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CRAZEOLOGY

K A L C I O M A R C I O! - Lo Schifo Continua -

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Più giovani e meno pareggite. Conte, rilancia la Juve

di Pierluigi Panzajuventus.gif Giornalisti nel pallone - corriere.it - 10-03-2012

L’allenatore è, oggi, almeno tre cose: preparatore, psicologo e tattico. All’inizio, Conte si è dimostrato straordinario in tutti e tre gli aspetti: squadra aggressiva, motivata e intelligentemente disposta senza il preannunciato4-2-4, visto che era arrivato Pirlo. I centrocampisti Marchisio e Pepe andavano in gol e la Juve vinceva (senza i gol degli attaccanti, perché in estate abbiamo comprato Vucinic ed Elia). Ma non si può durare solo sulla preparazione e sui nervi (motivazioni) e la Juve, senza una superstar risolutiva, da almeno due mesi si è impantanata nella pareggite.

Qualcuno ha pensato a contromisure? Direi non molto o non molto bene. La campagna acquisti di gennaio non è stata azzeccata:ci voleva un centrale difensivo e abbiamo preso quello che è un bravo cursore di destra (Caceres). E Borriello ricorda tanto i vari Toni, Amauri e Iaquinta dei quali, a fatica, ci siamo liberati. E Conte? Ha provato un 3-5-2 ma con Estigarribia o De Ceglie a sinistra: come potremo segnare? Domanda: ma Krasic ed Elia non si possono proprio usare mai, mai, mai? In nessun modulo? Mettere di più Quagliarella o Del Piero i 15 finali? Ma come si fa a giocare per ottanta minuti con quel Borriello l’ultima partita!

Ho un suggerimento: la Juve deve autovietarsi di acquistare giocatori che costano tra i 5 e i 25 milioni di euro (Tiago, Poulsen, Diego, Melo, Vucinic, Borriello, Elia, Krasic, Martinez, Bonucci… ): in questo range di prezzo ci sono un sacco di giocatori bravi, ma nessuno decisivo per crescere. Lanciamo giovani, teniamo quelli che abbiamo senza spendere (vedi Giovinco, Immobile, Sorensen…) e mettiamo da parte un tesoretto per prendere un paio di “fenomeni” (qualcuno dal Real e dal Manchester City deve pur partire). Ma fenomeni.

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Inter, servono 5 top players non un tecnico

Mario Sconcerti - Lo sconcerto quotidiano -corriere.it 9-03-2012

Dovessi scegliere io un allenatore per l’Inter girerei intorno a Mazzarri o Pioli, gente italiana, che ha già mostrato di saper gestire situazioni tecniche importanti di casa nostra. Oppure Spalletti. Non Capello, che è ottimo ma molto juventino. Se poi devo scegliere tra Blanc e Villas Boas prendo Blanc. L’altro ha sbagliato molto quest’anno. C’è una misura anche nell’errore. Non vorrei fosse l’Inter la squadra che si fa carico del fallimento del portoghese.

Ancora di più è importante un particolare: l’Inter non ha estremo bisogno di un allenatore. Ne ha uno buono e ne ha avuti altri tre anche migliori negli ultimi diciotto mesi. Non è quello il problema. Cioè, quello è un problema ma non è il primo. L’Inter ha bisogno di due grandi centrocampisti, un difensore, un esterno basso di sinistra, e almeno un attaccante. Tutti di prima categoria. Il tecnico è un falso problema, serve a dare a un esterno problemi che sono della squadra. Prima del tecnico bisogna cercare i giocatori.

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Più giovani e meno pareggite. Conte, rilancia la Juve

di Pierluigi Panzajuventus.gif Giornalisti nel pallone - corriere.it - 10-03-2012

L’allenatore è, oggi, almeno tre cose: preparatore, psicologo e tattico. All’inizio, Conte si è dimostrato straordinario in tutti e tre gli aspetti: squadra aggressiva, motivata e intelligentemente disposta senza il preannunciato4-2-4, visto che era arrivato Pirlo. I centrocampisti Marchisio e Pepe andavano in gol e la Juve vinceva (senza i gol degli attaccanti, perché in estate abbiamo comprato Vucinic ed Elia). Ma non si può durare solo sulla preparazione e sui nervi (motivazioni) e la Juve, senza una superstar risolutiva, da almeno due mesi si è impantanata nella pareggite.

Qualcuno ha pensato a contromisure? Direi non molto o non molto bene. La campagna acquisti di gennaio non è stata azzeccata:ci voleva un centrale difensivo e abbiamo preso quello che è un bravo cursore di destra (Caceres). E Borriello ricorda tanto i vari Toni, Amauri e Iaquinta dei quali, a fatica, ci siamo liberati. E Conte? Ha provato un 3-5-2 ma con Estigarribia o De Ceglie a sinistra: come potremo segnare? Domanda: ma Krasic ed Elia non si possono proprio usare mai, mai, mai? In nessun modulo? Mettere di più Quagliarella o Del Piero i 15 finali? Ma come si fa a giocare per ottanta minuti con quel Borriello l’ultima partita!

Ho un suggerimento: la Juve deve autovietarsi di acquistare giocatori che costano tra i 5 e i 25 milioni di euro (Tiago, Poulsen, Diego, Melo, Vucinic, Borriello, Elia, Krasic, Martinez, Bonucci… ): in questo range di prezzo ci sono un sacco di giocatori bravi, ma nessuno decisivo per crescere. Lanciamo giovani, teniamo quelli che abbiamo senza spendere (vedi Giovinco, Immobile, Sorensen…) e mettiamo da parte un tesoretto per prendere un paio di “fenomeni” (qualcuno dal Real e dal Manchester City deve pur partire). Ma fenomeni.

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faccio mie le considerazioni di questo Panza.

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L´inchiesta

Tutte le verità dello Zingaro

"Così io e 30 giocatori corrotti

abbiamo truccato la serie A"

Nella tana di Ilievski, il superlatitante del calcioscommesse

di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 11-03-2012)

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«NON avete capito niente. Lazio-Genoa l’ha fatta Sculli, non Mauri». Sculli?

Sicuro? «Sculli. Con gli amici suoi di Genova. Al cento per cento. Anzi no, a

un milione per cento. Se volete ve ne parlo. Però non qui, non ora. Andiamo in

un posto più tranquillo, in montagna, dove saremo solo noi. Ho fatto preparare

la cena a un mio amico». Sono le tre e mezza del pomeriggio, a Skopje, e

quella che Hristiyan ha in mente è una cena molto, molto lunga.

Hristiyan è Ilievski, il principale latitante del calcioscommesse. Lo cerca

la polizia, e l´Interpol. Secondo la procura di Cremona è la pedina chiave,

l´uomo che avvicinava i giocatori di serie A per "fare le partite", li

contattava tramite intermediari, li aspettava in albergo o nei ritiri con le

borse piene di soldi, e li convinceva con le classiche «offerte che non si

possono rifiutare». La mattina del primo giugno scorso, mentre Beppe Signori

finiva in manette insieme con gli altri complici, lui è scappato dalla sua

casa di Cernobbio e si è rifugiato qui, in Macedonia, protetto dalla propria

fama e da un manipolo di bodyguard che lo chiamano boss. La strada per

arrivare alla «casa dell´amico» è uno sterrato contorto e brullo che prima di

arrampicarsi sulla roccia attraversa il quartiere albanese della città. Un

incubo balcanico di strade e palazzoni grigi. Se non fossimo dentro la sua Bmw

X5 bianca lucente, Hristiyan sputerebbe ad ogni incrocio per il disgusto di

vedere così tanti albanesi in giro. Ma siamo in macchina, quindi si limita a

bestemmiare. Attraverso la tela di un borsello nero accarezza il corpo della

pistola, piccolo calibro con intarsi in legno, e poi sibila qualcosa in

macedone. La «casa dell´amico» in realtà è un "ristorante privato" chiuso al

pubblico ma attrezzato per servire in un ambiente lussuoso una manciata di

ospiti particolari: la discrezione si paga in contanti.

"IL MIO NUMERO FORTUNATO"

Hristiyan è sterminato: un metro e novanta di altezza, peserà non meno di 110

chili. È un ex agente della polizia speciale macedone: la guerra del Kosovo

gli ha lasciato una cicatrice sul viso e un´altra, molto più grande, che parte

dal mignolo della mano destra e finisce all´altezza del polso, dove si

confonde con l´inchiostro di un enorme "5" tatuato tanti anni fa. «È il mio

numero fortunato», ride alludendo a chissà cosa. Perché, in questa storia,

tatuaggi e cicatrici non sono un dettaglio. Anzi. La prima cosa che raccontano

ai magistrati i calciatori avvicinati da Ilievski è proprio quel segno

profondo sull´arcata sopraccigliare «di quell´uomo brutto», descritto come

«enorme» e «silenzioso». «Brutto? - ride Ilievski - A me non sembra. Mia

moglie dice di no. Certo è mia moglie... Comunque quelle cose di me le ha

dette Micolucci. Me la ricordo quella notte, al parcheggio. Lui doveva darmi

dei soldi da scommettere su una partita. Ed è vero che non parlavo, perché ero

stanco. Ero partito in macchina da Cernobbio ed ero arrivato fino ad Ascoli.

Era buio e lui parlava e parlava, e cercava di convincermi ad accettare un

pagamento con assegni invece che in contanti. Guardavo davanti e così lui di

me ha visto solo la cicatrice... mi spiace che si sia spaventato. Anzi no, non

mi spiace. Però dire che il mio ruolo era quello di far paura ai giocatori è

ridicolo».

"COME TONY MONTANA"

E allora, qual era il suo ruolo? «Quello di uno che scommette. A me e a Gegic

(l´altro latitante di questa storia, ndr) ci hanno chiamato gli Zingari, Gipsy,

come se fossimo una mafia. In realtà non siamo zingari e non siamo nemmeno un

gruppo. Noi compriamo informazioni e scommettiamo. E basta. Mi chiamano i

calciatori e mi dicono: "20mila su questo o su quel risultato". E io lo faccio

facilmente, perché la gente si fida». Chi sono i calciatori? «Una trentina, 90

per cento di squadre di serie B il resto di A. I nomi non te li dico, io non

sono uno scarafaggio, io gli scarafaggi li schiaccio, come dice Tony Montana

(Scarface, ndr). Lo conosci, no?» sorride, si china, solleva l´orlo dei

pantaloni per mostrare il volto di Al Pacino che si è fatto tatuare sul

polpaccio. «Ho letto Puzo (autore de Il padrino), conosco a memoria Scarface:

so come ci si comporta, io».

Perché il cuore del calcioscommesse, secondo Ilievski, sono proprio i

calciatori: «In Inghilterra non succede, in Italia invece sì: si mettono

d´accordo, poi scommettono e vendono le informazioni. Quando le vendono a noi,

o quando noi le scopriamo ci puntiamo sopra forte. Altrimenti le vendono a

qualcun altro. Alla mafia siciliana, a quella albanese, agli ungheresi oppure

a Beppe Signori che è uno dei capi del calcioscommesse in Italia. A tutti.

Spesso sono gli stessi dirigenti dei club a mettersi d´accordo. Alla fine

dello scorso anno, sono venuto io personalmente in Italia. Era quasi tutto già

deciso, chi vinceva lo scudetto, chi andava in Europa, chi finiva in serie B.

Quindi è stato un "festival". C´erano sei squadre che ritenevamo affidabili:

Sampdoria, Cagliari, Bari, Lecce, Siena e Chievo. E noi abbiamo fatto un

mucchio di soldi».

"SONO ANDATO A FORMELLO"

Sono le otto di sera. Le ciotole con le salse all´aglio e allo yogurt sono

ormai relitti al centro del tavolo. Quello che Ilievski ha presentato come

«l´amico» sta servendo la carne alla griglia. Hristiyan l´accompagna con

grappa macedone, versata da un alambicco di rame. «Un sacco di soldi li

abbiamo fatti anche con Lazio-Genoa. È andata così: io cercavo da un po´ di

parlare con qualcuno della Lazio, per avere informazioni sicure. Ma non ci

riuscivo. Sono andato a Formello, vero, ma lì non ho incontrato nessuno. Però

mi hanno detto: "Guarda che la partita è fatta. L´ha fatta Sculli. L´accordo è

1-1 per il primo tempo, poi nel secondo tempo partita vera, anche se alla fine

il Genoa ha poi dato i tre punti alla Lazio che doveva andare in Champions"

(la circostanza risulta anche dagli atti dell´indagine, mentre Sculli al

Quello che "ha detto" è Zamperini? «Non sono uno scarafaggio, io. Il nome di

Zamperini non lo farò mai. Gli ho rovinato la vita chiedendogli di trovarmi

delle informazioni sul campionato di Serie A e adesso lo difenderò fino alla

fine. Non sono come Gervasoni, uno che fa le estorsioni. Dopo la prima parte

dell´inchiesta, quest´estate voleva andare da Mauri, "se non mi dà un milione

di euro vado a Cremona e racconto tutto", aveva detto. Quello che so io è che

quella dritta era giusta, Sculli ha "fatto" la partita e io ci ho guadagnato

un sacco di soldi. E come me mezzo Lazio, inteso come regione, lo sapevano

tutti». Come confermano anche i flussi delle giocate.

"I SOSIA DI LECCE"

Ciò che colpisce sono gli aneddoti e i dettagli. Come «la faccia di

Bentivoglio» quando Ilievski entrava nella sua stanza d´albergo prima di

Palermo-Bari. «Masiello l´aveva costretto a incontrarmi per farmi vedere che

la partita era aggiustata. Io gli avrei dato dei soldi per quella dritta, il

Bari avrebbe perso quasi certamente e lui avrebbe fatto il colpo. Ma si vedeva

da un chilometro di distanza che Bentivoglio se la stava facendo addosso:

tremava, era pallido. Mi stavano truffando. E allo stadio si è visto subito.

Così mi sono coperto: ho chiamato il mio amico Dan a Singapore (il capo del

calcioscommesse mondiale, secondo i pm, ndr) e gli ho detto, "punta sul

Palermo", così siamo andati in pari». Oppure come il «numero di Erodiani»: il

tabaccaio di Ancona, per farsi fare credito su una partita del Lecce si

sarebbe presentato al casello autostradale insieme a tre "sosia" di giocatori

giallorossi che dovevano garantire la combine: «Me ne accorsi subito, per

fortuna, se no andavamo rovinati».

Hristiyan interrompe il suo racconto. Il padrone di casa ha messo a tutto

volume "Caruso" cantata, al Pavarotti and Friends, da Pavarotti insieme a

Dalla. Il viso di Hristiyan si contrae in un´espressione commossa, prossima al

pianto, ma senza lacrime. «È la mia preferita», dice in italiano (e infatti

costringerà il padrone di casa a rimetterla una dozzina di volte). «Comunque

penso che prima o poi verrò in Italia. Io amo l´Italia. Mi farò un po´ di

carcere, lo so. Ma non posso continuare a vivere qui, così. Chiarirò tutto e

tornerò a casa mia, a Cernobbio». Arrivano i dolci. Ma Hristiyan continua a

mangiare salsicce affumicate. E a commuoversi per "Caruso". In carcere un

sacco di gente gli farà delle domande, osserva il suo bodyguard. Proprio in

quel momento un piccolo scarafaggio decide di attraversare la sala. Hristiyan

lo guarda per un attimo. Lo raccoglie delicatamente. Lo mostra ai commensali.

Sorride. Poi, lo schiaccia.

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"Il Misfatto" satira & sentimenti da

il Fatto Quotidiano 11-03-2012

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Il Sole 24 ORE

06-03-2012

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Modificato da Ghost Dog

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la Repubblica 09-03-2012

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Marco Bellinazzo ha un blog tutto suo (Calcio & business),

da questo mese, sul sito de Il Sole 24 Ore.

No a una legge sugli stadi se vince la speculazione edilizia

di MARCO BELLINAZZO dal blog Calcio & business (Il Sole 24 Ore.com 07-03-2012)

"Sulla legge sugli stadi siamo a buon punto". Uno spiraglio sull'approvazione

della legge sugli stadi, attesa da tutto il movimento calcistico italiano, e

non solo da quello, per riprendere seriamente il cammino di sviluppo, viene

dalle parole del ministro dello Sport, Piero Gnudi, pronunciate nel corso di

intervento al convegno indetto dalla FederSport sul tema "Il presente ed il

futuro dello sport italiano" in corso a Roma.

Il ministro. Gnudi ha dato assicurazioni sull'iter della legge. "Ho fatto

vari incontri con i rappresentanti delle varie forze politiche e sono tutti

d'accordo, ma sembra che non si riesca a chiudere il cerchio. Spero che si

possa riuscire a chiuderlo in pochi giorni" ha auspicato ancora il ministro.

Entro la fine di giugno si dovrebbe approvare il provvedimento: prima alla

Camera e poi dovrà tornare al Senato, dove aveva ricevuto il primo sì

all'unanimità due anni fa, per l'ok definitivo.

La Lega. Dal canto suo il presidente dela lega di A, Maurizio Beretta ha

ribadito la richiesta di una legge-quadro, di contenuti normativi che non

costerebbe al contribuente nemmeno un euro e che consentirebbe alle società

di realizzare impianti moderni, all'altezza di quelli che troviamo in Inghilterra,

Germania e Spagna, gestiti dalle società. Sarebbe un salto di qualità e

consentirebbe di recuperare un svantaggio competitivo nei confronti degli

altri grandi club europei. Da noi gli introiti da stadio incidono per il

12-15% sulle entrate perché vecchi, poco sicuri e in molti casi inutilmente

grandi. Servono impianti di nuova generazione, più tecnologici e gestiti tutta

la settimana dalle società".

La battaglia vera. La domanda allora è: ma se tutti sono d'accordo perchè la

legge finora è rimasta nei cassetti? La risposta è che finora sono prevalse

logiche "volumetriche" e interessi diversi e la legge ha rischiato di

prestarsi più a speculazioni edilizie che all'interesse del calcio italiano.

Lo stadio deve essere il centro del progetto e non una "scusa" per dar vita a

parchi immobiliari fatti di supermarket, attrazioni e strutture residenziali.

Modificato da Ghost Dog

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Inviato (modificato)

Da Italia ‘90 al fair play finanziario:

viaggio nel nostro calcio in declino

Per il calcio italiano sono sempre più lontani gli anni Novanta. Oltre ai

mondiali delle notti magiche, per cui ancora oggi spendiamo 55 milioni di euro,

è la Serie A che sta sempre più perdendo spettatori. Perché? Stadi da

rimodernare, che i club, Juventus a parte, non riescono a costruire e gestire.

Strategie sui calciatori sbagliate e al ribasso. Nel resto d’Europa? Stadi

pieni, merchandise e club più virtuosi. E all’orizzonte c’è il fair play

finanziario voluto dall’Uefa di Platini. Con un’infografica, elaborata da

Deloitte, sul conto economico dei primi venti club in Europa.

di MARCO SCOTTI (LINKIESTA 10-03-2012)

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Chi ha passato l’adolescenza ed è devoto al Dio Pallone ricorderà con

nostalgia i bei tempi in cui l’Italia era l’ombelico del mondo del calcio. Non

serve tornare indietro agli anni in cui Zico giocava nell’Udinese e in cui,

contemporaneamente, calcavano i campi di calcio dello Stivale Maradona, Van

Basten, Gullit, Matthaeus e altri pezzi da novanta. Ma è un dato di fatto che

oggi la Serie A abbia perso – forse definitivamente – l’appeal e il primato di

cui ha goduto. C’è un inizio della fine: i Mondiali di calcio del 1990.

D’altronde, è proprio dal ‘90 che il giocattolo ha iniziato, inesorabilmente,

a rompersi, anche se gli spettatori ce ne sono accorti quando ormai era troppo

tardi. Alla base del declino, investimenti sbagliati, politiche economiche

dissennate, brocchi strapagati e campioni lasciati andare a cuor leggero. Il

tutto mescolato con un po’ di doping, qualche scommessa e crack finanziari. Il

risultato – ovviamente indigesto – è lo spettacolo penoso cui ormai si assiste

ogni domenica. Perché se lo spread che più preoccupa il nostro Paese è quello

dei titoli di stato con gli analoghi tedeschi, è evidente che c’è un altro

divario che ogni anno si amplia: quello tra il calcio italiano e gli altri

campionati europei di eguale livello.

Mondiali di calcio del ‘90. Se si vogliono scandagliare cause e meccanismo di

diffusione della malattia del pallone, si arriva immancabilmente al torneo più

ambito. Affidato all’Italia nel 1984, ebbe come presidente del comitato

organizzatore Luca Cordero di Montezemolo, allora 39enne manager della

Ferrari. «Voglio far avverare un sogno» disse uno dei futuri proprietari

dell’operatore di treni ad alta velocità Ntv. A conti fatti, il risveglio è

stato traumatico. I 12 stadi teatro delle “notti magiche” – come cantavano

Bennato e la Nannini quell’estate – hanno necessitato di lavori strutturali di

ampliamento o ammodernamento. Il primo preventivo presentato al governo fu di

680 miliardi di lire, che levitarono ben presto dell’84%, raggiungendo la

cifra di 1.248 miliardi. Al cambio attuale sarebbero oltre 645 milioni di euro,

ma andrebbero parametrati con l’inflazione. Per poter sostenere una spesa di

quel tipo, l’Italia si indebitò pesantemente tanto che oggi, a distanza di 22

anni, vengono ancora corrisposti 55 milioni di euro per pagare strutture che

in alcuni casi andrebbero completamente ricostruite.

Senza contare che per ottenere un risultato ancora più d’impatto, si

coinvolsero archistar come Renzo Piano (che firmò il progetto dello Stadio San

Nicola di Bari). E che cosa se ne faranno a Bari di uno stadio da quasi 60mila

posti quando la squadra occupa attualmente il 10° posto nel campionato di

Serie B e dal campionato seguente alla Coppa del Mondo ha trascorso più tempo

nelle serie cadetta che in A? E lo Stadio Olimpico di Roma e il Delle Alpi di

Torino (nel frattempo demolito) avranno tratto straordinari benefici da una

pista di atletica quando tutti gli impianti calcistici d’Europa prediligono

stadi più raccolti e più “a picco” sul terreno di gioco? Senza contare che

sempre per i Mondiali furono realizzate altre opere imprescindibili come la

stazione di Farneto a Roma, costata 15 miliardi e utilizzata quattro giorni.

Si dirà: che c’entra questo con il calcio? C’entra non solo con il pallone ma,

più in generale, con lo sport tutto, visto che il pagamento dei debiti di

Italia ‘90 depaupera l’intero sistema privandolo di risorse che potrebbero

essere vitali.

Gli stadi: da almeno 15 anni si sente parlare con insistenza di stadi di

proprietà e cittadelle sportive. Perché? Perché permetterebbero alle società,

a fronte di un investimento stimato tra i 100 e i 200 milioni di euro, di

poter incassare tutti i proventi delle partite (non solo i biglietti, ma anche

merchandising, servizi ristorazione, parcheggi e via dicendo). Peccato che

soltanto la Juventus sia riuscita in questa impresa, inaugurando proprio in

questa stagione lo “Juventus Stadium”, sorto sulle ceneri del defunto Delle

Alpi. Un investimento importante che ha però portato la società ad essere

completamente indipendente rispetto al comune di Torino. E, non è un caso, lo

Juventus Stadium è l’unico a far registrare spesso il tutto esaurito,

essendosi dotato di una struttura moderna ed efficiente, sulla scorta di

quanto avviene in Inghilterra. La capienza? Dai 69mila 295 posti a sedere del

vecchio Delle Alpi (puntualmente semivuoto) si è passati ai 41mila

dell’attuale struttura. Un “dimagrimento” di quasi 30. 000 posti che sembra

essere una scelta azzeccata.

Nelle prime tre giornate del campionato 2010-2011, la Juventus aveva

totalizzato 63mila 950 ingressi complessivi, mentre in questo campionato la

cifra ha raggiunto le 108mila 880 unità, con un incremento del 70 per cento.

Anche la Fiorentina dei fratelli Della Valle ha cercato di costruire uno

stadio di proprietà con annessa cittadella dello sport. Ma i veti del comune

li hanno fatti desistere che da allora hanno di molto ridotto i loro

investimenti nella società gigliata. A Milano invece il Comune dà in

concessione lo stadio al Milan, che a sua volta lo affitta all’Inter. Il

risultato è che il Meazza è spesso semivuoto (per la sfida di Champions League

tra Inter e Cska Mosca sono state registrate circa 7mila presenze, meno di un

decimo della capienza complessiva dell’impianto), le strutture sono fatiscenti,

il manto erboso rende alcune partite pressoché ingiocabili.

Nel frattempo, Spagna, Inghilterra e Germania dotano le loro squadre di stadi

di proprietà che fruttano enormi proventi e permettono loro di ampliare ogni

anno di più il gap con il nostro Paese. Prendiamo, ad esempio, la giornata

23esima giornata del campionato in corso e confrontiamola, per numero di

spettatori, con quella inglese giocata nello stesso week end: 17mila 622

spettatori di media a partita per la Serie A nostrana e 33mila 470 in

Inghilterra. Anche il singolo confronto tra partite è desolante: la più vista

della 23esima giornata italiana è stata Lazio-Cesena, con 23mila 129

spettatori; in Inghilterra Manchester United-Liverpool ne ha attirati 74mila

844. Né dà conforto il paragone tra il valore assoluto degli introiti dei

biglietti: la Serie A incassa circa 200 milioni all’anno, la Bundesliga

tedesca 380, la Liga spagnola 440 e la Premier League inglese 649 milioni.

Serie A e giocatori. Dagli stadi alle politiche finanziarie dei club il passo

è breve. Qui il discorso potrebbe andare avanti per ore, ma basta ricordare i

capisaldi della scellerata gestione economica. I calciatori, che un tempo

facevano a gara per venire in Italia, oggi preferiscono senza dubbio Spagna e

Inghilterra, a meno che non li si paghi a peso d’oro (Eto’o percepiva l’anno

scorso 10,5 milioni di euro, Ibrahimovic quest’anno, calciatore più pagato

della serie A, è a quota 9,5). Non dimentichiamo che le retribuzioni nette dei

calciatori vanno raddoppiate per capire quanto gravano realmente sulle casse

delle società. Da quando la Serie A ha deciso di allargarsi a 20 squadre, è

diventata di una noia abissale, almeno a giudicare dai dati sulle affluenze.

Non può essere addotto come giustificazione lo “spezzettamento” del campionato

che inizia il venerdì sera e finisce il lunedì, anche perché lo stesso succede

in Inghilterra, senza che questo crei una diminuzione così traumatica degli

spettatori. L’ultimo acquisto di un giocatore giovane, futuro campione anche

se ancora non di fama planetaria, risale al 2004, quando la Juventus prelevò

dall’Ajax Zlatan Ibrahimovic. Da allora sono arrivati in Italia o giovani

speranze (spesso rimaste tali) o calciatori sul viale del tramonto (Ronaldinho,

tanto per fare un esempio) pagati spesso a peso d’oro. I giocatori più

rappresentativi cercano di strappare contratti all’estero: nella sola estate

del 2011 sono stati ceduti Javier Pastore per 42 milioni al Paris Saint

Germain, Alexis Sanchez al Barcelona per 38 e Samuel Eto’o all’Anzhi per 27.

Senza che nessuno di loro venisse rimpiazzato adeguatamente.

C’è anche da sottolineare una palese inadeguatezza dei dirigenti italiani che,

vincolati da bilanci sempre più deficitari, tentano il colpaccio quasi sempre

fallendo: basti, per riassumere la situazione, il caso di Diego Forlan,

acquistato dall’Inter nell’agosto scorso per 4, 6 milioni di euro per

sostituire Eto’o. Peccato che si sia scoperto, troppo tardi, che Forlan non

era schierabile in Champions League per l’intera fase a gironi perché aveva

già disputato i preliminari di Europa League. Una svista che poteva costare

carissima al management di Via Durini. Sempre l’Inter, d’altronde, ha scelto

di impiegare i proventi dalla cessione dello straordinario attaccante

camerunense per acquistare, oltre a Forlan, Ricky Alvarez, talento in erba

pagato 12 milioni (e fin qui risultato pressoché nullo), il misterioso terzino

destro brasiliano Jonathan, anch’egli pagato 4, 5 milioni, il diciottenne

attaccante Castaignos, costato 1, 5 milioni e l’inutilissimo Mauro Zarate,

pagato – per il solo prestito – 2,7 milioni. Il conto è presto fatto: i 27

milioni della cessione di Eto’o, invece che essere impiegati per acquistare un

unico giocatore di valore, sono stati atomizzati in cinque investimenti privi

di spessore.

L’exploit in Champions League dell’Inter nel 2010 rischia così di diventare

la drammatica eccezione che conferma la regola, visto che puntualmente tutti i

principali club nostrani chiudono i propri bilanci con pesanti passivi che

devono essere ripianati dagli azionisti di maggioranza (su tutti l’Inter, che

ha presentato nel giugno del 2011 un bilancio con una perdita di 86 milioni).

Nel frattempo, la capacità di attrarre investitori continua a latitare, tanto

che nella classifica dei club più ricchi del mondo stilata dall Deloitte a

febbraio, la prima squadra italiana è il Milan, con un fatturato di 235

milioni di euro, in calo del 6, 7% rispetto all’esercizio precedente e,

soprattutto, più che doppiata dal Real Madrid (479 milioni) e quasi

altrettanto dal Barcelona (450 milioni). Ancora più preoccupante la situazione

dei bilanci italiani se la si guarda scomponendo i dati: dei 211, 4 milioni di

fatturato dell’Inter, il 59% (124,4) proviene dalla vendita di diritti tv; il

25% dalla vendita di biglietti e il 16% dalla pubblicità e dal merchandising.

Cifre impietose che testimoniano come solo una netta inversione di rotta

potrebbe far cambiare qualcosa.

Un ultimo, non trascurabile dettaglio è rappresentato dal Fair Play

Finanziario, la norma voluta dal presidente Uefa Platini che costringe le

società a spendere soltanto quanto incassato senza più passivi da record. Come

faranno Inter e Milan, che impiegano oltre l’80% del ricavato per pagare gli

stipendi, a finanziare nuovi investimenti e ad acquistare cartellini di

giocatori importanti? È vero che la tassazione differente (in Spagna per

pagare un calciatore 8 milioni di euro all’anno ne servono 12, in Italia 16)

crea una situazione di oggettivo svantaggio per le società italiane. Ma, al

contempo, è vero anche che manca sempre più quell’ingegno italico nel trovare

giocatori importanti a prezzi adeguati, un po’ come fece il Milan con Kakà. In

attesa che qualcosa cambi davvero, non rimane che sintonizzarsi su un altro

campionato.

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José Zárate

Straniero

in patria

Nel 1975 un suo autogol ha

impedito alla Colombia di

vincere la Coppa America di

calcio. Un errore che lo ha

perseguitato per tutta la vita

di ALBERTO SALCEDO RAMOS, Soho, Colombia (Internazionale 939 | 9 marzo 2012)

Il cameriere arriva con le nostre portate. In un ristorante di Barranquilla,

una città nel nord della Colombia, José “Boricua” Zárate mi confessa che per

strada la gente non lo riconosce più. Passa inosservato, e ormai ci ha fatto

l’abitudine. L’ultima volta che ha toccato un pallone, dice pensieroso, era il

1985. Il cameriere è troppo giovane per sapere che quel cliente dai capelli

radi, zoppo e con una gamba ortopedica è stato uno dei due difensori centrali

della Colombia che nel 1975 è arrivata in finale di Coppa America.

Boricua stringe il manico del suo bastone con entrambe le mani. La sua

carriera in nazionale è finita da più di trent’anni, ed è normale che sia

invecchiato, che non somigli più al colosso ammirato in campo dai tifosi di

tutto il paese. Il Boricua degli anni settanta era uno di quei difensori

dall’aria minacciosa che sembrano sempre sul punto di decapitare qualcuno.

Quello di oggi è un sessantenne malconcio. Nessuno lo immaginerebbe su un

campo da calcio. Nemmeno come spettatore. Lo guardi e lo vedi in una casa di

riposo mentre gioca a domino con gli altri pensionati.

Anch’io, se l’avessi incontrato per strada prima di oggi, non l’avrei

riconosciuto. E dire che appartengo alla generazione di tifosi nati negli anni

sessanta, e ho seguito la sua carriera con le maglie dello Junior, del

Deportivo Independiente Medellín e della nazionale colombiana. Ricordo che una

volta, in una domenica della mia adolescenza, me lo sono trovato a pochi metri

di distanza, nello stadio Romelio Martínez. Nonostante la stazza, aveva

un’aria esuberante. Esattamente l’opposto dell’uomo cupo e lento seduto

davanti a me.

Boricua comincia a mangiare la sua zuppa. Quando ha smesso di giocare è

sparito dalle scene, e non è mai più apparso in pubblico. Non ha mai dato il

calcio d’inizio inaugurale di una partita importante. Non è mai stato

intervistato da un’emittente televisiva. Ogni tanto, quando un difensore

rinviava malamente in tribuna, qualche giornalista di lungo corso evocava il

suo nome: “Una giocata alla Boricua”. Se un centrale di difesa rimaneva

imbambolato a guardare il pallone invece di intervenire, i telecronisti

ricordavano la celebre frase del commentatore radiofonico Pastor Londoño: “Non

lasciarla lì, Boricua, non lasciarla lì!”. Il riferimento, naturalmente, è

all’errore che ha perseguitato Boricua per gran parte della sua carriera.

È il 1975, e a Lima si gioca la finale di ritorno di Coppa America tra

Colombia e Perù. All’andata, a Bogotá, è finita uno a zero per la Colombia. Il

Perù attacca e i colombiani difendono il pareggio, sufficiente per conquistare

il trofeo. All’improvviso un attaccante peruviano avanza sulla fascia destra e

lascia partire un cross verso il centro dell’area. Il pallone scende lento e

prevedibile verso Zárate. Un pallone innocuo, facile da controllare.

Basterebbe un colpo di testa per mandarlo in calcio d’angolo o in fallo

laterale. Invece Zárate – le braccia attaccate al corpo, le mani poggiate

sulle gambe – resta immobile a guardarlo. Come se fosse convinto che il

pallone farà tutto da solo, allontanandosi dall’area senza creare problemi.

Come se pensasse di poterlo respingere con lo sguardo. Quando si decide a

reagire è troppo tardi. Juan Carlos Oblitas irrompe come un fulmine dalla

sinistra. Prova a tirare in porta al volo, ma manca clamorosamente il pallone.

In qualche modo riesce a controllarlo prima che superi la linea di fondo.

Spalle alla porta, Oblitas decide di affidarsi alla sua buona stella. Con un

colpo di tacco manda il pallone verso il centro dell’area, tanto per vedere

come va a finire. Va a finire che la sfera colpisce accidentalmente il piede

destro di Zárate e rotola alle spalle del portiere.

Gigante buono

Da quel momento, e fino al giorno del suo ritiro, dieci anni dopo, Boricua ha

sopportato di tutto. Ogni volta che il pallone arrivava dalle sue parti, dagli

spalti si levavano urla di rabbia e scherno. E Pastor Londoño ripeteva senza

pietà: “Non lasciarla lì, Boricua, non lasciarla lì!”.

La gente infieriva. Allo stadio, per strada, nei centri commerciali.

“Non lasciarla lì, Boricua, non lasciarla lì!”.

Anche se le provocazioni lo turbavano, Zárate rispondeva con un sorriso,

perché era un uomo pacifico e perché sapeva che se avesse perso la calma

sarebbe stato peggio. Per consolarsi, si aggrappava a un ragionamento ingenuo:

se mi attaccano, vuol dire che almeno mi riconoscono. Ma ormai è passato tanto

tempo. Adesso al suo passaggio incontra solo indifferenza.

Nella Colombia di oggi, dove le notizie sono già vecchie dopo un giorno, un

calciatore degli anni settanta è una specie di fossile preistorico.

Soprattutto se nella sua carriera ci sono state più ombre che luci e nessuno

ne ha saputo più niente per un quarto di secolo. Un personaggio che per i

giornalisti è come un medicinale scaduto per una farmacia: un prodotto inutile,

da togliere dalla circolazione. Al massimo gli dedicano un trafiletto nella

sezione degli anniversari, per commemorare un evento – un autogol, per esempio

– o raccontare ai lettori come è stata la sua vita dopo il ritiro. Il suo nome

torna d’attualità solo quando ha un grave incidente o tira le cuoia. Mentre il

cameriere arriva con i piatti di pesce, mi tornano in mente le parole di

Chesterton: “Il giornalismo consiste soprattutto nel dire ‘lord Jones è morto’

a persone che non sapevano che lord Jones fosse vivo”.

Boricua comincia a mangiare la sua frittura. Due anni fa nessuno parlava di

lui, neanche i giornalisti più anziani. Confesso che nemmeno io sentivo la sua

mancanza. Non che lo credessi un lord Jones morto e sepolto. Semplicemente

l’avevo cancellato dalla memoria. Poi però è arrivata la disgrazia, e Zárate è

tornato a fare notizia. “Boricua Zárate in condizioni critiche”, scriveva El

Heraldo all’inizio del 2010. “Ha il diabete e dovranno amputargli una gamba”.

L’articolo era ricco di dettagli sulla sventurata esistenza dell’ex

calciatore: la malattia, le difficoltà economiche e tutto il resto. Spiegava

anche che Boricua non aveva un’assicurazione medica e i chirurghi rifiutavano

di operarlo. I suoi ex compagni stavano organizzando una partita di

beneficenza per raccogliere fondi. Così abbiamo scoperto cosa aveva fatto

Boricua dopo il ritiro. All’inizio ha lavorato nelle formazioni minori del

Deportivo Independiente Medellín. Poi è rimasto senza lavoro, e sono

cominciati i problemi: senza uno stipendio, ha perso la casa e ha cominciato a

patire la fame. Per sfuggire alla miseria è partito alla volta di Mocoa, città

petrolifera nella regione amazzonica della Colombia, dove ha lavorato in una

scuola calcio per bambini. Un giorno si è svegliato con un’unghia del piede

incarnita. Pensando che fosse una cosa da poco, non si è preoccupato più di

tanto. Un mese dopo aveva bisogno di un bastone per camminare. “La gamba è

diventata flaccida come quella di un bambino con la poliomielite”, racconta.

Tra le sue mani da gigante, le posate con cui taglia il pesce gatto sembrano

piccolissime. Mastica lentamente, con l’aria severa e lo sguardo triste.

Vedo un collegamento tra il calciatore che in finale di Coppa America è

rimasto immobile davanti a un pallone lento e prevedibile e l’uomo che ha

perso una gamba perché non si è preoccupato di un’unghia incarnita. Mi viene

in mente un pensiero crudele. Boricua l’ha fatto di nuovo, “l’ha lasciata lì”,

un’altra volta. Mi piacerebbe sapere con quali occhi vede la realtà una

persona che non si accorge di sintomi che agli altri risultano evidenti. Sua

sorella Isabel lo considera una persona ingenua e fiduciosa. La sua mole fa

pensare a un uomo capace di superare qualsiasi avversità, ma il povero José

(Isabel non lo chiama mai per soprannome) è sempre stato un bambino indifeso

in un corpo da titano. Un bambino che a volte ha i rilessi lenti.

Perché ha aspettato così tanto prima di farsi vedere da un medico?

“No, non è vero che ho perso tempo. La gamba si è indebolita subito”.

Mi pento immediatamente di averglielo chiesto. Non è giusto che una persona

colpita da una sciagura debba anche sentirsi in colpa. La forchetta quasi

scompare nella sua mano smisurata. Il suo sguardo, che fino a un attimo fa mi

sembrava cupo, ora mi appare affabile, cortese. Davanti a me c’è l’uomo

descritto da Isabel: massiccio eppure indifeso, come l’orco buono di una

favola. Boricua era così anche quando giocava: grezzo e nobile allo stesso

tempo.

“Una volta un commentatore ha detto che ero un pericolo per gli attaccanti

avversari”, racconta.

“Non era un picchiatore?”.

“Mi avranno espulso due volte in tutta la carriera”.

“Ma allora da dove viene quella fama?”.

“Non so. Sono invenzioni di voi giornalisti. E siccome sono alto 1 metro e 82

e a quel tempo pesavo 86 chili, quelli che mi sbattevano addosso rimbalzavano

per terra. Ma non passavo il tempo a tirare calci agli avversari”.

La sua struttura fisica ha influito sul tipo di giocatore che è stato. Boricua

non proteggeva l’area di rigore come un principe a cavallo ma come un

boscaiolo in groppa a un mulo. Forse è per questo che ci siamo dimenticati di

lui. Giocava nel ruolo del raffinato Beckenbauer ma apparteneva alla stirpe

del rustico Scirea. Era un duro. Ha pagato per il fatto di non essere stato un

calciatore di talento? Forse sì. Il mondo non celebra chi taglia la legna per

costruire il violino ma chi scrive le sinfonie.

Dico a Boricua che il tempo in un certo senso gli ha fatto anche un favore.

Se avesse segnato quell’autogol alla fine degli anni ottanta o all’inizio

degli anni novanta, quando il calcio in Colombia era nelle mani dei

narcotrafficanti e degli scommettitori, forse non starebbe qui a raccontare la

sua storia. “Già. Probabilmente mi avrebbero fatto secco”, risponde con l’aria

pensierosa. “Guarda cos’è successo a Escobar”, dice Zárate mentre fa il tipico

gesto del tagliagole, passandosi l’indice da una parte all’altra del collo. Si

riferisce all’autogol che è costato la vita ad Andrés Escobar dopo i Mondiali

Usa del 1994.

“Meglio la presa in giro di Pastor Londoño, no?”.

“Molto meglio”, dice ridendo.

“Non lasciarla lì, Boricua, non lasciarla lì!”. Ride di nuovo.

Condannati alla sconfitta

In questi giorni ho pensato spesso al tempo. Boricua aveva 36 anni quando è

uscito di scena, e 61 quando il suo nome è riapparso sui giornali. Nel

frattempo l’acqua ha continuato a scorrere sotto i ponti. Boricua non porta

più le basette che andavano tanto di moda negli anni settanta. Si è ingobbito

e ha perso qualche dente. Soprattutto, se n’è andata la salute, e ha perso il

lavoro. Eppure negli archivi dei giornali è rimasto lo stesso: un uomo duro

come il legno che tira calci a un pallone. Pensiamo agli ex calciatori e

conserviamo l’immagine di quando ancora scendevano in campo. Quando decidiamo

di cercarli per farci raccontare che ne è stato delle loro vite, la realtà ci

colpisce come sabbia negli occhi. Fino a ieri indossavano la maglia con i

colori della nostra bandiera, rappresentavano la Colombia davanti al resto del

mondo. Oggi vagano dispersi, sofferenti. Muoiono e noi non ce ne accorgiamo

nemmeno, perché non ci importa più di loro. Il grande allenatore olandese

Rinus Michels diceva che un ex calciatore vecchio e povero è uno straniero nel

suo stesso paese.

Passeggiamo per il quartiere. Boricua usa il girello, perché con il bastone

si stancherebbe troppo e dovrebbe camminare più lentamente. E da queste parti,

mi spiega, non è una buona idea. Su entrambi i lati di calle 29 c’è gente che

grida come fosse al mercato. Boricua li guarda di sbieco e poi li saluta,

prima di tornare a Fissare il marciapiede. La protesi gli arriva alla coscia.

Tre passi, sei passi. Si ferma. Ricomincia a camminare. Non è che gli manchi

la forza, si scusa. Il problema è che gli ci vuole ancora del tempo per

abituarsi al suo stato attuale. Ogni tanto molla l’impugnatura del girello per

allentare la tensione delle mani.

Questo quartiere è considerato una specie di Mecca del calcio colombiano.

Davanti a noi, in calle 30, c’è lo stadio Moderno, dove il 7 agosto del 1922

si disputò la prima partita ufficiale nella storia del calcio colombiano. Nel

1946, tre anni prima della nascita di Boricua, lo stadio ha ospitato le

partite della nazionale colombiana che vinse i Giochi centroamericani e del

Caribe senza perdere una partita.

Mentre camminiamo lungo un canale di scolo, Boricua mi spiega che il calcio

lo ha salvato “dalla cattiva strada”. Ha cominciato a giocare quando aveva

otto anni. All’epoca nessuno dei bambini che correvano dietro a un pallone

credeva che quel passatempo sarebbe potuto diventare un lavoro. Per guadagnare,

pensavano, bisognava fare come gli adulti: caricare e scaricare casse al

porto, lavare bottiglie nella fabbrica di birra locale o vendere salsicce in

centro. Il calcio era solo un gioco, un altro modo per sfuggire alla

tentazione dell’ozio. Al massimo si potevano guadagnare i soldi per andare a

vedere un film il sabato al Mogador, il cinema del quartiere. Il

professionismo non era certo quello di oggi. Boricua ricorda che nel 1970,

quando fu ingaggiato dallo Junior, faceva la stessa vita di un commesso. Il

capo del personale lo pagava in contanti, tremila pesos, una banconota dietro

l’altra. Poi gli faceva firmare un registro malandato.

La fortezza dei veterani

“Come te la passi, vecchio Bori?”, gli grida un uomo con una birra in mano da

un negozio all’angolo. Boricua risponde educatamente al saluto. Poi, con la

solita espressione accigliata, si rivolge a me: “Vede, c’è ancora qualcuno che

si ricorda di me”. Gli dico che non solo mi ricordo di lui, ma anche della

sfortunata epoca in cui gli è toccato giocare. Gli anni in cui non ci

qualificavamo per i Mondiali, perdevamo quasi tutte le partite (il secondo

posto nella Coppa America del 1975 è stato un episodio isolato), le nostre

migliori squadre di club non superavano il primo turno della Coppa

Libertadores, e all’estero i nostri giocatori più forti non interessavano a

nessuno.

Mentre Boricua scambia due parole con un uomo del quartiere che ci ha

raggiunto in strada, mi tornano alla mente alcune istantanee di quegli anni:

vedo Pedro Pablo Pasculli e Jorge Luis Burruchaga segnare i tre gol con cui

l’Argentina ci lascia fuori dai Mondiali messicani del 1986. Vedo il Brasile

che ci massacra sei a zero al Maracaná di Rio de Janeiro, impedendoci di

qualificarci per Argentina ’78. Vedo un’immagine che riflette alla perfezione

la nostra mentalità di allora: i brasiliani hanno appena segnato il quarto gol,

e l’attaccante colombiano Eduardo Vilarete si trova nel cerchio di

centrocampo per riprendere il gioco. Invece di passarla a un compagno, però,

si siede sul pallone e comincia ad agitare le braccia, impotente, come a dire

che siamo condannati alla sconfitta, che non c’è salvezza. Tanto vale farla

finita una volta per tutte e smettere di provarci, perché qualunque cosa

accada continueremo a perdere. Ed è esattamente quello che è successo alla

nazionale durante quegli anni disastrosi. Ha continuato a perdere.

Riprendo a osservare Boricua. Per un attimo ho la sensazione che la camminata

l’abbia fatto invecchiare di dieci anni. La strada gli pesa, ogni passo è un

tormento. Penso che una grande squadra avrebbe vinto anche con un difensore

centrale limitato come lui. Il Brasile ha trionfato ai Mondiali del 1970

praticamente senza portiere, e di sicuro ce l’avrebbe fatta anche con Boricua

in difesa. Così penso che il problema della Colombia nella Coppa America del

1975 non è stata la presenza di Boricua, ma l’assenza di Pelé, Rivelino,

Tostão e Jairzinho.

Vorrei condividere questa rilessione con lui, ma ho paura che la prenderebbe

come una battuta sarcastica, o come un tentativo di farlo sentire meglio. Si

asciuga il sudore della fronte con l’indice della mano destra e si ferma di

nuovo. Più che un malato esausto per lo sforzo fisico, sembra un penitente

nell’atto di espiare una colpa. Una colpa che non è solo sua. Abbiamo lasciato

che portasse da solo una croce, quella della nostra frustrazione, che era di

tutti. Poi lo abbiamo dimenticato, e ora che è un uomo anziano, malato e

povero, gli voltiamo le spalle.

Fuori dello stadio tre ragazzini ci guardano con insistenza. Forse sono

incuriositi dalla presenza di un forestiero che appunta su un quaderno le

parole di uno del quartiere. Prima di cominciare la nostra passeggiata Boricua

mi ha consigliato di lasciare a casa il registratore, l’orologio e il

cellulare. Uno dei ragazzini, a torso nudo, porta una camicia avvolta in testa,

come un turbante. Un altro ha una lunga cicatrice che gli attraversa il

volto. Il terzo è girato di spalle. Ogni tanto si volta e ci osserva, poi

riprende a parlottare con i suoi amici.

Da dietro i cancelli dello stadio intravedo due squadre di veterani in campo.

Non ci sono telecamere né cartelloni pubblicitari. Gli spalti sono deserti.

Immagino i protagonisti di questa partita pomeridiana come vecchie glorie a

cui nessuno presta attenzione. Forse qualcuno di loro è malato, o indigente.

Non lo sapremo mai, perché da tempo sono finiti nel dimenticatoio. Giocano

dietro le quinte, dove non arrivano le luci dei riflettori dell’industria del

pallone. Sono la pagina sbiadita di un album di figurine. Quando ancora

potevano giocare ad alti livelli vivevano in una bolla, protetti dalla

miseria. Ricevevano stipendi e premi partita. Una volta appese le scarpe al

chiodo, la bolla è scoppiata.

“Andiamocene”, dice Boricua. Dopo cinquanta metri ricomincia a parlare. “Quei

ragazzi sono di quel tipo lì. Però mi conoscono. Per questo ci hanno lasciato

stare”.

“Di quale tipo?”.

“Delinquenti. Qui rubano tre cellulari al giorno”.

Ripenso ai veterani che giocano dentro lo stadio. E mi rendo conto che dopo

tutto, almeno su quel campo, sono ancora al sicuro. Più che santuari dedicati

al dio del calcio, gli stadi colombiani sono fortezze che proteggono chi sta

dentro. Anche se non lo sanno, quando giocano a pallone quegli uomini sono al

sicuro dai delinquenti che si aggirano nei dintorni. La cattiva notizia è che

prima o poi la partita finirà, e dovranno uscire allo scoperto. La città è qui

ad aspettarli, con tutta la sua inclemenza. In questo quartiere nessun pallone

può fare da scudo. Boricua respira profondamente. La strada del ritorno è

ancora lunga.

Rovistiamo nell’archivio di Zárate alla ricerca di una foto della nazionale

che ha partecipato ai Giochi panamericani di Cali del 1971. È la seconda volta

che controlliamo l’album dove conserva i ritagli di giornale, ma non riusciamo

a trovarla. In quella squadra Boricua giocava insieme all’attaccante Jaime

Morón, che sei anni fa ha dovuto affrontare anche lui le conseguenze del

diabete. Prima ha perso una gamba, poi l’altra. Poi è morto, a 55 anni, nella

sua città natale, Cartagena. Mi chiedo se ci sia un’altra nazionale di calcio

sulla faccia della terra in cui hanno giocato due calciatori che hanno finito

per essere amputati.

Una specie di felicità

Boricua non parla, continua a cercare tra i suoi ricordi. Poi mi guarda e mi

dice che il diabete gli ha sconvolto la vita. Chiude l’album dei ricordi ed

elenca le sue sventure sulla punta delle dita. Ha perso il lavoro (solleva il

mignolo), è dovuto tornare a Barranquilla (l’anulare), è stato costretto a

imparare a camminare per la seconda volta (il medio), ha “fatto il mantenuto”

in casa di sua sorella (l’indice). E soprattutto (il pollice, il dito più

grande) è diventato un malato cronico che passa la giornata a prendere

medicine. Quando non gli restano più dita per contare, stringe la mano in un

pugno, come se volesse spaccare qualcosa. Ma alla fine la appoggia

delicatamente sulla sua coscia destra. Poi, con la voce spezzata, mi dice che

la cosa più triste di tutte è sentirsi un peso per sua sorella e i suoi nipoti.

Se abbiamo affrontato questi argomenti riservati è soprattutto per

l’insistenza di Isabel. Non è giusto, dice, che suo fratello continui a

raccontare di quell’autogol di cui nessuno si ricorda più. Sempre la stessa

storia. Nessuno chiede dell’Anafrin, che costa più di settantamila pesos (30

euro). Nessuno parla dell’insulina che Boricua è costretto a iniettarsi ogni

giorno. Per aiutare uno sportivo che ha rappresentato la Colombia non basta

scattargli una foto o dargli una pacca sulla spalla. E nemmeno mandarlo a casa

con il ricavato di una partita di beneficenza in suo onore e poi

disinteressarsi dei suoi bisogni.

Boricua non incrocia il mio sguardo. Sfoglia meccanicamente le pagine del suo

album. Nella sala è calato un silenzio ingombrante. Isabel torna alla carica,

stavolta abbassando il tono della voce: “Quando giocava, José era pagato

pochissimo. Ha continuato ad andare in autobus agli allenamenti dello Junior

anche quando era titolare in nazionale. La mattina raccoglieva le monete e si

piazzava all’angolo dello stadio Moderno ad aspettare. Oggi qualsiasi signor

nessuno che ha appena cominciato la carriera e non è mai stato in nazionale

arriva all’allenamento con una macchina nuova di zecca”.

La nuova piega della conversazione risveglia l’interesse di Boricua. Mi

guarda, sorride. Mi racconta che alla fine degli anni settanta il Medellín

pagava poco (e tardi) i suoi giocatori creoli, mentre gli stranieri ricevevano

lo stipendio con puntualità e in dollari.

Boricua chiude l’album e lo poggia sul tavolo. Dice che non ha una foto con

Jaime Morón. Torna il silenzio. Prendo in mano l’album e trovo una sua foto

del 1975. Pur con la solita espressione accigliata, nel suo viso c’è una certa

soddisfazione. Una specie di felicità. Forse perché sta per cominciare la

partita. Forse perché si sente vivo, importante. Di sicuro, quando il

fotografo gli si è parato davanti, Boricua non ha sentito lo scatto della

macchina fotograica, coperto dalle grida del pubblico. Oggi, invece, il

silenzio è così profondo che il clic dell’otturatore si sentirebbe nitido e

forte. Se qualcuno gli scattasse una foto adesso, sprofondato in una sedia di

vimini, immortalerebbe un uomo dall’espressione assente e malinconica. Perché

questo è l’altro estremo del tunnel che un tempo lo portava sul campo da

gioco. Qui non si sente il ruggito della folla. Solo il peso della solitudine.

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QUEL PICCOLO MONDO ANTICO

CHE Cl RIPORTA BAMBINI

di ROBERTO BECCANTINI dalla rubrica il mitico Beck (GUERIN SPORTIVO | APRILE 2012)

ZOPPI PER NEVE

Non sarà facile dimenticare quello che (non) successe le notti del 31 gennaio

e primo febbraio 2012. E, soprattutto, come noi addetti commentammo i rinvii

per neve di Parma-Juve, Siena-Catania, Bologna-Fiorentina e Atalanta-Genoa.

Avete presente il vecchio juke-box? Sembrava di essere tornati bambini, cento

lire e vai con la Caterina (Caselli) di "Nessuno mi può giudicare", rivolto ai

dirigenti di Federazione e Lega, obsoleti come gli impianti. E poi, visto il

k.o. inflitto dalle temperature, "Bisogna saper perdere" dei Rokes. Scherzo,

ma non troppo. Sky e Mediaset hanno invocato le attenuanti generiche: noi

paghiamo, i calendari li fanno loro. Il solito disco. Poteva mancare l'appello

agli stadi di proprietà? No. È in classifica da almeno vent'anni, tallonato

dal cha-cha-cha di "Venti squadre sono troppe", che resiste persino al tango

di "Tolleranza zero". Morale della favola: l'inverno è freddo e l'estate calda,

la Serie A non fa una piega, il sindacato neppure e, dunque, i rischi tra

dicembre e febbraio rimangono alti. Lo stadio se l'è fatto solo la Juventus.

Gli altri ne parlano, se va bene, al ritmo de "Il ballo del mattone" di Rita

Pavone. Lentamente, guancia a guancia: come Petrucci e Lotito.

SONO UN POLPASTRELLO DI GALLIANI

Mi presento: sono un polpastrello di Adriano Galliani. Vidi la luce al buio di

Marsiglia, la notte del 20 marzo 1991, quando per telefono mi venne suggerito

di ritirare il Milan dal campo. Fu, quello, il primo cerino che mi bruciò la

cute, il primo di una lunga serie. L'Uefa ci squalificò, il polpastrello

superò lo choc e cominciò a familiarizzare con i fiammiferi. Quante volte ho

dovuto mentire, e quante fingere di non fingere. Insieme, io e la punta del

mio dito, abbiamo fatto carriera; siamo arrivati alla presidenza della Lega,

abbiamo evitato la retrocessione di Calciopoli grazie a un trapianto massiccio

di polpastrelli, quelli di Leonardo Meani, così eroici e stoici di farsi scudo

del mio «Spinga, spinga». Fino al caso Tevez-Pato. Era tutto fatto: Tevez al

Milan, Pato al Paris Saint-Germain. Improwisamente, mi si intimò di lasciar

perdere. Lo zolfanello mi esplose sul polpastrello, annerendolo. C'era di

mezzo la figlia del padrone, fidanzata con un suo dipendente (non io). Da

Tevez precipitai a Maxi Lopez. Mi aspettavo voti bassissimi. Il polpastrello

ricordava il numero della giornalaccio rosa. Lo digitò, tremante. Era la sera del 31

gennaio. Parlò con un polpastrello roseo. Trattai un 6,5. Il cerino arrossì e

si spense.

LA VISPA TERESA

Il 6 febbraio sono arrivate le motivazioni di Calciopoli (primo grado,

Napoli). Per la cronaca, e per la storia, 561 pagine. Lo stile della Triade,

diretta da Teresa Casoria, sembrava un copia e incolla di un brano di Walter

Veltroni: il campionato 2004-05 fu regolare, «anche se» qualcuno - Moggi,

soprattutto - cercò di condizionarlo; nessuna delle partite sotto inchiesta

risulta truccata, «anche se» per alcune di esse sussistono dubbi non lievi.

Luciano resta il capo del sistema, «anche se» le indagini della Procura sono

state troppo lacunose perché troppo orientate; i sorteggi erano materialmente

immacolati, «anche se» le grigliate e le cene Moggi-designatori ne minavano

moralmente la composizione; le sim straniere hanno costituito il piatto forte

dei verdetti, «anche se», tuona la difesa, non hanno prodotto niente di che;

sul piano civile, la Juventus esce indenne, «anche se» il potere «esorbitante»

del suo ex direttore generale ha sfigurato gli equilibri del calcio italiano;

come emerso dal dibattimento, le difese sono state ostacolate, «anche se», a

giudizio del collegio, non si può e non si deve parlare di processo ingiusto.

Ripeto, 561 pagine: «anche se» la Casoria aveva parlato dello scandalo come di

una buffonata.

DESTINO CINICO E CLAUDIO

Il destino di Claudio Ranieri è sempre il destino di qualcun altro. A Valencia,

preparò la pappa a Hector Cuper. Al Chelsea, ripulì la rosa in attesa di José

Mourinho. A Napoli, arrivò subito dopo la partenza di un certo Maradona. Alla

Juventus, venne inseguito dall'ombra di Marcello Lippi. Alla Roma, presa dopo

due sconfitte, non gli bastò fare più punti di Mourinho: lo scudetto andò

ali'Inter. E adesso che all'Inter c'è lui, Claudio il testaccino di anni 60,

ecco la notizia delle dimissioni inglesi di Fabio Capello. Proprio il manager

che Massimo Moratti, perso Leonardo, avrebbe voluto reclutare prima di

ripiegare su Gian Piero Gasperini. Gira e rigira, Ranieri citofona sempre un

attimo prima o un attimo dopo. La sua Juventus, spolpata da Calciopoli,

contava poco e pesava ancora meno. La sua Inter è vecchia, sbadata e spesso

sbandata. Ha raccolto sette successi consecutivi, ha vinto il derby, ha

rigenerato Diego Milito, ma al bivio della storia trova sempre indicazioni

spurie, cartelli ambigui. Nel dubbio, è raro che ci azzecchi o lo aiutino:

Eto'o? era qui un attimo fa. Ranieri è l'ultimo carro attrezzi di un calcio

tamponato. Lo chiamano, arriva, aggiusta, lo pagano. E poi lo cacciano.

ABBASSO LA LEGA

Il Belgio è stato senza governo per 540 giorni e non risulta che sia scomparso

dalle mappe. Mai una volta che simili "calamità" premino noi . Siamo proprio

sicuri che, se abolissimo la Lega, la Federazione non ce la farebbe a

organizzare i campionati (e gli gnomi di Singapore a taroccare comunque le

partite)? Abbiamo una classe di dirigenti senza classe. E, soprattutto, sempre

quelli. Carraro, ex di qualcosa fin dalla culla; Geppetto Petrucci e i suoi

Pinocchi della pace; Abete "incompetente" fino a nuovo ordine. La Lega, in

compenso, è un allegro bordello all'interno del quale cambiano i tenutari, mai

le abitudini. Non capita tutti i giorni di imbattersi in "un" Maurizio Beretta,

presidente dimissionario da mesi, in barba alle mozioni di sfiducia che

puntualmente la fronda gli dedica. Ed Enrico Preziosi? Candidato alla

vicepresidenza, e per fortuna trombato, nonostante una fedina sportiva e

penale da incubo. Era il cavallo di Claudio Lotito, il boss della Lazio in

lotta con Petrucci su tutti i fronti, e con qualsiasi pretesto. Galliani non

ha cambiato mantra («Ah, il fisco spagnolo»), Paolillo studia da Giraudo, gli

strilli di Cellino e Zamparini riportano alle gag dei Gaucci e dei Matarrese.

Ribadisco: e se abolissimo la Lega?

UN MONDO CHIUSO A CHIAVE

Inter zero Novara uno del 12 febbraio mi ha riportato all'epopea di "Tutto il

calcio minuto per minuto", ai tempi in cui il catenaccio non era il lupo

cattivo delle favole, a un'impresa corsara del Catania a Torino contro la

Juventus: zero a uno, gol di Milan. Con lodevole scrupolo, i Pigafetta di San

Siro hanno trascritto sul diario di bordo che l'Inter avrebbe avuto diritto a

un rigore (per la "rosea", addirittura due!). Visti i beneficiati, è l'uomo

che morde il cane. Emiliano Mondonico ci ha sorriso su, spiegando come l'abuso

di legittima difesa non esista; e quanto sia corretto parlare, nel suo caso,

di contro-calcio e non di anti-calcio. Un solo vezzo: ripartenza invece di

contropiede. Gli è scappata, ha strizzato l'occhio. Per uno che ha combattuto

e battuto il cancro, cosa volete che sia chiudersi in area e buttare via la

chiave. C'è il calcio-cappotto di Mondonico e il calcio-tanga di Zeman: liberi

di scegliere. L'importante è non tornare alle guerre di religione, al

talebanismo che isolò Arrigo Sacchi e moltiplicò i fusignanisti, quando

sarebbe stato meglio il contrario. Il Novara ha avuto fortuna, e allora? La

nebbia di Belgrado cosa fu? A volte, anche la nebbia può essere una botta di

muro.

FORT TALAMO

Postribolo di San Siro, la notte del 25 febbraio. A lenzuola di Milan-Juventus

ancora calde, e Galliani e Conte appena "rivestiti". Evidentemente, l'uno non

soddisfatto del servizio dell'altro, ed entrambi insoddisfatti delle

prestazioni della quaterna. «Non sapete che piangere». «Mafiosi». C'era una

volta la ditta Juve&Milan. In campo, botte; a cena, tartufi. Calciopoli ha

spaccato le sinergie, e così è diventata un'ordalia selvatica devastata dalle

topiche di Tagliavento e Romagnoli, uno degli assistenti. Il gol di Muntari,

il pugno di Mexes a Borriello, il gol di Matri: il meglio della classe

arbitrale in eurovisione. Povero Nicchi e povero Braschi, con 'sta storia che

i nostri sono i migliori eccetera eccetera. I nostri sono, e basta. Certo, i

tifosi adorano i dirigenti che fomentano i bassi istinti. Non uno che ammetta:

«Stavolta ho rubato io». Sempre e soltanto: «Anche stavolta mi hanno

derubato». Fuoco alle polveri, comunque. Contano tre-quattro società al

massimo; le rimanenti, altro non sono che atolli sui quali sperimentare gli

"ordigni" arbitrali a futura moviola.

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UN TIFOSO SPECIALE RACCONTA LE SENSAZIONI PROVATE NEL NUOVO STADIO DELLA JUVENTUS

Il nostro Mulino Bianconero

di MASSIMO VENIER (GUERIN SPORTIVO | APRILE 2012)

Milanese, classe 1967, regista e sceneggiatore per il cinema, autore per

la tv, juventino. Ha iniziato con la Gialappa's Band, con cui ha ideato e

scritto le prime sette edizioni di "Mai dire Gol". Nel '96 incontra Aldo

Giovanni e Giacomo. Con loro esordisce al cinema, scrivendo e dirigendo

"Tre uomini e una gamba" e "Chiedimi se sono felice". Nel 2006 inizia la

"carriera solista". Scrive e dirige i film "Mi fido di te", "Generazione

mille euro" e "Il giorno in più". Per la tv è tra gli autori di "Mai dire

domenica", "Buona la prima" e "Quelli che il calcio".

Settore 113, fila 17, posto 21. Questa è, per me, la formula della felicità.

Una domenica sì e una domenica no, io sono lì. Quello è il mio posto e lo sarà

per sempre. Non è una cosa da poco. E in più è tutto mio, non si discute. Che

sulla mia seggiola ci appoggi il ċulo uno del Toro è una cosa che non

succederà mai più. Mai più, capite? Potete immaginare qualcosa di più bello? È

a questo che pensavo la prima volta che sono entrato in quella meraviglia che

è il nuovo stadio della Juventus e che sarebbe davvero ora di cominciare a

chiamare col suo vero nome, quello che noi tutti sappiamo essere l'unico nome

possibile. Stadio Gaetano Scirea.

Insomma, lo avrete capito, con lo stadio e con la Juve ho un rapporto sano ed

equilibrato, gli do il giusto peso, diciamo. Sarà forse per questo che il

Direttore mi ha chiamato e mi ha chiesto se avessi voglia di scriverci sopra

un breve articolo. «Più precisamente» aggiunge, «vorrei un pezzo in cui

spieghi perché grazie al nuovo stadio la Juve potrà vincere lo scudetto».

Appena nomina quella parola, passano sì e no dieci, quindici centesimi di

secondo, e mi tocco le palle. Più veloce non sono riuscito e chiedo scusa a

tutti per questo. E anche adesso, lo giuro, scrivo queste scarne righe al

computer con una mano sola.

«Allora, com'è il nuovo stadio?». È una domanda, questa, che mi hanno fatto

spesso.

Beh, si potrebbe cominciare col raccontare quello che si prova entrando,

quando all'improvviso ti ritrovi davanti un muro, un'immensa parete bianca e

nera. Sono i tifosi della tua squadra, compatti, potenti, verticali.

Impressionanti.

E poi il rumore. Un rombo possente, costante, che vibra fin sotto i piedi e si

capisce che non vede l'ora di esplodere.

Oppure si potrebbe parlare dei posti, così vicini al campo che io sono

praticamente sicuro che quando Boateng ha attaccato Pirlo alle spalle, e io ho

sussurrato «Andrea, occhio dietro!», lui mi ha sentito, ha evitato con una

finta l'avversario, e poi l'ha messa in mezzo per il gol dell'1-0 che, quindi,

per un buon 40%, è merito mio.

Ma la verità è che appena mi sono seduto al mio posto, in questo stadio che

trasuda futuro, quello che mi è venuto in mente, invece, è stato il passato.

Avete presente quel capolavoro di film che è Ratatouille? Quando il critico

gastronomico assaggia il primo boccone e d'un tratto, come per magia, rivive

istante per istante tutti i momenti più belli che lo hanno portato fino a lì?

Una scena bellissima, da brividi. Ecco, a me è successa più o meno la stessa

cosa. È il calcio che, chissà perché, mi fa sempre questo effetto: un

intreccio misterioso di passato presente e futuro che si mischiano in un modo

che non so spiegare e che, confusamente ma senza alcun dubbio, sento che ha a

che fare con l'infanzia e con il domani. Dev'essere per questo, credo, che mi

piace così tanto.

Ho iniziato ad andare allo stadio da bambino, con mio papà. Il Comunale me lo

ricordo in bianco e nero, come nei sogni. Da casa nostra ci si metteva una

vita; per trovare un posto decente dovevi entrare tre ore e mezzo prima; si

vedeva male; si stava sempre in piedi, tutti schiacciati. Ed era meraviglioso.

Zoff, Gentile, Cabrini. Non penso ci sia da aggiungere altro.

L'unica cosa più bella dell'essere lì, stritolato in mezzo a tutta quella

gente nel bel mezzo degli anni Settanta, era il giorno prima della partita,

quando mio padre mi diceva «domani andiamo a vedere la Juve, ti va?». E lì

iniziava l'attesa.

Poi è arrivato il Delle Alpi. Scomodo, gelido, costoso. Enorme. Vuoto. Se un

architetto un po' didascalico avesse voluto raccontare con uno stadio il

declino di una nazione e l'ottusità di un'epoca, il Delle Alpi sarebbe stato

il suo capolavoro.

Restano comunque, anche lì, istantanee da non dimenticare. In quasi tutte,

sullo sfondo, c'è Moratti che rosica.

Poi siamo andati in B. Ogni juventino sa che la cosa più dura, in quei giorni,

era riuscire a trovare una risposta a quell'ingiustizia. La mia è stata

correre a fare l'abbonamento.

Di nuovo al Comunale, si ricomincia da capo. Il Crotone, il Frosinone,

l'Arezzo. Poi la A: da comprimari, però. Ranieri, Del Neri, Felipe Melo.

Momenti non bellissimi, ecco.

Ricordo una sera, in particolare: nel palazzetto di fianco all'Olimpico c'era

un concerto di Gigi D'Alessio. Gigi D'Alessio, non i Rolling Stones. Beh,

c'era più gente lì che allo stadio. Noi le stavamo prendendo dall'Udinese, mi

pare. C'era talmente tanto silenzio che si sentivano i fans di "Giggi" che

tenevano il ritmo e cantavano in coro "Non dirgli mai di com'è stato bello

quella volta al mare". Per dire.

C'era di che abbattersi e mollare, e infatti in tanti se ne sono andati. Ma

qualcuno è rimasto.

E tra questi c'ero anch'io, seduto lì, tutte le domeniche, a prenderle dal

Parma, dal Catania, da chiunque. Il motivo per cui restavo lì, è perché avevo

fiducia. Avere fiducia, in quel momento, mi sembrava l'unica cosa che potessi

fare, il mio modo di contribuire. La fiducia che prima o poi saremmo tornati

quelli di prima; la fiducia che prima o poi avrei realizzato il sogno di

portare allo stadio mio figlio. La fiducia che tenere duro per cinque anni e

fare una lunga coda all'alba per poter scegliere i posti più belli del mondo

nello stadio più bello del mondo, valesse la pena e la fatica. Ne avevo così

tanta, di fiducia, che di abbonamenti, l'anno della B, ne avevo fatti due,

anche se un figlio non ce l'avevo ancora.

È tutto questo che, alla fine, mi ha portato qui, al mio posto numero 21.

E in tutta sincerità, caro direttore, io non lo so quando vinceremo il nostro

trentesimo scudetto. Non so se sarà quest'anno, o il prossimo, o quello dopo

ancora. Quello che so è che Alessandro, che nel frattempo è arrivato e adesso

ha due anni e già canta l'inno a squarciagola, lo festeggerà saltando come un

matto sulla sua seggiola nel settore 113, fila 17, posto 22. Che è il suo

posto e lo sarà per sempre.

Modificato da Ghost Dog

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18:42 11 MAR 2012

(AGI) Roma - Con le bocche cucite per il silenzio stampa imposto dopo lo 0-0 con il Genoa, la Juventus affida a Twitter la sua posizione ufficiale: "La Juventus lascera' lo stadio Marassi senza rilasciare dichiarazioni: le immagini parlano da sole", e' il post bianconero scritto anche in inglese. Dunque, polemica con alcune decisioni dell'arbitro Rizzoli, in primis l'annullamento del gol di Pepe nella ripresa per un fuorigioco che le immagini sembrano aver chiarito inesistente, anche se per questioni di millimetri. .

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Juventus

Proteste con l'arbitro

scatta il silenzio stampa

Bocche cucite in casa bianconera dopo il pari con il Genoa. Nel mirino la rete annullata a Pepe e un presunto rigore su Matri. Il comunicato arriva su Twitter: "Guardate le immagini e capirete"

di MASSIMO MAZZITELLI -repubblica.it -11-03-2012

Antonio Conte in tribuna al Ferraris La Juventus decide di non parlare dopo il pareggio di Genova. Silenzio stampa impone la società a tecnico e giocatori: "Guardatevi le immagini e capirete". Il comunicato ufficiale arriva su Twitter. Comprensibile la rabbia della squadra bianconera nella domenica che vede il Milan allungare in classifica e per la prima volta in questo campionato vede il sogno scudetto che comincia a sfumare. Incomprensibile il comportamento della società.

Le immagini della partita le abbiamo viste e riviste ma sinceramente non abbiamo capito il perché del silenzio stampa. Qual è l'episodio che ha scatenato la reazione della Juventus? Il gol annullato a Pepe? Neanche la moviola, analizzata da più posizioni, ha dato una risposta certa, la certezza che Pepe non fosse in fuorigioco. Ma lo stesso dubbio rimane per il fallo di Pirlo al 93': lo juventino interviene in scivolata su Rossi all'interno dell'area, i genoani protestano perché il fallo da rigore appare evidente. L'arbitro non interviene e la moviola lascia aperti i dubbi. Pirlo tocca il pallone ma anche le gambe del genoano. I dubbi restano e l'episodio pareggia sicuramente, nelle proteste e nei dubbi, quello del gol annullato a Pepe. Per restare sull'invito dei dirigenti juventini abbiamo rivisto le immagini su un presunto fallo in area su Matri ma la moviola dimostra come sia stato il centravanti juventino a fare prima fallo sul difensore tenendolo per la maglietta.

Le uniche certezze che abbiamo avuto dalle immagini e che il problema della Juventus non sono gli arbitri o i complotti, ma la grande difficoltà a fare gol. Tanta sfortuna perché tre pali hanno fermato la squadra bianconera, ma anche errori gravi come quello di Pepe che non è riuscito a segnare solo a due metri da Frey. Forse è più grave questo dei presunti errori di Rizzoli.

L'impressione è che la società bianconera, dopo la partita con il Parma, le polemiche di Conte e Agnelli e poi tutte quello che è successo dopo il gol fantasma di Milan-Juventus, cominci a soffrire di sindrome di accerchiamento e cerchi nei presunti torti arbitrali alibi ad un evidente calo di forma rispetto alla prima parte della stagione. Sarebbe un peccato, perché forma e gol si possono anche ritrovare ma i fantasmi sono difficili da allontanare.

(11 marzo 2012)

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Maradona cerca un accordo col Fisco

L'Agenzia delle Entrate: "Deve pagare"

L'ex calciatore vorrebbe tornare a Napoli ma deve almeno 40 milioni di euro per tasse evase in passato. Cerca la mediazione, ma chi deve riscuotere non ne vuole sapere...

19:54 - Il Fisco è spietato con tutti, non fa differenze. Nemmeno se sei Diego Armando Maradona. E a distanza di anni pretende il dovuto da tutti coloro che hanno pendenze aperte. El Pibe de Oro è in debito con l'Agenzia delle Entrate di circa 40 milioni di euro, per imposte evase durante il suo periodo di permanenza a Napoli. E nonostante Maradona spinga per ottenere un incontro risolutorio, la risposta del Fisco è sempre la stessa: "No, nessun incontro. Soprattutto per chi ha più volte tentato di dribblare il pagamento".

Si torna a parlare della maxi-evasione di Maradona, ma stavolta non c'entrano le operazioni del governo Monti. Il caso è ritornato di attualità per via di una notizia data dal quotidiano napoletano "Il Mattino". In quell'articolo il giornalista ha annunciato, senza troppi giri di parole: "Diego tornerà presto in Italia". Infatti El Pibe de Oro vorrebbe, sia perchè augura al Napoli la vittoria della Champions League e vorrebbe, quindi, poter tornare per festeggiare, e sia perchè vorrebbe creare una fondazione non profit per aiutare i ragazzini di Scampia, ai quali Diego ha mandato un saluto, facendo riaffiorare le speranze dei tifosi che da tempo aspettano il suo ritorno in Italia: "Ciao bimbi, sono Diego, mando abbraccio a tutti voi e a tutta Scampia. Ci vedremo presto. Grazie per l'amore, e per il rispetto. Ci vedremo, spero presto".

Tutto questo potrebbe essere fattibile solamente senza la morsa dell'Agenzia delle Entrate. Maradona, infatti, da quando è indagato per evasione fiscale, non ha mai più messo piede in territorio italiano per paura di essere arrestato non appena sceso dall'aereo. Pochi giorni fa ha provato a richiedere, tramite il suo avvocato Angelo Pisani, un altro incontro con Attilio Befera per discutere della sua sitazione.

Il campione argentino ha dichiarato di non poterne più delle pressioni, che sono ormai 20 anni che gli viene impedito il rientro in un paese che considera come casa sua: "Non sono mai stato condannato dalla Cassazione e voglio chiarire per trovare una pace finale con il Fisco e con tutta l'Italia mettendo fine a tanti equivoci e ingiustizie fatte contro di me. Mi hanno fatto perdere 20 anni di vita."

Diego Armando Maradona non si considera un evasore, e insiste nella sua difesa: "Io non sono mai stato un evasore fiscale. Ho sempre pagato tutte le tasse che conoscevo. Come dice anche la sentenza del tribunale italiano del 1994 presentata dal mio avvocato Angelo Pisani ai nuovi giudici. La sentenza dice che io ho ragione e che non ho debiti". E lancia anche una critica all'amministrazione italiana: "E' giusto pagare le tasse, ma il fisco deve essere più umano con i cittadini".

El Pibe de Oro, probabilmente, si riferisce alle multe comminate da Equitalia. Infatti, inizialmente il suo debito ammontava a circa 13 milioni di euro per imposte mai riscosse dal fisco. Durante la sua lontananza forzata dall'Italia la cifra è cresciuta vertiginosamente, al ritmo di 3000 euro al giorno, arrivando a toccare i 40 milioni. Tre volte la cifra dovuta. Ed è per questo che Maradona vorrebbe incontrare Befera e discutere della sua posizione. Ma gli è andata male anche questa volta. Il fisco ha negato l'incontro. Senza possibilità di appello.

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Quanto guadagna un arbitro di A? Anche 200mila euro a stagione

Marco Bellinazzo - blog Calcio & business - Sole 24 ore - 9-03-2012

Ma quanto guadagnano gli arbitri? Difficile, molto difficile ricostruirlo con esattezza, se non si è un verificatore dell'agenzia delle Entrate. Però qualche stima informale si puo' provare a farla. Facendo qualche domanda agli addetti ai lavori si ottiene, infatti, qualche informazione interessante sulle cifre.

Un arbitro di alto livello (parliamo almeno di un fischietto di serie A) prende circa 3000 euro (pare netti) al mese come rimborso per gli allenamenti. A questo bonus per tenersi in forma va aggiunto un gettone dai 3000 ai 5000 euro a partita (qui parliamo soprattutto di serie A). La somma dipende dal numero di partite e dalla distanza del match dalla residenza dell'arbitro. Per un Milan-Juve e in genere per le partite di cartello la posta è piena. Per gli arbitri internazionali i match valgono non meno di 10.000 euro. Dunque, facendo due conti della serva, per un arbitro di fascia alta, una stagione può valere oltre 100mila euro (36mila euro per gli allenamenti, più 80mila per almeno una ventina di gare arbitrate). Molto? Poco? Comunque la si pensi, le giacchette nere hanno un ruolo fondamentale nel mondo della calcio e la serie A fattura oltre 1,5 miliardi all'anno. Il costo del servizio arbitrale, contando una quarantina di fischietti e una media di compensi/rimborsi spese di 100/120mila euro, si aggirerebbe complessivamente sui 4-5 milioni a stagione. Lo 0,5 per cento dei ricavi della massima serie.

Nell'insieme, non una quota esorbitante.

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Modificato da huskylover

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Il commento Negli anni di Moggi, molti episodi contrari alla Juve sarebbero andati in altra direzione

Nessun complotto, ma ora pesa il passato

di MARIO SCONCERTI (CorSera 12-03-2012)

Due reti al Lecce con il gol numero 19 di Ibrahimovic: il Milan va in fuga e

si porta avanti di 4 punti sulla Juventus nella corsa allo scudetto di Serie

A. I bianconeri, furiosi per un gol negato e un nuovo pareggio, si chiudono in

silenzio stampa. Tifosi in rivolta.

Non credo agli arbitri disonesti. La storia qua e là mi dà torto, ma sono

episodi che capitano in tutte le professioni, non fanno regola. Credo nella

differenza di valutazione, nel peso diverso dei giudizi, in quella che si è

sempre stata chiamata sudditanza psicologica, la disonestà piccola a cui

ognuno ha diritto. Fatti tutti i preamboli, che cosa sta succedendo alla Juve

o nei confronti della Juve? Non c'è un complotto, ma qualcosa c'è. Negli anni

di Moggi molti episodi di questa stagione sarebbero andati in altra direzione.

Perché così ci si sarebbe aspettato. Questo è il punto oggi. La Juve ha una

dirigenza simile a quella, una forza economica anche superiore e la stessa

vastità di popolo, ma le cose non accadono. Questo porta il popolo della Juve

a giudicare con il metro di sei anni fa, ma non gli arbitri. È vero quello che

pensa la Juve, c'è molta delicatezza nel maneggiare le decisioni che la

riguardano, ma viene dal troppo maneggio precedente.

Il calcio, tutto il calcio, ha vissuto l'epoca Moggi come un'ingiustizia come

quella che la Juve pensa di vivere oggi. Oggi è vero che si è più realisti del

re. La Juve è una materia calda, scabrosa, ora tocca a lei accettare le

decisioni come fatali e tocca agli arbitri giudicare la Juve come chiunque. Il

calcio ha una sua logica, gli errori di cui si lamenta la Juve sono gli errori

di cui si lamentano gli altri. Di diverso c'è solo la forza della propaganda,

i rigori di cento società passano sotto silenzio. Volete un esempio? Si dice

il calcio perde ogni anno 250 milioni. Non è vero, il novanta per cento di

quella cifra la perdono da soli Inter, Milan e Juve. Otto società sono in

attivo, due sono a zero, le altre si scambiano attivi e passivi. Ma il

«calcio», il totale, il complessivo, è sempre dove sta la massa critica, dove

stanno i clienti. Il nostro problema sono in sostanza Inter, Juve e Milan, le

società più grandi. Risulta a qualcuno? E soprattutto, qualcuno vorrebbe che

cambiasse la storia? Questo è quello che intendo per propaganda, per forza di

comunicazione. Questo rende diversi gli errori degli arbitri, la loro

risonanza.

La Juve sta gridando al calcio che ha recuperato la sua forza, pretende che

il calcio questo lo capisca. Non chiede giustizia, quale giustizia? Quella del

Catania, del Bologna o del Novara? Davvero pensa che ci guadagnerebbe? Chiede

comprensione liberale, la giustizia dell'uomo e del denaro. Nel mezzo c'è

un'Italia livorosa che cerca di tenerla lontano dalla mensa. Sento anch'io una

certa mancanza di rispetto, una facilità di giudizio e di parole che in altri

tempi nessuno si sarebbe permesso. Questo è il punto di discordanza: la Juve

deve recuperare non l'antica arroganza, ma la vecchia universalità. Oggi

governa come fosse all'opposizione, il branco non le riconosce cultura di

potere. Colpa del branco, colpa anche della Juve.

___

Retroscena, il silenzio lo ha deciso Conte

Errori arbitrali sicuramente

ma anche motivi tecnici

E lo scudetto si allontana

di ROBERTO PERRONE (CorSera 12-03-2012)

GENOVA — C'è un solo uomo al comando. Il suo nome è Antonio Conte. È

l'allenatore squalificato (e arrabbiato per la giornata in tribuna e per

quello che vede in campo) a decidere il silenzio che la Juve usa come una

clava. Oscuramento totale. Neanche i fratelli di Juventus Channel ottengono

una parola. La nota ufficiale alle 17. 32 su Twitter: «La Juventus lascerà

Marassi senza rilasciare dichiarazioni: le immagini parlano da sole». Sotto

accusa, soprattutto, c'è il gol di Pepe, annullato per una faccenda di cm.

Contro il Chievo, De Ceglie aveva segnato in fuorigioco: il guardalinee aveva

aderito al principio «nel dubbio non alzate». Questo alza. Sbagliano entrambi.

In una settimana, la ruota gira da una parte all'altra. Ma la Juve su questo

tace, aprendo il cahier de doleance fin dalla prima giornata (contro il

Parma). Malgrado il 4-1, cominciò la battaglia di Conte per «le pari

opportunità». La Juve ha avuto finora un solo rigore. Ne meritava di più: con

l'Inter (Castellazzi su Marchisio, gigantesco), con il Lecce (Oddo su Vucinic)

, con il Parma ancora (Biabiany su Giaccherini). E poi il mani di Vergassola

con il Siena. Ovviamente da parte bianconera si glissa sul «braccione» di

Pirlo con il Cagliari e si sorvola sul gol per non vedenti di Muntari. Madama

pare rifiutare la logica (parafrasata) del profeta Giobbe: l'arbitro ha dato,

l'arbitro ha tolto, alla fine si pareggia tutto (e i bianconeri di pareggi

dovrebbero intendersene). In realtà, da Conte in giù tutti alla Juve sanno

benissimo che lo scudetto (impensabile in agosto, comunque bravi a essere

ancora in lizza) si sta allontanando per ragioni tecniche. La battaglia contro

gli arbitri è per il «rispetto» e a memoria futura. È politica. Al di là delle

singole decisioni, è l'atteggiamento degli arbitri a non piacere alla Juve. Un

misto di arroganza e scarsa considerazione. Domani sapremo se il silenzio

continua. C'è anche l'ipotesi che prosegua Conte da solo.

___

Fischio finale di PAOLO CASARIN (CorSera 12-03-2012)

La confusione tecnica colpisce anche Rizzoli

Nicola Rizzoli è l'arbitro italiano più titolato e, giustamente, parteciperà

al prossimo campionato d'Europa. Ha talento e vasta esperienza; malgrado ciò è

uscito dallo stadio, dopo Genoa-Juventus, tra le recriminazioni e i dubbi di

entrambe le squadre. Tante polemiche perché in questa gara sono accaduti molti

episodi in area per trattenute, entrate sulla palla e sull'uomo, falli di

mano. Anche l'uso dei cartellini è stato impreciso e perfino il buon

assistente Cariolato ha preso una decisione, annullamento del gol di Pepe per

fuorigioco, molto discutibile.

Rizzoli si aggiunge, pertanto, alle polemiche che avevano accompagnato alcune

gare di Rocchi e Tagliavento, gli altri due arbitri di vertice. Potremmo dire

che la confusione tecnica ha colpito i più forti fischietti, che dirigono le

gare più difficili: a questo punto del campionato, dopo tante raccomandazioni

per ottenere arbitraggi buonisti e/o leggeri, è difficile ritornare subito sui

binari della regola. Rizzoli ha lasciato correre una evidente trattenuta di

Carvalho su Matri: è vero che Matri aveva inizialmente strattonato Carvalho,

ma è altrettanto certo che Carvalho ha placcato, subito dopo, il bianconero.

Se non fischi il primo contatto non è detto che devi sorvolare su tutto il

resto. Dopo questa scelta, ad inizio gara, tutti gli altri avvenimenti in area,

più difficili da giudicare, sono stati considerati accettabili. Carenza anche

nei falli e nelle ammonizioni, vedi De Ceglie meritevole del secondo giallo.

Damato, in Cesena-Siena, ha deciso correttamente quando ha visto, in area,

Ceccarelli sfiorare il pallone ma poi falciare Calaiò sul seguito dell'azione:

rigore ed espulsione del difensore cesenate. A confermare le incertezze che

hanno coinvolto, in questo periodo, anche gli assistenti, grossolano il

fuorigioco di Brienza sulla ribattuta del rigore battuto da Terzi e

inizialmente parato da Antonioli. Molto bravo il giovane Guida in

Lazio-Bologna: ha mostrato una perfetta applicazione delle regole di gioco e

della disciplina. Espulso Matuzalem per aver colpito Diamanti con una violenta

manata al viso e altrettanto corretta l'espulsione del laziale Gonzalez per

fallo su Ramirez diretto verso il gol. In Novara-Udinese, Peruzzo ha diretto

con poca attenzione: in particolare annullato un gol di Danilo per fuorigioco

inesistente.

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La storia Resta alta la tensione tra il governo del Paese organizzatore e l’istituzione calcistica, avviata un’azione diplomatica

Brasile, un Mondiale che mette fifa alla Fifa

Gli stadi sono a buon punto, Blatter preoccupato per alberghi e voli aerei

di ROCCO COTRONEO (CorSera 12-03-2012)

RIO DE JANEIRO — Non si amano il Brasile e la Fifa, non si amano da tempo.

Troppi potentati che profumano di eternità, da una parte Ricardo Teixeira, che

regna sul futbol brasiliano da decenni, e dall'altra Joseph Blatter e i suoi

uomini. Troppa distanza culturale, tra un'entità che ha sede nella rigorosa

Svizzera e un sistema calcio che vive in buona parte nel secolo scorso. E in

più, negli ultimi anni, un governo gonfio di orgoglio nazionalistico, iper

reattivo su ogni richiamo che arriva dall'estero. Il problema è che adesso c'è

in ballo il Mondiale 2014, e mentre le lancette girano veloci i rapporti non

fanno che peggiorare. La Fifa teme una catastrofe organizzativa, il Brasile

risponde che non è vero, tutto procede. Volano parole grosse, letteracce,

cancellazione di incontri. Blatter ha dovuto chiedere scusa al governo di

Dilma Rousseff per una frase pronunciata dieci giorni fa dal suo braccio

destro Jerome Valcke: «Il Brasile ha bisogno di un bel calcio nel sedere, a

questo punto», si è lasciato scappare il segretario generale della Fifa. Poi

ha tentato di prendersela con l'interprete, come si fa in questi casi, dicendo

che voleva dire altro, qualcosa come «ha bisogno di una scossa». Ma ormai il

guaio era fatto. Il Brasile ha immediatamente dichiarato Valcke persona non

grata, chiedendo alla Fifa di sostituirlo come interlocutore (il dirigente

Fifa segue i lavori con regolarità, venendo in Brasile ogni 2-3 mesi).

Le scuse, dicevamo, sono poi arrivate, ma il Brasile ha deciso di tenere un

po' a mollo la Fifa. Prima di riallacciare i rapporti, Blatter dovrà venire in

pellegrinaggio dalla presidente Rousseff, ma la signora ha molti impegni e non

si sa quando avverrà l'incontro. Poi, forse, Valcke potrà tornare alle sue

missioni di controllo.

Su chi abbia ragione nella diatriba è difficile dire. La Fifa ammette che i

lavori negli stadi sono a buon punto (per il Brasile alcuni sono addirittura

in anticipo sul cronogramma, come il Maracanã), ma sul resto è terrorizzata e

non si fa una ragione che il Parlamento non abbia ancora approvato la legge

quadro sulla competizione. «Non è mai successa una cosa del genere, a poco più

di due anni dal calcio di inizio», ha lamentato Valcke. In un incontro a Rio,

qualche settimana fa, disse al Corriere: «Lo so che gli stadi saranno pronti e

pure bellissimi, vorrei capire come faranno a far spostare migliaia di persone

in poche ore tra una città e l'altra, tra la prima e la seconda fase». Si

riferisce ad alberghi, aerei, logistica in generale, tutto ciò che dipende dai

risultati sul campo delle diverse nazionali. La legge quadro può sembrare

appena un passaggio burocratico, ma definisce questioni delicate. Quando un

Paese accetta l'organizzazione di una Coppa del mondo si sottopone a una

raffica di condizioni della Fifa che sfiorano la perdita di sovranità, negli

stadi e attorno ad essi. I deputati brasiliani hanno finora fatto muro su

molte esigenze. Volevano i biglietti a metà prezzo per ragazzi e anziani, la

proibizione di vendere birra, la non responsabilità su alcuni episodi e altro

ancora. Sostenendo che le leggi federali vengono prima di tutto. A Brasilia,

durante la discussione, c'è chi ha tentato di infilare proposte bizzarre, come

l'accesso scontato alle partite a chi consegna un'arma illegale. Alla quale il

solito Valcke ha replicato: «Non credo di aver abbastanza biglietti per tutte

le pistole che circolano in Brasile...».

C'è chi intravvede dietro a molte questioni uno scontro di potere nell'alta

burocrazia del calcio mondiale. Colpito dagli scandali interni, il brasiliano

Teixeira, che è pure presidente del comitato organizzatore, è da qualche

giorno in licenza malattia. Blatter lo teme come concorrente per la poltrona

più alta della Fifa, che già venne occupata dal suocero di Teixeira, l'altro

eterno boss del calcio João Havelange. L'unico punto sul quale sono tutti

d'accordo è che, qualunque cosa accada, a Copa non potrà essere tolta al

Brasile. In teoria la Fifa ha tempo fino a giugno di quest'anno per spostare

la sede, ma il giornale Folha de São Paulo ha seppellito l'ipotesi con un suo

studio: ci sono già 921 contratti firmati tra sponsor, diritti tv, hotel,

linee aeree. Cancellarli e ricominciare da zero da un'altra parte è

praticamente impossibile.

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L´inchiesta

Tutti al Grand Hotel Scommesse

camere con vista sulle combine

In un albergo milanese puntate da 30 mila euro in su

di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 12-03-2012)

Lo chiamano "Hotel scommesse". È in corso Como, a Milano. È frequentato da

calciatori, ex campioni appesantiti, scommettitori accaniti, spesso

malavitosi. Là dentro si decidono partite del campionato italiano. Si giocano

scommesse, pagamento solo in contanti. E quasi sempre si vince. La storia,

raccontata in molte pagine degli atti della procura di Cremona, è oggetto in

queste settimane di ulteriori riscontri. Uno, arriva da Hrystiyan Ilievski, lo

scommettitore macedone secondo la procura di Cremona a capo

dell´organizzazione degli Zingari. Ilievski la racconta come una delle prove

per smontare o comunque ridimensionare le accuse mosse dalla magistratura

italiana nei suoi confronti: non esiste nessuna banda di Zingari, è la sua

tesi, che trucca il campionato italiano. Ma attorno alla serie A e alla B

girano da anni gruppi di scommettitori che comprano informazioni dai

calciatori che sistemano le partite per semplici ragioni sportive o perché

corrotti, ma da gruppi malavitosi. «Mafia, italiana o albanese» ripete

Ilievski. «Non certo noi».

Poi lo slavo aggiunge: «Indagano su di me o Gegic, ma perché non cercano di

capire chi è che ogni domenica va in questo albergo?». Questo signore a quanto

pare si chiama Salvatore. Forse è siciliano, forse calabrese. Ha circa 65

anni. «Di lui so soltanto che ha una serie di cellulari, fa un paio di

telefonate, apre un computer e poco prima del calcio di inizio dice se la

partita si può giocare oppure no. Se sì, si scommette. Altrimenti si va tutti

a casa». Si accettano soltanto somme in contanti, e soprattutto si può

scommettere soltanto cifre molto alte. Da trentamila in su. Una volta -

racconta Ilievski - Bellavista e Bressan (due dei calciatori arrestati

nell´operazione Last Bet) si presentarono con assegni, provarono ad

arrabattare due parole ma Salvatore li rimandò indietro con qualcosa di più di

un sorriso. «In Italia giocano tutti, ci sono gruppi organizzati. È

incredibile che vengano a dire a noi, macedoni, di essere in grado di truccare

le partite. È assurdo».

Ilievski torna pure sulla combine di Lazio-Genoa e chiarisce. «La storia di

Sculli io l´ho solo sentita dire. Non so niente di più, né tantomeno conosco

il giocatore. Di certo la vicenda di Zamperini e Mauri è completamente

inventata: l´1-1 al primo tempo l´hanno fatto gli altri, non certo noi! Andate

a vedere quanta gente nella regione Lazio ha giocato su quel risultato». Tanti,

troppi, confermano le agenzie di bookmakers. Tanti altri gli esempi: nel

veronese leader del gioco sarebbero il gruppo dei fratelli Cossato (indagati

nelle inchieste). Loro avrebbero gestito una delle partite emblema di questa

inchiesta sul calcio scommesse, il 3-3 tra Albinoleffe e Piacenza del dicembre

2010 che costrinse le agenzie a bloccare le puntate. Napoli era invece una

sorta di territorio inavvicinabile per gli scommettitori: la storia di

Napoli-Parma dell´aprile del 2010 con i Lo Russo a bordo campo è solo una,

così come è un dato ormai acquisito che i bookmakers di Singapore consentivano

il pagamento delle scommesse anche in Campania. Qualcosa di strano avviene in

Brescia-Lecce 2-2 del febbraio 2011: giocano tutti sull´over, gli slavi

intercettano l´informazione solo alla fine tanto che riescono a scommettere

solo qualche migliaio di euro.

Un altro personaggio chiave sarebbe Ivan Tisci. Ex calciatore, grande

scommettitore e anche lui ospite dell´Hotel Scommesse, è il trait d´union tra

il gruppo di Erodiani, Bellavista, Pirani e appunto gli Zingari (come

dimostrano centinaia di intercettazioni che gli uomini dello Sco e della

squadra Mobile di Cremona stanno rianalizzando alla luce delle novità delle

inchieste). È Tisci che tira gli slavi nel mercato italiano. Scoprendo poi

quasi per caso una "vecchia" conoscenza: Armin Gecic, il calciatore

considerato dagli investigatori con Ilievski capo del gruppo, era stato suo

compagno nel Vicenza di Reja.

___

Il retroscena

La farsa per Genoa-Lecce

un sosia al posto di Corvia

di GIULIANO FOSCHINI & MARCO MENSURATI (la Repubblica 12-03-2012)

La partita è di Serie A, Genoa-Lecce, ma la storia sembra scritta dai fratelli

Vanzina. Gli Zingari hanno appena preso il pacco da Marco Paoloni, il portiere

della Cremonese, su Lecce-Inter: doveva essere un over, invece la partita era

terminata con uno striminzito 1-0. Gli slavi, come i bolognesi di Signori

avevano perso decine di migliaia di euro per colpa della soffiata sbagliata.

Paoloni spaventato dalle possibili ritorsioni offre subito una ricompensa:

Genoa-Lecce, appunto. Hristiyan Ilievski, quello che diventerà "lo Zingaro"

nelle carte dell´inchiesta, non si fida e chiede di incontrare i giocatori che

secondo Paoloni facevano parte della combine di persona. A organizzare

l´incontro è Massimo Erodiani, il tabaccaio abruzzese che faceva parte della

cricca (e con la cricca verrà arrestato nella prima retata, nel giugno scorso).

L´appuntamento è in un autogrill all´altezza di Ascoli. Un luogo particolare,

pensa sospettoso Ilievski: i giocatori - prova a spiegare Erodiani - hanno

deciso di andare a Genova, da Lecce, in macchina... In ogni caso il macedone

arriva all´appuntamento in autogrill. C´è Erodiani. E con lui si presentano

tre ragazzi: hanno una tuta, una specie di cappuccio, dicono di essere Corvia,

Brivio e Vives. Ilievski li guarda, storce il naso, non si convince. Fissa

bene quelle tre figure, vestite da calciatori, in tuta Nike e con i berretti

alla moda. Parla poco e torna in auto, prende il telefono, va su Internet,

controlla le foto e ha la conferma al sospetto: i tre erano sosia, altro che

Corvia, Brivio e Vives. Chiama Erodiani, strilla e dice che non si fa niente.

I 200mila euro previsti dall´accordo svaniscono nel nulla. Quello balbetta che

no, sbaglia, i giocatori erano davvero loro. Ilievski fa finta di crederci. E

offre a Erodiani una seconda possibilità: «Fammi parlare su Skype con Corvia

in webcam» gli dice. Il tabaccaio contatta Paoloni che diceva di avere il

contatto con Corvia, l´attaccante del Lecce. La videochiamata avviene il

giorno dopo. Il resoconto della farsa è nelle parole davanti al magistrato

dello stesso Erodiani. «Mi disse Paoloni che Corvia non aveva la webcam, e

allora il Paoloni si è fatto dare da Corvia le sue password e ha simulato una

videochiamata spacciandosi per Corvia». Comincia la chiamata e c´è da ridere.

«Arriva questo e dice di essere Corvia - racconta Ilievski - io avevo visto le

foto del giocatore su Internet e avevo notato che aveva un tatuaggio sul

braccio. Gli ho detto: fammi vedere il braccio, fammi vedere il tatuaggio.

Quello non vi dico la faccia che ha fatto, non sapeva che fare: io ho chiuso

la telefonata e chiaramente della partita non abbiamo fatto niente. Ma questo

vi fa capire quanta paura facevamo agli italiani…».

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TRA MILAN E JUVE ORA C'E' IL PESO DI QUATTRO PUNTI

Vantaggio importante per i rossoneri ma il campionato non è ancora finito

Alberto Cerruti - Gasport - 12-03-2012

Le turbolenze fanno bene al Milan, che continua a vincere con lo zampone di Ibra, e male alla Juventus che continua a pareggiare, senza gol e senza parole. Occhio, allora, alla nuova e mai così chiara classifica, perché nessuno quest'anno l'aveva guidata con quattro punti di vantaggio. A undici partite dal traguardo è presto per parlare di svolta decisiva, ma sicuramente questo è il primo strappo importante in campionato. E visto che in testa c'è la squadra campione d'Italia, soltanto il Milan può scucirsi lo scudetto dalle maglie.

In fondo, anche se con ritmi e protagonisti diversi, si sta profilando lo stesso finale di un anno fa. Allora i rossoneri, già al comando dopo 11 partite, erano a più 5 sull'Inter e non furono più ripresi. Stavolta hanno dovuto attendere 26 gare per essere in testa davanti alla Juventus, senza recupero, ma adesso hanno 4 punti di margine che sembrano il doppio a livello psicologico, per gli opposti effetti provocati dal confronto di San Siro.

Il Milan, più abituato, ha saputo trasformare la rabbia di quella serata in energia positiva, mentre la Juventus si è avvitata sempre di più nel suo vittimismo, sfociato nel discutibile silenzio stampa di ieri pomeriggio. Al di là dell'aspetto nervoso, bisogna poi sottolineare che i rossoneri non hanno soltanto un Ibrahimovic in più, almeno in Italia spesso decisivo, dove segna e fa segnare i compagni i caominciare dal suo vice-cannoniere Nocerino. Allegri, rispetto a Conte, grazie a un mercato migliore ha anche un organico più ricco che gli ha consentito di superare una lunga serie di infortuni e squalifiche, e poi ha una società più esperta alle spalle, guarda l'unica che in 26 anni non ha mai imposto il silenzio stampa, nemmeno nel momebto più difficiel, quando nel 1997 il Milan finì all'undicesimo posto con la staffetta Tabarez-Sacchi in panchina.

E quindi, anche se oggi sembra la grande sconfitta, la Juventus non merita alcun processo, malgrado il sorpasso dei suoi pareggi rispetto al numero di successi (14), in generale perché in partenza nessuno la considerava da scudetto e in particolare perché ieri avrebbe "strameritato di vincere", come ha onestamente ammesso il presidente del Genoa, Preziosi. Episodi da moviola a parte, traversa e palo di Vucinic, più altro palo colpito a porta vuota da Pepe, dimostrano che nemmeno la fortuna sta baciando la squadra di Conte. Ma se nella loro migliore gara tra le ultime pareggiate, giocata quasi a senso unico, Matri e compagni non riescono a segnare nemmeno un gol alla squadra che ne ha subiti più di tutti, la colpa non può essere soltanto dell'arbitro o dei suoi assistenti.

E da questa umile autocritica, dopo le tante critiche più o meno giuste agli altri, la bella Juventus rivista ieri a Genova deve ripartire. Per ritrovare in fretta la parola, i gol e la vittoria. Perché il campionato non è ancora finito.

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DOSSIER - Errore per errore la guerra tra Juve e arbitri. Il bilancio post-Calciopoli resta un record…

Giovanni Capuano - panorama.it - 12-03-2012

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Così la Juventus ha annunciato su Twitter il silenzio stampa di protesta

Il silenzio stampa è l’ultima arma della Juventus in una stagione in cui per cercare di cambiare il vento delle direzioni arbitrali ad Agnelli e soci non sono state sufficienti grida e sospetti. Silenzio stampa di ultima generazione, annunciato non nel ventre di uno stadio dal solito dirigente imbarazzato di turno, ma via Twitter. Le urla hanno lasciato lo spazio ai cinguettii: “Le immagini parlano da sole”.

La lettura dei giornali non sarà piaciuta ad Agnelli e Conte. Il gol di Pepe era certamente regolare (ma anche di difficile lettura) mentre sul rigore di Matri quasi nessuno è disposto a cancellare il peccato d’origine della trattenuta dello stesso attaccante su Carvalho. Insomma quasi pari e patta.

Siccome, però, la protesta juventina non è novità dell’ultima giornata ecco il dossier ragionato della stagione bianconera dove un dato è da record: un solo rigore a favore in 27 gare. Nessuno ha fatto peggio. E Panorama.it ha dimostrato nelle scorse settimane come il trend post-Calciopoli sia perfettamente in linea con quest dato. Ma ecco l’elenco dei torti (o presunti tali) che i dirigenti bianconeri hanno messo in fila.

2° GIORNATA: JUVENTUS-PARMA 4-1 - Non influiscono sul risultato, però ci sono due sviste di Celiche nega un rigore a Matri (fallo di Lucarelli) e annulla allo stesso un gol per fuorigioco che non esiste. E’ la prima volta che Conte sbotta alludendo a Calciopoli e al condizionamento degli arbitri verso la Juventus. Siamo all’11 settembre scorso.

10° GIORNATA: INTER-JUVENTUS 1-2 - Rizzoli non concede un netto rigore per sgambetto del portiere Castellazzi ai danni di Marchisio. La Juventus vince comunque.

17° GIORNATA: LECCE-JUVENTUS 0-1 - Arbitra Bergonzi e non fischia un’entrata di Oddo su Vucinic che avrebbe meritato il calcio di rigore. Ininfluente.

22° GIORNATA: JUVENTUS-SIENA 0-0 - Nel finale un cross di Chiellini viene intercettato con il braccio largo da Vergassola. Ci starebbe la massima punizione ma Peruzzo glissa. E’ il giorno in cuiMarotta chiede che alla Juventus vengano mandati “arbitri di esperienza”. Nicchi e Braschi chiudono infastiditi.

21° GIORNATA: PARMA-JUVENTUS 0-0 - A dirigere è Mazzoleni e siamo già in piena polemica arbitrale perché la gara si gioca in recupero. Tanti episodi dubbi e la certezza di un rigore negato a Giaccherini. Anche il Parma protesta per l’affossamento di Giovinco. Al 93° il contatto sospetto tra Santacroce e Pirlo a due metri dalla porta scatena una vera e propria bagarre. In sala stampa Conte spara a zero sul sistema arbitrale: “Hanno paura a fischiare un rigore a favore della Juve. Perché? E’ il segreto di pulcinella”.

25° GIORNATA: MILAN-JUVENTUS 1-1 - E’ la madre di tutte le partite. Nella notte che passerà alla storia per il gol fantasma di Muntari la Juventus si indigna per un gol regolare annullato a Matri e per i cartellini rossi risparmiati a Mexes (dopo 1′, sarà squalificato con la prova tv) e Muntari. Giornate di fuoco chiuse (forse) dalle scuse di Galliani ad Andrea Agnelli in vista dell’assemblea di Lega sul futuro di Beretta.

23° GIORNATA: BOLOGNA-JUVENTUS 1-1 - Si gioca in recupero. Juventus affaticata e costretta a inseguire il gol di Di Vaio. Nel finale De Ceglie entra in area di rigore e va giù strattonato. Niente rigore e Conte viene espulso per proteste: “Almeno potevano darci una punizioncina…”. E’ squalificato per un turno malgrado le testimonianze dei bordocampisti lo scagionino dall’accusa di aver insultato il quarto uomo.

27° GIORNATA: GENOA-JUVENTUS 0-0 - Siamo a ieri. A tradire Rizzoli (che già aveva bucato la gara di San Siro contro l’Inter) questa volta è il guardalinee che non vede la posizione regolare di Pepe sul gol annullato. Poi ci sono gli episodi Matri-Carvalho e Pirlo-Rossi. Alla fine urlano tutti senza la sensazione di avere netta la percezione di chi abbia torto e chi ragione.

Un po’ come la fotografia della stagione bianconero dove a impressionare è la frequenza aumentata dagli errori con l’incalzare della polemica proveniente da Torino. Un campionato che era stato ‘normale’ fino a Natale si è trasformato in un calvario da gennaio in poi. Impossibile argomentare l’esistenza di una regia, ma il dato dovrebbe far riflettere gli stessi dirigentiperché alla fine lo scontro con i vertici dell’AIA potrebbe aver reso meno sereni gli arbitri. L’altro dato di fatto è che a sbagliare sono stati quasi sempre i big: Tagliavento, Rizzoli, Mazzoleni, Bergonzi.

I FAVORI PER LA JUVENTUS - C’è poi l’ultimo capitolo che non fa parte del dossier juventino ma è comunque un pezzo di questa stagione. Sono le partite in cui i favori per i bianconeri hanno regalato a Conte punti importanti. C’è sicuramente Juventus-Cagliari (18° giornata) con i falli di mano di Bonucci e Pirlo ignorati da Guida. In archivio anche Chievo-Juventus (7° giornata) con gol regolare di Thereau annullato, Juventus-Catania (24°) con rete irregolare di Chiellini convalidata per il 2-1 nel finale, Juventus-Chievo (26°) gol di De Ceglie in fuorigioco anche se poi il pareggio è di Dramè che avrebbe dovuto essere già espulso prima.

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Modificato da huskylover

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Il punto

La solita musica stonata

di GIANNI MURA - la Repubblica.it -12-03-2012

Quattro punti di vantaggio cominciano a essere tanti, con lo scontro diretto già giocato. Tanti, in teoria non troppi. A patto, però, che la Juve riprenda a vincere: ormai, dilapidato il tesoretto, non è più padrona del proprio destino ma deve anche sperare in qualche passo falso del Milan. Che in coppa se l'è concesso a Londra, ma in campionato no. La Juve s'affida a Twitter per dire il suo silenzio, tanto parlano le immagini. È vero, parlano come parlavano a San Siro e dicono che il gol di Pepe era regolare per questione di centimetri, che il rigore su Matri si poteva fischiare ma anche quello su Rossi.

Dei tanti pareggi di queste ultime giornate sta davvero stretto alla Juve quello di ieri. L'ha ammesso anche Preziosi: Genoa fortunato. Pali, traverse, tante occasioni, una gara di grande temperamento, senza Conte in panchina e senza tre difensori titolari. La coppia Vidal-Caceres se l'è cavata senza affanni, anche perché la Juve ha giocato quasi sempre nell'altrui metà campo, ma il vero problema era e resta la penuria di gol in rapporto alle azioni costruite. La sindrome da accerchiamento e il dire-non dire che sono gli arbitri a penalizzare la squadra è una vecchia musica che, a turno, suonano la seconda o la terza della classifica. Attualmente la suona la Juve, ma non ne ha l'esclusiva. C'è una controindicazione: se la squadra, quale che sia, entra in campo con questa idea in testa è già penalizzata, non ha allegria né serenità, protesta a ogni fischio arbitrale.

Se la Juve non parla, Ibrahimovic si esprime sul campo (bene) e fuori campo (male). Sul campo, un assist e un gol, quanto basta per battere un Lecce bucato in apertura da un tiro di Nocerino deviato da Miglionico e senza quei titolari (Cuadrado e Di Michele in particolare) che avrebbero creato forse qualche problema in più ad Allegri. Fuori, una frase ("Che c... guardi?") arricchita dal lancio del fermacapelli in direzione di una collega di Sky è la conferma che tra l'attaccante e la buona educazione i rapporti sono conflittuali. Il comunicato serale del Milan parla di una telefonata fra i due per chiarire l'incomprensione. Quale incomprensione? È stata una cafonata, anche più grave dello schiaffo del soldato ad Aronica, senza la vaga attenuante della tensione agonistica e per giunta rivolta a una donna. A parte le intemperanze del suo totem, e grazie anche al suo totem, il Milan sta benone. Anche le marette in spogliatoio (incomprensioni?) fanno brodo. Chiariscono. Rinsaldano.

Rinsalda il suo 2° posto la Juve, ed è l'unica piccola gioia di ieri: arriva dai posticipi. La Lazio, che si sarebbe portata a due punti battendo il Bologna, perde 1-3 (con due espulsi) all'Olimpico. L'Udinese compromette un pezzo d'Europa tra Alkmaar e Novara, dove il ritorno di Tesser e Jeda portano la vittoria. Intanto Cellino allontana Ballardini e richiama Ficcadenti: come dire che ha sbagliato due volte. Domani e mercoledì tocca alla Champions: l'Inter col Marsiglia per fare due gol e il Napoli in casa Chelsea per difenderne due.

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VISTI DALL'ALA

Milan più forte di tutti

Juve, il silenzio non serve

Massimo Mauro - repubblica.it - 11-03-2012

Il Milan, nonostante le 11 assenze, non perde colpi: è forte, ha classe, qualità, un pizzico di fortuna (come sul gol-autogol di Nocerino) e gestisce sempre bene il vantaggio, contro il Lecce non ha corso nessun rischio. Lo scudetto può solo perderlo. Adesso che si avvicina il recupero dei giocatori importanti ancora assenti, è senza alcun dubbio la più forte del campionato. Allegri è stato molto bravo anche a gestire al meglio i capricci di Ibrahimovic, che è il giocatore più importante, quello che fa girare bene tutta la squadra, ma anche quello che crea più grattacapi. Il Milan è lanciato verso il secondo scudetto consecutivo grazie a un allenatore più che all'altezza e alla solidità della società.

Quella della Juve a Genova è stata una partita sontuosa, con grande dinamismo, impegno e qualità fino ai 16 metri: dentro l'area però ha lasciato a desiderare. Continua a mancare tutto ciò che riusciva nel girone d'andata: Conte non ha più in Pepe e Marchisio i goleador delle prime giornate, Matri si è fermato, Vucinic prende pali. E' molto semplice: se non si segna non si può vincere. Alla fine si spiega così quello che si può definire un momento "ni": la buona prestazione c'è ma manca la vittoria.

La questione arbitri è invece stucchevole, non se ne può più. Gli errori ci sono e ci saranno sempre: non si può fare niente per un guardalinee che non vede un fuorigioco di millimetri, o per un arbitro che concede o non assegna un rigore molto dubbio. Un'unica soluzione può essere il giudice di porta per le situazioni di gol-non gol sulla linea, ma non ci sono altri rimedi.

Tutte le società si sono sempre lamentate, ognuno poi reagisce come meglio crede, anche con un discutibilissimo silenzio stampa che come unico risultato ha quello di privare sportivi e tifosi delle dichiarazioni. Io credo che un ambiente forte, sano e vincente sa gestire anche momenti difficili come questo, ma giocatori e allenatori dovrebbero essere tenuti fuori. Le società invece si sono sempre comportate così e continueranno a farlo, la voglia di vivere diversamente i fatti del campo in Italia non ce l'ha nessuno.

Il Napoli, mercoledì a Londra con il Chelsea, ha una chance straordinariamente importante per il suo futuro. Arrivare nei quarti di Champions con la concreta possibilità di giocarsi la semifinale è veramente un'occasione unica. La squadra di Mazzarri è in condizione fisica e mentale ottimale, è il momento ideale per giocare a simili livelli. Niente è precluso per il Napoli, anzi andare avanti darebbe anche ulteriori stimoli per il campionato, oltre a tanto denaro per l'anno prossimo.

All'Inter, in questo momento cruciale della stagione, servono sangue freddo, prestazioni all'altezza ed equilibrio tra vecchi e giovani. Passare il turno con il Marsiglia vorrebbe dire aggiustare al 50% una stagione fin qui disastrosa. Ranieri ha l'esperienza giusta per riuscirci, ora i senatori devono dargli una mano.

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Spy calcio

Braschi perde gli arbitri

Che farà ora con Rizzoli?

Fulvio Bianchi - repubblica.it - 12-03-2012

"Non c'è accanimento sulla Juve dopo Calciopoli", assicura Giancarlo Abete, n.1 della Federcalcio. Ma il club bianconero resta infuriato con gli arbitri: nel mirino adesso c'è l'architetto bolognese Rizzoli che ha diretto (maluccio) la gara con il Genoa. Rizzoli è il numero 1 italiano e sarà agli Europei di Polonia-Ucraina: anzi, secondo i bookmakers è fra i candidati a dirigere la finale (se non ci saranno gli azzurri, ovviamente) ma intanto la dura presa di posizione del club bianconero crea un grosso problema al designatore Stefano Braschi. Rizzoli potrà ancora dirigere la Juve quest'anno? Braschi ha già perso per strada Tagliavento e Rocchi, altri due arbitri di prima fila. Rocchi è stato messo al bando in pratica dall'Inter e quindi non vedrà più i nerazzurri (a meno che ci sia qualche gara di scarso interesse verso fine annata). Tagliavento ha stranamente sbagliato Milan-Juve, lui che è uno molto bravo e sereno: come farà adesso ad essere impiegato in partite per la lotta scudetto? Un bel rebus per Braschi che ha pochi arbitri, solo venti, e fra questi quelli affidabili ad alto livello sono pochissimi. E se sbagliano i "califfi" come Rizzoli, Rocchi e Tagliavento, ecco che per i designatore sono guai seri...

Ascolti tv, due milioni e mezzo a Novantesimo Minuto

Gli ascolti della Rai, ai tempi dello spezzatino: Stadio Sprint 8,11%, 1.196.000; Novantesimo Minuto 14,59%, 2.579.000; Domenica Sportiva 9,85%, 1.581.000; 5' di recupero, 17,16%, 4.631.000.

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Caro Platini e se il fair play finanziario non fosse la strada giusta?

di MARCO BELLINAZZO dal blog Calcio & business (Il Sole 24 ORE.com 12-03-2012)

Il presidente della Uefa Michel Platini non intende tornare indietro sul Fair

Play Finanziario. «Le discussioni le abbiamo fatte quattro anni fa, sono come

il vostro Monti in Italia che deve fare cose impopolari ma le deve fare - ha

ribadito in occasione della consegna del premio della Uefa a Gianni Rivera -.

È la prima volta che tutti sono d'accordo: abbiamo un miliardo e mezzo di euro

di perdite ogni anno, non torneremo mai indietro, È l'unica cosa che si può

fare per far sopravvivere il calcio».

Che non si possa andare avanti macinando perdite e debiti È chiaro a tutti.

ma siamo sicuri che la strada imboccata sia quella giusta? Le attuali regole

del fair play infatti rischiano di congelare le attuali gerarchie. Se si può

spendere solo quello che si incassa, chi oggi incassa 400 potrà continuare a

spendere 400 e chi oggi incassa 100 non potrà spendere più di 100.

Rischio congelamento. Ma chi guadagna 100 come fa a incrementare i

ricavi se non comprando campioni e remunerandoli adeguatamente? Ci

vogliono investimenti per crescere, ma con il fair play il "rosso" del triennio non

potrà superare i 45 milioni. In altri termini, mettere al bando sceicchi e oligarchi

che "drogano" il calciomercato È positivo. Il rischio però È che le squadre

di fascia medio-alta non potranno mai competere con quelle nobili (Real,

Barcellona, Bayern, Manchester, Milan, eccetera), a meno che non abbiano

la fortuna di acquistare giovani campioni che si accontentino di ingaggi

inferiori a quanto potrebbero ricevere altrove. In definitiva, il fair play

almeno nel breve periodo, rischia di cristallizzare l'attuale classifica del

calcio europeo.

Il caso Ranger Glasgow. Qualche settimana fa i Rangers Glasgow sono

entrati in amministrazione controllata e hanno subito una penalizzazione di 10

punti. In queste ore si parla di un possibile fallimento. Sul club scozzese pende

anche unasentenza di una commissione tributaria britannica che potrebbe

condannarlo a pagare quasi 50 milioni di sterline a causa di tasse non pagate

dal 2001 a oggi. Con le multe però si rischia di salire sino a quota 75

milioni di sterline. Una cifra monstre e la situazione È drammatica. Per

rendere l'idea, pare che per fronteggiare i creditori la dirigenza dei Ranger

avrebbe già impegnato 24 milioni di sterline dei ricavi degli abbonamenti dei

prossimi quattro anni.

___

Beretta insiste: "Con gli stadi di proprietà usciamo dalla crisi"

di MARCO BELLINAZZO dal blog Calcio & business (Il Sole 24 ORE.com 12-03-2012)

"La questione del disequilibrio tra entrate e uscite riguarda il calcio

inglese e spagnolo in maniera più grave rispetto al nostro. Si stanno

facendo azioni per andare ad avvicinare entrate ed uscite, c'è il fair

play finanziario, c'è lo sforzo per legare di più i risultati agli stipendi dei

calciatori ma il deficit che noi accumuliamo sarebbe ridotto a zero se

avessimo degli stadi di proprietá". E' questa la ricetta vincente per il

presidente della Lega di Serie A, Maurizio Beretta.

Il disequilibrio. "C'è uno sbilancio, secondo i dati resi noti in questi

giorni. Noi incassiamo da stadio solo il 13% del totale del fatturato che è di

circa 1,6 miliardi di euro. Se ci potessimo avvicinare, arrivando al 25%, il

disavanzo sarebbe azzerato. Le entrate da stadio sono il problema. La

Germania ha il sistema più virtuoso e in equilibrio e le entrate da stadio

sono un terzo del totale. Il problema dell'indebitamento c'è in tutta Europa

e va affrontato in maniera coordinata", aggiunge il numero uno della Lega

di Serie A.

Contratto collettivo. "Anche il nuovo accordo collettivo dei calciatori è

un tassello in direzione del controllo dei costi. Poi si possono individuare

altri meccanismi virtuosi, ma il dato fondamentale è avere stadi di proprietá

con i quali si aumentano gli introiti, non solo del botteghino, ma da negozi

per la vendita dei prodotti delle societá e dalle attivitá collegate, come

palestre a ristoranti e rappresenta un'ulteriore leva per aumentare i ricavi.

Ma per fare gli stadi è indispensabile una legge quadro per la velocizzazione

burocratica e per compensazioni per l'investimento", aggiunge Beretta.

Diritti tv. "Quando si vendono collettivamente i diritti televisivi, se

rappresentano il 60% hanno un peso più importante, per questo la strada

maestra è quella di trovare nuove vie per avere una struttura di ricavi più

equilibrata", precisa il presidente della Lega A. Molto si è parlato della

possibilitá di ricavi anche dai giochi per la play station. "È possibile, ma

stiamo discutendo della ripartizione complessiva delle risorse. A fronte di

una vendita collettiva va trovato un accordo equilibrato per poter mettere

a disposizione della Lega e della Serie A, diritti che non sono collettivi ma

nella disponibilitá delle singole societá. Si è deciso saggiamente di chiedere

ai club più importanti, che sono titolari dei diritti soggettivi, di fare una

proposta di suddivisione dei ricavi, per rendere questi diritti collettivi. È

una delle grandi scommesse che abbiamo davanti". Per quanto riguarda il

bando dei diritti tv in chiaro, spiega Beretta, «è la parte rimasta che deve

essere portata a compimento, è l'ultimo tassello mancante, ma il complesso

per i prossimi tre anni fará registrare un incremento significativo che ci lascia

molto soddisfatti. Si registra una crescita forte dell'attenzione del calcio

italiano di Serie A, non solo a livello italiano ma anche internazionale».

La legge sugli stadi. "Con il ministro dello Sport, Piero Gnudi - conclude

Beretta - c'è un rapporto costante, è una persona di grande competenza e

passione, competenza per fatti economici e di programmazione. Questa credo

sia la premessa migliore per guardare con la giusta luce l'opportunitá di avere

la legge sugli stadi. Il Senato ha fatto uno straordinario lavoro, e la Camera ci

sta lavorando da molti mesi, siamo vicini a trovare una soluzione per rendere

possibile la realizzazione di stadi nuovi e moderni. L'auspicio è che si

arrivi presto ad una svolta che è nell'interesse del calcio, dello sport nel

suo complesso e nell'interesse generale".

Modificato da Ghost Dog

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