini». Così ha detto l'avvocato Maurilio Prioreschi, difensore dell'ex direttore generale della Juventus, in relazione alle ultime notizie e dopo un servizio della trasmissione delle 'Iene' che ha riguardato la tentata truffa ai danni della società giallorossa e per la quale sono indagati un noto giornalista capitolino, il figlio e due conduttori radiofonici. «L'incontro con l'attore che lavora alla trasmissione di Italia 1 - ha continuato il penalista - avvenne nel mio studio. Nel corso della breve riunione, una delle tante persone presenti parlarono del figliolo dell'intervistatore. Non vedo in quanto avvenuto alcun collegamento con la storia che abbiamo letto sui giornali e che riguarda presunte accuse a Baldini».

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Palazzo di Vetro

JUVE, INTER E MILAN CON PETRUCCI

LUNEDÌ IL «SÌ» AGLI STAGE AZZURRI

di RUGGIERO PALOMBO (GaSport 31-03-2012)

Gianni Petrucci, presidente della Federcalcio, della Lega di serie A e, a

tempo perso, anche del Coni, dopo avere quasi interamente risolto il «caso

Coppa Italia», ha passato le ultime 48 ore a tessere la tela del «caso stage»

della Nazionale. Giovedì con Andrea Agnelli, Ernesto Paolillo e Beppe Marotta

in una saletta dell'Abi romano, mentre poco più in là stava per andare in onda,

assente Beretta, il report 2012 sul calcio italiano e i suoi conti

disastrosi. Ieri al telefono, dove ai contatti con Juve e Inter, si sono

aggiunti quelli col Milan (Adriano Galliani).

Saranno queste tre società, nell'Assemblea di Lega di lunedì a Milano,

a spingere con risolutezza verso il ripristino degli stage azzurri (16-17

e 23-24 aprile) richiesti da Prandelli, e a suo tempo respinti al mittente più

per l'ignavia e la superficialità di chi se ne doveva istituzionalmente

occupare che per reale convinzione dei club. La Juventus è quella

maggiormente coinvolta per numero di giocatori, se è d'accordo lei non si

vede da quale parte possa arrivare un'opposizione, purché gli «stage»

non diventino pretestuoso terreno di scontro per altre questioni. Lunedì,

infatti, è anche il giorno in cui Claudio Lotito dovrebbe chiedere (e non

ottenere, ma quando c'è di mezzo lui non si sa mai) la solidarietà e forse

qualcosa di più dalla Lega, alla vigilia del ricorso presentato al Tribunale

ordinario contro il codice etico del Coni che lo sospende dal ruolo di consigliere

federale. Una violazione della clausola compromissoria di fronte alla quale la

Federcalcio tace (chissà, Abete avrà forse chiesto uno di quei celebri pareri

cui fa spesso ricorso) anziché procedere all'automatico deferimento. Ma sappiamo

già la storia, Palazzi è autonomo e non sia mai venisse violata la sacralità

dei suoi letargici tempi decisionali. Tanto, vedrete, tra un processo e l'altro

Palazzi finirà con l'essere confermato per un altro anno, e Lotito con

l'essere deferito magari tra sei mesi.

Nel frattempo il presidente della Lazio ci ha dato dentro con le interviste

(Sky Tg 24) dicendo cose assai giuste sui mali del calcio e le ricette per

guarirlo, e qualcuna intempestiva. Il tema della «responsabilità oggettiva

obsoleta che riguarda il passato» può anche diventare un giorno degno di

dibattito, con i relativi distinguo tra una fattispecie e l'altra, ma non può

certo esserlo oggi, nel bel mezzo di un calcioscommesse atto secondo

(e poi anche terzo), che almeno a livello di indagini sembra sfiorare pure la

Lazio. Lotito, noto per le sue battaglie di principio mai finalizzate al piccolo

tornaconto personale, converrà che è il caso di soprassedere.

PS. Caso coppa Italia quasi interamente risolto, abbiamo scritto: è infatti

ancora aperta la querelle biglietti. Tessera del tifoso obbligatoria sì o no?

Tessera del tifoso «sì», è la risposta esatta. Che non piace a De Laurentiis,

cui qualcuno dovrebbe spiegare che la tessera del tifoso «no» piace, più che

agli affezionatissimi senza tessera del suo Napoli, alla categoria dei

bagarini.

___

Scommesse

Lazio nel mirino, Lotito si prepara

"No alla responsabilità oggettiva"

di ALBERTO ABBATE (la Repubblica 31-03-2012)

«La responsabilità oggettiva è il fardello delle società, una norma obsoleta e

antica che contrasta con qualsiasi principio giuridico», tuona Claudio Lotito.

Perché lo fa all´indomani della convocazione della Procura Federale per

Brocchi e Mauri? C´è l´alone del calcioscommesse pure sulla sua Lazio: «Ho

lanciato l´allarme un anno e mezzo fa, ho parlato di task force - ricorda il

presidente biancoceleste - e di tintinnio di manette». S´è presentato due

volte alla procura di Napoli. A Cremona però il "Superpentito" Gervasoni ha

inguaiato Mauri, un suo tesserato. La movida a Ponte Milvio con l´amico

Alessandro Zamperini, considerato il tramite degli "zingari" per le presunte

combine di Lazio-Genoa e Lecce-Lazio, ha trascinato persino Brocchi nel

vortice.

Lotito non ci sta: «Non si possono far pagare le persone solo per delle

conoscenze. Stimo Brocchi e Mauri, le loro qualità morali. L´anno scorso sono

stati in pellegrinaggio a Medjugorje». Venerdì 13 dovranno invece confessarsi

dal procuratore Palazzi: «Ho parlato con entrambi - svela Reja - e sono di una

serenità estrema. È già successo altre volte che certe situazioni si siano

risolte in una bolla di sapone».

La società insomma si coccola i suoi centrocampisti: non è un caso che

nell´ultimo mese abbia prolungato i loro contratti - insieme a quello di Biava

- per un altro anno. Un segnale forte (anche se in realtà esiste la

rescissione per giusta causa), nessuna paura? «Il sistema va liberalizzato da

questa palude della responsabilità oggettiva - continua però a ripetere Lotito

- e non a caso sarà all´ordine del giorno della prossima assemblea di Lega. I

club non possono tra l´altro essere ostaggio delle tifoserie». Per gli ultimi

buu razzisti, la Lazio rischia persino la squalifica del campo, una roccaforte

nel 2012: 18 punti all´Olimpico. Solo tre invece - a Verona col Chievo -

lontano da casa: «Avremo 5 trasferte, dobbiamo invertire la tendenza già a

Parma», ammette Reja. Al Tardini stasera ritroverà la difesa titolare: Konko,

Biava, Dias e Radu. A centrocampo Ledesma-Matuzalem; Candreva, Hernanes e

Mauri dietro Kozak, favorito su Rocchi. Reja ha la pozione per la Champions:

«Non ce la faremo sfuggire come l´anno scorso. Nessuna delle concorrenti ha la

nostra voglia di centrare l´obiettivo». Ora è rabbia.

___

il caso

Infortunio in nazionale?

Rimborso ai club

C’è l’accordo con la Fifa

Fino a 6,5 milioni lordi per stop di almeno 27 giorni

di SIMONE DI SEGNI (LA STAMPA 31-03-2012)

La notizia è un segnale importante: la Fifa ha annunciato che dal 1º settembre

provvederà a risarcire i club in caso di infortunio in Nazionale. Le società

esultano, anche se l'antidoto non dà garanzie di copertura totale:

l'indennizzo scatterà nei casi di stop superiori ai ventisette giorni e sarà

elargito fino a un anno dopo l'incidente. Quanto alla misura del rimborso, il

tetto è fissato a 6,5 milioni di euro lordi: il conto di volta in volta è

semplice, basterà rapportare lo stipendio del giocatore ai suoi giorni di

assenza e l'assegno è fatto.

C'è da giurarci, ci saranno altre circostanze in cui le società torneranno a

piangere per ossa e muscoli «versati» dai propri tesserati durante gli impegni

con le rispettive Nazionale (tanto per rimanere in tema, la Fifa ha istituito

l'obbligo di concedere gli Under 23 per le Olimpiadi di Londra): certi forfait

probabilmente non avranno mai prezzo, immaginate l'arrabbiatura del dirigente

di turno che dovesse rinunciare per infortunio a un top player in un match che

può decidere una stagione. Per di più, se il campione dovesse restare ai box

per un semplice problemino muscolare o per una qualunque grana risolvibile in

meno di quattro settimane, di indennizzo non si potrebbe neanche parlare.

La soluzione in ogni caso fa rallegrare i club e le federazioni stesse,

perché la moneta non uscirà dalle casse di queste ultime ma direttamente da

una compagnia di assicurazioni. La Fifa verserà a tal fine circa 100 milioni

di dollari ogni 4 anni, i termini della copertura assicurativa dovranno essere

approvati dal Congresso dell'organismo mondiale, che si riunirà a Budapest il

24 e 25 maggio. L'anticamera dell’importante novità, tuttavia, va cercata

nella Eca (European Club Association), l'associazione presieduta da Rummenigge

che raccoglie più di 200 club europei, riconosciuta da Fifa e Uefa. Proprio

con il palazzo europeo, la scorsa settimana, è stato siglato un memorandum

valido fino al 2018 che prevede lo stesso meccanismo: in realtà l'estensione

alla Fifa era nell'aria, così il patto firmato a Istanbul servirà a coprire

gli Europei di Polonia e Ucraina, in attesa dell'entrata in vigore

dell'accordo più ampio. «Si tratta di un importante passo in avanti nei

rapporti tra club e Fifa, proseguiremo nelle negoziazioni» è la soddisfazione

di Umberto Gambini, direttore organizzativo del Milan e vicepresidente Eca.

___

il Fatto Quotidiano 31-03-2012

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SCELTE DI COMODO Se i valori si piegano al business

Per fare affari con gli emiri

il Real Madrid si toglie la croce

Il club ha iniziato i lavori per un mega resort negli Emirati Arabi

E per evitare malumori tra i musulmani cancella il simbolo cristiano

di TONY DAMASCELLI (il Giornale 31-03-2012)

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Non c’è più religione è una di quelle frasi comode che, nel football, non

hanno più valore. Chiedete a quelli del Real Madrid, nella persona di

Florentino Perez, il presidente padrone. Il club delle merengues ha avviato i

lavori per un lussuoso resort a Ras Al Khaimah, una delle magnifiche sette

isole che formano gli Emirati Arabi; l’inaugurazione della struttura, che

comprenderà alberghi, ristoranti, campi di football aperti sul mare e altri

impianti per discipline sportive, un museo calcistico del club, numerose sale

cinematografiche, è prevista per il duemila e quindici, salvo contrattempi e

casi diplomatici. La prima pietra, come si usa per cerimoniale, è stata già

posta, presente, tra gli altri, Zinedine Zidane, di religione musulmana. Non è

un dato marginale. Anzi.

La giunta direttiva del Real Madrid, ricevuta una relazione

«storico-ambientale» ha già anticipato eventuali problemi: ha infatti deciso

di togliere dallo stemma della società la croce che sovrasta la corona.

L'autorizzazione ad aggiungere il simbolo religioso sull'insegna regale del

club venne concessa nel millenovecentoventi dal re Alfonso XIII.

Ai cittadini dell'isola e dintorni il particolare storico non interessa, anzi

risulta fastidioso, quasi provocatorio. La croce potrebbe creare malumori tra

i fedeli musulmani, il simbolo degli infedeli deve restare fuori dai campo di

calcio, i grandi club europei portano interesse e popolarità in un mondo

ancora chiuso ma che sta cercando proprio nel football una visibilità anche

sontuosa, gli investitori supermilionari del Qatar, nel campionato inglese,

francese, spagnolo, sono la conferma più evidente del fenomeno che si sta

allargando in ogni zona del vecchio continente, fatta eccezione per l’Italia,

forse proprio per motivi religiosi.

Il progetto del Real Madrid, che conta oltre centocinquanta milioni di tifosi

in tutto il mondo, prevede un investimento grandioso nella terra degli emiri

con ritorni finanziari altrettanto consistenti, va da sé che qualunque

dettaglio che possa disturbare i rapporti commerciali e politici tra il club e

le autorità degli Emirati Arabi Uniti debba essere evitato e cancellato in

partenza.

Anche il Barcellona, in occasione di una finale nel torneo di Abu Dhabi, ha

dovuto togliere dallo scudo, che ne rappresenta lo stemma, la croce di San

Jordi. Non so se anche ai calciatori e agli allenatori verrà proibito il segno

della croce prima del fischio di inizio della partita, così come eventuali

tatuaggi che ricordino Cristo e la sua Passione, collane, ciondoli e monili

vari raffiguranti personaggi delle Sacre Scritture o, addirittura, chiedere a

Cristiano Ronaldo di cambiare il nome in Musulman Ronaldo.

Di certo la scelta diplomatica del Real Madrid potrebbe provocare reazioni

tra i tifosi madridisti, già scatenati sui social network, denunciando il

declino occidentale, l’inchino alle imposizioni non di mercato ma di potere

religioso.

Il Real Madrid è un club più vicino alla religione cattolica rispetto ai

rivali del Barcellona. Secondo una indagine svolta da Metroscopia, infatti, il

30 per cento dei tifosi del Real si dichiara cattolico praticante contro il 14

dei catalani, mentre soltanto il 9 per cento dei madridisti si dice ateo o non

credente contro il 26 per cento della popolazione 'blaugrana'. Ma gli affari

sono affari, soprattutto se i dollari arrivano dagli emiri che hanno culto e

riti diversi. Il Real Madrid conserva la corona ma rinuncia alla croce. Un

sacrificio che vale più di trenta denari.

___

Se la croce imbarazza il Real Madrid

Dal politicamente corretto al politicamente ignorante.

Cancellano la croce della Corona dal simbolo del Real Madrid

per non urtare gli Emirati Arabi partner di un superaffare.

di ELISA CHIARI (FamigliaCristiana.it 31-03-2012)

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Si potrebbe scomodare l'anima in vendita, e chiedersi se vale o non

vale un Resort, ma siamo nel pallone, e i colori sociali stravolti e rinnegati,

in improbabili accostamenti da trasferta in nome di una maglia venduta in più,

la dicevano già lunga. Si potrebbe scomodare il concetto di integrazione, di

interrelazione tra culture, ma parlare di cultura in un ambiente dove spesso

la principale occupazione intellettuale è rappresentata dalla playstation è

quantomeno sovradimensionato.

Fatto sta che il Real Madrid ha scelto di eliminare la piccolissima croce

che dal 1920 appariva sul suo stemma per non correre il pericolo che

rappresentasse un ostacolo alla costruzione di un fantasmagorico impianto

turistico miliardario nell'isola di Ras-al-Khaimah degli Emirati Arabi Uniti.

Stando alla ricostruzione del quotidiano spagnolo Marca, «i responsabili del

club hanno deciso di «prescindere dalla croce che c'è sulla corona dello

stemma per evitare in questo modo qualsiasi tipo di confusione o di cattiva

interpretazione in una zona con una grande maggioranza della popolazione

che professa la religione musulmana».

Insomma una sorta di favore non richiesto, un passo indietro sulla

propria storia: la quintessenza dell'autocensura preventiva. Eppure quella

croce, che prima di essere un simbolo cristiano è parte dello stemma

araldico della Corona di Spagna, era davvero un pezzo di storia: il segno

dell'investitura reale di Alfonso III.

Ma il calcio non si pone di questi problemi: in nome dei quattrini degli

Emirati rinnega il proprio simbolo e in nome dei soldi degli abbonamenti non

prende le distanze dai buuuu razzisti della curva, senza preoccuparsi della

contraddizione. Non c'è valore che non soccomba a una robusta iniezione di

dollari, non c'è occhio che non si chiuda.

Quando qualcuno chiederà conto di quel favore non richiesto al

club madrileno, probabilmente, senza dire in latino che pecunia non olet,

scomoderanno il dialogo, senza sapere che viene dal greco dialégomai,

"ragiono con", senza rendersi conto che non si ragiona con nessuno e

che non c'è spazio di integrazione, né di dialogo, dove si rinnegano le

proprie radici senza conoscere le radici degli altri.

Ancora meno disconoscendo, nel trasformare il "politicamente corretto" in

"politicamente ignorante", quel che nelle radici c'è di comune. Se gli arabi

pensassero di cancellare le loro tracce dalla Spagna, per non urtarne la

sensibilita, cancellerebbero un numero di parole significativo dal vocabolario

castigliano e abbatterebbero una quantità imprecisata di palazzi meravigliosi.

Ma questo chi contratta nel pallone non lo sa: guarda il mondo da un

rettangolo di prato e non conosce architettura al di fuori degli stadi.

___

C’è da costruire un resort negli Emirati e il

Real Madrid si toglie la croce dalla maglia

Il fatto, rilanciato dal quotidiano sportivo Marca, è avvenuto

il 29 marzo alla cerimonia ufficiale per l’inizio dei lavori

di costruzione del Real Madrid Resort Island. Il simbolo

cattolico compare sulla maglia della squadra nel 1920

di LUCA PISAPIA (il Fatto Quotidiano.it 31-03-2012)

Se Parigi valeva una messa, un resort turistico negli Emirati Arabi val bene

una croce da togliere dal proprio simbolo. Questo devono aver pensato gli

strateghi di marketing del Real Madrid, che hanno deciso di levare dallo

stemma della squadra spagnola la piccola croce situata sopra la corona,

specificando che riguarderà esclusivamente le attività commerciali e di

sponsorizzazione nei paesi a maggioranza musulmana. La croce apparve per

la prima volta nello stemma del Real nel 1920, quando il re Alfonso XIII offrì il

suo patrocinio reale al club madrileno, che cambiò la denominazione da Madrid

Club de Fútbol a Real Madrid Club de Fútbol e modificò anche il proprio

simbolo aggiungendo sopra al cerchio bianco blu con le lettere MCF la corona

reale sormontata dalla croce. Il simbolo cristiano e la corona, insieme al

titolo reale, sparirono dal logo e dal club durante gli anni della Seconda

Repubblica Spagnola (1931-39) e tornarono nel 1941, dove il logo assunse

una configurazione pressoché uguale all’attuale.

Ma, come ha notato il quotidiano madrileno Marca, pochi giorni fa la croce è

scomparsa di nuovo. E’ successo il 29 marzo alla cerimonia ufficiale per

l’inizio dei lavori di costruzione del Real Madrid Resort Island: un complesso

turistico residenziale che il club madrileno ha deciso di costruire sull’isola

di Ras al-Khaimah, uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi

Uniti. Dal costo previsto di circa un miliardo di dollari, sarà costruito in

collaborazione con il governo locale e la RAK Investment Authority e dovrebbe

essere completato entro il 2015. L’ambizioso progetto è parte della strategia

di conquista dell’immenso mercato asiatico cominciata da alcuni anni dal Real

Madrid e dai grandi club europei, si rivolge infatti ai più di 150 milioni

potenziali tifosi del Real che si stima vivano in Asia ed è situato a soli 45

minuti dall’aeroporto di Dubai, il quarto scalo al mondo per volume di

traffico aereo.

Alla presenza di vecchie glorie come Zinedine Zidane e Emilio Butragueño,

il presidente del Real Florentino Perez ha posato due giorni fa la prima pietra

di questo avveniristico piccolo mondo artificiale, che prevede alberghi e

ristoranti di lusso, piscine e campi sportivi, un piccolo stadio con 10000 posti

a sedere che si affaccia direttamente sul mare, un parco a tema e un museo

del Real Madrid. Una sola concessione alla realtà, la sparizione dal simbolo

del club della croce. “Per evitare in questo modo qualsiasi tipo di confusione

o di cattiva interpretazione in una zona con una grande maggioranza della

popolazione che professa la religione musulmana”, come riporta il quotidiano

Marca. La decisione non è piaciuta ai tifosi del Real Madrid. E sui social network

si è scatenata la protesta.

Il sito di Marca è stato invaso in poche ore da più di mille commenti di

tifosi, con toni che vanno dall’ostile all’infuriato. C’è chi accusa la

società di aver venduto l’anima al diavolo e chi di aver svenduto Cristo ai

petroldollari. Chi non perde occasione per rinfocolare assurdi scontri di

civiltà e chi addirittura vede nella multietnica rosa della squadra madrilena

l’inizio di una perdita di purezza e di una colonizzazione in corso da parte

degli infedeli. C’è poi chi ricorda che anche il Barcellona in viaggio a Dubai

aveva lasciato a casa la croce di San Jordi che fa parte del suo stemma. E

chi la butta sul ridere: chiedendosi se nelle prossime tournèe promozionali

nei paesi a maggioranza musulmana il nome di Cristiano Ronaldo sarà

cambiato in Musulmano Ronaldo.

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Il caso Il servizio mandato in onda dalle «Iene» sul dossier anti-Baldini riaccende rancori mai sopiti

Sensi, Moggi, gli americani:

tutti i veleni romanisti

di LUCA VALDISERRI (CorSera 31-03-2012)

ROMA — «Capisco i tifosi delle squadre, non quelli delle radio o delle

presidenze. Succede solo a Roma».

Parole di Daniele De Rossi, in un'intervista al Corriere della Sera. Ancor

più valide dopo il servizio delle «Iene» (visibile sul sito

www.iene.mediaset.it) sui dossier confezionati per accusare Franco Baldini e

Mauro Baldissoni — d.g. e membro del Cda della Roma — di aver scalato la

società grazie alla spinta della Massoneria.

Una storia inconcepibile altrove, che ha portato all'apertura di un'indagine

(ricettazione) sul conto del giornalista Roberto Renga, del figlio Francesco,

del conduttore radiofonico Mario Corsi e del suo collaboratore Giuseppe

Lomonaco.

Ricostruire la verità in un processo o archiviare sarà compito dei giudici.

In ogni caso resta un «pasticciaccio brutto» che ha radici profonde. Il derby

non è più Roma-Lazio, ma quello tra «nostalgici» della famiglia Sensi (nella

trasmissione di Mario Corsi interviene a volte in diretta la signora Maria

Sensi) e fedeli della nuova frontiera Usa. Finché si tratta di diverse

opinioni, anche se i toni si scaldano, poco male. Ma se entra in gioco la

magistratura la situazione è patologica.

Pare normale che, veri o falsi che siano lo diranno i magistrati, girino

fogli di presunte intercettazioni sugli sms di Baldini e Baldissoni? E che

Renga e Lomonaco, nella registrazione fatta a loro insaputa dalla «iena» Paolo

Calabresi, citino il primo la Digos e il secondo «amici (di Mario Corsi, ndr)

che hanno delle aderenze in persone che lavorano in compagnie telefoniche»

come fonti delle intercettazioni?

I «nostalgici» dicono che i Sensi si sono indebitati per fare vincere uno

scudetto alla Roma e tenerla nei quartieri alti in Italia e in Europa. I

risultati possono dar loro ragione, i bilanci di certo no. L'arrivo della

cordata americana è stato accolto da molti come una liberazione, tanto da

accettare tutto, persino risultati sportivi deludenti. E chi si è visto

scavalcare dagli americani nella corsa alla successione non c'è rimasto bene.

Alla vicenda non poteva mancare il veleno dei veleni: la presenza sullo

sfondo di Luciano Moggi, nemico acerrimo di Franco Baldini ai tempi di

Calciopoli. Lo ha raccontato al magistrato Paolo Calabresi, sentito come

persona informata sui fatti: «Ho ricevuto una telefonata da Moggi proprio nei

giorni in cui avevo fatto i video. Lo conoscevo per uno scherzo in tv che gli

avevo fatto nel 2007 vestendomi da cardinale. Ci siamo visti in uno studio

legale e lui stava con due avvocati. All'inizio uno mi ha chiesto se ero il

padre di quel ragazzo che gioca nella Roma. E Moggi ha aggiunto: lo possiamo

seguire. Ma io ci ho glissato sopra». La risposta di Moggi? «Mi sono proprio

rotto le scatole. La vicenda parla da sola, se vengo chiamato in causa da uno

che per vivere è costretto a travestirsi da cardinale. . . ».

I veleni non finiscono mai. Come si può rimettere in piedi il calcio

italiano?

-------

Il caso Parla l’autore del servizio: «Solo qui non si tifa per la squadra ma per una proprietà»

Calabresi: «Così ho smascherato

il falso dossier su Baldini»

La «Iena» e la truffa alla Roma: «Non ho nascosto la verità»

di LUCA VALDISERRI (CorSera - ROMA 31-03-2012)

Paolo Calabresi, ex allievo teatrale di Strehler, esperto di

travestimenti, «Iena» che ha confezionato il servizio sul dossier per

discreditare Baldini, Baldissoni e la new Roma americana. Come

dobbiamo chiamarla: 007 o traditore?

«Sono uno che non ha nascosto la verità. Perché volevano rifilarmi una

bufala? Perché le accuse a Baldini e Baldissoni di essere massoni, che poi non

è neppure un reato? Me lo sono chiesto. La mia idea è stata: arrivare a capo

di una società in virtù di legami oscuri non è certo bello, soprattutto quando

è falso. Se esce una notizia simile è un grave danno d'immagine».

La magistratura ha aperto un'indagine su Roberto Renga, il figlio

Francesco, Mario Corsi e Giuseppe Lomonaco, che la smentiscono. Le

Iene hanno dato la loro versione, dicono, mettendo pochi minuti di

discussioni più lunghe.

«È vero, ci sono almeno tre ore di registrazioni. Il montaggio dei nostri

servizi, però, è cronologico per dare forza e credibilità alla storia. Mi

creda, semmai c'è qualcosa in meno e non in più».

Ci spieghi la cronologia, allora.

«Sono io che ho cercato Roberto Renga, che conosco da tempo: avevo fatto

un'intervista a Carlo Petrini su Bologna-Juve del 1980 e gli avevo chiesto un

ricordo. Poi, a telecamere spente, mi ha chiesto se mi interessava una storia

su calcio, Roma e massoneria e che aveva le trascrizioni di sms tra Baldini e

Baldissoni piene di riferimenti massonici. Se vuoi te le farò vedere, mi ha

detto. Ne ho parlato con i miei capi e ho detto che mi sembrava una storia

improbabile. Abbiamo visto dove poteva portare. Così ho chiamato Renga dicendo

che si poteva fare. Poi ho ricevuto una telefonata da Lomonaco, che mi

raccontava la stessa storia. Perché, gli ho chiesto. Risposta: perché a Mario

non piace che intorno alla Roma ci sia questa gente e per beghe personali con

Baldini».

Lei è già stato sentito dal magistrato come persona informata dei

fatti. . .

«Ma io spero che nessuno sia incriminato. Vorrei semmai che questa storia

aprisse una discussione seria sulla mala informazione e su questa stranezza

solo romana dove non si tifa per una squadra ma per una proprietà o una radio.

Sento dire che sarei un amico che ha tradito la fiducia, ma mi chiedo: un

rapporto di conoscenza vale più della verità?».

Lei è tifoso della Roma: ha voglia di tornare allo stadio?

«Sono un po' incerto, è una zona franca. Però ci devo tornare. Altrimenti

tutto quello che ho detto sul non nascondere la verità non avrebbe valore».

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Arbitro, giù le mani dalla maglia

di SEBASTIANO VERNAZZA

dalla rubrica NON CI POSSO CREDERE!

(SW SPORTWEEK 24-03-2012)

Pessimo arbitraggio di Gianluca Rocchi in Udinese-Napoli (2-2)

del 18 marzo. Secondo fonti del club friulano, alla fine

l’arbitro toscano avrebbe chiesto la maglia a Cavani del

Napoli, mentre il guardalinee Copelli si sarebbe

“accontentato” di quella del portiere De Sanctis. Per motivi

di opportunità e buon senso sarebbe ora che l’Aia –

Associazione italiana arbitri – vietasse alle terne di

“mendicare” magliette, non fosse altro perché l’abitudine è

brutta e ha radici ancora peggiori.

È bene rinfrescare la memoria, ripescare aneddoti dalle carte

di Calciopoli. Alla vigilia del Natale 2004, Tullio Lanese,

allora presidente dell’Aia, fece il pieno alla Juventus: 9

maglie più 80 gadget. Nel maggio 2005 l’arbitro Paparesta

portò a casa 5 casacche juventine. Nel novembre 2005 il suo

collega Racalbuto chiese alla Juve «cinque maglie belle».

Forse invidioso, Paparesta, nell’aprile 2006, raddoppiò il

bottino del collega: 10 maglie belle.

Il massimo lo raggiunse l’assistente Di Mauro, che si fece

stampare il proprio cognome su una divisa a strisce bianche e

nere. Visti i precedenti, come si fa a reiterare la cattiva

usanza?

Post scriptum. La categoria di chi scrive non è senza peccato,

numerosi giornalisti elemosinano pezzi di mute: anche

calzettoni e calzoncini hanno il loro perché. Ai colleghi

specializzati nell’acchiappo domandiamo: sicuri di non essere

condizionati “per maglia ricevuta” in certi commenti e/o

pagelle?

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Sentenze & colpi di scena

Salvi Alemao e Careca:

chance per Maradona

di MARCO BELLINAZZO (Il Sole 24 ORE 31-03-2012)

Chissà se Diego Maradona riuscirà mai a vincere la partita con il Fisco. Una

vicenda delicata per l'entità dei debiti maturati dal Pibe de Oro (13 miliardi

di lire, lievitati a 37, 5 milioni di euro per effetto di interessi e

sanzioni). Ma anche perché si innesta in una complessa sequenza di

accertamenti, cartelle – notificate con difficoltà dato che dal '91 Maradona

si era allontanato da Napoli – e di sentenze emesse da commissioni tributarie

e dalla Cassazione.

Proprio in virtù di una decisione della Suprema corte del 2005, la n. 3231,

l'agenzia delle Entrate ritiene chiuso il capitolo giudiziario con la condanna

di Maradona. Ma quella sentenza si riferiva all'impugnazione di un avviso di

mora (notificato l'11 gennaio 2001) e dunque atterrebbe a profili di rito non

di merito. Tanto almeno sostengono i legali di Maradona, Angelo Pisani e

Angelo Scala, nel ricorso presentato alla Ctp di Napoli il 14 marzo scorso.

Sul piano sostanziale, invece, c'è una sentenza, pronunciata stavolta dalla

commissione tributaria di secondo grado di Napoli il 29 giugno 1994 (la n. 126),

che potrebbe "scagionare" Maradona.

Ma andiamo con ordine. Alla base di tutta questa storia ci sono sei avvisi di

accertamento Irpef (per gli anni dal 1985 al 1990) che contestavano la prassi,

non insolita allora, di corrispondere da parte del club oltre all'ingaggio,

una quota di compensi per lo sfruttamento dei diritti d'immagine attraverso

società terze con sedi all'estero – come la Diego Armando Maradona Productions

Establishment collocata a Vaduz – che poi li riversavano agli atleti. Gli

accertamenti avevano colpito la Società sportiva calcio Napoli e i tre

giocatori stranieri impiegati in quegli anni, Maradona appunto, e i brasiliani

Careca e Alemao.

Per il fisco e il giudice tributario di primo grado (decisione n. 3230/93) si

trattava di una truffa consistente in un'"interposizione fittizia" della

società sponsor che consentiva ai calciatori di percepire compensi aggiuntivi

agli emolumenti ufficialmente dichiarati quale retribuzione e pagare meno

imposte e alla società di risparmiare sulle ritenute alla fonte.

A fare ricorso contro questa decisione sono stati la Ssnc, Careca e Alemao,

ma non Maradona. La commissione di secondo grado ha ribaltato il verdetto. I

giudici tributari hanno chiarito che per applicare l'articolo 37, ultimo comma,

del Dpr 600/73, su cui si fondavano gli accertamenti è indispensabile la

prova dell'accordo "trilatero" tra le parti e del diretto passaggio delle

somme dalla società sportiva ai calciatori, con esclusione delle società

sponsor. Prove che, argomenta la commissione, non sono state raggiunte: «In

conclusione è da ritenere mancante la prova presuntiva di una interposizione

fittizia di persona in favore dei calciatori Careca e Alemao». Anche perché

«la lega nazionale ha riconosciuto il diritto dei calciatori a utilizzare in

qualsiasi forma la propria immagine, stipulando contratti con terzi e

ricavandone gli utili a titolo diverso da quello retributivo». Inoltre, i

giudici tributari citano la decisioni dei gip di archiviare su richiesta dei

pm i procedimenti penali nei confronti dei rappresentanti della Ssnc per il

reato di omissione dei versamenti delle ritenute alla fonte. Dunque, la

commissione annulla gli accertamenti nei confronti della società e dei due

brasiliani (il procedimento, per quanto possa sembrare assurdo, risulta ancora

pendente, come scrivono i legali di Diego nel ricorso). Ma per ben tre pagine

parla della situazione di Maradona, precisando anche che «i giudici penali per

tutti e tre i calciatori hanno escluso che i corrispettivi versati agli

sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni». Gli avvocati di Diego

ritengono ora che per effetto del principio di solidarietà si possano

estendere anche a lui gli effetti dell'annullamento dei sei accertamenti.

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Il lavoro impossibile degli arbitri

di JOHN FOOT (Financial Times/Internazionale 26-03-2012)

art.scoperto grazie a Studio

Una volta Fabio Baldas, arbitro e poi designatore, ha detto che “in Italia la

questione arbitrale è più importante di quella meridionale”. Ovviamente, è

un’esagerazione. Ma non così tanto.

La settimana scorsa, la Ġazzetta dello Sport ha pubblicato un articolo (che

riempiva una pagina intera) intitolato “Veleni, sviste, pressione. In A

servono più arbitri”. L’articolo analizzava i venti arbitri che lavorano in

Serie A oggi. Per ogni arbitro c’era il cognome, l’età e la media del voto in

questa stagione. Solo tre dei venti arbitri raggiungono la sufficienza. Per la

stampa italiana, il 68 per cento degli arbitri è insufficiente. E per i tifosi

in generale, il giudizio è molto, molto peggiore.

Perché l’arbitro è così odiato, ma al tempo stesso così importante, nel

calcio italiano? Secondo me, l’arbitro in Italia è una figura quasi tragica.

Gli arbitri sono condannati per il fatto di applicare la legge – ma è il loro

lavoro a richiederlo. È come se fossero intrappolati all’interno della

legalità dentro un mondo dominato dall’illegalità. Tuttavia, senza

l’applicazione di tutte le sue regole e punizioni, la partita di calcio non

avrebbe alcun senso.

E tutto questo in un paese dove lo stato è spesso ignorato, o deriso, o mal

sopportato. Il ruolo storico dello stato e della legge in Italia ha

determinato una forte crisi di legittimità di molti istituzioni che governano

o applicano le leggi. Allo stesso tempo, molti italiani si basano sulla

dietrologia per spiegare i fatti e costruirsi un’opinione. Non è importante

quello che vediamo con nostri occhi, conta solo quello che succede dietro le

quinte, i complotti, le vere ragioni che non possiamo vedere.

In un contesto del genere, cosa possono fare i poveri arbitri, bersagliati da

giornalisti, giocatori, presidenti, moviole, commentatori televisivi e tifosi

comuni, ogni giorno, in ogni bar, sempre e comunque? Come ha scritto il grande

Gianni Brera, l’arbitro è un “prepotente… che insiste nel ritenere che la

legge va rispettata anche a costo di infastidire il prossimo”.

Non deve sorprendere che così pochi arbitri raggiungano la sufficienza. Fanno

un lavoro quasi impossibile.

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Tevez, il gruppo e un mercato decisivo

Guido Vaciago - Tuttosport - 30-3-2012

PRIMO non illudere. Il nuovo comandamento di Beppe Marotta lo spinge a tenere il profilo basso, o comunque non altissimo, quando parla di mercato. La storia dei “top player” che ha tormentato la scorsa estate deve aver lasciato il segno e l’amministratore delegato juventino ora è più prudente nel parlare. Così al tifoso rimane il dubbio se sognare o no il grandissimo colpo estivo o volare più basso.

ESTATE BOLLENTE Marotta non promette, anzi con onesta trasparenza si fa i conti in tasca ed esclude di poter affrontare un’operazione da 100 milioni, che - almeno sulla carta - sono i soldi per andare a prendere uno come Tevez (pagandone 30 per il cartellino e dandogli i suoi 8 milioni netti a stagione per almeno quattro anni). Il che, tuttavia, non esclude che un Tevez arrivi davvero, perché il Milan ha insegnato che ci sono molte strade per arrivare a un fenomeno e non tutte richiedono sforzi economici impossibili. Marotta (che insieme al manager Bozzo riuscì a portare Cassano alla Sampdoria senza pagare un euro al Real Madrid) lo sa e tiene d’occhio il mercato e le sue situazioni. Sarà un mercato atipico, drogato dai soldi russi ancora più della scorsa estate, e condizionato non poco dal giro di grandi attaccanti che innescherà proprio il City di Dzeko e Tevez (per parlare di due probabili partenti). Sarà, insomma, un’estate bollente e la Juventus la affronta con un appeal più allettante per un grande giocatore: quello che le mancava senza la Champions e con una misera dote di due settimi posti consecutivi.

PRIMO: IL CARATTERE Ma la questione del “top player”, in ogni caso, sarà meno centrale rispetto all’anno scorso perché la lezione di Conte sarà decisiva per guidare il mercato. Il tecnico ha edificato la nuova (e competitiva) Juventus sulla coralità e sull’unità granitica del gruppo. Per rinforzarla, anche in chiave Champions, non se ne può prescindere: servono giocatori con maggiore qualità, campioni di spessore anche caratteriale, ma devono essere integrabili con il gioco e con i metodi del tecnico. Altri Vidal, altri Pirlo e altri Barzagli, per esempio, potrebbero essere più graditi a Conte di un fenomeno indisciplinato.

I TRE COLPI E’ difficile prevedere ora che mercato sarà fra tre mesi, anche perché rispetto agli anni passati la Juventus può muoversi con maggiore discrezione, non dovendo acquistare mezza squadra, ma solo qualche giocatore. Almeno uno per ruolo, garantisce Marotta in continuo contatto con il suo allenatore per aggiornare le strategie in tempo reale.

L’ALTRO TOP PLAYER Il che porta alla riflessione finale: è sempre più nodale la figura di Conte all’interno della Juventus: allenatore moderno non solo nei sistemi di gioco, ma anche nell’interpretare il ruolo in modo totale, partecipando in prima persona alle strategie societarie. Oggi è più che mai lui il top player della Juventus.

E' il weekend chiave per il campionato

Oreggia-Vaciago - Tuttosport - 30-03-2012

- Buongiorno Marotta, il Milan a Catania e voi in casa con il Napoli: in questo weekend c’è lo snodo del campionato?

«Dalla sua il Milan ha la continuità, ma ha un impegno molto importante con Montella e noi, logicamente, confidiamo sempre su un passo falso per recuperare punti».

Lei ha avuto parecchi presidenti: come giudica De Laurentiis?

«Rappresenta a pieno la napoletanità: grande temperamento e creatività. Lo definirei cinematografico, nel senso che ha portato idee e modi di fare del suo mondo nel nostro. E, visti i risultati, bisogna dargli ragione».

La visione di De Laurentiis orientata allo show-business è la ricetta per salvare il calcio italiano?

«Lui ragiona su logiche molto economiche e poco meritocratiche: per lui, vado a naso, il Chievo non ha ragione di esistere perché non porta ricchezza al sistema. E’ una concezione americana e non so se in Italia si può realizzare. Certo, il nostro calcio ha bisogno di riforme e Andrea Agnelli sta lavorando in questa direzione. Siamo per la riduzione a 18 squadre, per esempio».

Che giocatore ruberebbe al Napoli?

«Hanno tanti, ottimi giocatori…».

Bando alla diplomazia: Cavani lì davanti le dispiacerebbe?

«Certamente no…» (sorride)

Il Napoli, che per certi versi ha uno stile di gioco simile alla Juve, soprattutto per il dispendio energico, quest’anno ha sofferto il doppio impegno campionato-Champions. Voi avete già preso delle contromisure?

«Bisogna allenarsi mentalmente a convivere con questa realtà. E’ una questione psicofisica e, secondo me, Conte sarà bravo a gestire la situazione. E poi, logicamente, bisognerà mettere a sua disposizione un organico adeguato per operare un turnover senza perdere competitività».

A proposito: non cè il rischio che Conte sprema troppo i giocatori?

«Assolutamente no. Conte li allena, non li logora. L’intensità delle sue sedute di lavoro prepara molto meglio i giocatori allo stress della gara, quello che spesso è alla base degli infortuni».

L’ha visto il nostro gioco di schierare una mista Juve-Napoli per sfidare il Barcellona?

«Sì, divertente e affascinante, forse è una formazione un po’ sbilanciata in avanti, ma in fondo è un gioco».

Ma una JuveNapoli contro il Barcellona come la immagina?

«Bene, bene. Ma attenzione che le vittorie sul campo non arrivano solo per la forza dei singoli giocatori che si mettono insieme, ma grazie a modelli di riferimento che le società creano, ovvero il gruppo dirigente, un bravo allenatore a cui è permesso di portare avanti la sua metodologia. Senza questi presupposti non vinci. Infatti io preferisco partire con la società forte, un bravo allenatore e poi i bravi giocatori forti».

Con il passare delle giornate diventa sempre più difficile dare un rigore alla Juventus? Insomma: chi è l’arbitro che se la sente di essere quello che ha ridato un rigore alla Juve dopo 20 giornate?

«Non lo so, ma voglio chiarire: noi nelle scorse settimane non volevamo mettere le mani avanti per ottenere vantaggi nei match successivi. Volevamo puntualizzare una situazione anomala. Purtroppo c’è la sensazione che qualche volta manchi serenità da parte di chi arbitra la Juve: le scorie di Calciopoli sono ancora lì».

Pensa che i media siano contro la Juve?

«Casi isolati, non vedo complotti mediatici».

I tifosi ne vedono parecchi…

«Se è per questo anche quelli di Milan e Inter. Fa giustamente parte dell’essere tifoso».

Buffon va in scadenza nel 2013…

«Gigi può stare alla Juve quanto vuole, incarna un forte sentimento di juventinità e non ci sono ostacoli. Lui sa che la società lo stima e basta uno sguardo. Al momento

opportuno ci siederemo intorno a un tavolo per firmare».

Sarà un problema di soldi?

«Non credo proprio».

Vi aspettate da Buffon un video in cui annuncia la firma in bianco?

«Sa che non è necessario nemmeno parlarci…».

Con Del Piero cosa succederà?

«Se ne è discusso fin troppo. E mi pare che quello che ha detto Agnelli sia chiaro ed esplicito…».

Un giocatore come Tevez, prendiamolo come esempio di grandissimo acquisto, ha un costo complessivo di 100 milioni. Domanda brutale: ve lo potete permettere?

«Il sistema calcio Italia, alla luce della crisi generale, non è in grado di portare nel nostro campionato un giocatore che costa 30/40 milioni di cartellino e ha un ingaggio di 7/8. Nessun club può sostenere una spesa del genere».

Vero, certo che se ci fosse un Tevez lì davanti, lo scudetto probabilmente l’avreste già vinto o quasi. Il Milan può contare su Ibra.

«Ma il Milan colse un’occasione particolare, con Ibra che era entrato in conflitto con il Barcellona. E lo ha ingaggiato attraverso la formula del prestito. Ecco, quella è stata un’operazione di grande abilità: se capitasse a noi un’occasione di questo genere non la lasceremmo sfuggire».

Tevez potrebbe essere una situazione del genere?

«Può darsi… E’ una situazione complessa, noi siamo attenti. Prima di tutto bisogna capire qual è il parere di Conte, perché anche un campione deve inserirsi nella tipologia del suo gioco e possedere certe caratteristiche umane».

Per evitare delusioni è meglio volare basso quando si immagina il prossimo mercato?

«Assolutamente no. Volare bassi, no. Partiamo dal presupposto che possiamo e dobbiamo migliorarci ancora e lo faremo in ogni reparto con almeno un innesto».

Vuole dire che la speranza di arrivare a un fenomeno rimane?

«Tutto può tramutarsi in realtà. Noi oggi pensiamo in grande e l’obiettivo che ci porremo sarà importante. Ma un conto è pensare in grande, un altro è promettere. L’unica promessa che posso fare adesso è che ci miglioreremo di sicuro e lo faremo in ogni reparto».

Teme che Silvio Berlusconi, tornato alla guida del Milan, abbia in testa di realizzare un colpo a effetto?

«No, credo che il contenimento dei costi sia anche la loro logica economica».

A proposito di logica economica: 31 milioni per Lavezzi sono esagerati?

«E’ la sua clausola, quindi è il suo prezzo. Anche perché a compratori russi o inglesi si possono chiedere quelle cifre».

E voi? Non si adatterebbe benissimo al modulo Conte?

«E’ prematuro focalizzare l’attenzione su un nome specifico. Noi abbiamo dei profili di giocatori che possono essere utilizzati nel modulo di Conte, ma è presto per parlarne».

Come funziona la macchina del mercato Juve?

«L’anno scorso e quello prima, nei quali dovevamo ricostruire l’organico e quindi chiudere parecchi acquisti, procedevamo in modo molto analitico. Paratici aveva costruito dei campetti, che sono un mio vecchio metodo, in cui ci sono i giocatori sul mercato ruolo per ruolo. Per esempio: nella casella del terzino sinistro ci sono i sei/sette nomi, dal più forte in giù e così diventa più facile valutare come agire. Quest’anno sarà diverso perché confermeremo l’80% della rosa e gli acquisti saranno più mirati. Dalla quantità si è passati alla qualità: ora è il momento della perfezione. Non abbiamo bisogno di elenchi».

Quanto incide Conte nelle scelte?

«Tanto. Ma spieghiamoci una volta per tutte: non esiste Conte da una parte e la società dall’altra. Noi non facciamo nulla senza l’imprimatur dell’allenatore, come d’altronde nessun grande club. A volte il tecnico segnala dei nomi perché li conosce, altre volte fornisce dei profili. Poi la società deve fare le valutazioni sul prezzo e non solo…».

In che senso?

«Sincerità? Ecco… Noi abbiamo un gruppo sano, non ci sono teste matte, neppure una. Per cui bisogna sempre andare a conoscere bene la persona, per evitare brutte sorprese. Noi siamo orgogliosi del nostro modello di riferimento che consta in una società con le idee chiare sul mercato e di un tecnico vincente che riesce a valorizzare al massimo le risorse attraverso una metodologia e una precisa cultura del lavoro. Oggi abbiamo un gruppo che segue ciecamente quello che l’allenatore dice o vuole, che significa farsi un mazzo così e allenarsi in maniera costante. Se c’è qualcuno che non si applica, rischia di non inserirsi. E poi: se sbagli il giocatore da 5 milioni puoi fartene una ragione, se sbagli Tevez che te ne costa 100 sei morto! Bisogna stare molto attenti».

Arriveranno giocatori dal nome magari non altisonante però funzionali al gioco di Conte. Sbagliamo con una sintesi di questo tipo?

«No, il ragionamento più o meno è quello. E resta l’obiettivo di migliorarci in ogni reparto».

Altra sintesi: la grande stella della Juventus, alla fine, è Antonio Conte…

«Beh, lui ha saputo conquistarsi i tifosi con grande carisma».

C’è il rischio di perderlo? Sa il Tottenham…

«Non penso proprio. Vale il discorso di Buffon».

Se lui chiede delle garanzie tecniche per la Champions?

«C’è un piano industriale che tiene conto del fatto che la Juventus deve resistere ad alto livello in tutte le competizioni. Io sono convinto che per vincere non sia indispensabile il solista, ma la coralità. E sotto questo aspetto noi siamo avviati molto bene perché Conte ha modellato un sistema di calcio che è più orientato alla coralità che al singolo».

Quanto è ancora distante il Milan?

«Quest’anno abbiamo compiuto dei passi da gigante. Quello che i rossoneri hanno in più è un gruppo di giocatori di grande esperienza, che ha vinto molto. Hanno quella sicurezza, quel tipo di arroganza che deriva dal fatto di essere temuti dagli avversari. Il Milan oggi è più temuto di noi e noi dobbiamo arrivare a essere temuti come il Milan».

Restando al Milan: San Siro va verso il manto in sintetico. E un’opzione anche per lo Stadium?

«Per tipologie di strutture come San Siro o come la nostra bisogna pensare a qualcosa che dia garanzie assolute. All’orizzonte noi possiamo avere qualche piccolo problema e abbiamo già fatto qualche rizollatura. Siamo sul pezzo e studiamo tutte le ipotesi, anche quella del sintetico».

Dietro il Milan ci siete subito voi o anche il Napoli?

«Il Napoli conta su un gruppo che lavora insieme da tre anni, ma il nostro non ha nulla da invidiare a parte questo».

I vostri osservatori sono spesso in Sud America, alla fine però non chiudete grandi operazioni.

«Domanda: chi è quel giocatore sudamericano che negli ultimi cinque anni è riuscito a imporsi in uno dei primi quattro club italiani? Sono pochissimi gli esempi… Noi in Sud

America ci siamo e teniamo d’occhio molti talenti. Però non siamo nelle condizioni di fare una scommessa su un campioncino da 15 milioni. Quando avremmo completato tutta la rosa potremmo anche fare dei ragionamenti del genere».

Il vice-Pirlo è un dilemma che vi rode?

«Sì e siamo giunti a una conclusione condivisa da tutti: non esiste un vice Pirlo, perché Pirlo è Pirlo, unico nel suo genere. Quindi dovremmo cercare di rafforzare il centrocampo in generale, senza l’ossessione di trovare un altro Pirlo».

Immobile: lo vedremo a breve su questi schermi?

«Lo vedremo, ma non lanno prossimo. Deve farsi le ossa in provincia, è meglio anche per lui».

Felipe Melo si riuscirà a vendere?

«Certamente sì».

Cosa è successo a Krasic?

«Krasic è un ottimo giocatore, diciamo che non è congeniale al tipo di gioco di Conte. Questo può aver innescato un’involuzione psicologica, ma le qualità rimangono: deve solo rilanciarsi».

Dopo quasi due anni in bianconero, si sente juventino?

«Sono un professionista ed è chiaro che tutte le mie energie sono sempre per il mio club. Certo, la Juventus ha un fascino particolare e devo confessare di essere molto orgoglioso di essere qui e mi piacerebbe restarci a vita».

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The Man who Made Calcio

How Gianni Brera shaped the language and style of Italian football

By JAMES HORNCASTLE (THE Blizzard ISSUE TWO | September 2011)

A stroll through the leafy streets of Coverciano, a district of north-eastern

Florence, leads inevitably to the Museo del Calcio on viale Aldo Palazzeschi.

Among the rows of replica Italy shirts hung on the walls in chronological

order and the many artifacts housed in glass cases under low wooden

beamed ceilings is a red Olivetti typewriter. It’s a portable Lettera 62, not

quite the design classic that was the shapely Valentine model as conceived by

Ettore Sottsass at the height of the Made in Italy trademark. This typewriter

looks unremarkable, if not a little ugly. Exhibition based on looks can be

ruled out. There must be some sentimental value here. Why else, visitors ask,

would a typewriter command such a central presence amid the relics of Italy’s

proud football history?

The truth is that it was one of four that belonged to Gianni Brera, the sports

journalist who, it’s no exaggeration to say, shaped the way an entire nation thinks

and speaks about football and also how it would play the game for decades. The

location of that particular Olivetti Lettera 62 is no coincidence either. It is given

pride of place near Italy’s coaching school of excellence, the place where a country’s

football philosophy is laid out and learned by generation after generation of coaches.

Brera, by force of his own will, perhaps did more than anyone to set its curriculum —

and not always to Italy’s benefit. For that reason he is admired and loathed in equal

measure. He considered himself an ideologue and pontificated from the ivory keys of

his typewriter. Full-bodied like the Barbaresco he used to drink, he had an untidy

beard and swept-back hair the colour of the smoke that billowed intermittently from

his pipe. So how did this one man, who carried himself with the air of an intellectual,

come to have such an influence?

-------

Brera was born on 8 September 1919 in San Zenone, a small village in the northern

province of Pavia where the Po and Olona rivers merge. His roots in Padania would

greatly shape his ideas on football. The son of a tailor and barber, Brera’s childhood

was spent playing football — or fòlber as it was known in the local dialect — on the

sandbanks or in the oratory of San Bartolomeo, the local church. Not one to blow his

own trumpet, Brera later recalled in an interview with Il Giorno, “I played

centre-forward and I was Jesus Christ to my fellow villagers. But I couldn’t have

become a true footballer because I wasn’t a natural athlete. ”

Nevertheless, he felt that this experience, bolstered by a spell playing for an

amateur side in Milan as a midfielder, qualified him to write about the game with an

appreciation and an understanding that his future colleagues simply didn’t share.

“Modestly I note that, before me, people spoke about football like they might speak

about a tambourine,” Brera scoffed. “Those who wrote about the game hadn’t played it

while I had played football and found the need to express the gestures that I myself

had made or had seen others make in a language that was true to the reality. The

others were tell-tales. ”

A political science student at university, Brera made his debut as a football writer

for Guerin Sportivo as a 17 year old. He covered lower-league games for the magazine

he’d later edit until the outbreak of the Second World War, when he enlisted in a

parachute regiment. Once the armistice had been signed and his unit demobilised, he

daringly joined the 10th Garibaldi Brigade of partisans in Val d’Ossola and took part

in operations to thwart Nazi efforts to destroy local infrastructure, although he

insisted he never fired a shot. Soon afterwards, Brera swapped the theatre of war for

the velodrome as Bruno Roghi hired him to write about cycling and athletics for La

Ġazzetta dello Sport. In 1949, aged just 30, he rose to become the pink paper’s editor.

Brera, however, was a born columnist, not a director. He left the post in 1954 to go

freelance and participated in the formation of Il Giorno. It was there that he

established his reputation and consolidated his style. Umberto Eco, the Italian

philosopher, literary critic and author of The Name of the Rose, wrote an article for

the University of Rome’s De Nomine magazine arguing that Brera was “Gadda explained to

the people.”

Carlo Emilio Gadda was considered by the novelist Italo Calvino and the poet and

film-director Pier Paolo Pasolini as one of the greatest and most authentic Italian

writers of the 20th century. A Lombard like Brera, the publication in 1957 of his

quintessentially Roman novel Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (That Awful

Mess on the via Merulana) was seen as a kind of Ulysses moment, for like James Joyce

it held a fascination with language and a revolutionary attitude to its use in fiction.

Since the time of Alessandro Manzoni, whose 1827 work Promessi Sposi (The Betrothed)

became a symbol of the Risorgimento in its development of the modern, unified Italian

language, the nation’s writers had in effect felt unable to incorporate local dialects

into literature. The literary language that Manzoni fixed and made national was, for

some, both “a guide and a straitjacket”. What Gadda did was loosen the restraints,

using the dialect of his characters, in this case Romanesco, better to portray them.

Brera did the same, only in writing about sport it was much more accessible to the

wider public, who for the most part had retained local dialects as their mother tongue

and a proud source of identity. It’s often forgotten that Italy is still a relatively

new country and Italian a new language. At the time of unification under Garibaldi in

1871 only 10% of the population spoke it and to this day many think that the regions

making up Italy were too distinct to be squeezed into a single nation. Brera felt that

way too.

“I learned Italian at school,” he wrote, “but I always thought in redefossiano [his

local dialect]. After studying, I discovered that in order to be quick at my job, it’d

be worthwhile for me to think immediately in my language. I sometimes had to write 20

pages of copy on a Sunday afternoon and if I needed a word out of convenience, the one

that almost always cropped up would be in dialect. If I could write everything in

dialect, I’d be even happier because since Dante, the Tuscans have tired me. Excluding

Galileo, they haven’t written anything since the 16th century. ”

That last sentence in particular indicated Brera’s agreement with Pasolini that in

the sixties Italy’s linguistic axis was moving from its origins in Florence towards

the industrial triangle of the north made up of Milan, Turin and Genoa. The mass

immigration from the south of men wishing to work in factories such as FIAT’s and the

location of the national media, which was based mostly in Milan and Turin, had obvious

repercussions for the traditional linguistic fabric of Italy.

All of this came to the fore in Brera’s writing. “A language,” he wrote, “is a lot

more alive the closer it is to real life. Sport has added something in this respect.

It reaches many people, gets them talking and subconsciously or otherwise draws out

words and expressions. ” Brera accordingly sprinkled his match reports with dialect,

not just from Lombardy, but Lazio, Campania and Tuscany too. He popularised their use

and gained immense popularity, selling vast quantities of newspapers as he did so.

José Mourinho understood the importance of this. In response to a cheeky question

asked during his official unveiling at Inter about which Chelsea players would work

well in Italy, he famously raised his eyebrows and said, “io non sono un pirla,” -

“I’m not an idiot” - pirla being a Milanese expression. Brera would elaborate a little

further, however. He sometimes even used dialect to identify a player from a specific

region. For example, when writing “Romeo Benetti touched the ball back to Gianni

Rivera, ” he’d use the Venetian word indrio instead of dietro, the standard Italian

for ‘back’, subtly to indicate that Benetti hailed from the Veneto.

There was more to Brera’s writing than just wordplay, though. He was an extraordinary

wordsmith and is credited with inventing an entire language of his own. Walk into any

bookstore in Italy and alongside the Grande dizionario della lingua italiana there

will likely be several dedicated to Brera himself. “He is a writer pretending to be a

journalist, ” mused one of his contemporaries, Oreste del Buono.

Brera came up with neologisms like allupato, comparing a striker apparently ready to

pounce in the box with a snarling wolf circling its prey. There were verbal idioms too,

such as balbettare calcio or stammering football, which indicated a team had no

fluency in its play. Brera memorably coined nicknames as well, which would stand the

test of time. Gigi Riva was known as Thunder, Lele Oriali Gassy, Mario Bertini

Einstein and Marco Tardelli Gazzellino (the little Gazelle).

Hundreds of words were added to the written and spoken language, words that travelled

the world and entered into common football parlance. The term libero, for instance,

was Brera’s creation. It emerged in his Storia critica del calcio italiano (A Critical

History of Italian Football), a seminal work that the journalist Darwin Pastorin has

fittingly described as “the War and Peace of Italian football. ” Writing about the

1949-50 campaign Brera recalled how the league leaders Juventus came to be

sensationally defeated 7-1 by Milan. “Reflecting on the defensive inadequacies of the

WM formation I am anxious to know why the poor central ‘stopper’ doesn’t at least come

to be protected by a teammate, ‘libero’ or free from the incumbencies of man-marking. ”

Some have argued that this suggestion, together with his assertion that “the perfect

match would end 0-0”, is evidence that Brera was the midwife who brought catenaccio

into the world, a style of play that, for good and bad, has become synonymous with

Italian football. Brera undoubtedly had an interest in seeing that it triumphed. His

eccentric view of the world maintained that the Italians as a race were devoid of

protein and therefore had to play what he called a difensivista game of football

because they lacked the physical strength to play in an open and attacking way.

Pasolini, a great follower of football who often played on the restorative beaches in

Grado with Edy Reja and Angelo Sormani, considered the claims that Brera had invented

an Italian school of football to be disingenuous if not ironic. “Gianni Brera didn’t

invent catenaccio,” he observed. “If catenaccio were part of the Italian character, as

is probable, it couldn’t have been invented. In the same way as the slums around Rome

were not invented by those who put them in neorealist films. They were already there. ”

That of course didn’t stop Brera revelling when the Milan of Gipo Viani and later that

of his good friend Nereo Rocco tasted success with the tactic in the fifties and

sixties. They managed to win five Scudetti, a trio of European Cups, two Cup-Winners’

Cups, the Intercontinental Cup and three Coppa Italia titles between them. It smelt to

Brera like vindication.

Only a few years before he had said, ‘I told you so,’ to his colleagues. Alfredo Foni

was the Italy coach at the time. He had got the job after winning back-to-back league

titles with Inter in 1953 and 1954. That team had played a difensivista system. Ivano

Blason was a trailblazer as a prototypical libero. But when Foni took charge of Italy,

the press demanded that he abandon his principles and attempt to play positive

football. The azzurri failed to qualify for the 1958 World Cup and Brera felt a touch

of schadenfreude.

“Finally the difensivisti imposed themselves,” he wrote victoriously in another of his

books, Il mestiere del calciatore (The Craft of the Player). “Viani and Rocco assumed

the helm of the 1960 Olympic team and from that day forward we can say that Italy

possessed a school of thought. The Italian defensive system has been more or less

adopted throughout the world. Even the English had to deny themselves and play a

defender free from man-marking responsibilities alongside and behind the stopper in

order to win the World Cup in 1966.” If catenaccio was ‘holy’, as Brera liked to say,

then, in his eyes, it was also untouchable. He exalted players from the north of Italy

like the Inter legend Giacinto Facchetti, who had been born in the Lombard town of

Treviglio. According to Brera’s rather unsavoury musings in anthropology, Italy was an

“authentic racial jungle”. He controversially theorised that Italy’s best players were

of razza piave or northern stock. This led to accusations of racism, particularly from

the south. There were heated arguments with his readers and colleagues, no more so

than Gino Palumbo, the editor of La Ġazzetta dello Sport in the late seventies and

early eighties.

Palumbo was a native of the Mezzogiorno, Italy’s south. He firmly believed that the

beautiful game should be played the right way, not in defence or on the counter-attack,

but rather in attack with a lot of possession. Palumbo wanted to be entertained and

to see goals flying in. So he came to be considered the head of the scuola napoletana

and Brera that of the scuola lombarda.

To say it was a clash of footballing civilisations isn’t an exaggeration: before a

game at the Rigamonti between Brescia and Torino there were fisticuffs. Palumbo

famously stormed into the press box, spoiling for a fight. When he couldn’t find Brera,

he called out his name. No sooner had a figure, hunched over a typewriter, started to

turn around in his chair than Palumbo was upon him. A slap resounded in the cold

Lombard air then punches followed. The pair had to be separated by the others in

attendance. Palumbo was furious with Brera for writing an article criticising the

opinions of Antonio Ghirelli, another journalist of the scuola napoletana. This was

war.

“His long career was a series of fights, ” said one of Italy’s most distinguished

journalists, Indro Montanelli. “He argued with everyone, not just about language. When

it came to football he claimed to know better than any president, club, coach, trainer

or player. His opinions were received like the blows of a stick. His fortune came in

living during a time when duels had gone out of fashion. Otherwise he’d spend all day

shooting or being shot at.”

Brera made enemies all right. Take the 1962 World Cup in Chile as an example, when he

let the locals know that Ghirelli had filed a piece which deplored the country’s

infrastructure and even cast aspersions on its women. “One evening I went to dinner

for the first time in a stylish restaurant in Santiago,” Ghirelli recalled. “I still

didn’t know anything about the uproar I’d caused so I sat down at a table across from

where Brera was sitting with some colleagues. Brera then gestured a great hulk of a

man towards me who I later found out to be South America’s champion Greco-Roman

wrestler. He threw himself on me, shouting at me in Spanish, accusing me of off ending

his country and his citizens.”

Brera certainly had a wicked streak. But if his criticisms hurt other journalists,

spare a thought for the players he lambasted in his columns. Sandro Mazzola once said

that reading an article written by Brera was akin to self-harming because they were

filled with line upon line of “words that cut”.

Of course no one knew that better than Gianni Rivera, the languid but elegant Milan No

10 of the sixties and seventies, the golden boy of Italian football. He was the focus

of a journalistic critique that was remarkable for its relentlessness. But this was no

personal assault: Brera always held a hushed admiration for Rivera. He called him “my

negative hero”, which is better than the antichrist. Rivera was to Brera what Galileo

was to the Catholic Church. He challenged his religion and all that he held dear.

“Brera was always faithful to an idea of a contracted and closed football founded on

the counter-attack and on opportunism,” Rivera told La Repubblica. “He had elaborated

on ethno-cultural theories to support his ideas about football. I thought that in

order to play football and to entertain the supporters in the stands you had to have

fun yourself and that if anything the physical and ethno-cultural characteristics of

Italians when united to our technical refinement made us more adapted to a

light-hearted and open game.”

To a devout difensivista like Brera that was sacrilege. Rivera was frowned upon as a

luxury player. He cut a frail figure on the pitch and wasn’t prepared to put his foot

in. A stroke of genius every now and again wasn’t enough to merit a place on Brera’s

canvas and for that reason the nickname l’abatino was bestowed upon Rivera. Brera

explained the term in Incontri e invettive as relating to a fragile and elegant

‘little priest’ who had an ‘affected style’ and was by the same token a ‘fake’.

Underneath it all, Brera argued, there was no substance, but rather a lack of courage

and athletic vigour.

Contrarian to the last, he refused to acknowledge Rivera’s key role in Milan’s two

European Cup successes of 1963 and 1969. It became an issue in his relationship with

Nereo Rocco, something they’d refer to as “our Stalingrad” during their ‘Thursday

night clubs’ at the A Riccione restaurant in central Milan, which Brera called his

‘office’. El Paròn had the conviction to stand by his choices, but others didn’t for

fear of a smear campaign from Brera.

With that in mind, it’s worth asking whether he might actually have held Italian

football back. The influence Brera commanded from the books and newspapers that he

sold and the appearances that he made on TV shows like Domenica Sportiva was

undeniable. Did he abuse the responsibility that came with such an honour? Quite

possibly, yes.

Anyone who held views different to Brera’s on the gioco all’italiana was punished in

print. He got great satisfaction from learning how, on travelling to England for a

coaching conference in 1964, the “crazily attacking” Helenio Herrera, then in charge

of Inter, “spoke of our system as if it were his own.” To Brera, Il Mago had been

“forced” to adopt it.

Difensivismo became firmly entrenched. The number of goals scored in Italy dropped by

a staggering 300 per cent between 1950 and 1970. With a few noteworthy exceptions,

coaches stopped experimenting. Corrado Viciani’s efforts to introduce a short-passing

game at Ternana in 1972 were soon discredited and Luís Vinício received the same

treatment after daring to reintroduce zonal-marking at Napoli in 1978.

While the rest of Europe drew inspiration from the Total Football practiced by Ajax

and the Dutch national side, Italy remained impervious and became isolated. Yet there

was a pride that came with doing things differently. But why did the Italians remain

so faithful to difensivismo Was it all down to Brera and his considerable sway?

Not entirely, according to Mario Sconcerti. A respected former colleague of Brera’s

and now a columnist for Il Corriere della Sera, he believes that the answer lies in

Italy’s Catholicism and drift towards Communism after the Second World War. “Our

football was very practical,” Sconcerti wrote. “It was born during a time when the

country was full of ruins. There was a need for pragmatism. It was impossible to think

big. Moreover, we were a country of fascists who were learning to be socialcommunists

while staying rigorously attached to the rules of the church. We had too many

religions to respect. We tried to find a middle ground, a kind of football that was a

little holier-than-thou and allowed us to commit sins without going to hell. ”

Much like the Vatican, there appeared to be little room for discussion in the church

of Italian football, not with an evangelist like Brera around deciding what was right

and wrong. Years went by and nothing changed until a shoe salesman from Fusignano by

the name of Arrigo Sacchi dared to imagine what Italy might achieve by playing in a

different way. Initially, he was dubbed ‘the Alien’.

Sacchi had seen the world, taking business trips to Germany, Holland and France with

his father. “It opened my mind,” he said. “Brera used to say that Italian clubs had to

focus on defending because of our diets. But I could see that in other sports we would

excel and that our success proved that we were not inferior physically. And so I

became convinced that the real problem was our mentality, which was lazy and

defensive.”

Brera didn’t like it, but Sacchi oversaw a cultural and tactical revolution in Italy.

When he arrived at Milan in 1987 an average of just 1.92 goals were scored per game in

Serie A. When he left four years later that average had risen to 2.29, a figure that

translates to an extra 113 goals a season. Sacchi was “a perfidious prophet” in

Brera’s eyes. He did away with his invention, namely the libero, and based his defence

around a back four that didn’t mark the man, but the zone. He asked that his team

control possession and the spaces too. He wanted Milan to be proactive not reactive.

They wouldn’t sit back, not on Sacchi’s watch. They would endeavour to make the play.

Underpinning all of this was the belief that, if a team wanted to go down in history

and stay in the memory of supporters long after the result, they also had to convince.

Sacchi ensured his place in posterity by offering up to the footballing gods the

magnificence of a 5-0 win against Real Madrid and the feat of winning two European

Cups back-to-back. Brera unwittingly played a part. Sacchi would use his criticisms as

motivation for the players in the build up to the 1989 final in Barcelona against

Steaua Bucharest.

“I took his piece in the dressing room,” Sacchi claimed, “and said, ‘The most famous

journalist in Italy says that the Romanians are maestros with the ball and that we

need to wait for them and beat them on the counterattack. What shall we do?’ Ruud

Gullit then got up and said, ‘We’ll attack them from the first second’.” Milan won 4-0

and Brera, the Clausewitz of Italian football, had lost.

Yet he clung to his ideas to the last. Three days before Sacchi was unveiled as the

Italy manager in 1991, Brera wrote an article for La Repubblica entitled Non si va

contro la storia (You don’t go against history). Hitting his stride, he noted, “A

trolley is still a trolley even if you call it a tram. For this reason I still don’t

understand the silliness of these arguments. I know that it’s exciting to see a team

take a game by the scruff of the neck and impose itself on the opponent, but the only

valid strength of the Italians resides in our cunning at inviting the opposition to

compromise themselves.”

A year later, on 19 December 1992, Brera was dead, killed in a car accident with two

of his friends. A nation mourned. “It’s the end of fantasia, the end of creativity, ”

lamented Del Buono. “Now all that remains is a normalised football. ”

When one considers Brera’s career, it’s hard not to think about a short story that the

great Argentinian writer, poet and critic Jorge Luis Borges composed in the 1960s. His

subject was the last game of football ever played. It was a dystopia. “Football, like

all sport,” Borges reflected, “is a kind of drama interpreted by one man alone in a

projection room or by actors in front of a cameraman.”

Brera was that one man smoking a Tuscan cigar in the dark while a film reel clicked in

the background. He had the plot all worked out. He wrote the script. It was a world he

had done a lot to create, shape and direct, not least with his words. When Italians

talk about football, they speak the language of Brera and that’s his great legacy. But,

as Sacchi proved, they didn’t have to play his football.

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Modificato da Ghost Dog

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Calcio, e i club snobbano Prandelli

Il Ct della Nazionale ha chiesto alle squadre di poter avere i

giocatori ad aprile e inizio maggio per preparare gli Europei.

Ma ha ricevuto un netto rifiuto dalla Lega dei club.

di GIAN PAOLO ORMEZZANO (FamigliaCristiana.it 31-03-2012)

Il 20 maggio è in programma a Roma la finale di Coppa Italia, fra la

Juventus e il Napoli che in semifinale hanno eliminato rispettivamente

il Milan e il Siena. Si conta molto sulla qualità della sfida, sulla “fame” di

trofei che i due club hanno, oltre si capisce che su un grande finale di campionato,

con la Juventus in corsa per lo scudetto contro il Milan e con il Napoli

teso al terzo posto che significherebbe la partecipazione nella prossima

stagione alla Champions League, il che vuol subito dire una trentina di milioni di

euro come gettone di presenza. Da notare infine che il calendario oppone la Juventus

al Napoli già domenica a Torino, in campionato…

Due parole ancora sulla Coppa Italia, prima di passare ad un tema più “duro”. Il

trofeo interessa in Italia soltanto nelle strette finali, quando finalmente

ci sono eliminazioni di squadre grosse e il pubblico si appassiona (di

solito a un punto della stagione in cui il campionato ha già detto molto). In

Inghilterra la regina assiste alla partitissima che ha lo stesso valore di uno

spareggio per il titolo. In Spagna idem, c’è il re, altissimo è l’interesse

specialmente se la sfida finale è fra Barcellona e Real Madrid, insomma è

una replica del ”clasico” di campionato.

In Francia la coppa, aperta anche a squadre di dilettanti, spesso vale

più del campionato quanto ad attenzione popolare: e nel 2000 quasi tutto

il paese tifò per il Calais, club amatoriale con lavoratori e studenti in squadra,

che giunse alla finale parigina contro il Nantes, dopo avere eliminato le “grandi”,

perdendo 1 a 0 soltanto in extremis e per un gol discusso (Osvaldo Guerrieri

ne ha fatto una bella commedia, rappresentata anche a Parigi: “Allez Calais”

il titolo). Da noi si spera che all’Olimpico il 20 maggio ci sia anche, a dare

lustro speciale alla sfida, il presidente Napolitano, che magari tiferà

più Napoli che Juventus. Lo stadio romano sarà probabilmente riempito,

Napoli è vicina a Roma, Torino ma soprattutto l’Italia bianconera saranno

in mobilitazione piena per il ritorno della Signora ai vertici del calcio.

Ci sono state grosse avvisaglie di un conflitto Coni-Lega Calcio, a proposito

della disponibilità dell’Olimpico: il Coni, proprietario dell’impianto, deplora

che la Lega (dove continua la presidenza-fantasma di Beretta, dimissionario

solo a parole ancorché adesso abbia un altro lavoro), tenda a svincolarsi

sempre più da ogni autorità sportiva istituzionale, bypassando la

Federcalcio e dandosi alla gestione diretta condotta dai club più grossi,

che vogliono trasformarla in un comitato d’affari. E così ha detto no allo

stadio, mai richiestogli ufficialmente dalla Lega, “usando” anche il supporto

di fondati timori riguardanti l’ordine pubblico: non per il conflitto tra la

tifoseria napoletana e quella torinese, ma tra la tifoseria napoletana e

quella romana e laziale. Poi Beretta ha chiesto formalmente l’impianto, la

prefettura ha detto sì, anche il Coni ha detto sì.

Ma il problema era ed è un altro. Il Coni in sostanza ha “usato” lo stadio

suo per far sapere che non gradisce l’atteggiamento della Lega verso la

Nazionale azzurra. Spieghiamo: l’8 giugno comincerà, in Polonia e Ucraina,

il campionato europeo, che si concluderà il 1° luglio. L’Italia è qualificata,

gli azzurri di Cesare Prandelli hanno svolto bene il compito. Ma sul piano

della preparazione necessaria per lunghi e grandi confronti ci creano

apprensioni i soli diciassette giorni senza calcio fra la Coppa Italia e il

via all’Europeo, come anche i ventiquattro tra l’ultima giornata di campionato

(13 maggio) e l’Europeo.

Dopo la finale di Roma ci saranno almeno un paio di giorni di vacanza per gli

attori: e così, considerando le necessità di ambientazione nell’Esteuropa, con

spostamento “precoce” in loco, si può parlare al massimo di una settimana di

raduno azzurro chez nous. Da ricordare poi che la Juventus, che “finisce” il

20 maggio, fornisce il maggior numero di azzurri al citì. Prandelli ha chiesto

ai club almeno di concedergli giocatori per stages separati in aprile

e inizio di maggio, raduni anche di un solo giorno, preparazione

smozzicata ma pazienza: i difensori, i centrocampisti, gli attaccanti…

Rifiuto netto da parte della Lega dei club.

La Nazionale canta già “Fratelli d’Italia”, grande esempio per il Paese, e

cosa si pretende di più? C’è tensione, Prandelli vuole sempre portare

avanti un discorso etico, e i club non hanno gli strumenti, culturali

oltre che morali, per seguirlo. E hanno anzi interessi contrari. Il denaro

comanda, il denaro impone al club di usare molto i giocatori, per produrre

altro denaro. La Nazionale è spesso scomoda, allontana un atleta dai compagni

abituali, se giovane gli mette in testa brutti pensieri di orgoglio, di affermazione di

nuovi diritti.

La Nazionale può essere occasione di incidenti, la Nazionale stanca,

toglie giorni al riposo, il prossimo campionato comincerà già il 26 agosto

e prima del via si dovranno disputare partite amichevoli, tante perché tanto

utili per fare cassa. E si pensa anche a tournées postcampionato, senza azzurri

ma con tutti gli altri. Prandelli scoccia, insomma, con le sue richieste. E lui, che

sa di scocciare, e sa che il Coni è con lo sport azzurro quindi con lui, potrebbe

anche essere tentato, in caso magari di insuccesso europeo ovviamente

scaricato dai club addosso a lui, di cedere a sirene di club. E’ un argomento

delicato, ma intanto il confronto è quasi brutale. Voi per chi tifate?

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dallaPrima

Ora il duello si gioca

anche con i nervi

Allegri atteso da un lavoro di psicologo, la

Juve non può fallire un’altra occasione...

di LUIGI GARLANDO (GaSport 01-04-2012)

Non proprio il harakiri evocato ieri da Antonio Conte, ma il Milan a Catania

un po’ di male se lo è fatto: il pareggio (1-1) offre alla Juve la possibilità

di portarsi stasera a due soli punti dalla vetta. Il posticipo col Napoli si

arricchisce così di ulteriore fascino. Lo Juventus Stadium stanotte ruggirà di

voglia. Il sospetto di un altro gol-fantasma (Robinho) ha di nuovo arroventato

i rapporti tra Milan e Juve. Non se ne sentiva il bisogno.

Clamoroso al Cibali per modo di dire, perché il Catania rivelazione in casa

aveva già tolto tre punti all’Inter e due alla Juve. Il punticino di per sé

non è una sciagura per il Milan in fuga che, può permettersi di gestire,

sapendo di avere un calendario più morbido. Tolta l’Inter alla penultima,

Allegri ha solo provinciali e giocherà in casa quattro delle ultime sei (una

delle due in trasferta è il derby), mentre i rivali alla prossima saranno a

Palermo e devono ancora incrociare le romane. A dare forza all’idea di rimonta

della Juve, più ancora della classifica, sono due rilievi. Primo: stavolta

Gulliver (come lo chiama Conte) non è bastato. Ibra, che ha crocchia in testa

da giapponesemanessuna voglia di suicidare lo scudetto, ha creato il gol di

Robinho con una magia. Ma questa volta Zlatan non ha fruttato tre punti. Un

fuori-programma che carica l’ottimismo di Conte, ossessionato dallo strapotere

italico di Zlatan. Secondo rilievo: i blaugrana dell’ottimoMontella hanno

aggredito il Milan all’inizio, lo hanno rimontato e messo più volte in

difficoltà, atleticamente e tecnicamente. Se Berlusconi è stato critico

mercoledì, non avrà goduto davanti allo stopper Spolli che sgusciava in

dribbling come un Messi e al possesso concesso ai siciliani. Il Milan che

lancia lo sprint finale, insomma, non è al top.

Il nervoso dopo-partita di Allegri, più che dal presunto gol fantasma di

Robinho, di cui non esistono immagini risolutive, è legato probabilmente a un

sospetto: la sfumata vittoria di Catania avrebbe avuto un peso- scudetto pari

a quella di Udine. Ora invece è tutto più complicato, soprattutto se il Camp

Nou porterà nell’ambiente un’eliminazione e nuovo fuoco amico (Berlusconi). A

un gruppo che deve raccogliere le forze per l’omerico passaggio al Camp Nou e

per lo sprint scudetto servono serenità e convinzione. Meglio che Allegri e

Galliani lavorino di psicologia e diplomazia piuttosto che arroventare

polemiche, che potrebbero diventare alibi per la squadra. Se il Milan si è

complicato la vita, non è che quella della Juve sia diventata una discesa

grazie al gol di Spolli. I punti di distacco restano. Non sempre questa Juve,

splendida ma giovane per le lotte di vertice, ha risposto almeglio quando è

stata caricata di pressioni. Spesso ha steccato allunghi importanti, stasera

dovrà dare una risposta di maturità. Ma battere il Napoli, caricato dalla

prospettiva del terzo posto, non sarà facile. La squadra di Mazzarri è quella

che più è andata vicina a violare l’imbattibilità della Juve. E senza Cavani,

che nel campionato scorso ai bianconeri ne segnò tre in un colpo solo.

Aspettiamoci spettacolo. Dalla partita di Torino e dalla volata scudetto tra

Milan e Juve. Una sola preghiera ai protagonisti. Dire che gli arbitri sono

ancora condizionati da Calciopoli o che i gol-fantasma, veri e presunti,

falsano il torneo equivale a convincere la gente che la gara in corso è

tarocca. Per favore, piantatela. Sforzatevi invece di farci credere che nelle

ultime otto giornate vivremo emozioni autentiche e vincerà solamente il

migliore.

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CALCIOSCOMMESSE

Telefonate e rogatorie:

Lazio e Mauri nei guai

di FRANCESCO CENITI (GaSport 01-04-2012)

Presente e futuro. Un sabato cruciale per l'inchiesta sul calcioscommesse,

sponda Cremona. Un sabato che ha visto il gip Guido Salvini interrogare i

croati Saka e Ribic (mercoledì scorso avevano volontariamente posto fine alla

loro latitanza), considerati dagli inquirenti pedine medio-basse della

«squadra» che faceva capo a Gegic e Ilievski; un sabato lavorativo anche per

il pm Roberto Di Martino che sta mettendo a punto i numerosi riscontri

arrivati in queste settimane sul tavolo. Riscontri sul filone che punta

dritto al cuore della Serie A. Riscontri che secondo fonti investigative

metterebbero nei guai Lazio, Genoa, Lecce. Un lavoro incrociato di

accertamenti tecnici, rogatorie, movimenti bancari e verbali secretati. La

sensazione è che tutto questo malloppo potrebbe far parte della terza fase di

un inchiesta. Quando? Novità importanti potrebbero esserci in un arco di

tempo compreso tra i 20 e i 40 giorni. Novità in grado di mettere un bel

punto interrogativo sul finale di campionato.

Zamperini e Horvath La Lazio nei guai, dicevamo. Perché? E'

soprattutto Zamperini a fare da filo di Arianna agli investigatori in questo

labirinto intricato di presunte combine e accordi tra giocatori e «zingari».

Seguendo i suoi spostamenti, si è scoperto che erano in fotocopia con quelli

di Ilievski. Zamperini non ha mai negato l'amicizia con Stefano Mauri. Per

il pentito Gervasoni quel rapporto avrebbe consentito agli zingari di gestire

due match dei biancocelesti. Il telefono dell'ex calciatore è stato fatto analizzare

e sono saltate fuori cose interessanti. Tra le altre: più di 1.100 chiamate

proprio con Mauri, molte anche in prossimità delle gare. E ancora: Zamperini

era di casa a Formello (sede del ritiro laziale) come dimostrano le celle

telefoniche. E continuava a chiamare diverse persone con le schede a

disposizione. Gli inquirenti si sono concentrati in modo particolare sulle

quasi 230 chiamate a una certa Samanta Romano, parrucchiera di 27 anni.

Chi è? Per chi indaga è la fidanzata di L. A. , titolare dell'agenzia di scommesse

Gold Bet, sulla Aurelia. Anche il telefono della Romano spesso agganciava la

cella di Formello. Venivano piazzate così le puntate dei giocatori? La

risposta la daranno gli inquirenti. Che hanno in mano molti altri elementi

tenuti coperti, ma che hanno permesso il salto di qualità. In particolare la

rogatoria che contiene l'interrogatorio di Gabor Horvath (ex calciatore

ungherese ora in carcere) nel quale avrebbe descritto i dettagli delle combine

su Lazio-Genoa e Lecce-Lazio. Compresa la lista dei calciatori coinvolti nel

tarocco e i soldi intascati. L'incrocio con i movimenti bancari e i tabulati

avrebbe completato il quadro. Ora non resta che attendere.

I due slavi Ieri è durato qualche ora l'interrogatorio di Saka e Ribic: hanno

confermato di aver pagato Carobbio e Gervasoni (50-60 mila euro a «biscotto»),

ma hanno respinto l'ipotesi di far parte dell'associazione. Queste le parole

degli avvocati Krsnik e Cecchini: «Sono stati collaborativi: siamo davanti a

un gruppo di scommettitori che comprava informazioni da Carobbio e Gervasoni.

E Gegic faceva in sostanza da interprete». Per gli inquirenti, però, le

responsabilità sono chiare anche se non si tratta dei protagonisti principali

della vicenda. Sono 6 le partite «comprate» da Saka e Ribic, tutte del 2010:

Brescia-Mantova e Grosseto-Reggina (non andate a buon fine e soldi restituiti);

Cittadella-Mantova e Ancona-Grosseto (combine ok); Empoli-Grosseto e

Grosseto-Mantova (nessuna scommessa per le quote crollate). L'avvocato dei

croati ha preannunciato che anche Suljic e Lalic, altri due membri della banda,

potrebbero presto consegnarsi alle autorità italiane.

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ilConfronto

CALCIO E DEBITI, LA SPAGNA CI SUPERA

LE LORO SQUADRE PERÒ SONO AVANTI

di FABIO LICARI (GaSport 01-04-2012)

Allarme finanziario. Oltre 2,6 miliardi di debiti. Una situazione da

fallimento, se non fosse che il calcio in Italia è quasi un servizio

pubblico che non può essere sospeso. Bene: non siamo neanche quelli

messi peggio. A fronte dei grandi campionati col «vizietto» che fa

imbestialire Platini — spendere più delle enormi cifre guadagnate —

c'è in Europa il calcio di seconda fascia, quello che non riesce a

pagare i minimi salariali, rende i giocatori più deboli al fascino

delle scommesse e scomparirà Apoel di turno a parte se non riuscirà a

compattarsi in leghe regionali attirando nuovi investimenti. E anche

tra i «grandi» c'è chi sta peggio. La Spagna, per esempio. Il monte

debiti è spaventoso: 3,53 miliardi. Con due club Saragozza e Rayo

quasi in bancarotta. Real e Barça ricevono la metà di tutti i diritti

tv 1,2 miliardi, lasciando il resto alle altre 18 squadre. Al

confronto il sistema solidale italiano sembra marxista. Il presidente

del Barça, Rosell, ha ammesso che non è più sostenibile. Continuando

così, un giorno, la Liga potrebbe svolgersi con 38 turni di Real-Barça.

Questa situazione è apparentemente incompatibile con i risultati

nelle coppe: il Real è già in semifinale di Champions, il Barça

favorito sul Milan, inoltre Valencia, Atletico Madrid e Athletic

Bilbao hanno buone chance di qualificarsi in Euroleague sarebbero 3

semifinaliste su 4, come l'anno scorso il Portogallo. Un caso?

Possibile. Ma, escluse Real e Barça, anche il risultato di una

gestione tecnico-tattica adeguata alle nuove esigenze: stranieri

giovani ed «economici» tipo Udinese, cura estrema dei vivai, voglia di

«giocare» al calcio stile Barça. E meno snobismo verso ciò che non è

Champions. Se poi un giorno riusciranno a spiegarci perché il Valencia

va avanti in Europa mantenendo il 3° posto in Spagna, mentre le nostre

«devono» riposare e far giocare la squadra B, forse riusciremo anche a

copiare il modello. E recuperare nel ranking.

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Il commento

Quanti errori, qualcosa deve accadere

di MARIO SCONCERTI (CorSera 01-04-2012)

Il risultato di Catania è corretto, due splendidi inizi di partita del Catania,

poi due ritorni profondi del Milan, anche dei cambi di Allegri che hanno

rimesso insieme la parte finale dell'incontro. Risultato giusto, ma il Milan

ha segnato un gol in più. Anche stavolta la storia è chiara, la palla era

oltre la linea. Si può discutere sulla lontananza di chi deve decidere, sulla

prospettiva in genere e sul fatto che anche il guardalinee è comunque alla

fine soltanto un uomo. Ma il pallone era entrato. La cosa più dolce delle

ingiustizie calcistiche è che nessuno vuole trarne vantaggio. In questo il

calcio è cambiato, prima era un regno di furbi, era benvenuto l'errore se

aiutava. Oggi conta di più il pallore del martirio, la sua esattezza fredda.

Nessuno vuole più aiuti, tutti preferiscono avere un'ingiustizia con cui

giustificare il complotto, piuttosto che ammettere un vantaggio. La storia

domani non sarà se il gol era gol, ma quanti di quegli errori sono commessi

per Juve e Milan. Resta il fatto che quello era gol e che ancor di più lo era

quello di Muntari un mese fa. I popoli del calcio possono anche divertirsi con

questa specie di «Ciapanò» morale, ma il calcio come regola e come business

non se lo può permettere. Ha torto Galliani, il campionato non è falsato da un

episodio, e nemmeno da due. Sono centinaia gli errori umani che ne cambiano

alla fine il contenuto. Ma su quelli di questo genere si può intervenire. La

gente a casa vede troppo più degli arbitri in campo. Non può essere così.

Platini non vuole tecnologia, forse è più avanti lui che punta tutto sul

giudizio dell'uomo in un gioco che è il più naturale fra gli sport di squadra.

Ma che vengano il laser o l'arbitro di porta, qualcosa deve pur accadere in

uno sport dove una posizione di classifica significa decine di milioni di

differenza. E dove i fedeli hanno più voglia di martirio che di ragione.

-------

Non sarebbe bastato il giudice di porta

Caro Platini

La tecnologia è diventata una necessità

di PAOLO CASARIN (CorSera 01-04-2012)

Oggi si accettano quasi tutte le decisioni arbitrali, salvo quando il pallone

balla sulla linea di porta. Allora non si tollerano nemmeno gli errori di un

millimetro. Se il gol è stato realizzato, tutta la sfera oltre al linea,

bisogna darlo. Succede invece che, in Catania-Milan, un tiro di Robinho

permetta a Marchese di respingere il cuoio con il piede dentro la porta. In

campo il gioco continua: nessun è sicuro, il guardalinee Ghiandai, da oltre 30

metri, non può esserlo: la sicurezza l'aveva già perduta fermando per

fuorigioco inesistente Ibra e Boateng. Al Cibali nessun spettatore è sicuro;

ma arriva la tv e mostra che il pallone è entrato di un millimetro. Caro

Platini, il giudice di porta poteva dare il gol di Muntari, non quello di

ieri. Questo calcio televisivo impone i sensori sulle porte: puntiamo sulla

loro perfezione.

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Bologna Fc, Consorte lascia il patto di sindacato.

Davanti all’offerta di Volpi il caos.

di DAVIDE TURRINI (il Fatto Quotidiano.it 01-04-2012)

Giovanni Consorte si è inaspettatamente dimesso da presidente del patto di

sindacato del Cda di Bologna 2010. La nota di Intermedia è arrivata nel tardo

pomeriggio di ieri, con poche righe stringate dove l’ex presidente Unipol ha

dichiarato che “sulla base degli orientamenti assunti dalla maggioranza dei

soci (…) ritengo superato il mio ruolo di presidente”.

L’ingegner Consorte con la società Intermedia aveva recuperato e rilanciato

il Bologna Fc nel dicembre 2010 dopo la fallimentare gestione del presidente

Porcedda, riscrivendo le coordinate finanziarie del club attraverso la

fondazione della società Bologna 2010. A livello personale Consorte era

rimasto come socio “minore” nel Cda della squadra con una piccolissima quota

societaria che in questi giorni sta via via cedendo, e soprattutto aveva

mantenuto il ruolo di presidente del patto di sindacato, sorta di accordo tra

più soci che s’impegnano a comportarsi in un determinato modo nelle attività

aziendali, per esempio nell’espressione del voto durante l’assemblea

societaria. Una modalità di controllo molto diffusa che ha la funzione di

accentrare di fatto il potere nelle mani di un gruppo ristretto di azionisti.

Strategia aziendale che per il Bologna 2010 è significato lo stringersi

attorno all’attuale presidente Albano Guaraldi, oramai da solo proprietario

del 40% delle quote azionarie del club dopo una scalata durata tutto il 2011 e

impattata contro l’oramai conclamata “offertona” dell’uomo d’affari Gabriele

Volpi, ufficialmente smentita dal miliardario ligure.

L’offertona targata Volpi. Quello che fino a mercoledì 28 marzo sembrava

un’infondata voce di corridoio in nemmeno 24 ore è diventata una mezza

certezza. Gabriele Volpi, 68 anni, uomo d’affari ricchissimo che opera da

trent’anni in Nigeria nell’indotto del petrolio e del gas attraverso la

holding Intels Nigeria Ltd (10000 dipendenti di cui 7000 solo tra lo

stoccaggio e il trasporto del greggio nei depositi e nei porti africani) è

interessato all’acquisto del Bologna Fc. Solo che non lo fa direttamente come

il primo imprenditore che passa. Prima sonda il terreno e lo fa affidandosi ad

amici. In primo luogo al vicepresidente del club, Maurizio Setti, il giovane

imprenditore di Carpi, proprietario di marchi di abbigliamento femminile come

Manila Grace, da subito vicino ad Albano Guaraldi nella nuova conformazione

del Cda di Bologna 2010 dalla primavera del 2011. Altra pedina, anche se

ancora a livello informale, l’altro imprenditore di super yacht del gruppo

Ferretti, Lamberto Tacoli. Infine l’offerta da 28 milioni di euro, non ancora

formulata formalmente, avrebbe avuto un front man, l’ex presidente del Bologna

Calcio Alfredo Cazzola fino a gennaio 2012 terzo socio di Intermedia di

Giovanni Consorte, con cui ha pubblicamente litigato ritirandosi dalla società

d’intermediazione.

La scalata di Guaraldi. Tutto bene, anzi male. Perché il Bologna Fc costruito

nell’operazione di un anno fa da Consorte come società con diverse quote

azionarie distribuite a più imprenditori (i cosiddetti “nanetti”) non regge

l’urto delle scontate ambizioni personali. Ci passa dapprima il salvatore del

gennaio 2011, il cavalier Massimo Zanetti della Segafredo (a tutt’oggi socio

di minoranza con il 21% del club, fuori dal patto di sindacato, n. d. r. ),

presidente per un mese, poi lo stesso Guaraldi che pareva avviato ad una

coabitazione con Setti, ma che di fronte alla possibile costruzione, lui che

con gli immobili è diventato un signore, di un centro sportivo in provincia

che supporterebbe le attività calcistiche, sente la necessità di “mangiarsi”

amorevolmente i “nanetti” e diventare proprietario del 51% delle azioni di

Bologna 2010.

L’advisor Tamburi per conto Volpi. La scalata del presidente Guaraldi

prosegue concitata con diversi piccoli soci che si sfilano, senza troppa

acrimonia, per tutto l’inverno 2011 fino a quando sbuca l’offertona. Dapprima

smentita, poi giudicata “non credibile” dallo stesso Guaraldi, infine di

fronte a quella che domani, lunedì 2 aprile, sarebbe dovuta essere la giornata

chiave, quella del contatto ufficiale tra Intermedia e l’advisor milanese

Tanburi Investment Partners, ecco l’addio di Consorte dal patto di sindacato.

Intanto, come scrive il giornalista Emanuele Righi sul suo sito, l’operazione

con Tamburi è seria: “si sono presentatati per conto di un importante gruppo

internazionale. Curiosità: è lo stesso modus operandi con cui Gabriele Volpi,

tramite la stichting social sport, controlla lo Spezia calcio”. Insomma

l’offerta c’è e sta seguendo i canali canonici. Ma proprio ieri il colpo di

scena di Consorte che sostanzialmente squalifica il patto di sindacato, quindi

la maggioranza sorta attorno a Guaraldi, nonostante in mattinata avesse

firmato il documento congiunto di una parte di soci del Bologna 2010, stilato

dopo un pranzo a casa dell’ex presidente Pavignani, dove si è affermato che

per il gruppo capitanato da Guaraldi (assenti le firme dei soci Setti, Yien,

Zucchini e Romagnoli): “tra le finalità stabilite non rientra la cessione del

pacchetto di maggioranza, anche in presenza di eventuali manifestazioni di

interesse (…) Chi ha a cuore il bene del Bologna deve pensare al club, non a

fare delazione verso chicchessia”.

Così prima Consorte firma questo documento poi si defila dal ruolo di garante

del suo contenuto. Probabile che l’ingegnere voglia sfilarsi dalla “proprietà”

per rimanere semplice mediatore od osservatore (“Non spiego nulla, se uno

ragiona capisce il mio gesto”). Anche se a poche ore dal match tra Bologna e

Palermo non si sa ancora chi accoglierà gli emissari della Tamburi per

esaminare quella che pare un’offerta con molto denaro cash e parecchia

intenzione a rilanciare il Bologna Fc.

Fatto sta che la figura di Volpi, proprietario della squadra di pallanuoto

Pro Recco, nonché dello Spezia calcio e del Reijka (Fiume) Calcio, è grossa,

ben piazzata nello scacchiere politico e finanziario (Curia, Banca d’Italia,

nonché Giampiero Fiorani) non solo italiano, ma a livello mondiale.

L’imprenditore ligure è uno che gira con due guardie armate fino ai denti da

almeno trent’anni e dichiara, abitando a Lagos forse più che in Italia, di

sentirsi più sicuro quando gira nella città nigeriana che per le vie di

Milano. Chissà cosa direbbe di Bologna, magari passeggiando tra via Zamboni e

Piazza Verdi? In attesa di capire se ha davvero interesse a far capolino tra

Ramirez e compagni per spingerli verso una salvezza in serie A che a tutt’oggi

non è ancora matematicamente raggiunta.

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I CONTI FALLIMENTARI

DEL CALCIO ITALIANO

di FAUSTO PANUNZI (lavoce.info 30-03-2012)

art.scoperto grazie a il Fatto Quotidiano.it

Il rapporto sulla situazione economica del calcio italiano nel campionato

2010-11 rimanda un quadro disastroso, di vera emergenza. Per la serie A

calano i ricavi: da diritti televisivi, da plusvalenze sulla vendita dei calciatori

e da vendita di biglietti. Restano stabili i costi. Ma aumenta l'indebitamento,

soprattutto con le banche, ormai le vere padrone del nostro calcio.

Servirebbero investimenti, in particolare negli stadi, ma i proprietari delle

squadre aspettano incentivi dal governo che di certo non arriveranno.

È stato presentato ieri a Roma il Report Calcio 2012, il rapporto preparato

da Figc, Arel e PricewaterhouseCoopers, sulla situazione economica del calcio

italiano nel campionato 2010-11. Quali sono le conclusioni? Anche limitandoci

alla serie A, la cui situazione è migliore di quella delle serie minori (tranne

la B, che lo scorso anno ha visto un miglioramento dei conti), si può dire

che il futuro del calcio italiano non è brillante e, anzi, tempi molto difficili si

annunciano per le società.

I RICAVI

Nel 2010-2011 i ricavi si sono attestati a 2.031 milioni di euro e sono

quindi diminuiti del 3, 2 per cento rispetto all’anno precedente. Non

accadeva dall’anno 2006-07, quello del post Calciopoli e della retrocessione

della Juventus. Scendono in particolare i ricavi da diritti televisivi, -6,9

per cento, che pure rappresentano il 46 per cento del totale delle entrate, e le

plusvalenze per cessione dei calciatori, anch’esse del 6,9 per cento. Scendono

anche i ricavi dagli ingressi allo stadio (-8, 1 per cento), malgrado una riduzione

media del prezzo dei biglietti, frutto della diminuzione degli spettatori.

I COSTI

A fronte di ricavi in diminuzione, i costi delle società di A sono invece

cresciuti, seppure lievemente (1,7 per cento). Gli stipendi dei calciatori si

sono stabilizzati a 1.100 milioni di euro, salendo al 65 per cento dei ricavi.

L’unica buona notizia su questo fronte è l’incremento delle risorse investite

nel settore giovanile: +19,3 per cento.

PERDITE E INDEBITAMENTO

La conseguenza di ricavi ridotti e costi costanti non può che essere una

diminuzione dei profitti, anzi un aumento delle perdite, che ammontano a

428 milioni di euro, in crescita del 23,2 per cento rispetto allo scorso anno.

Le perdite vanno a diminuire il patrimonio netto di 204 milioni di euro (-50,2

per cento) e arrivano a un rapporto del 5 per cento rispetto alle attività

totali. L’altra faccia della medaglia è ovviamente l’esplosione dei debiti che

salgono a 2.600 milioni di euro (86 per cento rispetto alle attività totali).

Esplodono in particolare i debiti finanziari (+35 per cento) e quelli verso le

altre società (+21 per cento). In altre parole, le società non pagano più in

modo tempestivo i loro acquisti sul mercato e dipendono sempre più dalle

banche che sono ormai le vere proprietarie del calcio italiano.

UNA VERA EMERGENZA

I numeri sopra riportati testimoniano come il calcio italiano non stia vivendo

un momento di crisi, ma di vera emergenza. Sarebbe imperativo avere stadi

migliori per aumentare i ricavi da stadio, voce che penalizza fortemente le

società italiane nel raffronto con le altre società europee. Ma, come abbiamo

visto, i proprietari non investono le loro risorse nemmeno per la gestione

ordinaria. Non hanno quindi, a parte alcune eccezioni, risorse e volontà di

investire. Aspettano incentivi dal governo, che non arriveranno certo nel

mezzo della crisi economica che investe l’Italia. Sarebbe forse opportuno

considerare la possibilità di scendere da 20 a 18 squadre ammesse alla serie

A, per evitare che squadre senza messi economici adeguati si trovino nella

situazione di essere già retrocesse a gennaio, falsando il campionato nella

ipotesi migliore e aprendo la porta alle combine in quella peggiore.

Ma le società non sembrano certo in grado di affrontare problemi così seri,

se sono incapaci persino di trovare un successore al presidente della loro

Lega, Maurizio Beretta, ormai dirigente di Unicredit. Cosa altro deve accadere

perché prendano coscienza della gravità della situazione?

In questi giorni il Milan sfida il Barcellona sul campo per la Champions

League, ma nella Football Money League 2012 il Barcellona ha già doppiato

il Milan in termini di ricavi.

Cerchiamo di vedere il lato positivo. Se le tensioni sull’articolo 18

facessero cadere il governo dei tecnici si potrebbe chiedere a Mario Monti

di impegnarsi in qualcosa di veramente arduo: rimettere in sesto il calcio

italiano. In confronto, ridurre lo spread Btp-Bund è roba da ragazzini.

___

Serie A "maglia nera" dei prezzi

di MARCO BELLINAZZO dal blog Calcio & business (Il Sole 24 ORE.com 01-04-2012)

Cari calciatori di Serie A, pensateci bene prima levarvi la maglia dopo

un gol gettandola a terra senza pudore. Oppure fermatevi un attimo prima

di strappare quella di un avversario in corsa. Le maglie costano. Secondo

il report di SPORT+MARKT infatti le casacche delle squadre del campionato

italiano sono in media le più care d'Europa: 71,40 euro, poco più delle

maillots di Ligue 1 (71,20 euro) o delle trikots in Bundesliga (70,33

euro).

Più ampia la differenza con le camisetas spagnole in media attorno ai 64

euro e soprattutto con i 49,80 euro di media delle shirts della Premier

League. In Inghilterra una maglia ufficiale di Rooney, Lampard o

Balotelli non costa più di 55 euro mentre in Italia se volete portare

sulle spalle il nome di Del Piero, Cavani o Ibrahimovic dovrete sborsarne

anche 80. Secondo le stime del report, il totale delle maglie vendute nei

top 5 campionati europei ammonta a 11,1 milioni di pezzi. Le 98 squadre

prese in considerazione sono servite da 28 brand diversi, tre dei quali

la fanno da padrone: Nike e Adidas con 18 sponsorizzazioni a testa e Puma

con 7. Come si dice in questi casi, ci vuole attaccamento alla maglia con

quello che costano. . .

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Milan, ira sacrosanta: troppi 2 gol fantasma, ma la colpa è di Blatter e Platini

XAVIER JACOBELLI - calciomercato.com - 1-04-2012

Il Milan, i tifosi del Milan, Allegri e Galliani sono furibondi e ne hanno ben donde. Dopo Muntari a San Siro, Robinho a Catania: due gol fantasma, due gol pesantissimi che mancano eccome alla conta dello scudetto.

Ma, al di là delle polemiche furibonde che scandiscono queste ore, della piccata risposta di Allegri a Marotta, dei nuovi veleni propalati sull'asse Milan-Juve, c'è un aspetto che, ancora una volta balza evidente. Riguarda, come sempre, la questione della tecnologia. Perchè la colpa di questa situazione ricade su Joseph Blatter e la sua organizzazione, la Fifa che vive nel Medioevo e pervicacemente si rifiuta di aiutare gli arbitri e gli assistenti. Se poi ci si mette anche Platini, secondo il quale non ci vuole la moviola in campo, ma la moltiplicazione degli arbitri attorno alle porte, siamo a posto.

Sapete da quanti anni, la Federcalcio mondiale e il suo International Board hanno sul tavolo la questione del gol fantasma? Da dieci anni. E sapete quando, forse, si pronunceranno definitivamente? Il 2 luglio, a Kiev.

Eppure, anche un bambino capirebbe che la soluzione del problema sarebbe immediata con la tecnologia che ci ritroviamo all'inizio del terzo millennio. L'occhio di falco del tennis, l'istant replay del basket, il fotofinish nel ciclismo, la moviola nel rugby: c'è solo l'imbarazzo della scelta. Ieri sera, a Catania, Adriano Galliani si aggirava in preda all'ira negli spogliatoi del Massimino mostrando sul suo telefonino il fermo immagine che mostra come il pallone colpito da Robinho abbia oltrepassato la linea della porta difesa da Carrizo. Bravo.

La prossima volta che Galliani incrocia Blatter o Platini o tutti e due; la prossima volta che uno dei migliori e preparati dirigenti del calcio mondiale incontra i colleghi degli altri Clubboni, siano essi 14 o 16 o 30, insomma quelli che volevano andarsene dall'Uefa, brandisca il cellulare e mostri anche a loro il fatidico fotogramma. Ponendo solo una domanda: fino a quando?

Fino a quando il Milan, come altre squadre a ogni latitudine dovranno fare i conti con l'arretratezza, il conservatorismo, l'anacronismo di un sistema che aborrisce la tecnologia, manco fossimo nel mesozoico.

Ventisei anni fa, non ventisei giorni fa, insediandosi alla presidenza del Milan un signore a nome Silvio Berlusconi disse che ci voleva la moviola in campo. Blatter era già in giro con i suoi dinosauri. I risultati si vedono.

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L’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni

Sportive parla della fidelity card… è l’addio

alla vecchia tessera del tifoso?

di ELISA BRIGANDI dal blog SPORT & LEGGE 01-04-2012

La notizia della possibile sostituzione della tessera del tifoso con una

fidelity card (apparsa su numerosi organi di informazione, alla luce di una

fraintendibile determinazione dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni

Sportive – la numero 12 dell’8 marzo scorso) ha subito suscitato la reazione

di alcuni ambienti politici che in passato ne avevano supportato il progetto e

che hanno visto in tale scelta un allentamento dei futuri controlli nei

confronti del tifo violento.

Aldilà delle polemiche intercorse e della dura presa di posizione da parte

del capo della polizia Antonio Manganelli (“Non ci sarà – ha dichiarato –

nessuna nuova tessera del tifoso, io non so quale imbecille ha messo in giro

la voce. La tessera del tifoso resterà esattamente quella che è oggi“),

riteniamo qui opportuno un approfondimento preliminare sul precedente

documento (e sulla dura battaglia intrapresa da alcune tifoserie) prima di

concentrarci sulla sua possibile evoluzione.

L’attuale tessera del tifoso è una card polifunzionale che contiene i dati

personali del possessore ed è contrassegnata da un codice alfanumerico che la

identifica in modo univoco. Secondo gli ideatori la sua ratio è quella di

permettere ai possessori di identificarsi con una comunità di tifosi

”virtuosi”, permettendo al possessore di fruire di facilitazioni e servizi

messi a disposizione dai club, di accedere agevolmente agli impianti sportivi

tramite i varchi elettronici e di seguire la squadra in trasferta nel settore

”ospiti”.

In particolare, la tessera è stata introdotta con il decreto ministeriale del

15/08/2009 in base al quale le società sportive dovevano comunicare alla

Questura (anche in caso di sostituzione del nominativo del beneficiario

dell’agevolazione e del destinatario del titolo di accesso), i dati anagrafici

dei soggetti destinatari dell’agevolazione, ovvero della cessione del titolo

di accesso allo stadio. Il tutto al fine di verificare la sussistenza o meno

dei requisiti ostativi di cui agli artt. 8 e 9 del D.L. 8 febbraio 2007, n. 8.

In primo luogo, l’articolo 8 prevede, infatti, un divieto espresso alle

società sportive di corrispondere sovvenzioni, contributi e/o facilitazioni di

qualsiasi natura, ivi inclusa l’erogazione a prezzo agevolato o gratuito di

biglietti e abbonamenti o titoli di viaggio, ai soggetti destinatari dei

provvedimenti di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401,

DASPO e misure di prevenzione, ovvero soggetti condannati per reati commessi

in occasione di manifestazioni sportive.

In secondo luogo, l’articolo 9 prevede, invece, un divieto per le società

organizzatrici di competizioni calcistiche di emettere, vendere o distribuire

titoli di accesso a soggetti che siano stati destinatari dei predetti

provvedimenti di cui all’articolo 6 L. 401/89, o a soggetti condannati per

reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive.

Il Ministero dell’Interno aveva poi emanato una direttiva con la quale

chiariva le nuove regole e specificava che a decorrere dal 1° gennaio 2010 le

società avrebbero potuto vendere i tagliandi riservati ai settori “ospiti”

solo ai possessori della tessera.

Nei settori dello stadio diversi era invece permesso l’accesso con l’uso di

titoli diversi dalla tessera del tifoso.

Sempre a decorrere dalla stessa data i club avrebbero potuto far

sottoscrivere abbonamenti solo a chi era in possesso della tessera.

Da qui le forti critiche dei tifosi che vedevano in questo documento uno

strumento di autentica schedatura, con conseguente violazione dei diritti

fondamentali.

Nel 2010, a onor del vero, qualche dubbio era stato sollevato anche dal

Garante per la Privacy, il quale aveva osservato come occorressero più

garanzie per la tessera del tifoso, in quanto i vari possessori dovevano

essere informati in modo puntuale sull’uso dei dati personali forniti al

momento della sottoscrizione. In particolare, i club avrebbero dovuto

evidenziare con maggiore precisione la differenza tra dati che non

richiedevano il consenso, perché connessi al rilascio della tessera, e quelli

che, invece, lo richiedevano (per es. per marketing, invio di comunicazioni

commerciali ecc.).

Nel giugno del 2011 fu, poi, siglato un protocollo di intesa tra il Viminale

ed i vertici del CONI e della FIGC teso a trasformare sempre di più la tessera

in uno strumento di partecipazione dei tifosi prevedendo regole in base alle

quali i tagliandi per i posti destinati ai tifosi ospiti potevano essere

acquistati soltanto dai possessori della tessera stessa e non potevano essere

venduti a chi era residente nella regione origine della trasferta (mentre in

caso di società appartenenti alla stessa regione, ai soggetti residenti nella

provincia da cui proveniva la squadra ospite).

La vicenda della tessera non mancò di approdare nelle aule giudiziarie.

Codacons e Federsupporter avevano, infatti, sollevato eccezioni sulla base

della circostanza che per ottenere la tessera i tifosi fossero costretti ad

avere una carta di credito ricaricabile, condizione quest’ultima che rischiava

di condizionare le scelte economiche dei tifosi/consumatori. La questione fu

respinta in primo grado, ma la decisione fu riformata in secondo grado

allorché il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5364 del 07. 12. 2011, aveva

accolto le doglianze statuendo che il rilascio condizionato al possesso di una

carta di credito prepagata rappresentava una pratica commerciale scorretta. In

particolare i giudici sottolinearono che : ”L’abbinamento inscindibile (e

quindi non declinabile dall’utente) tra il rilascio della tessera di tifoso

(istituita per finalità di prevenzione generale in funzione di una maggiore

sicurezza negli stadi) e la sottoscrizione di un contratto con un partner

bancario per il rilascio di una carta di credito prepagata potrebbe

condizionare indebitamente (nella misura in cui si provi che l’uso della carta

non sia funzionale ad assicurare le finalità proprie della tessera del tifoso)

la libertà di scelta del tifoso-utente e potrebbe pertanto assumere i tratti

di una pratica commerciale scorretta ai sensi del Codice del consumo. In tal

senso depone, peraltro, il fatto che, per il tifoso, l’ottenimento della

tessera appare condicio sine qua per poter essere ammesso, nelle giornate di

trasferta della propria squadra, nel reparto dello stadio riservato agli

ospiti, di guisa che appare verosimile che l’acquisizione di tale utilità

potrebbe indurlo a compiere un’operazione commerciale (sottoscrizione della

carta prepagata) che non avrebbe altrimenti compiuto”.

In tale contesto andrebbe, quindi, ad inserirsi la nuova fidelity card che

dovrebbe entrare in vigore a partire dalla prossima stagione più come una

carta di servizi e agevolazioni studiate dai club per i tifosi che non come un

mero strumento di controllo, (anche se, è bene ribadirlo, resterà sempre

necessaria per le trasferte e per gli abbonamenti).

In specie, tra le principali novità annoveriamo un certo snellimento nelle

procedure di rilascio e la possibilità di aderire al progetto “Porta un amico

allo stadio” (in oggi ancora in fase sperimentale) in base al quale la card

darebbe diritto all’acquisto di un biglietto per un conoscente non “tesserato”

per le trasferte, purché il settore dei due biglietti sia lo stesso e i posti

possibilmente contigui.

Non si è fatta però mancare l’immediata replica delle tifoserie, che hanno

fatto sapere di non aver bisogno di “balie” per andare allo stadio.

Di fronte, poi, alle predette polemiche avanzate da quanti ritengono la nuova

card come un passo indietro rispetto ai progetti originari, il Viminale ha

fatto sapere che non vi sono radicali modifiche rispetto alla tessera del

tifoso andando il nuovo strumento a colmare per lo più quelle inadeguatezze

eccepite dal Consiglio di Stato in tema di concorrenza.

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In Memoriam

___

I MORATTI

CHE SIGNORI

di ANTONIO GHIRELLI (CorSport 17-03-2012)

Forse vale la pena di confrontare due notizie che, in qualche modo, hanno

definito la settimana: la prima è che durante la stagione che si avvia

all'epilogo, hanno lavorato 70 allenatori; la seconda è che il presidente

dell'Inter Moratti non ha ancora spedito a casa l'anziano tecnico Ranieri che

quest'anno ha fallito tutti i traguardi importanti. Se ne sono viste e lette

di tutti i colori e in non poche occasioni si è registrato il caso paradossale

(con adeguato spreco di danaro) di tecnici licenziati prima dell'inizio,

sostituiti per far posto a colleghi che a loro volta riprenderanno la strada

di casa per restituire la panchina al collega; e per questo l’eccezione del

rapporto tra il presidente neroazzurro e il suo allenatore, nell’ambito di

questa strategia da "delirium tremens", vale la pena di essere segnalata con

ammirazione.

Non c’è stata una parola di ironia o di cattiveria, tanto meno una minaccia di

licenziamento nei confronti del "mister", tanto meno alla vigilia del decisivo

confronto di Marsiglia, e perfino all’indomani della definitiva delusione, il

presidente ha evitato i giudizi severi, interrogandosi pubblicamente soltanto

sulla formula da scegliere per la guida della riscossa ambrosiana. La

singolarità della famiglia Moratti ha confermato, del resto, precedenti di cui

il vostro vecchio cronista ha memoria anche per esperienza personale, ma a

proposito del padre, Angelo, e non dei figli. Chiedo scusa agli amici lettori

se ricevono un vecchio e piacevole ricordo.

Campionato 1963-64. Si sparge la voce che alcuni giocatori del Bologna,

impegnato nel duello diretto con l’Inter per la conquista dello scudetto,

sarebbero sospettati di aver usato droga e il sottoscritto, titolare in quel

periodo di una rubrica di commento al campionato dovrebbe giudicare la notizia

in diretta. Ma non solo manca di dati sicuri, è anche colpito dal fatto che,

in quel periodo, l’allenatore dei rossoblù emiliani è Fulvio Bernardini. E’

l’amicizia personale a farmi respingere che l’ipotesi sia fondata. E’ la

conoscenza antica del grande giocatore romano, della sua moralità di ferro,

del disgusto che avrebbe provato soltanto all’idea di drogare i suoi giocatori

per vincere una partita e magari un campionato, a spingermi a smentire una

voce che so assurda. Lo faccio senza il minimo dubbio al microfono della

rubrica televisiva che gestisco col mio grande amico Maurizio Barendson.

I fatti mi danno ragione. I ragazzi del Bologna non si sono mai drogati,

quelli dell’Inter che inseguono da vicino i rossoblù nemmeno e lo scudetto

sarà disputato tra le due grandi squadre in una finalissima giocata a Roma e

saranno i rossoblù emiliani a vincere. Ma il presidente dell’Inter,

quell’Angelo Moratti che ha creato e potenziato con lo squadrone neroazzurro

il primo grande protagonista del calcio-spettacolo, con mia enorme sorpresa

non solo non pronuncia una sola parola contro il sottoscritto, ma tre mesi

dopo lo invita a visitarlo per sentirsi dire che il Presidente pensa a me come

direttore di un giornale che poderose forze politico-industriali si accingono

a rilanciare sul mercato: Il "Globo".

Un esempio di generosità che ha pochi precedenti, una prova di stima e di

fiducia che mi commuovono. Poi ragioni ed intrighi politici, nel giro di pochi

anni, mi mettono con le spalle al muro e mi costringono a dimettermi, ma la

prova di correttezza del grande Presidente milanese mi resta nel cuore.

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L'EREDE AL TRONO COL PALLINO DEGLI AFFARI

Lo shopping dello

sceicco tifoso

Ha rilevato la squadra di Parigi, sponsorizza

il Barcellona, "si compra" gli atleti per vincere

le Olimpiadi. E ora guarda a Inghilterra e Italia

di DANIELE GUARNERI (TEMPI | 4 aprile 2012)

I SOGNI SON DESIDERI. E i soldi li realizzano. C'è poco della fata Turchina

di Cenerentola in questa affermazione, ma la realtà - almeno nel mondo

del pallone - è questa. Da un paio d'anni c'è un uomo che col suo impero

economico sta trasformando in realtà i sogni dei tifosi. Lui non usa una

bacchetta magica, lui apre il portafoglio e compra tutto. Il suo nome per molti

è sconosciuto, ma come abbiamo imparato a pronunciare Roman Abramovich

qualche anno fa, presto impareremo a dire Tamim Bin Hamad Al Thani. È lui

la fata Turchina del nuovo millennio, quartogenito dell'emiro del Qatar, Hamad

Bin Khalifa Al Thani, ma già designato a prendere in mano la fortuna infinita

della famiglia e del paese.

Andiamo con ordine. Tamim nel maggio 2011 ha comprato il Paris

Saint-Germain (la squadra di Parigi) per circa 70 milioni di euro. Come

presidente ha piazzato un uomo di fiducia, Nasser Al Khelaifi, ex tennista di

successo, oggi presidente della federazione tennistica del Qatar e amministratore

delegato di Al Jazeera sport. Per vincere subito ha preso Leonardo dall'Inter

e lo ha nominato direttore sportivo. Per convincere l'allenatore di Massimo

Moratti a lasciare Milano gli ha offerto un contratto principesco e altri 150 milioni

di euro da spendere nel mercato. Così il brasiliano è venuto a far shopping in

Italia e a suon di milioni ha comprato Javier Pastore e Salvatore Sirigu dal

Palermo, dalla Roma Jeremy Menez e dalla Juventus Momo Sissoko. Al Parco

dei Principi sono poi arrivati il capitano dell'Uruguay detentore della Coppa

America Diego Lugano e l'attaccante Kevin Gameiro. A gennaio la squadra

è prima in classifica, ma Tamim non è soddisfatto, così ecco altri 50 milioni

per il mercato invernale. Arrivano Carlo Ancelotti con un contratto da 6

milioni l'anno, dal Chelsea il difensore Alex e dal Barcellona Maxwell e a

centrocampo l'interista Thiago Motta. In tutto fanno 270 milioni di euro,

senza contare gli ingaggi.

E questo è solo l'inizio. Sempre nel maggio scorso, Tamim Bin Hamad Al

Thani ha convinto il Barcellona a mettere sulle proprie divise il logo della Qatar

Foundation, l'associazione creata dal padre e guidata dalla moglie dell'emiro

Mozah bin Nasser al Missned. Non una cosa da poco visto che il Barça non ha

mai avuto sponsor ufficiali sulle casacche da gioco. O meglio, prima c'era

l'Unicef che a differenza degli altri brand invece di pagare riceveva 1,5

milioni di euro dal club di Sandro Rosell. Come ha fatto l'emiro a convincere

i blaugrana? Coi soldi. Si tratta della sponsorizzazione più ricca mai

realizzata: 30 milioni di euro l'anno fino al 2016, altri 15 milioni nel 2011,

più quelli legati ai risultati. Totale: 170 milioni.

Prima di proseguire bisogna aprire una parentesi. Il cugino di Tamim, Abdullah

Bin Nasser Al Ahmed Al Thani, membro del cda della Doha Bank, è proprietario

del Malaga, squadra della Liga spagnola. Il quarantatreenne ha un impero

economico fatto di catene alberghiere, centri commerciali, società di

telefonia e concessionarie d'auto. Acquista il Malaga per 36 milioni di euro e

in estate mette a libro paga l'ex allenatore del Real Madrid Manuel Pellegrini,

Martin De Michelis, il capitano del Villareal Gonzalez Cazorla, Enzo Maresca,

Jeremy Toulalan, Julio Baptista e Ruud Van Nistelrooy. La squadra lotta per il

quarto posto, quello che garantirebbe la prossima Champions e un paio di

domeniche fa ha bloccato il Real di Mourinho che arrivava da 11 vittorie.

Torniamo alla fata Turchina. Tamim l'ha capito subito: il calcio è business,

ma è anche passione, sua e della sua gente. Così l'erede al trono organizza il

campionato nazionale, un torneo privato dove le aziende delle famiglie più

ricche si sfidano per vincere una coppetta. Non solo. Tamim ha portato in

Qatar la Coppa d'Asia 2011, vinta dal Giappone di Alberto Zaccheroni; nel

2015 si svolgeranno nel piccolo Stato i Mondiali di pallamano; è in corsa

per l'assegnazione delle Olimpiadi 2020; ma soprattutto ha convinto la Fifa

che l'emirato fosse pronto a ospitare i Mondiali di calcio del 2022. Come?

Sempre coi soldi: 50 miliardi di euro per realizzare 12 stadi con impianti d'aria

condizionata alimentati da pannelli fotovoltaici che garantiranno a pubblico e

giocatori una temperatura di 26 gradi, contro i 48 esterni. Di questi 50

miliardi, 3 milioni sono serviti a pagare Zinedine Zidane, testimonial per una

settimana del Comitato organizzativo "Qatar 22".

Il sogno di Tamim

Il Wall Street Journal sostiene che per convincere la Fifa siano stati

comprati i voti di Nigeria, Thailandia e Senegal. Non è l'unica accusa mossa

a Tamim. Un'altra arriva da Alberto Juantorena, ex atleta cubano, l'unico al

mondo a vincere nella stessa edizione dei Giochi (Montréal 1976) la medaglia

d'oro nei 400 metri e negli 800. El Caballo, così lo chiamavano, oggi è

viceministro dello Sport e presidente della Federazione atletica cubana. In

questa veste lotta contro la moderna "tratta degli schiavi", quella legata allo

sport. Secondo Juantorena, Tamim ha comprato qualche atleta per vincere

qualcosa a Londra 2012. D'altra parte se i qatarioti sono gracili come fanno a

vincere nel sollevamento pesi? Semplice, naturalizzano otto bulgari. Lo stesso

è successo con il keniota Stephen Cherono, che ora non c'è più. Nel senso

che il campione mondiale in carica dei 3000 siepi ora si chiama Saif Saed Shaen,

cittadino del Qatar. A lui è stato offerto un "vitalizio", al Kenya una pista

di atletica.

Non è tutto. Lo shopping di Tamim in Europa è continuato con l'acquisto

del 17 per cento delle azioni della Volkswagen, poi s'è preso i magazzini

Harrods di Londra e una grossa quota della catena dei supermercati

british Sainsbury's. Veniamo al bello: Al Jazeera è da poco sbarcata in Francia

con una sede e una redazione tutte nuove. Le prime mosse hanno rivoluzionato

il panorama televisivo francese: la tv ha sborsato 90 milioni di euro per

acquistare i diritti a trasmettere all'estero la Ligue 1 e altri 61 per quelli della

Champions in Francia, distruggendo la concorrenza di Canal+ e di Tf1, la più

vecchia tv francese e la più seguita.

E se la Francia non fosse che una testa di ponte in Europa per partire alla

conquista di altri regni? Sembra che nelle mire di Tamim ci siano Argentina e

Brasile. Ma è il Vecchio Continente il suo pallino. Allora attenzione: i diritti

tv della Serie A 2012-'15 sono già stati assegnati ma alcune partite sono

rimaste invendute e la Lega calcio non aspetta che un nuovo acquirente.

Altro esempio: quest'estate in Inghilterra saranno venduti i diritti tv della

Premier League. Se Al Jazeera decidesse di partecipare all'asta sarà dura per

chiunque, anche per un certo Rupert Murdoch (Sky). Ultima indiscrezione

clamorosa? Pare che nei mesi scorsi Tamim abbia fatto un'offerta per

comprarsi il Manchester United: un miliardo e settecento milioni di euro

proposti all'americano Malcolm Glazer per il pacchetto di maggioranza del

club più importante del Regno.

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Gli arbitri favoriscono la squadra di casa?

La BBC ha provato a verificare con i numeri una vecchia questione

del calcio, che ha prodotto grandi dibattiti e persino dei libri

della redazione di il POST 01-04-2012

La BBC ha pubblicato ieri un articolo sui presunti favori che le squadre di

calcio del campionato inglese, in particolare le più forti, riceverebbero

inconsciamente dagli arbitri quando giocano in casa. Il problema è tornato di

attualità dopo la partita di campionato tra Manchester United e Fulham, che si

è giocata lunedì scorso allo stadio Old Trafford di Manchester. Il Manchester

United ha vinto la partita per 1-0, ma al Fulham è stato negato un rigore

piuttosto evidente nel corso della partita, e il suo allenatore Martin Jol ha

detto che gli arbitri devono essere più “coraggiosi” in certe circostanze.

Il caso dunque ha riproposto il problema della presunta “sudditanza

psicologica” degli arbitri, sia nei confronti della grandi squadre, sia nei

confronti del pubblico di casa. La BBC, con la collaborazione del centro

statistico OPTA, ha pubblicato alcuni dati sulla frequenza della concessione

dei calci di rigore nella massima serie inglese alla squadra ospite, dal 2006

a oggi. Dalla classifica che ne è venuta fuori, è confermato che pochi rigori

vengono fischiati contro le squadre più forti quando giocano in casa: per

esempio, il Chelsea, in testa alla classifica, si vede dare un rigore contro

solo una volta ogni 18 partite, mentre il Liverpool una ogni 15 circa. Ma è

anche vero che vengono fischiati pochi rigori contro anche quando giocano in

casa le squadre meno forti: nelle prime posizioni di questa seconda classifica

ci sono infatti squadre come l’Aston Villa, il Bolton, il Fulham, l’Everton e

lo Stoke City.

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La situazione cambia quando si parla di rigori a favore concessi in casa. In

questa classifica è in testa il Manchester City, con un rigore ogni 3,93

partite giocate in casa. Al secondo posto il Manchester United con un rigore

ogni 4,4 partite, mentre qui le squadre più deboli scalano mediamente verso le

posizioni più basse (al Wolverhampton, per esempio, viene assegnato un rigore

ogni 13 partite). Da questi dati sembrerebbe che arbitrare in casa una squadra

ai primi posti in classifica abbia un effetto sugli arbitri. Tuttavia, una

squadra più forte occupa generalmente per più tempo l’area avversaria e dunque

è piuttosto naturale che abbia più rigori. Questa idea è stata espressa

recentemente anche dall’allenatore della Juventus, Antonio Conte, che si è

lamentato del fatto che una squadra forte come la Juventus abbia avuto sino a

questo momento un solo rigore a favore nel campionato in corso.

L’anno scorso il problema della sudditanza psicologica degli arbitri nei

confronti delle squadre che giocano in casa era stato analizzato anche da un

libro diventato piuttosto celebre, ossia Scorecasting, scritto dal giornalista

sportivo L. Jon Wertheim e dall’economista Tobias Moskowitz e pubblicato a

gennaio del 2011. Il libro era stato oggetto di un lungo articolo (che

conteneva anche alcune critiche) di David Runciman per la London Review of

Books, tradotto in italiano da Internazionale. Runciman riporta il pensiero di

Wertheim e Moskowitz, secondo i quali

Il fattore campo dipende quasi completamente dai direttori

di gara. I giocatori non si fanno condizionare dai fischi

dei tifosi, ma gli arbitri sì. A pensarci è logico: se il nostro

comportamento fosse sotto l’occhio vigile di decine di

migliaia di persone isteriche, cercheremmo di compiacerle,

almeno inconsciamente.

Ma secondo Wertheim e Moskowitz il problema è più ampio.

I giocatori ospiti non hanno nulla da guadagnare dai tifosi di

casa: se giocano bene vengono insultati, se giocano male

vengono presi in giro. Gli arbitri, invece, possono

assecondare il pubblico e sfruttare la situazione a loro

vantaggio. Le squadre in trasferta non hanno modo di alleviare

la tensione che deriva dal giocare in un ambiente ostile. Gli

arbitri invece sì. Nel calcio…

…gli arbitri concedono quasi sempre più minuti di recupero

quando la squadra di casa sta perdendo e meno quando sta

vincendo (in media, quattro minuti nel primo caso e due minuti

nel secondo, quanto basta per fare la differenza in molte

partite).

Le squadre di casa hanno molti meno espulsi e molti più calci

di punizione a favore. Questo, magari, dipende semplicemente

dal fatto che la squadra di casa gioca meglio e che gli

avversari devono ricorrere alle maniere forti. Ma secondo gli

autori è il pubblico che fa la differenza.

Wertheim e Moskowitz, dunque, analizzano le differenze dei comportamenti degli

arbitri nei vari paesi europei e quanto questi vengono influenzati dalla

vicinanza del pubblico e delle tribune:

Nella Bundesliga tedesca, per esempio, dove molte squadre

giocano in stadi con la pista di atletica, che allontana molto

la folla dall’azione, gli interventi arbitrali a favore della

squadra di casa si riducono della metà. In Inghilterra, in

Spagna e in Italia, il numero degli spettatori ha un effetto

evidente sul numero dei cartellini rossi mostrati agli ospiti.

Maggiore è l’affluenza, più è probabile che la squadra in

trasferta finisca la partita con qualche giocatore espulso.

Attraverso questo ragionamento, Wertheim e Moskowitz arrivano a due conclusioni:

Ma la prova più evidente del condizionamento arbitrale viene

dagli sport che hanno introdotto la tecnologia per verificare

le decisioni dei direttori di gara. Nel baseball c’è un

sistema chiamato QuesTec che permette di stabilire se un

lancio è stato effettuato o meno all’interno della zona di

strike. Gli autori hanno analizzato una serie di dati e hanno

scoperto che quando un lancio è chiaro, l’arbitro non

favorisce la squadra di casa. Quando invece il lancio è dubbio,

la decisione è quasi sempre a vantaggio della squadra di

casa. Questo dimostra due cose.

La prima è che, se ne hanno la possibilità, gli arbitri

preferiscono assecondare il pubblico che gli soffia sul collo

(in molti stadi, quasi letteralmente). La seconda è che ne

sono consapevoli, e limitano le decisioni a favore di chi

gioca in casa alle situazioni non completamente ovvie (negli

stadi in cui c’è il QuesTec, infatti, gli arbitri cominciano

ad adeguarsi perché si rendono conto che un eventuale

sbilanciamento a favore della squadra di casa sarebbe sotto

gli occhi di tutti). Le partite equilibrate sono per

definizione quelle il cui risultato può essere determinato da

un paio di decisioni chiave. E a quanto pare, sono proprio

quelle in cui gli arbitri fanno di tutto per aiutare la

squadra di casa. Tanto basta a Wertheim e Moskowitz per

indicarli come i responsabili quasi esclusivi del fattore

campo.

Tutto questo, secondo Moskowitz e Wertheim, si ripercuote sugli arbitri anche

sulle decisioni da prendere all’ultimo minuto o secondo, come racconta

Runciman:

Oltre a evidenziare i vantaggi concessi alla squadra di casa,

infatti, gli autori spiegano che gli arbitri preferiscono

evitare decisioni plateali, soprattutto alla fine delle

partite. Si tratta di un fenomeno diffuso, che vale per il

calcio e per tutti gli altri sport. Come spiegano Moskowitz e

Wertheim dopo aver analizzato quindici anni di dati della

Premier League, della Liga e della serie A, “falli, fuorigioco

e calci di punizione diminuiscono in maniera significativa man

mano che una partita incerta si avvicina alla fine”. È il

cosiddetto condizionamento da omissione, e ne soffriamo un po’

tutti: preferiamo lasciar correre invece di provare a fare il

nostro dovere rischiando di prenderci la colpa. Se un arbitro

interviene alla fine di una partita, sembra che voglia

deciderne il risultato. E la gente si arrabbia.
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SCUDETTO ROVENTE

Galliani chiede

giudici di porta

La Juve concilia

L'a.d. del Milan scriverà alla Federcalcio

Marotta ammette: «Quel gol sembrava buono»

di MARCO PASOTTO (GaSport 02-04-2012)

Se non la pace, sembrava ci potesse essere almeno una tregua. Invece le

relazioni fra Milan e Juve sono come il fuoco sotto la cenere: covano, covano

e basta una scintilla per bruciare un armistizio evidentemente di carta

velina. Chi pensava che non essendo più destinate a incrociarsi sul campo, le

due società chiudessero la stagione senza ulteriori polemiche, si deve

ricredere: è stato sufficiente un altro arbitraggio giudicato pessimo dal club

rossonero per rispolverare i vecchi torti. Il gol fantasma di Robinho a

Catania ha richiamato con prepotenza alla mente quello di Muntari e fatto

infuriare Galliani e Allegri. Che poi nel dopogara hanno preso strade diverse:

il vicepresidente ha cercato di evitare il più possibile la parola Juve nelle

sue esternazioni, mentre Allegri è entrato in tackle duro. Specialmente su

Marotta. Ma questa non è una novità.

Atto ufficiale La novità semmai è che Galliani sta per prendere carta e penna

per scrivere al presidente federale Abete. La raccomandata, che sarà stilata a

breve e arriverà in Federcalcio nei prossimi giorni, contiene una richiesta

ben precisa: il Milan richiederà di adottare, a partire dal prossimo

campionato, gli assistenti di porta. Come sta già accadendo in Champions. Un

atto ufficiale insomma, in modo che del dopogara di Catania non restino

soltanto gli sfoghi e le amarezze.

Pranzo con richiesta Ma non è tutto. Galliani sta lavorando sul progetto di

«ausilio arbitrale» su più campi e dal pranzo con Michel Platini dello scorso

12 marzo emerge un'indiscrezione: l'a. d. rossonero avrebbe chiesto al

presidente Uefa l'introduzione dei sensori nelle porte. Ciò che tormenta

davvero Galliani infatti, come ha spiegato anche al Massimino, non sono i

fuorigioco o i rigori dubbi, ma i gol fantasma. Da qui la due richieste: aiuto

umano alla Figc, tecnologico alla Uefa. In modo da sgombrare il campo dai

dubbi sia in campionato che nelle coppe europee. In questi casi il dirigente

rossonero ama ricordare come la tecnologia sia preziosa in altri sport, come

tennis e scherma. Il problema sarà convincere Platini, che proprio al termine

di quel pranzo con Galliani si era detto «totalmente contrario a tutte le

tecnologie» e aveva caldeggiato l'impiego degli assistenti di porta. La parola

passa all'International Board, che affronterà l'argomento dopo l'Europeo.

Marotta vota sì Questo per quanto concerne il futuro a medio termine. Poi c'è

l'attualità. E l'attualità parla di una Juve che ha dimezzato il distacco. E'

facile pensare che con un divario di due soli punti le strade dialettiche dei

due club potrebbero scontrarsi ancora. Per il momento comunque la società

bianconera non sembra intenzionata a continuare nelle polemiche. Anzi, Marotta

si schiera accanto a Galliani: «Penso che quello di Robinho fosse gol — ha

detto l'a.d. bianconero prima di Juve-Napoli —. Condivido la tesi che ora

bisogna affidarsi ai mezzi tecnologici perché anche un arbitro a bordo campo

avrebbe avuto le sue difficoltà. Visto e rivisto credo che la palla abbia

oltrepassato la linea. Galliani chiederà gli assistenti di porta? Se si può

migliorare, se si possono evitare questi episodi io sono favorevole. Se

Galliani ha intenzione di proporre una cosa del genere tante squadre potranno

andargli dietro». Infine, il capitolo Allegri: «Se parliamo dell'allenatore

dico che è un ottimo allenatore, bravo e preparato. Però preferisco non

rispondergli perché è un allenatore avversario e la mia filosofia prevede di

non replicare a quanto dicono gli altri tecnici. Non voglio alimentare

ulteriori polemiche». Quanto durerà?

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