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Dino Zoff - Calciatore E Allenatore

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Joined: 31-May-2005
141 messaggi
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«È stato unico come portiere – scrive il sommo Vladimiro Caminiti – per la sobrietà dello stile non privo di un suo fascino misterioso, segreto, che risaltava in certe partite all’estero, ad esempio in Inghilterra, al forcing martellante cross su cross dei fondisti inglesi, il suo spazzare l’area di rigore con uscite monumentali per tempismo e autorevolezza atletica. Ma più di tutto ha avuto, come portiere, mente e fisico corrispondenti come nella massima di Giovanale (“mens sana in corpore sano”) da cui questo suo rendimento inattaccabile, e le sue mani sempre intatte (un solo infortunio fisico in una carriera interminabile), e la sua strategica sapienza nell’interpretare il ruolo su se stesso, fuori da ogni tradizione. Nessun campione di calcio somiglia a Zoff nell’asprezza contenuta del carattere, così poco facondo e così fecondo di risolutive intuizioni. Il suo sodalizio con Scirea è bellissimo sul piano umano; Boniperti se ne ricorderà il giorno che lo promuove allenatore. per affiancarglielo. Poi, Scirea muore tragicamente e Zoff rifiuta qualsiasi altro secondo».
L’estate del 1972 è importante soprattutto per l’arrivo alla Juventus di un giocatore e di un uomo eccezionale: Dino Zoff; ha appena compiuto trent'anni, l’età nella quale altri calciatori sono vecchi, ma per lui, è il momento migliore della carriera. Napoli, che aveva adottato Dino, lo vede partire a malincuore. Attila Sallustro, gran centravanti degli anni d’oro ed allora direttore dello stadio San Paolo gli dice al momento del saluto: «Ho visto tanti campioni in maglia azzurra, ma tu sei il migliore. Non solo fra i pali, ma sempre, dall’allenamento allo spogliatoio».
La gente bianconera lo ama subito: Dino in porta è una sicurezza ed una guida per la difesa, fuori dal campo è un ragazzone misurato che parla poco ed al momento giusto, in allenamento è una belva (è il suo segreto, le partitelle come e più della partita in fatto di impegno e di concentrazione). Forte tra i pali (più piazzamento che voli, ma anche questi quando occorre), sicuro nelle uscite, attento e rapido nei rilanci, sempre presente nel match, anche se la palla è lontana dalla sua zona.
Tra maglie bianconere ed azzurre, Dino Zoff inizia a trent’anni la parte più bella e gloriosa della sua carriera. Gli è mancata, e come l’avrebbe meritata, solo la Coppa dei Campioni. Si ritira il 2 giugno 1983, in bellezza, ancora integro ma capace di dire basta da solo.: «Sono arrivato che c’erano Causio, Haller, Bettega. La velocità insieme alla fantasia, la classe mescolata al dinamismo. Dopo arrivò gente come Benetti e Boninsegna, che aumentò forza fisica ed esperienza del gruppo. Ma quella prima Juventus mi è rimasta nel cuore».
Nato a Mariano del Friuli (Gorizia) il 28 febbraio 1942. Comincia a giocare nella Marianese, a sedici anni passa all’Udinese con la quale esordisce in serie A il 24 settembre 1961 (Fiorentina-Udinese 5-2). Bilancio in campionato: 74 partite in serie B (Mantova e Udinese), 570 in serie A (Udinese 4, Mantova 92, Napoli 143 e Juventus 331). Bilancio in Nazionale: esordio il 20 aprile 1968 a Napoli (Italia-Bulgaria 2-0), ultima partita il 29 maggio 1983 a Goteborg (Svezia-Italia 2-0). 112 presenze in Nazionale, secondo solamente a Paolo Maldini. Quattro campionati del mondo: Messico 1970, Germania 1974, Argentina 1978, Spagna 1982. Campione del mondo 1982. Campione d’Europa 1968. Sei scudetti nella Juventus (1973, 1975, 1977, 1978, 1981, 1982). Una Coppa Italia, Juventus 1979. Una Coppa Uefa, Juventus 1977. Record di presenze in serie A, 570. Record di presenze consecutive in A, 330 (2 nel Napoli e 328 nella Juventus). Primati di imbattibilità: 903 minuti nella Juventus, 1143 in Nazionale. Mai espulso e mai squalificato.
Lasciamo al racconto del portiere stesso il ritratto di Dino Zoff fra i pali. Fra le tante cose da lui dette a mezza voce, questa è una spiegazione che rivela tante cose. Perché è stato così forte, nella Juventus ed in azzurro: «Si dice che è il tiro sbagliato il più pericoloso, ed è vero. Ma è altrettanto vero che ci sono giocatori portati a far goal, ed allora anche se il loro tiro è pulito dritto, vanno a segno lo stesso. Prendiamo Gigi Riva: non faceva cose strane, non cercava astuzie o pallonetti, sparava con quel suo sinistro e faceva centro. Così da parte del portiere è logico si facciano delle valutazioni. Io ho sempre il massimo rispetto di tutti gli avversari, ma mi sembra giusto temere più uno che l’altro a seconda delle caratteristiche. Questo senza che si arrivi a dualismi, a guerre personali. Certo, si individua per così dire il nemico più pericoloso già alla vigilia, ben sapendo che magari il goal poi te lo fa un altro. Arriva un terzino, ti piazza una botta nel sette dal limite dell’area e sei fritto. Certamente la concentrazione del portiere aumenta quando la palla arriva fra i piedi del cannoniere avversario. Sai che è molto improbabile che lui cerchi il cross o il passaggio, sai che tenterà il goal direttamente nell’80/90% delle situazioni. Non tutto è puro ragionamento, comunque, nel lavoro di un portiere. Prendiamo la scelta fra la presa e la respinta a pugno come conclusione dell’uscita su una palla alta. Io per principio parto sempre con la convinzione di dover bloccare questo benedetto pallone, ma a volte la situazione che si presenta nel momento decisivo è tale da farmi cambiare idea. Questione di attimi, come nella vita».
Per Giovanni Trapattoni, il suo ultimo allenatore: «Dino è uno dei calciatori più seri che abbia conosciuto, con una fiducia assoluta nell’equazione “lavoro uguale risultati”. È stato abituato da sempre a contare solo su se stesso, sulle sue capacità di sacrificio. Gli dicevo spesso di prendersi qualche pausa salutare. Non ne voleva sapere, è un magnifico esempio di passione sportiva vera, anche disinteressata. Difficile trovargli un difetto, anche a volerlo. Non certo nel gioco.. Al massimo lo si può accusare di non saper sfruttare sino in fondo il personaggio che si è costruito con anni di sacrifici. È un uomo con il suo mondo privato, come è giusto sia. La famiglia, la casa, hanno grande importanza per Dino. Su molti compagni, comunque, il suo ascendente era forte. Quando prima della gara, in settimana od addirittura la vigilia, si parlava del prossimo impegno, si analizzavano le qualità dell’avversario, i punti forti o gli eventuali lati che pensavamo deboli, Zoff partecipava ed entrava volentieri nei particolari tecnico-tattici. Come affrontare una punizione, come aspettare il corner, specie se nell’incontro precedente c’era stata qualche sfasatura. Un giocatore eccezionale, insomma. Due o tre con il suo carattere, oltre che con la sua bravura, e non ci sarebbero davvero problemi per qualsiasi squadra».
La Juventus gli offre la panchina, nell’estate del 1988; Dino accetta, e porta con sé, nell’avventura, l’amico Gaetano Scirea. Sembra la felicità, ma il destino è una bestia feroce che sta in agguato; si porta via Scirea in un dannato incidente stradale, in Polonia, e Zoff si sente all’improvviso un po’ più solo. «Mi manca molto l’appoggio di un amico vero come Gaetano Scirea. Mi sento più povero. E mi fa arrabbiare il fatto che abbia ricevuto i giusti onori solo dopo la morte. Prima era stato dimenticato. Il fatto è che in questo mondo il buono, il corretto, l’uomo vero è banale».
E dopo un anno e mezzo di Juventus, capisce di aver già fatto il suo tempo; non c’è bisogno di troppe parole, per spiegare i cambi di ritmo a uno come lui. Del resto, alla Juventus l’aveva voluto Boniperti, mentre l’Avvocato si era invaghito del nuovo verbo zonaiolo del profeta Maifredi. Zoff prende atto e non fa polemiche quando Maifredi viene annunciato ufficialmente a metà della stagione 1989/90. «Il mio allontanamento dalla panchina della Juventus fu la conseguenza di un radicale cambiamento societario. Non fu una decisione improvvisa, conoscevamo tutti i nuovi indirizzi della dirigenza. E non mi sono mai sentito una vittima di quella situazione».
C’è una stagione da chiudere, Zoff chiama a raccolta la squadra che gli si stringe intorno e consegna alla bacheca juventina, prima di fare le valigie, una Coppa Italia ed una Coppa Uefa. Se ne va alla Lazio, tra i rimpianti dei tifosi bianconeri.

 

“HURRÀ JUVENTUS” LUGLIO-AGOSTO 1983

Rispetto la decisione di Zoff solo perché l’ha presa lui. So quanto gli è costata, so che avrebbe voluto chiudere diversamente la carriera. In un campetto di provincia, in una squadra piccola, ma in Italia non si può. Mi sembra che la storia di un calciatore, del capitano dell’Italia vincente, sia amaramente esemplare e meriti qualche considerazione, al di là della stima e del “grazie” che vanno ad un vero sportivo. Zoff ha preferito un taglio netto ad un lungo sfilacciamento, a pressioni sempre più pesanti. Perfino nella fredda Svezia qualche cretino ha fatto dello spirito con uno striscione che paragonava Zoff ad un fantasma: in Italia, paese notoriamente caldo, si è andati giù più pesanti. Zoff paga il fatto di avere quarantuno anni, di essere il portiere della Juve e della Nazionale e di non essere un personaggio. In questi giorni, un portiere di quanrantuno anni, Boranga, è stato determinante per la promozione in C1 del Foligno: segno che, a certi livelli, il “vecchio” funziona, diciamolo sottovoce. In un’Italia incline a beccarsi tutte le malattie infantili, compresi il finto giovanilismo ed il protagonismo d’accatto, Dino Zoff era un bersaglio ideale. Eraldo Pizzo in piscina, Raimondo D’Inzeo a cavallo, Miro Panizza in bici: quanti violini, quanto amore, quanto caramello per questi grandi vecchi. Nel nostro calcio, invece, basta aver pochi capelli e si è fregati anche da giovani (sto alludendo a Scanziani): figuriamoci se hai quanrantuno anni, cos’aspetti a toglierti dalle palle? E così Zoff scende dalla giostra. Ci aveva già pensato, dopo il Mundial, ma perché rinunciare alla Coppa dei Campioni? Il tiro di Magath non era parabile, ecco un altro bel processo. Qui i processi si fanno specialmente a quelli che non li meritano, e l’irrisione è più gratuita e volgare nei confronti di chi lavora seriamente. Un goal, si può parare o beccare: i primi a saperlo sono i portieri. Ovviamente, per un razzismo calcistico assai diffuso, un attaccante può sbagliare goal facilissimi e tutto si dimentica, mentre Zoff da anni ha le orecchie che fischiano per Haan, da mesi per Cuttone. «Io sono un operaio specializzato che cerca di timbrare tutti i giorni il cartellino», mi aveva detto qualche anno fa. Undici campionati giocati di fila, mai un raffreddore, un infortunio: di questa resistenza e continuità andava fiero, non dei record d’imbattibilità o degli scudetti, da dividere con altri. E in tutti questi dieci, venti anni ad alto livello, mai una polemica con un collega, una cattiveria, una frase ad effetto, ma un esempio di cavalleria sportiva, innata, non posticcia. Ha fatto notizia per essere finito sulla copertina di “Time”: sommo provincialismo. Capisco che per un uomo come lui, nato in Friuli, che è profondo nord, non sia divertente girare l’Italia raccogliendo berci ed insulti, manco rubasse il pane agli orfani. Ma spero ci ripensi, è giusto andare fino in fondo alla strada dei propri desideri. E ricordi: meglio “vecchi” che stupidi, meglio operai che pataccari, meglio tacere alla sua maniera che parlare senza aver nulla da dire. Con affetto lo saluto in modo non definitivo, nella sua lingua. Ciao, ragazzino.
Gianni Mura

Si può azzardare questa classifica dei portieri italiani: 1. Zoff, 2. Moro, 3. Olivieri, 4. Ghezzi, 5. Albertosi, 6. Giuliano Sarti, 7. Sentimenti IV, 8. Combi. Perché metto Zoff al primo posto, in questa passerella di campionissimi? Perché è quello che è durato più a lungo ed a livelli sempre altissimi. È un riconoscimento che si merita, perché se lo è guadagnato in tanti anni di fatica.
Piero Dardanello

Meritava un altro addio. Non questo: forzato, amaro, malinconico, rattristato da due sconfitte irrimediabili e conclusive. Meritava di andarsene sul campo, la coppa in mano, le bandiere al vento. Ma in fondo non conta il modo in cui ci si congeda. Nulla addolcisce lo strazio di dire basta. Basta ad una vita di avventure; basta al brivido di entrare in campo sotto un tuono di urla; basta al sorriso della gente che ti guarda ammirata ed intimidita; basta alla gioia di sentirsi forte e giovane; basta a quelle lunghe vigilie darmi; basta alla tensione che ti rende vivo; basta al tuo nome gridato forte; basta al piacere di una nuova impresa; basta agli scherzi con i compagni; basta alla fatica serena degli allenamenti; basta alle mille piccole e grandi cose che ti han riempito la vita e che oggi te la lasciano improvvisamente vuota.Se ne va Zoff; un congedo di cui si parla da tempo: eppure nel momento in cui diventa reale ti accorgi di quanto se ne vada con lui. Non solo un lungo, felice pezzo di storia calcistica; non solo la memoria di tanti trionfi; non solo quell’immagine consegnata alla leggenda delle sue mani che stringono la Coppa del Mondo; non solo il campione più longevo, fedele, ferreo del campionato e della Nazionale. Zoff è stato di più. Più di un fuoriclasse da inserire nel ristretto Olimpo dei campioni di ogni tempo e di ogni Paese. Più del portiere che meglio ha identificato la rocciosa sicurezza, la forza morale, la solitudine di questo ruolo folle e romantico. Zoff è stato un punto di riferimento esemplare nel campo e fuori di esso; un leader naturale, un trascinatore senza parole: come se il suo silenzio fosse più galvanizzante di mille discorsi, la sua inalterabile saldezza infondesse più fiducia di qualsiasi proclama. Un uomo così forte, sereno, giusto da poter attraversare questo mondo passionale, isterico, fazioso, pettegolo, turbolento del calcio senza lasciarsene coinvolgere mai. Né polemiche, né sgarbi, né alcune delle mille piccole e grandi miserie di cui son fitti i giornali. Ben pochi hanno interpretato come lui la fondamentale essenza dello sport, la sua etica, la sua dignità, la sua bellezza. Questo ha reso Zoff unico nella sua grandezza; resto senso di forza e d’integrità morale cui ci si aggrappa come ad un baluardo, un esempio, una prova di quali livelli educativi e sociali possa raggiungere lo sport. Nel dire addio a questo John Wayne del calcio, a questo sceriffo senza macchia, a questo predicatore taciturno, sappiamo come si avvertirà (fra tanti strepiti) l’assenza del suo maestoso silenzio.
Giorgio Tosatti

È stato sicuramente più grande di Combi, non soltanto per continuità di rendimento e longevità, ma anche perché ha raggiunto risultati migliori. Lo metterei, in una ipotetica classifica, subito dopo Aldo Olivieri, Campione del Mondo con l’Italia nel 1938 e Carletto Ceresoli. Abbiamo avuto un grande genio nel ruolo ed è stato Moro, ma era genio ed anche sregolatezza, niente a che vedere con la costanza e la linearità do Zoff. Albertosi? Per carità, aveva un sacco di lacune. Zoff ha chiuso con un acuto, a Goteborg ha tolto tre palle goal. Ha fatto bene a ritirarsi dopo quel capolavoro, perché in genere le carriere dei grandi si chiudono sempre con un rimpianto. Quella di Zoff è finita bene, anche lui avrà i suoi rimpianti, come li abbiamo tutti noi, ma ci lasci con il ricordo di un acuto degno di lui.
Gianni Brera

La Juve ha avuto i due più grandi portieri della storie del nostro calcio. Negli anni trenta, c’era Combi, il più professionista fra i dilettanti di allora, uno che non ha mai giocato al calcio per guadagnare, essendo di estrazione borghese e negli anni Settanta, Zoff, il professionista più dilettante che io abbia mai conosciuto. Se la classe è anche una questione di longevità, allora è giusto dire che Zoff è stato più grande persino di Combi, dunque il miglior portiere italiano di sempre. Combi si è ritirato abbastanza presto ed è giusto ammettere che anche il calcio di allora era un’altra cosa, lo spirito perfezionamento e la grande serietà hanno condotto Zoff ad essere il migliore. Ma nei primi cinque, dietro Zoff e Combi, metterei senza un ordine preciso, Olivieri, Sentimenti IV e Ceresoli.
Giglio Panza

È finito su un francobollo, è passato per la copertina di “Newsweek” come capita ai divi, ai premi Nobel ed ai grandi del nostro pianeta, ha vinto a quaranta anni un titolo mondiale, ha battuto record di bravura e di durata, è uno degli italiani più popolari nel mondo con Pertini, Agnelli e Ferrari. E adesso Dino Zoff, friulano indistruttibile, gran commendatore del nostro sport, campione di due generazioni, ci saluta con uno dei suoi amabili mugugni: «Cari amici, io ho chiuso, grazie di tutto». Forse avrebbe preferito congedarsi con uno dei suoi abituali silenzi. Ma non era possibile. La notizia era nell’aria sin dallo scorso aprile. Nell’animo di Zoff essa venne concepita a Bucarest, nella triste giornata del virtuale addio azzurro all’Europa. Dino si lasciò scappare un sussurro. Ed all’indomani i giornali di mezzo mondo lo registrarono. In Brasile quel sottile preludio all’addio di Zoff fu presentato come la notizia del giorno, dopo una delle tante stragi di Beirut. Il Brasile, in effetti, resta l’ultimo sfondo sontuoso della leggenda del nostro portiere. Fu Zoff, con una incredibile parata, a negare il goal del pareggio, sul campo di Barcellona, a quegli stupendi funamboli che sembravano predestinati al trionfo mondiale ed invece se ne tornarono a casa scornati e distrutti. Quel fuggevole fotogramma della scorsa estate rimane la pietra miliare di una storia che è stato bello vivere e sarà altrettanto suggestivo raccontare. Ci siamo accorti già da un pezzo (forse dal giorno in cui Zoff festeggiò in campo i suoi quaranta anni) che questo friulano timido ed introverso, pieno di pudori e di silenzi, con una vita ed una carriera senza svolte, senza pettegolezzi e senza clamori, è il personaggio più solido e convincente del nostro calcio a livello mondiale. Campioni più fascinosi, più eleganti, più controversi ed anche più bravi di lui sono fioriti e tramontati sotto gli occhi di Zoff. Decine di portieri che gli sono stati alle spalle hanno visto sfumare le loro speranze di successione. E, rassegnati, hanno finito con l’ammirarlo. Si direbbe che il nostro Dino abbia esplorato (come pochissimi altri campioni) una nuova fisiologia atletico sportiva, consegnando al mondo un esempio che non potrà essere cancellato. Ed oggi, al tirar delle somme, all’ultimo atto sempre venato da una certa tristezza, ci sembra perfettamente naturale che questo saluto a Zoff sia un rito che non appartiene soltanto a noi ma s’incrocia dal Sud America alla Russia, dall’Inghilterra alla Cina, dalla Germania all’Australia. È il mondo, insomma, che festeggia il nostro campione interpretandone una vicenda dove valori umani, tecnici, atletici e professionali felicemente convivono. Limitarsi a valutare il campione sarebbe, in effetti, limitativo. Dalla straordinaria carriera di Zoff emergono soprattutto luminosi valori morali: trionfi vissuti in umiltà, brucianti sconfitte smaltite con la ricerca silenziosa e tenace di una rivincita. Dopo l’Argentina sembrava seppellito, in Spagna è diventato Campione del Mondo. Zoff è stato serio e coerente con sé stesso sino in fondo. In un mondo in cui un personaggio di grande impatto popolare può commerciare persino la propria intimità, anche la notizia dell’addio di Zoff avrebbe avuto un prezzo. Dino l’ha maturata in sé stesso, poi ha dato un appuntamento a tutti quanti fossero interessati a sapere quale sarebbe stato il suo futuro. Ed ieri ha detto quel che doveva dire, in tutta tranquillità, con il solito terrore per l’enfasi e per la retorica. Tra le tante doti, ne va sottolineata una, la più semplice, quella che ci porta alle radici del personaggio: una persona seria. Non è il caso, mi sembra, di moltiplicare le parole. Dino se ne offenderebbe. Limitiamoci a offrirgli un “grazie” grande quanto la sua carriera che ci sfuma davanti, forse al momento giusto, prima che certi meravigliosi ricordi possano invecchiare.
Candido Cannavò

 

NICOLA CALZARETTA, “GS” MARZO 2012


Dino Zoff un monumento della fiducia popolare. La pennellata, in un vecchio servizio in bianco e nero, è di Beppe Viola. C’è tutto Zoff nella definizione: monumento, perché grandissima è stata la sua carriera, dall’esordio nel 1961 all’addio a quarantuno anni dopo aver toccato la luna, ma solo perché «non posso parare anche il tempo», come disse annunciando il ritiro. Fiducia, perché lui c’era sempre. E Nando Martellini finiva sempre con la stessa, tranquillizzante frase: «Parata di Zoff».
Popolare perché il suo nome e cognome (Dinozoff, tutto attaccato) alzi la mano chi non lo conosce. Ha unito Nord e Sud giocando per il Napoli e la Juve, ma soprattutto perché è stato il portiere della Nazionale Campione d’Europa nel 1968 ed il capitano dell’Italia Mundial quattordici anni dopo, quando diventò un francobollo. Il 28 febbraio compirà settant’anni. Un traguardo speciale, un’occasione per parlare di sé, forse come mai era successo prima d’ora. Lo fa seduto su uno dei divani del salotto del Circolo Canottieri Aniene, sul Lungotevere romano. Sorridente e confidenziale. Ma allora non è vero che lei è una sfinge? «Questa è l’impressione che davo, sembravo freddo e distaccato. In realtà alla base del mio atteggiamento, oltre ad un naturale equilibrio, c’era molto pudore. Apparivo poco socievole e capisco di non essere stato molto “giornalistico”».
Però per il “Guerin Sportivo” lei ebbe un’intuizione notevole: «Non mi piaceva che anche il “Guerino” stesse dietro alle polemiche. Una sera a cena, dopo una partita con la Nazionale a Mosca nel 1975, proposi ad Italo Cucci di puntare sulla cronaca sportiva e sulle fotografie, come faceva “Il calcio illustrato”».
In sintonia con il suo stile di vero sportivo: «Lo sport è una cosa meravigliosa, con le sue regole, i suoi valori. Si vince e si perde ed il risultato va accettato. Per me è sempre stata una cosa seria: mi sono allenato al massimo, spingendo a tavoletta tutti i giorni, con il segreto di migliorami, anche a quarant’anni».
Cosa le piaceva di più? «L’allenamento. Era una cosa bellissima, mi divertivo. Anche a sfottere i compagni. Quando non riuscivano a farmi goal, li prendevo in giro con il verso del granchio. Gli ultimi annidi carriera sono stati i migliori: cominci ad apprendere veramente il lavoro. Da questo punto di vista mi sono sempre sentito un dilettante pagato bene. Ho lavorato tanto, per il piacere di farlo».
Così tanto che per le sue riserve non c’è mai stato spazio: «Un po’ mi dispiaceva, ma non mi sono mai sentito in colpa. Le gerarchie erano chiare. E d’altronde lo sport è questo. Gioca chi merita, chi è il migliore. Io, poi, facevo di tutto per non mancare».
Anche quando non stava bene? «Non ero condizionabile dal male. Anzi, il dolore per me era un fattore positivo perché significava aumentare la concentrazione, dote fondamentale per un portiere. Poi ci sono state anche situazioni limite: al Napoli (dodicesimo era Cuman, ndr) giocai addirittura con una mano incrinata».
E successo anche alla Juventus, vista la collezione di panchine di Piloni, Alessandrelli e Bodini? «Ma qualche volta hanno giocato, magari a fine stagione o in Coppa Italia. A proposito di Alessandrelli, fu lui a suggerirmi dove buttarmi la sera del 15 marzo 1978, nei quarti di finale di Coppa dei Campioni finita ai calci di rigore. Ne parai due».
Ma intanto in campo c’era sempre lei! «Volevo esserci. Diciamo che qualche volta c’è stato qualche accordo segreto con Trapattoni. Quando avevo qualche problema andavo dal Trap e gli dicevo: “Ho male”. E lui: “Te la senti comunque di giocare?”. Ed io: “Me la sento”. La cosa rimaneva tra noi. Era un modo per condividere una situazione, non certo per scaricare le responsabilità. Quelle me le sono sempre prese senza sconti».
Severo con sé stesso? «Severissimo. Ero presuntuoso, orgoglioso, anche un po’ vanitoso e dunque alla ricerca della perfezione. Per questo mi sono sentito sempre responsabile, in tutto o in parte, delle situazioni che si creavano in campo. Per questo non volevo saltare mai una gara».
Se è per questo alla Juve c’è riuscito benissimo, undici anni senza mai una sosta. Quando è iniziata la serie infinita? «Quando ero ancora al Napoli. La prima delle 332 partite consecutive ha preso il via con la penultima giornata del campionato 1971-72, dopo il rientro dall’infortunio al perone».
Cosa era successo? «Mi ero fratturato la gamba durante un “torello” in allenamento: quella volta la mia solita voglia di fare senza risparmiarmi mi giocò un brutto scherzo. Potevo rompermi soltanto da solo».
Come è stata la sua esperienza al Napoli? «Molto positiva. Anche dal punto di vista umano: c’è stata una fusione straordinaria tra il pudore friulano e l’apertura partenopea. Se non fosse stato per la società, quella squadra avrebbe potuto fare grandi cose. Essere andato al Napoli è stata una fortuna».
Eppure lei nel 1967 pareva destinato al Milan: «Tra Mantova e Milan c’era un accordo verbale. All’improvviso saltò tutto in aria. Nell’ultimo giorno di mercato, il Napoli fece l’offerta. Addirittura di notte fu fatto aprire un ufficio postale per consentire la spedizione dei documenti in tempo utile».
Affare rocambolesco, al pari del suo esordio con la nuova maglia in amichevole al San Paolo: «Ero militare a Bologna. Non avevano fatto in tempo ad inserirmi nella compagnia atleti di Roma. Sistemate le ultime cose, presi la mia auto e mi misi alla guida per Napoli».
Che macchina era? «Una Giulia GT Ho sempre avuto la passione per le auto. Da ragazzo ho lavorato in officina tra pistoni e carburatori. A Mantova avevo una 850 Abarth, mentre prima viaggiavo su una 500 modificata».
Torniamo al viaggio verso il Sud con la Giulia: «Feci tutta una tirata. Rimasi sempre lucido e concentrato. Arrivai allo stadio un’ora prima della partita. Era un’amichevole estiva contro l’Independiente, ma era la prima uscita con il Napoli, non potevo steccare. E poi, dovevo abituarmi alle nuove usanze».
Quali? «Salutare il pubblico. Me l’aveva detto Pesaola. Quando entri in campo, devi andare sotto la curva. Un po’ la timidezza, un po’ il fatto che quella cosa mi sembrava una ruffianata, dissi: “Non ce la faccio”. Le prime volte fu davvero faticoso, alzavo a malapena la mano. Con il tempo è diventata una bella abitudine».
Come era quel Napoli? «Buonissima squadra. Zoff, Nardin, Pogliana; Stenti, Panzanato, Bianchi o Girardo; Orlando, Juliano, Altafini, Sivori e Barison. C’erano anche Canè e Montefusco. Quell’anno arrivammo secondi dietro al Milan. Era un Napoli bello e spettacolare. Là davanti c’erano dei pezzi da novanta, con il grandissimo Sivori».
Ma è vero che era ancora arrabbiato con lei per quello scontro in un Juve-Mantova in cui gli ruppe un paio di costole? (sorride) «È vero, ma il motivo era un altro. Un giorno mi disse: “Non ti perdonerà mai: mi hai fatto portare fuori dal campo in braccio da Heriberto Herrera!”»
A Napoli arriva il debutto in Nazionale, 20 aprile 1968, Italia-Bulgaria 2-0: «Fu una bella coincidenza esordire proprio a Napoli. Così come fu fantastica la serata della monetina, contro la Russia. Semifinale dell’Europeo, il San Paolo era una bolgia. Il pubblico ci sostenne sino alla fine».
Poi arrivò la doppia finale con la Jugoslavia per il primo storico trionfo continentale: «La Jugoslavia era forte, il loro numero undici, Dzajic, era un fuoriclasse. La prima fu sofferta, e finì in pareggio. Nella ripetizione, cambiammo mezza squadra. Andò bene: Burgnich poteva sbagliare una partita, non due».
Quali sono i flash di quel 10 giugno 1968? «L’1-0 di Riva, il raddoppio di Anastasi. Non ci crederai, ma al goal mi aggrappai alla traversa e ciondolai come una scimmia, pensa te. E poi le fiaccole accese alla fine della partita: la prima grande coreografia di massa che abbia mai visto».
Lei è Campione d’Europa, ma ai Mondiali 1970 gioca Albertosi, perché? «Perché era il portiere del Cagliari che aveva vinto lo scudetto e che aveva mezza squadra in Nazionale. Io giocai tutte le partite di qualificazione ai Mondiali e dopo la penultima amichevole (Italia-Spagna finita 2-2, con due autogol di Salvadore) mi fecero fuori».
Livello di rodimento? «Altissimo. Ero incazzato. E scaricavo la rabbia durante gli allenamenti. Ci rimise Bobo Gori che, almeno in due occasioni, fu vittima dell’esuberanza. Ma lo sport è anche questo, sono cose che vanno accettate. Con Albertosi c’era rivalità, non correva buon sangue, anche perché eravamo all’opposto su tutto».
Anche nella scelta delle divise, vero? «Per me la divisa vera del portiere è nera, con le maniche lunghe. In Nazionale ho sempre giocato con il grigio. Albertosi era più appariscente. Io, comunque sia, l’apprezzavo, era il portiere esuberante, spaccone».
E che non parava con i piedi, come faceva qualcun altro: «Quante volte l’ho dovuta sentire. Paravo anche con i piedi perché coprivo di più. Ero un portiere completo, ma il mio punto di forza erano le uscite basse. Anticipavo l’azione e tuffandomi riuscivo a coprire più spazio. E poteva venir fuori la parata con i piedi».
Dicevano anche che volava poco: «Perché il volo, tante volte, copre un errore di piazzamento. Io sentivo naturalmente la porta, la vedevo, ovunque mi trovassi. E spesso riuscivo a capire un attimo prima. Per questo non c’era bisogno del tuffo plateale e la parata sembrava facile».
E intanto torna la maglia numero uno della Nazionale ed arriva la chiamata della Juventus. «Mi è dispiaciuto lasciare Napoli, Io dico con sincerità. La verità è che la società aveva bisogno di soldi».
Il matrimonio con la Juve era annunciato: «Erano almeno due anni che mi cercavano. Ricordo un episodio durante la prima stagione con l’Udinese. Giocammo a Torino, ma la Juve aveva una divisa nera, come la mia. Il portiere juventino Vavassori, che quella domenica era fuori, mi prestò la sua. Tolsero lo scudetto e giocai per la prima volta con la divisa della Juve».
La prima immagine del suo arrivo a Torino? «Il sentirsi in famiglia, visto che c’erano molti compagni di Nazionale. Tra i tanti mi viene in mente Francesco Morini, uno che aveva sempre voglia di scherzare. Una volta mi fece un autogol e, mentre il pallone mi superava, mi faceva: “Chiappala, chiappala”: era il tormentone di Max Vinella, uno dei personaggi della trasmissione “Alto Gradimento” di Renzo Arbore».
Si aspettava una prima stagione a Torino così ricca di eventi tra primati e scudetto? «Alla Juve non mi sono posto limiti. Avevo trent’anni ed una gran voglia di vincere. Riguardo al record di imbattibilità (903 minuti, superato dopo ventuno anni, ndr), non ho mai lavorato per quello».
Belgrado 1973, la Coppa Campioni sfuggita all’ultima curva: «Non eravamo preparati in campo internazionale, ci mancavano esperienza e personalità. Di là c’era l’Ajax di Cruijff nel pieno boom. Peccato, perché con la Coppa in tasca avrei potuto vincere il Pallone d’Oro, visto che quell’anno arrivai secondo».
Merito anche delle prodezze a Wembley: «La prima vittoria dell’Italia in Inghilterra. Giocai una delle più belle partite di sempre. Gli inglesi ti cacciavano dentro l’area ed il portiere non è che fosse molto protetto dagli arbitri. Tiravano da tutte le parti ed il pallone bianco, marca Mitre, era simile a quelli moderni: leggero, all’apparenza sgonfio, con traiettorie da decifrare. Quella sera fu l’apoteosi del calcio italiano».
E per lei arrivò anche la copertina di “Newsweek”: «Fece clamore la mia imbattibilità in campo internazionale. All’estero ero più considerato rispetto all’Italia».
Con la Juve 1976-77 lei ha messo insieme Italia ed Europa: «Fu una stagione eccezionale. Il primo ricordo è per la Coppa Uefa vinta a Bilbao. Gli ultimi quindici minuti furono di vera battaglia. Quattro giorni dopo arrivò anche lo scudetto record dopo un derby durato tutto il campionato con il Torino del mio amico Castellini».
Eravate amici? «Si, nonostante la rivalità cittadina. Fu lui che mi procurò il primo paio di guanti moderni. Li fece venire apposta dalla Germania. Prima di allora si giocava con i guanti del 1938, quelli con la gomma delle racchette da ping pong sul palmo. Meglio le mani nude».
Contro chi era meglio avere i guanti? «Contro Paolo Pulici. Al Comunale, di fronte al proprio pubblico, si trasformava. Una volta riuscì a fregarmi con un pallonetto in corsa, da più di venti metri».
I famosi tiri da lontano che lei non vedeva: (ride) «Eccola l’altra storia. Di diottrie parlò Gianni Brera dopo Argentina 1978. Molto onestamente ai Mondiali non ebbi un gran rendimento. Ma a parte casi eccezionali, nel calcio non esistono tiri imparabili. Sui famigerati quattro gol presi da lontano, sicuramente avrei potuto fare meglio, e dunque le critiche erano giustificate. Ma si travalicò il limite e per sei mesi non parlai più con nessuno. Ma la cosa peggiore è che certe etichette non te le togli più. Vedi il goal di Magath».
Già, Atene 1983: perché? «Per tutti era diventata una formalità, quella finale con l’Amburgo. Noi eravamo fortissimi: la Juve più grande in cui ho giocato. Sicuramente i favoriti, ma eravamo mentalmente scarichi e fuori giri. Fu un disastro».
Lasciamo Atene e spostiamo le lancette indietro di un anno: estate 1982: «Una gioia così violenta non l’avevo mai provata. È impossibile da descrivere. Solo lo sport riesce a dare questi scossoni».
Perché l’Italia ha vinto il Mundial? «Perché aveva un uomo che si è preso tutte le responsabilità, anche non sue: Enzo Bearzot. E poi perché era forte, rapida, attaccava con cinque, sei giocatori davanti la porta, altro che contropiede! Quella era una squadra che aveva la straordinaria capacità di condurre l’azione con una velocità e qualità di gioco eccezionali».
Che non poteva fare a meno di Paolo Rossi: «Era indispensabile per la sua rapidità di pensiero ed il suo tempismo. Era veramente in crisi all’inizio. Però non hai mai mollato, trovando appoggio nel gruppo e, soprattutto, in Bearzot. E contro il Brasile è risorto».
A proposito di Brasile: se le dico Oscar? «Rispondo: una parata complicata, perché era l’ultimo minuto e perché ho bloccato la palla sulla linea. Sono stati secondi di terrore, già una volta in Romania mi dettero goal per un pallone che non era entrato. Andò bene, anche se devo dire che la parata più importante la feci sul 2-1, uscendo a terra su Cerezo».
Dopo il fischio finale è scattata la festa. Ci racconta cosa è successo tra lei e Bearzot? «Gli ho dato un bacio sulla guancia. Una cosa francamente straordinaria, dettata dall’euforia, dall’immensa gioia. Un gesto bello, spontaneo. Autentico».
Cosa ha significato sconfiggere i brasiliani? «È stata la partita della svolta. Dopo la vittoria con il Brasile ciascuno di noi ha avuto la convinzione che avremmo vinto la coppa. Nessuno ha mai detto nulla. Era una certezza intima, non espressa con le parole».
Cosa rimane dopo aver vinto un Mondiale? «La gioia pura, quella dei bambini. E poi Sandro Pertini. La partita a carte sull’aereo presidenziale ha azzerato ogni distanza. Quando ci invitò a pranzo al Quirinale fu eccezionale. Disse: “Voglio Bearzot alla mia destra e Zoff alla mia sinistra. Poi tutta la squadra. I ministri se trovano posto, bene. Sennò vadano pure da un’altra parte”. Unico».
Spostiamo nuovamente le lancette del tempo e torniamo al 1983. Si chiude la sua carriera: «Avrei potuto anche andare avanti, stavo bene. Ma dissi basta. Certo: Atene aveva inciso non poco».
E la fascia di capitano alla Juve passò a Scirea: «Quello di Scirea è un capitolo doloroso per me. Pensa che la notizia della morte ce l’ha data un casellante dell’autostrada a Torino. Tornavamo dalla partita contro il Verona con il pullman, ci fermammo a mangiare in un ristorante. Poi ripartimmo senza sapere nulla. Gaetano era un uomo dallo stile autentico. Mi manca molto, soprattutto per la sua serenità. Me lo sono chiesto tante volte come faceva a essere sempre così sereno».
Siamo in chiusura. C’è lo spazio per un bilancio forale di una vita di sport: «Il bilancio è positivo. Non ci sono delusioni o rimpianti. La mia filosofia è questa: se una cosa non l’ho fatta è perché in quel momento non potevo farla. O perché non me l’hanno fatta fare».

 

da "Il pallone racconta" di Stefano Bedeschi.

 

http://ilpalloneracconta.blogspot.nl/2008/02/dino-zoff.html

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Un grande calciatore, un grandissimo uomo.....solo un appunto (e chiedo perdono in anticipo)

quel gol preso da Magath ad Atene......... :,(

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Juventus Aiax coppa campioni 1978.. eliminiamo l'Aiax ai quarti di finale ai rigori con SuperDino protagonista assoluto.

il filmato inizia con Belgrado 73 ( che dolore ) per

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DINO ZOFF

NEI MIEI PRIMI 70 ANNI

HO PARATO TUTTO.

PERSINO BERLUSCONI

IL COMPLEANNO DEL PORTIERE-LEGGENDA CHE,

NELL’82, VINSE I MONDIALI. UNA STORIA DI SERIETÀ

«FRIULANA» ANCHE DA ALLENATORE AZZURRO,

SINO ALL’INCIDENTE COL CAVALIERE NEL 2000.

RIMPIANTI? NON ESSER RIUSCITO A PULIRE IL CALCIO

di MAURIZIO CROSETTI (IL VENERDI DI REPUBBLICA | 27 GENNAIO 2012)

ROMA. Questo sembra un compleanno, ma non è mica vero. Perché Dino Zoff è una

creatura senza tempo. Il 28 febbraio saranno settant’anni, gli stessi di

Muhammad Alì, dieci più di Vasco Rossi, quaranta più del mundial di Spagna che

ne festeggia trenta a luglio. «Io la chiamo la fortuna della vecchiaia: hai

capito com’è il mondo, e più di tanto non t’incazzi».

Ha lo stesso viso di quando stava in porta, la stessa andatura. Zoff guarda il

Tevere in un lucente mattino d’inverno, lo fissa come si scruta l’orizzonte di

un campo di calcio. Serio, attento. «Forse, ero un po’ vecchio già da giovane».

Dino, a settant’anni come si guarda il futuro?

«Si pensa a quello dei nipoti, magari la soluzione alla crisi è diventare

idraulico, o aggiustatore di sedie. Io, per me, ero motorista e quello avrei

fatto nella vita».

Era meglio, una volta? Proprio vero?

«Ho vissuto un mondo bellissimo, un mestiere fatto per bene. Lo sport migliora

le persone. Se ci credi, ci riesci. Poi, certo, arriva Calciopoli».

Perché è arrivata?

«Più per stupidità che per avidità. Il giocatore può essere facilone, può

farsi tirare dentro. Ma se mi avessero anche solo proposto un trucco, li avrei

picchiati ».

Lei ha giocato 330 partite consecutive: cos’è, la durata?

«Oggi non ci riuscirei. Oggi, il centravanti ti fa gol e comincia un ridicolo

balletto, una coreografia da varietà. Anche lì, se l’avessero fatto davanti a

me, li avrei menati, mi sarei fatto squalificare di sicuro. Sono pagliacciate,

io ho sempre tolto invece di aggiungere, ho cercato di semplificare i gesti,

le modalità, per arrivare all’osso delle cose».

Come invecchia una leggenda dello sport?

«Cercando di non macerarsi, visto che a 70 anni si comincia ad aspettare la

morte. Sorridendo di più, anche se non sono mai stato musone, quella è una

stupidaggine dei giornali. Serio sì, non musone ».

Il contrario di questi tempi da circo, e non s’offendano i clown.

«Ho visto Rivera ballare in quel programma con la Carlucci, che tristezza. Con

le battute scontate, però se sei Rivera non puoi farlo. Viviamo tempi

eclatanti e inutili, repliche di brutte commedie».

Ormai ci manca solo Zoff al Grande Fratello.

«Nel caso, ammazzatemi».

Qual è il calcio più bello che ha visto?

«Ma il calcio è sempre bello, è il contorno che non va, l’orpello, la

pesantezza. Le sceneggiate, i fronzoli: l’Italia ama premiare i furbi, i

simulatori, i venditori di fumo, è così che ci siamo rovinati. Ma un proverbio

dice che i furbi un bel giorno muoiono per colpa degli stupidi ».

Esiste una possibile difesa?

«Io lo chiamo “il canone friulano”: lavorare bene ed essere seri. Ho fatto il

possibile, ho cercato di dare l’esempio. Non si può cambiare il mondo, solo

modificarne una piccola porzione, la nostra, con l’impegno ».

Perché la vostra generazione di campioni non è riuscita a cambiare lo

sport? Perché, invece di ballare con le stelle, non avete provato a

diventare dirigenti?

«Perché la politica ha chiuso tutti gli spazi, il vero potere ci ha respinti.

E perché in Italia non si vuole il cambiamento: dopo Calciopoli è rimasto

tutto uguale».

Come si diventa Zoff?

«Lottando con i numeri, con i risultati che non bastano mai. Fare, fare, fare.

E mai un volo di troppo, non solo tra i pali. Per essere Zoff ho dovuto

vincere un mondiale a quarant’anni, eppure nel ’73 ero arrivato secondo nel

Pallone d’Oro dopo Cruyff. Ho cercato di tenermi basso, forse troppo, per il

pudore di far vedere cose che non ci sono».

Quali sono stati i portieri più grandi?

«Combi e Sentimenti IV sono lontanissimi e non li posso giudicare. Direi

Yashin, Banks, Zoff, Maier, Albertosi, Schmeichel e poi Buffon. Da giovane,

Gigi aveva più personalità di quanta ne avessi io alla sua età, ma da vecchio

io sono stato quasi imbattibile. Vedremo lui, a quarant’anni».

Il portiere può essere creativo?

«No, mai. Limita i danni dei creativi veri. Io sono stato un artigiano di

qualità, magari il migliore al mondo, però non un artista. Lo erano semmai

Pelè, il più grande di sempre, l’essenza del calcio, poi Maradona, forse più

geniale ma meno completo, Sivori, Cruyff, Platini, Messi che ora merita il

Pallone d’Oro a vita. E Paul Gascoigne».

Gazza Gascoigne? In questa incredibile compagnia?

«Sapeste che dolore, vederlo buttarsi via. L’arte sprecata è un crimine. L’ho

amato e odiato, per questo genio e questa dissipazione».

Trent’anni da Madrid ’82: lei e la coppa festeggiate insieme.

«È stato enorme, irripetibile. Perché l’Italia segnò tanti gol su azione,

velocissimi, perfetti. Riguardatevi la prima rete contro i tedeschi, con tre

azzurri sulla linea della palla. Ci trovavamo a meraviglia. Anzi, si trovavano

a meraviglia, perché io stavo in porta».

La nazionale era stata anche più bella in Argentina, nel ‘78.

«Vero, lì c’era pure Bettega, campione enorme. Il suo gol agli argentini,

Bettega- Rossi-Bettega, resta una delle migliori azioni nella storia del

nostro calcio ».

Invece lei non prese quei tiri da lontano.

«Se avessi giocato meglio, chissà, forse si poteva anche vincere il mondiale.

Ma non ero vecchio, anche se Brera scrisse che era una questione di diottrie.

Per mia fortuna, Bearzot vide più lontano. Mi sono sempre sentito figlio di

Enzo: era talmente limpido che non voleva neppure che gli osservatori della

nazionale volassero con le squadre di club che andavano a visionare, questo

per essere più liberi, irreprensibili ».

Mancheranno Bearzot e Scirea, alla sua festa.

«Gaetano era lo stile, la serenità. Un vuoto grande come il primo giorno. Era

sincero e pulito. Ed era più giovane di me, avrebbe ancora dato tanto esempio».

Esiste la parata della vita?

«Italia-Brasile dell’82, il famoso colpo di testa di Oscar nel finale. Volo e

blocco a terra quella palla, sapendo che non esiste altra soluzione. So di

averla presa in campo e non oltre la linea, ma è terribile l’istante in cui

aspetto di capire se anche l’arbitro ha visto bene, mentre i brasiliani già

gridano gol».

Cos’è stata la Juve, per lei?

«La consacrazione sportiva e la concretezza. Era come lavorare alla Fiat:

produrre e ricavare, produrre e ricavare. Si guadagnava sui premi più che

sull’ingaggio, e arrivare secondi era fallire. Logica industriale pura. Quando

si discuteva il rinnovo del contratto, Boniperti cominciava a giurare sui

figli: allora io pensavo che chi giura così, non può fregarti. Il mondo, però,

non è degli ingenui».

Cos’è la sconfitta?

«Rappresenta la vera consapevolezza dell’atleta, il suo momento di crescita,

perché si perde molto più di quanto si vinca. La finale di Atene contro

l’Amburgo fu tremenda, la chiusura anticipata della mia carriera. Troppo

entusiasmo: alla partenza, all’aeroporto di Caselle, ricordo un cartellone

enorme del Trap che pubblicizzava un amaro. E lo bevemmo davvero, quell’amaro

amarissimo».

Ripensa spesso al gol di Magath?

«Tutti lo ricordano come un tiro da lontano, invece era un metro dentro

l’area. La palla si abbassò in modo strano, con un effetto maledetto. Quella

finale di Coppa dei Campioni nell’83 venne perduta dalla più grande Juventus

di tutti i tempi».

Com’è una giornata da settantenne?

«Un po’ di sport la mattina, tennis, nuoto, e il pomeriggio con i nipotini di

due anni e mezzo e sette mesi. Sono un nonno operativo».

Perché lei passa per musone?

«Perché le parole di troppo sono fumo. Perché non mi è mai andato di giudicare,

di criticare, di dire bugie pur di dire qualcosa. Perché la banalità uccide,

invece il silenzio fortifica».

Un giorno Berlusconi la giudicò indegno, alla lettera. E lei lasciò la

panchina della nazionale.

«Sono sempre stato un uomo scomodo. Ma tanti di quelli che hanno provato a

farmi la morale li ho visti in azione, li ho conosciuti da vicino. Poi penso

all’onestà feroce di Bearzot e mi consolo».

Dino Zoff, le capita mai di sognare una partita di calcio? Di sognare

il desiderio di essere ancora un portiere?

«No, mai. Anche da giovane i miei sogni notturni erano confusi, indecifrabili

e caotici proprio come adesso, però non riguardavano mai il lavoro. Neppure

quelli ad occhi aperti, di cui sono uno specialista, e nessuno lo crederebbe.

Sognare una carriera nel calcio, le vittorie, sognare la vita che poi ho avuto

sarebbe stato impossibile: non c’era la tv che fa sembrare tutto a portata di

mano. Le prime partite dentro un televisore le vidi che avevo dodici anni, era

il mondiale del ’54».

Un sacco di tempo fa.

«Il tempo sconfigge tutto».

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I miei primi

70 anni

II 28 febbraio è il compleanno di Dino Zoff. Una ricorrenza straordinaria come

la sua vita. II Napoli, la Juve, la Nazionale Campione d'Europa e del Mondo.

«In Spagna vincemmo grazie a Enzo Bearzot. La parata piu difficile della

carriera? L'uscita sui piedi di Cerezo nella gara contro il Brasile»

di NICOLA CALZARETTA (GUERIN SPORTIVO | MARZO 2012)

Dino Zoff: un monumento della fiducia popolare. La pennellata, in un vecchio

servizio in bianco e nero, è di Beppe VIola. C'e tutto Zoff nella definizione:

monumento, perché grandissima é stata la sua carriera, dall'esordio nel 1961

all'addio a 41 anni dopo aver toccata la luna, ma solo perché «non posso

parare anche il tempo» come disse annunciando il ritiro. Fiducia, perché lui

c'era sempre. E Nando Martellini finiva sempre con la stessa, tranquillizzante

frase: «Parata di Zoff». Popolare perché il suo nome e cognome - Dinozoff,

tutto attaccato - alzi Ia mano chi non lo conosce. Ha unito Nord e Sud

giocando per il Napoli e la Juve, ma soprattutto perché è stato il portiere

della Nazionale Campione d'Europa nel 1968 e il capitano dell'Italia mundial

quattordici anni dopo, quando diventò un francobollo. Il 28 febbraio compirà

70 anni. Un traguardo speciale, un'occasione per parlare di sé, forse come mai

era successo prima d'ora. Lo fa seduto su uno dei divani del salotto del

Circolo Canottieri "Aniene", sul Lungotevere romano. Sorridente e

confidenziale.

Ma allora non è vero che lei è una sfinge?

«Questa è l'impressione che davo, sembravo freddo e distaccato. In realtà,

alla base del mio atteggiamento, oltre a un naturale equilibrio, c'era molto

pudore. Apparivo poco socievole e capisco di non essere stato molto

"giornalistico"».

Però per il Guerin Sportivo lei ebbe un'intuizione notevole.

«Non mi piaceva che anche il Guerino stesse dietro aile polemiche. Una sera a

cena, dopo una partita con la Nazionale a Mosca nel 1975, proposi a Italo

Cucci di puntare sulla cronaca sportiva e sulle fotografie, come faceva "II

calcio illustrato"».

In sintonia con il suo stile di vero sportivo.

«Lo sport è una cosa meravigliosa, con le sue regole, i suoi valori. Si vince

e si perde e il risultato va accettato. Per me è sempre stata una cosa seria:

mi sono allenato al massimo, spingendo a tavoletta tutti i giorni, con il

segreto di migliorarmi, anche a 40 anni».

Cosa le piaceva di più?

«L'allenamento. Era una cosa bellissima, mi divertivo. Anche a sfottere i

compagni. Quando non riuscivano a farmi gol, li prendevo in giro con il verso

del granchio. Gli ultimi anni di carriera sono stati i migliori: cominci ad

apprezzare veramente il lavoro. Da questo punto di vista mi sono sempre

sentito un dilettante pagato bene. Ho lavorato tanto, per il piacere di farlo».

Così tanto che per le sue riserve non c'è mai stato spazio.

«Un po' mi dispiaceva, ma non mi sono mai sentito in colpa. Le gerarchie erano

chiare. E d'altronde lo sport è questo. Gioca chi merita, chi è il migliore.

Io, poi, facevo di tutto per non mancare».

Anche quando non stava bene?

«Non ero condizionabile dal male. Anzi, il dolore per me era un fattore

positivo perchè significava aumentare la concentrazione, dote fondamentale per

un portiere. Poi ci sono state anche situazioni limite: al Napoli (dodicesimo

era Cuman, ndr) giocai addirittura con una mano incrinata».

È successo anche alia Juventus, vista la collezione di panchine di

Piloni, Alessandrelli e Bodini?

«Ma qualche volta hanno giocato, magari a fine stagione o in Coppa Italia. A

proposito di Alessandrelli, fu lui a suggerirmi dove buttarmi la sera del 15

marzo 1978, nei quarti di finale di Coppa dei Campioni finita ai calci di

rigore. Ne parai due».

Ma intanto in campo c'era sempre lei!

«Volevo esserci. Diciamo che qualche volta c'è stato qualche accordo segreto

con Trapattoni. Quando avevo qualche problema andavo dal Trap e gli dicevo:

"Ho male". E lui: "Te la senti comunque di giocare?". E io: "Me la sento". La

cosa rimaneva tra noi. Era un modo per condividere una situazione, non certo

per scaricare le responsabilità. Quelle me le sono sempre prese senza sconti».

Severo con se stesso?

«Severissimo. Ero presuntuoso, orgoglioso, anche un po' vanitoso e dunque alla

ricerca della perfezione. Per questo mi sono sentito sempre responsabile, in

tutto o in parte, delle situazioni che si creavano in campo. Per questo non

volevo saltare mai una gara».

Se è per questo alla Juve c'e riuscito benissimo, undici anni senza

mai una sosta. Quando è iniziata la serie infinita?

«Quando ero ancora al Napoli. La prima delle 332 partite consecutive ha preso

il via con la penultima giornata del campionato '71-72, dopo il rientro

dall'infortunio al perone».

Cosa era successo?

«Mi ero fratturato la gamba durante un "torello" in allenamento: quella volta

la mia solita voglia di fare senza risparmiarmi mi gioco un brutto scherzo.

Potevo rompermi soltanto da solo».

Come è stata la sua esperienza al Napoli?

«Molto positiva. Anche dal punto di vista umano: c'è stata una fusione

straordinaria tra il pudore friulano e l'apertura partenopea. Se non fosse

stato per la società, quella squadra avrebbe potuto fare grandi cose. Essere

andato al Napoli è stata una fortuna».

Eppure lei nel 1967 pareva destinato al Milan.

«Tra Mantova e Milan c'era un accordo verbale. All'improvviso saltò tutto in

aria. Nell'ultimo giorno di mercato, il Napoli fece l'offerta. Addirittura di

notte fu fatto aprire un ufficio postale per consentire la spedizione dei

documenti in tempo utile».

Affare rocambolesco, al pari del suo esordio con la nuova maglia in

amichevole al San Paolo.

«Ero militare a Bologna. Non avevano fatto in tempo a inserirmi nella

compagnia atleti di Roma. Sistemate le ultime cose, presi la mia auto e mi

misi alla guida per Napoli».

Che macchina era?

«Una Giulia GT. Ho sempre avuto la passione per le auto. Da ragazzo ho

lavorato in officina tra pistoni e carburatori. A Mantova avevo una 850 Abarth,

mentre prima viaggiavo su una 500 modificata».

Torniamo al viaggio verso il Sud con la Giulia.

«Feci tutta una tirata. Rimasi sempre lucido e concentrato. Arrivai allo

stadio un'ora prima della partita. Era un'amichevole estiva contro

l'Independiente, ma era la prima uscita con il Napoli, non potevo steccare. E

poi, dovevo abituarmi alle nuove usanze».

Quali?

«Salutare il pubblico. Me l'aveva detto Pesaola. Quando entri in campo, devi

andare sotto la curva. Un po' la timidezza, un po' il fatto che quella cosa mi

sembrava una ruffianata, dissi: "Non ce la faccio". Le prime volte fu davvero

faticoso, alzavo a malapena la mano. Con il tempo è diventata una bella

abitudine».

Come era quel Napoli?

«Buonissima squadra. Zoff, Nardin, Pogliana; Stenti, Panzanato, Bianchi o

Girardo; Orlando, Juliano, Altafini, Sivori e Barison. C'erano anche Canè e

Montefusco. Quell'anno arrivarnmo secondi dietro al Milan. Era un Napoli bello

e spettacolare. Là davanti c'erano dei pezzi da novanta, con il grandissimo

Sivori».

Ma è vero che era ancora arrabbiato con lei per quello scontro in un

Juve-Mantova in cui gli ruppe un paio di costole?

(sorride) «È vero, ma il motivo era un altro. Un giorno mi disse: "Non ti

perdonerò mai: mi hai fatto portare fuori da1 campo in braccio da Heriberto

Herrera!"».

A Napoli arriva il debutto in Nazionale, 20 aprile 1968,

Italia-Bulgaria 2-0.

«Fu una bella coincidenza esordire proprio a Napoli. Così come fu fantastica

la serata della monetina, contro la Russia. Semifinale dell'Europeo, il San

Paolo era una bolgia. II pubblico ci sostenne sino alla fine».

Poi arrivò la doppia finale con la Jugoslavia per il primo storico

trionfo continentale.

«La Jugoslavia era forte, il loro numero 11, Dzajic, era un fuoriclasse. La

prima fu sofferta, e finì in pareggio. Nella ripetizione, cambiammo mezza

squadra. Andò bene: Burgnich poteva sbagliare una partita, non due».

Quali sono i flash di quel 10 giugno 1968?

«L'1-0 di Riva, il raddoppio di Anastasi. Non ci crederai, ma al gol mi

aggrappai alla traversa e ciondolai come una scimmia, pensa te. E poi le

fiaccole accese alla fine della partita: la prima grande coreografia di massa

che abbia mai visto».

Lei è Campione d'Europa, ma ai Mondiali 1970 gioca Albertosi, perché?

«Perché era il portiere del Cagliari che aveva vinto lo scudetto e che aveva

mezza squadra in Nazionale. Io giocai tutte le partite di qualificazione ai

Mondiali e dopo la penultima amichevole - Italia-Spagna finita 2-2, con due

autogol di Salvadore - mi fecero fuori».

Livello di rodimento?

«Altissimo. Ero incazzato. E scaricavo la rabbia durante gli allenamenti. Ci

rimise Bobo Gori che, almeno in due occasioni, fu vittima dell'esuberanza. Ma

lo sport é anche questo, sono cose che varmo accettate. Con Albertosi c'era

rivalità, non correva buon sangue, anche perché eravamo all'opposto su tutto».

Anche nella scelta delle divise, vero?

«Per me la divisa vera del portiere è nera, con le maniche lunghe. In

Nazionaie ho sempre giocato con il grigio. Albertosi era più appariscente. Io,

comunque sia, l'apprezzavo, era il portiere esuberante, spaccone».

E che non parava con i piedi, come faceva qualcun altro ...

«Quante volte l'ho dovuta sentire. Paravo anche con i piedi perché coprivo di

più. Ero un portiere completo, ma il mio punto di forza erano le uscite basse.

Anticipavo l'azione e tuffandomi riuscivo a coprire più spazio. E poteva venir

fuori la parata coni piedi».

Dicevano anche che volava poco.

«Perché il volo, tante volte, copre un errore di piazzamento. Io sentivo

naturalmente la porta, la vedevo, ovunque mi trovassi. E spesso riuscivo a

capire un attimo prima. Per questo non c'era bisogno del tuffo plateale e la

parata sembrava facile».

E intanto torna la maglia numero uno della Nazionale e arriva la

chiamata della Juventus.

«Mi è dispiaciuto lasciare Napoli, lo dico con sincerità. La verità è che la

società aveva bisogno di soldi».

II matrimonio con Ia Juve era annunciato.

«Erano almeno due anni che mi cercavano. Ricordo un episodio durante la prima

stagione con l'Udinese. Giocammo a Torino, ma Ia Juve aveva una divisa nera,

come la mia. II portiere juventino Vavassori, che quella domenica era fuori,

mi prestò la sua. Tolsero lo scudetto e giocai per la prima volta con la

divisa della Juve».

La prima immagine del suo arrivo a Torino?

«Il sentirsi in famiglia, visto che c'erano molti compagni di Nazionale. Tra i

tanti mi viene in mente Francesco Morini, uno che aveva sempre voglia di

scherzare. Una volta mi fece un autogol e, mentre il pallone mi superava, mi

faceva: "Chiappala, chiappala": era il tormentone di Max Vinella, uno dei

personaggi della trasmissione Alto Gradimento di Renzo Arbore».

Si aspettava una prima stagione a Torino così ricca di eventi tra

primati e scudetto?

«Alla Juve non mi sono posto limiti. Avevo trent'anni e una gran voglia di

vincere. Riguardo al record di imbattibilità (903 minuti, superato dopo 21

anni, ndr), non ho mai lavorato per quello».

Belgrado 1973, la Coppa Campioni sfuggita all'ultima curva.

«Non eravamo preparati in campo internazionale, ci mancavano esperienza e

personalità. Di là c'era l'Ajax di Cruijff nel pieno boom. Peccato, perché con

la Coppa in tasca avrei potuto vincere il Pallone d'Oro, visto che quell'anno

arrivai secondo».

Merito anche delle prodezze a Wembley.

«La prima vittoria dell'Italia in Inghilterra. Giocai una delle più belle

partite di sempre. Gli inglesi ti cacciavano dentro l'area e il portiere non è

che fosse molto protetto dagli arbitri. Tiravano da tutte le parti e il

pallone bianco, marca Mitre, era simile a quelli moderni: leggero,

all'apparenza sgonfio, con traiettorie da decifrare. Quella sera fu l'apoteosi

del calcio italiano».

E per lei arrivò anche la copertina di Newsweek.

150px-ZoffNewsweek.jpg

«Fece clamore la mia imbattibilità in campo internazionale. All'estero ero più

considerato rispetto all'Italia».

Con la Juve 1976-77 lei ha messo insieme Italia ed Europa.

«Fu una stagione eccezionale. II primo ricordo è per la Coppa Uefa vinta a

Bilbao. Gli ultimi 15 minuti furono di vera battaglia. Quattro giorni dopo

arrivò anche lo scudetto record dopo un derby durato tutto il campionato con

il Torino del mio amico Castellini».

Eravate amici?

«Sì, nonostante la rivalità cittadina. Fu lui che mi procurò il primo paio di

guanti moderni. Li fece venire apposta dalla Germania. Prima di allora si

giocava con i guanti del '38, quelli con la gomma delle racchette da ping pong

sul palmo. Meglio le mani nude».

Contro chi era meglio avere i guanti?

«Contro Paolo Pulici. Al Comunale, di fronte al proprio pubblico, si

trasformava. Una volta riuscì a fregarmi con un pallonetto in corsa, da più di

venti metri».

I famosi tiri da lontano che lei non vedeva.

(ride) «Eccola l'altra storia. Di diottrie parlò Gianni Brera dopo Argentina

'78. Molto onestamente ai Mondiali non ebbi un gran rendimento. Ma a parte

casi eccezionali, nel calcio non esistono tiri imparabili. Sui famigerati

quattro gol presi da lontano, sicuramente avrei potuto fare meglio, e dunque

le critiche erano giustificate. Ma si travalicò il limite e per sei mesi non

parlai più con nessuno. Ma la cosa peggiore è che certe etichette non te le

togli più. Vedi il gol di Magath».

Gia, Atene 1983: perché?

«Per tutti era diventata una formalità, quella finale con l'Amburgo. Noi

eravamo fortissimi: la Juve più grande in cui ho giocato. Sicuramente i

favoriti, ma eravarno mentalmente scarichi e fuori giri. Fu un disastro».

Lasciamo Atene e spostiamo le lancette indietro di un anno: estate 1982.

«Una gioia così violenta non l'avevo mai provata. È impossibile da descrivere.

Solo lo sport riesce a dare questi scossoni».

Perche I'Italia ha vinto il Mundial?

«Perché aveva un uomo che si è preso tutte le responsabilità, anche non sue:

Enzo Bearzot. E poi perché era forte, rapida, attaccava con cinque, sei

giocatori davanti la porta, altro che contropiede! Quella era una squadra che

aveva la straordinaria capacità di condurre l'azione con una velocità e

qualità di gioco eccezionali».

Che non poteva fare a meno di Paolo Rossi.

«Era indispensabile per la sua rapidità di pensiero e il suo tempismo. Era

veramente in crisi all'inizio. Però non hai mai mollato, trovando appoggio nel

gruppo e, soprattutto, in Bearzot. E contro il Brasile è risorto».

A proposito di Brasile: se le dico Oscar?

«Rispondo: una parata complicata, perché era l'ultimo minuto e perché ho

bloccato la palla sulla linea. Sono stati secondi di terrore, già una volta in

Romania mi dettero gol per un pallone che non era entrato. Andò bene, anche se

devo dire che la parata più importante la feci sui 2-1, uscendo a terra su

Cerezo».

Dopo il fischio finale è scattata la festa. Ci racconta cosa è

successo tra lei e Bearzot?

«Gli ho dato un bacio sulla guancia. Una cosa francamente straordinaria,

dettata dall'euforia, dall'immensa gioia. Un gesto bello, spontaneo.

Autentico».

Cosa ha significato sconfiggere i brasiliani?

«È stata la partita della svolta. Dopo la vittoria con il Brasile ciascuno di

noi ha avuto la convinzione che avremmo vinto la coppa. Nessuno ha mai detto

nulla. Era una certezza intima, non espressa con le parole».

Cosa rimane dopo aver vinto un Mondiale?

«La gioia pura, quella dei bambini. E poi Sandro Pertini. La partita a carte

sull'aereo presidenziale ha azzerato ogni distanza. Quando ci invitò a pranzo

al Quirinale fu eccezionale. Disse: "Voglio Bearzot alla mia destra e Zoff

alla mia sinistra. Poi tutta la squadra. I ministri se trovano posto, bene.

Sennò vadano pure da un'altra parte". Unico».

Spostiamo nuovamente le lancette del tempo e torniamo al 1983: si

chiude la sua carriera.

«Avrei potuto anche andare avanti, stavo bene. Ma dissi basta. Certo: Atene

aveva inciso non poco».

E la fascia di Capitano alla Juve passò a Scirea.

«Quello di Scirea è un capitolo doloroso per me. Pensa che la notizia della

morte ce l'ha data un casellante dell'autostrada a Torino. Tornavamo dalla

partita contro il Verona con il pullman, ci fermammo a mangiare in un

ristorante. Poi ripartimmo senza sapere nulla. Gaetano era un uomo dallo stile

autentico. Mi manca molto, soprattutto per la sua serenità. Me lo sono chiesto

tante volte come faceva a essere sempre così sereno».

Siamo in chiusura: c'è lo spazio per un bilancio finale di una vita di sport.

«Il bilancio è positivo. Non ci sono delusioni o rimpianti. La mia filosofia è

questa: se una cosa non l'ho fatta e perché in quel momento non potevo farla.

O perché non me l'hanno fatta fare».

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INTERVISTA

Dino Zoff: I 70 anni (senza rimpianti)

dell’uomo della porta accanto

di MASSIMILIANO CASTELLANI (Avvenire.it 14-02-2012)

Lo sguardo ridotto a una fessura, raggrinzisce le mani nei guanti, pare

assente, chiuso nel vetro di una sfera lontana...». Così uno degli irregolari

della letteratura del ’900, lo “juventinissimo” Giovanni Arpino, vedeva il suo

idolo e amico Dino Zoff. Noi siamo andati a bussare al vetro di quella sfera

lontana, ma trasparente, per rivederci 70 anni della storia di un uomo (li

compie il 28 febbraio) che in tuffo ha intercettato anche quella di un intero

Paese. Nella storia popolare rimane un monumento, eretto ben oltre la porta di

un campo di calcio. E come tutti i grandi monumenti, preferirebbe restarsene

immobile, osservando la sua Roma, «dove da friulano sradicato ho scelto di

fermarmi a vivere» e il mondo, in un “silenzio zoffiano”.

Se è vero che Celentano ha inventato le “pause” in tv, allora Zoff ha

portato il silenzio nel calcio...

«Se l’ho portato, allora è finito in fretta, con tutto sto rumore assordante

che si sente intorno al pallone... Mi hanno proposto di fare il commentatore,

ma ho sempre rifiutato: ho già fatto tanti errori, perché dovrei giudicare

quelli degli altri? E poi, quelle poche volte che mi riascolto dopo

un’intervista, sono io il primo che si addormenta», sorride, accendendosi la

prima sigaretta.

Poche parole e anche rari sorrisi. Forse l’unica foto in cui sorride è

quella in cui alza la Coppa del Mondo.

«Può darsi, del resto la mia regola è sempre stata: poche chiacchiere, tanta

concretezza, niente smancerie. Bearzot l’avevo spiazzato quella volta a

Barcellona: dopo aver battuto il Brasile sono andato ad abbracciarlo. Me l’ha

ripetuto fino alla fine, non credeva che avessi potuto osare tanto. . . ».

Ha aperto l’album dei ricordi su quell’istantanea con il ct, ma chi

era Enzo Bearzot?

«Un integralista della coerenza e della dignità. Un uomo colto e pur essendo

un friulano come me, Enzo era uno di tante parole, ma tante. . . ».

Tante pagine invece ha il suo album. Sfogliamolo con ordine. Il

dimenticato e dignitosissimo Cina Bonizzoni la fa debuttare in A

all’Udinese, nel ’61, poi lo porta al Mantova e da lì approda nel

Napoli di Omar Sivori.

«Un genio assoluto, adoravo il sarcasmo di Omar. Mi diceva sempre: “Senza quei

tre pali di legno, voi portieri fareste la fame...”. Adesso che ci ripenso con

Sivori ridevo tanto».

Invece ha fatto piangere di gioia Sanon, l’haitiano che le segnò un

gol storico ai Mondiali del ’74.

«In quell’Azzurro tenebra, come scrisse Arpino, almeno ho fatto felice

qualcuno, Sanon grazie a quel gol è diventato un eroe nazionale. Tempo fa una

onlus per i terremotati di Haiti, mi ha invitato a una serata, e lì, io sono

stato accolto da eroe».

Eroicamente arrivò alla Juve a trent’anni suonati. Ma anche a lei

l’Avvocato faceva squillare il telefono di casa alle 6 del mattino?

«No, a me chiamava alle 9, 30, probabilmente era già la cinquantesima

telefonata. L’Avvocato capiva di calcio come pochi e quando era all’estero,

oltre a chiedermi le condizioni meteo in Italia, voleva sapere di tutti i

calciatori in circolazione in Europa».

Quindi Agnelli ascoltava i suoi consigli per gli acquisti e Boniperti

poi andava al mercato...

«Il mercato per un “fattore astuto” come lui era la sua casa. Boniperti

contrattava su tutto. Quando nel ’76 perdemmo il campionato per la sconfitta

di Perugia, al ritorno dalle vacanze, ci mise la distinta di quella partita

sotto il naso e disse: “Avete perso uno scudetto con questi sconosciuti, non

pretenderete mica l’aumento?...”».

L’anno dopo, il 30 ottobre 1977 tornate a Perugia: la partita finì 0-0,

ma ci fu la tragedia di Renato Curi.

«Cosa ci può essere di più terribile di una morte in diretta su un campo di

calcio, dove tutti sono lì a celebrare un momento di festa? Un giorno troppo

triste, non lo dimenticherò mai...».

Ha cancellato invece quei gol presi da lontano (con Olanda e Brasile)

ad Argentina ’78, con Gianni Brera che l’accusava di non avere

abbastanza diottrie?

«Le cose brutte si cancellano più in fretta. Ci rimasi male per quello che

scrisse Brera, al punto da non parlare con i giornalisti per sei mesi. Oggi

comunque quelli sarebbero considerati degli eurogol e non delle “papere” del

portiere».

L’uomo di calcio che vorrebbe rincontrare.

«Gaetano Scirea. Forse non gli ho mai detto ti voglio bene, ma a noi bastava

guardarci negli occhi per capirci. Anche la notte che vincemmo il Mondiale

eravamo in camera e ci sorridevamo con gli sguardi, senza dire una parola,

perché era troppo grande l’emozione che stavamo vivendo. Gaetano era migliore

di me, era più autentico...». E qui gli occhi sono lucidi, e non è il fumo

della seconda sigaretta accesa.

Qual è stato l’esempio che ha seguito per diventare Dino Zoff?

«L’educazione della mia famiglia. Oggi i genitori vorrebbero che i figli

fossero tutti dei fenomeni. I miei mi dissero: se vuoi tentare con il calcio

provaci, ma intanto tieniti stretto il lavoro in officina. Poi quando sono

arrivato in Serie A, un giorno che mi lamentavo per un gol preso con un tiro

che non mi aspettavo, mio padre mi fulminò: “Ma scusa Dino, tu che mestiere

fai, il portiere o il farmacista?”».

Ha fatto il portiere, il ct, il presidente, per poi chiudere da

allenatore. Ma non le piacerebbe tornare in panchina?

«Come potrei allenare una squadra dove a ogni gol ci sono 4-5 che si mettono a

festeggiare con i balletti davanti al portiere? Non lo sopporto, anche perché

non sono gesti istintivi di gioia, ma puro esibizionismo, coreografie studiate

a tavolino per la diretta tv».

Neanche i balletti televisivi di Rivera le sono piaciuti, eppure balla

anche Bobo Vieri...

«Sì ma Vieri è uno che si è sempre prestato allo show e alle copertine delle

riviste. Rivera non può, lui come me è stato il calcio, è una questione di

coerenza».

Per coerenza, lei si è presentato davanti ai giudici al processo di

Calciopoli...

«Ho solo confermato che quando allenavo la Fiorentina avevo avuto dei “cattivi

pensieri”. Certi arbitraggi erano quanto meno sospetti... Nessuno stavolta ha

detto che avevo le diottrie e qualcosa di strano mi pare che alla fine è

venuto fuori».

Nel nostro calcio si passa da uno scandalo all’altro, ora è il tempo

di Scommessopoli.

«Il calcio, lo sport, ti permette di esprimerti e di mostrare ciò che sei

realmente. Ma il mondo del calcio è lo specchio della società in cui viviamo,

che è fatta di gente che vuole vincere e avere soldi e successo, anche a costo

di violare continuamente le regole».

Che Italia vede, rispetto a quella della notte mundial di Spagna ’82?

«Siamo diventati un Paese molto strano che a volte faccio fatica a capire. Non

sopporto tutto questo piangerci addosso. Capisco e soffro quando vedo le

lacrime del padre di famiglia che ha perso il lavoro, ma non tollero la

piangina per un po’ di neve».

Dalla sua porta, qual è l’immagine che l’ha colpita di più?

«Aver visto cadere il Muro di Berlino con dieci anni di anticipo. Giocavamo in

Polonia e la gente allo stadio per la prima volta si ribellava ai militari. . .

Pensai che il mondo stava davvero cambiando».

I tifosi più speciali che ha incontrato?

«Pertini e Papa Wojtyla. Come si arrabbiò il Presidente per quella partita

persa a scopa di ritorno da Madrid... Poi però chiese scusa e mi disse: “Zoff,

avevo sbagliato io la giocata”. Papa Wojtyla ci tenne a dirmi che da ragazzo

aveva giocato in porta e mi ripeteva: “Il nostro sa, è un ruolo di grande

responsabilità”. Confermo Santità, gli risposi».

Come il suo corregionale Capello in Inghilterra, nel 2000 anche lei

diede le dimissioni da ct della Nazionale, dopo che l’allora premier

Berlusconi la definì “indegno”, per aver perso la finale degli Europei

(al golden-gol).

«Forse non era un gesto da fare, ma per come sono io, non potevo non farlo. . .

Però a Berlusconi oggi posso dire che alla fine ha vinto Zoff».

E qual è stata la sua vittoria?

«L’affetto e il rispetto della gente. Ovunque vado, in qualsiasi strada

d’Italia, c’è sempre qualcuno che si avvicina per stringermi la mano e per

dirmi: “Grazie Zoff per tutto quello che ha fatto in campo e per l’uomo che

è».

Spegne la sigaretta e torna nella sua sfera lontana, in silenzio.

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L’intervista Portiere campione del mondo, poi allenatore e commissario

tecnico, anche dirigente, a 70 anni si racconta e spiega il suo calcio

«Io, Zoff, abbastanza

un buon esempio»

«Sono sempre stato feroce nell'autocritica

Più portato alla concretezza che alle scuse»

di ALBERTO COSTA (CorSera 24-02-2012)

ROMA — «Il portiere era considerato il pazzariello della compagnia. Io ho dato

un'altra versione del ruolo». Dino Zoff compie 70 anni e il racconto della sua

vita scorre pacato come il Tevere, che è lì sotto, torbido e silenzioso.

Quelle mani immortalate in un celebre disegno di Renato Guttuso mentre

sollevano la Coppa del Mondo nella notte madrilena dell'11 luglio 1982 ora

hanno 70 anni. Il tempo non ha pietà neppure per i miti dello sport. «Sono di

famiglia contadina e so che questa è la legge della natura. Sono passati quasi

trent'anni ma tutti mi parlano ancora di quel Mondiale, della parata contro il

Brasile. È un ricordo continuo per tante generazioni».

Dino Zoff lei è una vera e propria icona vivente. Ne ha la percezione?

«Mi inorgoglisce tutto perché ho la presunzione di avere seminato bene, di

essermi sempre comportato come Dio comanda. La popolarità non mi ha mai dato

fastidio, non mi ha mai pesato fare un autografo. Io non sono stato umile nel

mio lavoro, sono sempre stato feroce nell'autocritica, ho sentito la

responsabilità sui gol che ho preso e quindi credo di meritarmela, la

popolarità. Sono sempre stato per la concretezza e non per le scuse».

Com'era il suo calcio?

«Era un gioco, una passione. Ho incominciato da bambinetto a fare il

portiere. L'ho fatto per vocazione, non c'era la tv per darti un'immagine da

prendere come mito, come riferimento. Anche i sogni erano limitati».

E com'è il calcio di oggi?

«Il campo è lo stesso, le misure sono le stesse. È cambiato l'ambiente

esterno. Ora dopo un gol si fanno i balletti. Cose senza senso, ci vuole

rispetto dell'avversario».

In effetti...

«Anche da allenatore ho sempre battuto sul chiodo. Un atleta deve dimostrarsi

forte e invece basta una spintarella e uno stramazza a terra: ma che atleta

sei? Che cosa racconti a tuo figlio? Che hai strappato un rigore con una

furbata?».

E com'era Dino Zoff da giovane?

«A 10 anni al paese che divertimento migliore del calcio ci poteva essere?

Fare 10 chilometri in bici per giocare la partita era una festa. Ho studiato —

tre anni di avviamento professionale, poi il biennio tecnico — e sono andato a

lavorare: facevo il motorista in una grande officina».

E continuava a tuffarsi tra i pali.

«Facevo la parte dello scemo del villaggio, mi buttavo sempre. Le lascio

immaginare i pantaloni. I più grandi mi prendevano in giro. Ma già a 13-14

anni il paese era orgoglioso di quel portierino. Mi sono venuti a vedere

quelli del Milan e quelli dell'Inter. Sa chi era il responsabile del settore

giovanile dell'Inter? Era Meazza, pensi quanto tempo è passato. Poi a 17 anni

sono andato a Udine e lì ho esordito in serie A con una scoppola a Firenze,

perdemmo 5-2».

Lei è cresciuto in un'Italia diversa, senza Festival di Sanremo e

vecchi tromboni.

(ride) «Il mondo di allora era più facile. Se uno ne aveva voglia c'erano più

possibilità di emergere. E si facevano anche più sacrifici».

Da ragazzo era per i Beatles o per i Rolling Stones?

«Ero più legato al mondo dei motori. Il mio idolo era Jim Clark».

E per chi faceva il tifo?

«Ero juventino. Al paese erano quasi tutti juventini. A parte un paio del

Toro e un milanista».

I più grandi con cui ha giocato?

«Sivori, Platini, Boninsegna, Altafini, Schnellinger. E poi gran parte dei

miei compagni del Mondiale di Spagna».

E invece i più forti tra quelli che ha allenato?

«Signori, Schillaci. Per non parlare di Gascoigne che ha sprecato tutto con

uno stile di vita non da atleta».

Chissà le arrabbiature con Gazza.

«Gli artisti li ho sempre amati, forse perché io non lo sono. Un portiere

deve evitare quello che creano gli altri».

Mundial dell'82. Erano così fuori luogo le critiche iniziali alla

vostra nazionale?

«Del tutto fuori luogo. C'era una campagna accanita contro Bearzot, furono

scritte cose inimmaginabili. Quell'Italia ha cambiato molti luoghi comuni sul

nostro calcio catenacciaro. Avevamo due punte, più Antognoni e Cabrini che

andava sempre. C'era Tardelli. Certo, sapevamo anche difendere».

Da c.t. avrebbe potuto fare il bis a Euro 2000. Che cosa non ha

funzionato nella finale con i francesi?

«Semplice. Il destino ci ha aiutato in semifinale con l'Olanda e non con la

Francia. Se fossimo usciti con gli olandesi non saremmo andati nemmeno in

finale. Sono fatalista».

E l'entrata a gamba tesa di Berlusconi che la incolpò di non avere

saputo imbrigliare Zidane?

«Io non sono un integralista del calcio. Accetto tutte le opinioni. Lì la

questione è stata furbescamente spostata sulle marcatura di Zidane ma a farmi

dimettere sono state le parole di Berlusconi contro l'uomo, sulla mia

indegnità a guidare la nazionale».

Tra tutti i suoi ex compagni qual è quello che si è dimostrato più

bravo come allenatore?

«Capello, senza dubbio. È il più bravo perché è il più normale. Il calcio è

semplice».

Il personaggio più strano che le è capitato di incontrare?

«Gascoigne. Una volta, nonostante io avessi cercato di dissuaderlo, se ne

andò dal ritiro la sera del sabato perché era arrivata la sua fidanzata. Il

giorno dopo, il giorno della partita, ero a pranzo con una parte del mio staff

e me lo vidi piombare completamente nudo al ristorante. Non nudo con gli slip

e i calzini: proprio nudo. ‘‘Mister, mi hanno detto che mi voleva e non ho

fatto in tempo a vestirmi''. Aveva cambiato idea. Ovviamente non l'ho fatto

giocare ma con uno così, a suo modo geniale, come ci si può arrabbiare?».

Qual è stata la sua gioia più grande?

«Beh, il Mondiale. L'ho vinto a 40 anni, da capitano».

E la delusione?

«La finale di Coppa dei Campioni persa ad Atene con l'Amburgo nell'83, gol di

Magath. Quella era la Juve più forte di tutti i tempi. La partita sembrava una

formalità, per l'ambiente era già vinta prima di giocarla».

Se le fosse possibile, che cosa eliminerebbe dal calcio di oggi?

«Mi piacerebbe un calcio più semplice, che finisse dopo la partita e che non

sia virtuale. Ormai invece la televisione è una religione, se non vai in tv

non esisti».

Alla fine che cosa ha rappresentato Dino Zoff per il calcio?

«Uno che ha lavorato bene, con serietà. Anche se è poco umile dirlo, sono

stato abbastanza un buon esempio. Siccome me lo dicono tutti, ci credo».

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L’anniversario Il portiere campione del mondo nel 1982 fu acquistato dal Mantova nell’estate del 1967

Zoff, i settant’anni di super Dino

«A Napoli diventai Nembo Kid»

di NINO MASIELLO (IL MATTINO 24-02-2012)

Cominciamo dagli auguri: tanti e di cuore, a Dino Zoff che di anni martedì

prossimo ne compirà settanta e di questi cinque sono napoletani, per giunta

quelli che segnarono l’ingresso del portiere di Mariano del Friuli nell’olimpo

dei calciatori di assoluto valore mondiale: i campioni di tutti i tempi, in

campo e fuori.

Dino, Napoli ti vuole sempre bene.

«L’amore è ricambiato perché Napoli è sempre nel mio cuore, la città e la

squadra che la rappresenta così degnamente. Cinque anni indimenticabili, ho

vissuto a Napoli in modo splendido e ancora mi emozionano i molti ricordi di

quell’esperienza. Dall’amichevole con l’Indipendiente, alla vigilia del mio

primo campionato, alle molte volte che sono venuto a giocare con la maglia

della Juve e ogni volta i tifosi fischiavano tutti i bianconeri riservando

invece a me, che ero rimasto il loro Nembo Kid, tanti applausi».

L’amichevole con l’Indipendiente, il tuo battesimo al San Paolo...

«Arrivai allo stadio un’ora e mezza prima della gara, venivo in macchina da

Bologna dove, con Juliano, ero militare di leva. Gli argentini si scatenarono

ma non mi spaventarono, i tifosi se ne resero conto e forse fu quel giorno che

pensarono di soprannominarmi Nembo Kid, come scrissero su uno striscione

esibito nella prima giornata di campionato. Quella domenica mi sentii

acclamato e io, friulano timido, mi intimidii ancor di più al punto che a

stento riuscii a ringraziare con un breve cenno della mano».

I tuoi compagni di allora, li rivedi?

«Spesso ci incrociamo, con Juliano, Panzanato, con Nardin, che è delle mie

parti, con Micelli. Come rivedo vecchi amici napoletani, per esempio Bruno De

Pascale. Ed è sempre una festa ritrovarsi».

Le stagioni con il Napoli?

«Le prime due furono ad altissimo livello, eccezionali, quella era una grande

squadra. Poi calammo un po’, forse gli investimenti non erano più adeguati

alle esigenze della piazza».

Oggi il Napoli molte volte riempie lo stadio, visto?

«Non mi meraviglio, ricordo che quando c’ero io il Napoli aveva, comunque,

55mila abbonati».

Ricordi Gioacchino Lauro?

«Certamente. Un presidente generoso, affabile. Pesaola mi voleva, lui mi

prese dal Mantova all’ultimo minuto del mercato, qualcuno disse fuori tempo

massimo. Ero destinato al Milan, che poi prese Cudicini. Andò alla grande a

tutti e due, io dopo sette-otto mesi ero in Nazionale, Cudicini è rimasto al

Milan per sette anni, non lo hanno dimenticato».

Prima di te il Napoli vantava già la tradizione dei grandi portieri,

che tu hai ulteriormente nobilitato. Ora c’è De Sanctis,

caratterialmente ti somiglia?

«Non dimenticherei Castellini, il giaguaro. Quanto a De Sanctis, è da tempo

un grande portiere, sta facendo cose importanti tra i pali di una squadra che

non finisce di stupire. Non mi perdo una partita del Napoli. In Champions si è

dimostrata all’altezza di squadre abituate da sempre a competere sul piano

internazionale. Contro il Chelsea, dopo aver superato il girone infernale, ha

offerto un’altra prestazione maiuscola e sono convinto che passerà il turno

giocando anche a Londra senza paura».

Come si fa rimanere... Zoff per settant’anni?

«Rispettando il lavoro e le persone, rimanendo se stessi, sempre. Non mi è

mai pesato essere riconosciuto, rilasciare un autografo, farmi fotografare con

un tifoso. In fondo nella vita ho avuto la fortuna di fare quello che mi

piaceva. Qui, probabilmente, il segreto della mia serenità».

La carriera

Nella leggenda al Bernabeu

di NINO MASIELLO (IL MATTINO 24-02-2012)

Dino Zoff, il capolavoro di Gioacchino Lauro. Pesaola aveva visto

all’opera nel Mantova il portierone di Mariano del Friuli e ne aveva

parlato a Lauro jr e al ds Montanari. Il Mantova chiedeva la luna, la

trattativa fu estenuante e Zoff arrivò proprio nell’ultimo giorno di

mercato per la stagione 1967-68. Dava il cambio a un buon portiere,

Claudio Bandoni, tre stagioni azzurre. Fu presentato al San Paolo in

un’amichevole con l’Indipendiente, non ha mai dimenticato quel giorno.

Come non ha dimenticato le mani d’acciaio di Michelangelo Beato, il

massaggiatore tutto caramelle e pizzicotti. All’esordio in campionato

contro l’Atalanta (1-0), davanti a Zoff c’erano Nardin, Pogliana ,

Stenti, Panzanato, Girardo, Orlando, Juliano, Altafini, Bianchi e

Barison. Nella rosa, anche Sivori, Canè, Bosdaves, Montefusco. È la

stagione che vede due azzurri in Nazionale, due grandi amici: Zoff e

Juliano, protagonisti dell’Europeo con la finale bis con la Jugoslavia

a Roma. Primo anello di una lunga carriera (143 partite nel Napoli),

con sei scudetti alla Juve e l’apoteosi del Mondiale ’82 al Bernabeu.

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Dino

Z o f f

L’uomo che

tenne il mondo

fra le mani

Settant’anni di una leggenda Portiere immenso,

silenzioso, vincente. I record, la dignità. Sbattè la

porta e disse a Berlusconi: «Non prendo lezioni da te»

di COSIMO CITO (l'Unità 24-02-2012)

Nel 1982, al centro della sua e della vita di milioni di italiani, Dino Zoff

aveva 40 anni e si avviava in silenzio all’immortalità tenendo il mondo e una

sua dorata riproduzione in alto, sotto il cielo del Bernabeu. Il 28 febbraio

prossimo Dino Zoff taglierà quota settanta: settant’anni di calcio, silenzi,

voli leggendari, uscite di classe. E un ricordo su tutti.

Il 5 luglio del 1982, minuto novanta di Italia-Brasile. Calcio d’angolo teso.

La palla vola sulle teste italiane e incontra Oscar, un difensore salito alla

disperata tra le maglie azzurre alla ricerca del 3-3. Colpo di testa

strepitoso, la palla viaggia indisturbabile verso il fondo del sacco prima che

sulla linea di porta una mano immensa la fermi, pochi millimetri dentro al

campo. Il padrone di quella mano immensa si alza, stringe il pallone, fa segno

di no, lo urla, lo urlano da casa, i 56 milioni d’italiani, non è gol, è

ancora 3-2, è ancora semifinale, è ancora Mundial. L’arbitro Klein dà ragione

al portiere, dà ragione a Dino Zoff. La più indimenticabile delle parate

cambia la vita dei 56 milioni, che 3 minuti dopo si riversano nelle strade e

riempiono con la loro gioia tutto quello che trovano, auto, fontane, monumenti,

trombe, tutta l’aria. Fu quella parata, fu quel no, fu Dino Zoff.

Settant’anni da padre della patria calcistica, da uomo senza fronzoli, da

portiere che niente concedeva allo spettacolo e agli avversari, 112 volte

azzurro (grigio, in realtà, era grigia la sua maglia, intonata alla sua voce,

al suo umore invariabile), tutto il possibile vinto, compresi un Europeo e un

Mondiale a 14 anni di distanza: portiere, poi capitano, poi unico portavoce

della Nazionale in Spagna durante quel mitico e irripetibile silenzio stampa

che privò gli italiani di parole ma li arricchì di emozioni, di figli, di

notti magiche davvero. Lui era il portiere, lui l’estremo difensore di una

squadra che non era perfetta e non era la migliore, ma che fu la migliore per

quattro partite di seguito, contro il meglio del mondo di allora, Maradona,

Zico, Boniek, Rummenigge. Quattro partite in tutto.

CHI IL PIÙ GRANDE?

Chi è il portiere italiano più forte di sempre? Zoff o Buffon? Il dubbio

resterà, stili diversissimi, epoche contrapposte. Buffon si augura di chiudere

col calcio a quarant’anni. Zoff chiuse a 41, dieci anni di Juve e prima anche

Napoli, Mantova e Udinese, la squadra del cuore, la squadra della sua terra.

570 volte in mezzo ai pali in serie A. Suo il record di imbattibilità in

azzurro, 1142 minuti tra il 1972 e il 1974, tra Vukotic e Sanon, l’haitiano

che non t’aspetti nel tragicomico mondiale tedesco, quello del vaffa di

Chinaglia, dei dubbi di Valcareggi, quello ritratto per sempre da Giovanni

Arpino in Azzurro tenebra. Zoff era "San Dino" in quelle pagine memorabili.

Allenatore, anche, dell’amata Juve, condotta nel ’90 allo storico bis coppa

Italia-coppa Uefa ma lo stesso messo alla porta per far spazio a Maifredi, al

nuovo che avanzava. Fu rimpianto all’istante da una società che aveva puntato

sulla zona, su De Marchi, Julio Cesar, Luppi, su uomini e mezzi lontani dalla

sua storia. Fu anche il primo anno di Roby Baggio, quello, e fu un anno

orribile. Zoff lavorò a Roma, sponda Lazio, prima con Calleri e poi con

Cragnotti, preparando a future grandezze una società digiuna di vittorie. Fu

anche presidente biancoceleste, poi ancora un anno in panca prima della

chiamata in azzurro dopo Francia ’98. Due anni impossibili, pieni di polemiche,

chiusi dal golden gol di Trezeguet alla fine di un Europeo già vinto, chiusi

da una frase di Berlusconi e da una risposta di Zoff restata memorabile: «Non

mi faccio dare lezioni di dignità da quel signore». Si dimise e andò via,

lontano dal calcio. Ci rientrò due volte per poco tempo, Lazio e Fiorentina.

Poi basta, poi fu solo silenzio. Lo stesso di oggi: dignitosamente lontano,

immensamente diverso.

I settant’anni arrivano come quel pallone di Oscar, attesi ma improvvisi. È

l’assedio del tempo, che i ricordi tengono fermo sulla linea, a quei giorni di

luglio, a quella coppa dorata tra le mani, a quello scopone con Causio,

Bearzot e Pertini in aereo. A quei giorni, a quelle emozioni, così

insostituibili, maiuscite dal campo, sempre in mezzo ai pali della memoria.

Buon compleanno, leggenda.

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L'INTERVISTA Martedì il compleanno del portiere-allenatore-presidente: una carriera che ha accompagnato la storia del grande calcio

«Io contadino

diventato

Nembo Kid»

Zoff, settant’anni da numero 1

di GABRIELE DI BARI (Il Messaggero 25-02-2012)

ROMA - I 70 anni di un Mito sono un momento speciale perché Dino Zoff ha

rappresentato, e rappresenta ancora, l’icona del calcio italiano. Taciturno,

ombroso, amletico: uno scrigno di ricordi, aneddoti, saggezza e, soprattutto,

di vittorie che hanno costellato una carriera longeva, carismatica,

inimitabile. Da consegnare alla storia sportiva.

Mister Zoff, da dove cominciamo?

«Da sessanta anni fa».

Pensavamo peggio...

«Veramente possiamo andare ancora più indietro nel tempo, perché avevo

quattro-cinque anni quando cominciai a parare in cortile».

Quindi, un predestinato?

«E’ stata una vera e propria vocazione, i compagni tiravano e io cercavo di

parare. Il ruolo mi piaceva, man mano il gioco diventò una cosa sempre più

seria e concreta. E, siccome ero bravino, a quindici anni mi portarono alla

Marianese, la squadra del mio paese».

Perché le è sempre piaciuto questo ruolo?

«Non sono mai stato né un artista, né un creativo, ho sempre preferito la

solitudine».

Aveva già la statura giusta?

«Non proprio. Il presidente mi riteneva basso e, ogni quindici giorni, mi

misurava, sperando che fossi cresciuto di altri centimetri. Effettuai un

provino per l’Inter, fu Meazza a visionarmi, ma non mi presero. A farsi avanti,

invece, fu l’Udinese. Così, a diciassette anni, venni tesserato dalla società

friulana, facevo il pendolare con il capoluogo. Mi dividevo tra il lavoro di

motorista e il calcio. Giocavo nel campionato De Martino, quello delle

riserve. A diciott’anni, dopo l’esame di idoneità a Coverciano, divenni

calciatore professionista a tutti gli effetti».

Cosa ricorda dell’esordio in serie A?

«Un vero disastro, incassai cinque reti. A Udine la situazione non era facile

perché l’allenatore Eliani non mi vedeva, ogni settimana chiamava in prova un

portiere. Solo il presidente Bruseschi mi stimava. Un giorno mi convocò e mi

disse: ”Qui nessuno ti vuole. Seppure a malincuore, sono costretto a cederti

però sono convinto che farai strada”. Ci rimasi male e passai al Mantova di

Schnellinger».

Fu l’inizio della grande ascesa calcistica?

«Mantova ha rappresentato il trampolino. Nel 1967 ero praticamente del Milan».

Poi, cosa accadde?

«Avevo le valigie pronte, sapevo che il trasferimento era cosa fatta.

All’ultimo momento, però, l’accordo saltò per una cifra molto esigua. Il Milan

di Rocco acquistò Cudicini dal Brescia, dato da tutti in fase calante. Invece,

passato in rossonero, giocò le migliori sei stagioni della vita, vincendo

tutto. E io mi ritrovai al Napoli».

Non le andò tanto male.

«I cinque anni di Napoli furono magnifici, con l’esordio in Nazionale e

l’affetto incredibile della gente. Praticamente mi costrinsero a salutare la

Curva dietro la mia porta ogni volta che giocavamo al San Paolo. E, per una

persona solitaria e schiva come me, questi gesti rappresentavano un’enorme

forzatura al carattere».

Quando nacque l’appellativo di Nembo Kid?

«Dopo una partita contro l’Independiente nella quale parai anche

l’impossibile, volando da un palo all’altro. Per i tifosi partenopei divenni

un eroe e, quando il presidente Ferlaino, per motivi economici, dovette

cedermi alla Juventus, a momenti scoppiò una rivoluzione».

Undici anni in bianconero, senza saltare un incontro.

«Le mie riserve, Piloni, Alessandrelli e Bodini, non erano molto felici della

mia costanza. Giocavo anche con trentotto di febbre, non mollavo mai. Con

Alessandrelli, in particolare, esisteva un rapporto di grande amicizia».

I rapporti con l’avvocato Agnelli?

«Stravedeva per me, sia come portiere, sia come allenatore. La sua telefonata

arrivava puntuale, ogni mattina alle otto. Era un competente, conosceva i

calciatori di tutto il mondo e, quando non sapeva tutto di qualcuno, si

informava. Quando giocavamo in casa, nell’intervallo, scendeva negli

spogliatoi a prendere un caffè. Mai un’interferenza tecnica o tattica, solo un

incoraggiamento. Una presenza assolutamente discreta».

La parata più bella in carriera?

«All’Olimpico, all’ultima giornata di campionato, al primo anno di Juventus.

Eravamo sull’uno a zero per la Roma, il tiro era di Spadoni: se fossimo andati

ancora sotto non saremmo riusciti a rimontare e non avremmo vinto lo scudetto».

E quella contro il Brasile ai Mondiale 1982?

«Quella su Oscar è stata la più famosa e la più importante, non la più

difficile».

Il gol che mai avrebbe voluto subire?

«Quello storico di Magath».

E la partita che mai avrebbe voluto giocare?

«La finale della Coppacampioni ad Atene, contro l’Amburgo. La Juve contava

otto-nove nazionali, oltre a Platini e Boniek. Sembrava tutto scontato, facile,

scritto, invece non riuscimmo a giocare. Una disfatta».

Ai Mondiali del 1978, in Argentina, venne preso di mira dalla critica,

per alcuni gol subiti da lontano, contro Olanda e Brasile.

«Scrissero pure che ero diventato cieco. Anch’io potevo sbagliare, per

fortuna Bearzot mi rinnovò la fiducia e, ai Mondiali di Spagna, arrivò il

titolo».

Che reazione aveva quando commetteva degli errori?

«Non riguardavo le partite perché ci trovavo sempre qualcosa che avrei potuto

fare meglio. Ero meticoloso, perfezionista, maniacale, il primo critico di me

stesso. In questo avevo imparato da mio padre. Una volta, commentando insieme

una rete subìta a Napoli, su tiro da lontano che non mi aspettavo, mi zittì

così: “Non te l’aspettavi? Ma fai il portiere, non il farmacista. . . »

Qual è il più forte calciatore con cui ha giocato?

«Ne voglio citare tre: Platini, Altafini e Sivori».

Quello a cui era più legato?

«Gaetano Scirea, ci bastava uno sguardo per capirci».

Ricorda il calciatore che l’ha più delusa?

«Sì, Capocchiano».

L’avversario più bravo in assoluto?

«Johan Cruyff, campione e inimitabile condottiero».

Il più temuto?

«Paolino Pulici. Giocava davvero bene solo i derby perché, con la spinta del

pubblico, si esaltava, si trasformava. Diventava immarcabile, una furia, mi

faceva sempre gol».

L’allenatore che ricorda con più affetto?

«Dico Pesaola, Bearzot e Trapattoni».

Quello che mai avrebbe voluto avere?

«Eliani».

Ci racconti della storica partita a scopone sull’aereo, di ritorno

dalla Spagna con la Coppa del Mondo vinta.

«Io e il Presidente Pertini, contro Causio e Bearzot».

Chi la vinse?

«Bearzot e Causio. E Pertini incolpò me di aver commesso un errore. Ma, dopo

un mese, telefonò scusandosi e ammettendo che era stato lui a sbagliare. Oggi

quella partita avrebbe riscosso un successo mediatico mondiale».

Il passaggio sulla panchina è stato semplice?

«Non ho incontrato problemi, mi sono tolto belle soddisfazioni: Olimpica,

Juventus, Lazio, Nazionale».

Chi sceglie tra i tanti calciatori che ha allenato?

«Potenzialmente Gascoigne, purtroppo non aveva la testa. Dopo l’infortunio con

Nesta rifiutò il preparatore nelle vacanze e, quando tornò, feci fatica a

riconoscerlo: aveva dieci chili in più. Scelgo Signori».

Il più grande rimpianto da tecnico?

«La rete di Dalmat a tempo scaduto, a Bari contro l’Inter quando allenavo la

Lazio. Senza quel pareggio avremmo potuto contendere lo scudetto alla Roma».

Veniamo a Zoff ct dell’Italia.

«Una bella avventura, anche se chiusa polemicamente».

In azzurro ha guidato Totti, Baggio, Del Piero: chi sceglie?

«Francesco Totti, che ho fatto esordire in Nazionale. Un fenomeno, di tecnica

e potenza. Gli rimprovero solo di non aver fatto di più a livello

internazionale, perché aveva tutti i mezzi per lasciare tracce ancora più

importanti».

Cosa pensò quando fece il cucchiaio contro gli olandesi?

«Nulla di particolare, Francesco era bravo dal dischetto, non ho mai temuto

che sbagliasse».

Le hanno rimproverato di aver mal gestito la finale con la Francia,

agli Europei del 2000. Se avesse effettuato un’altra sostituzione...

«Subimmo il gol del pari su rinvio del portiere, non credo che una

sostituzione avrebbe cambiato la storia. Mi ero lamentato con l’arbitro,

Garcia Aranda, che conoscevo, dei quattro minuti di recupero. In semifinale

avevamo avuto fortuna, in finale andò tutto storto. Non si può avere tutto

dalla vita».

Perché lasciò bruscamente la Nazionale?

«Per le accuse di Berlusconi che ferirono la mia persona, non le potevo

accettare. Ma pochi furono scontenti della mia decisione di lasciare la

panchina azzurra».

E Zoff presidente?

«La nomina di Cragnotti mi sembrò una bocciatura come allenatore. Ad ogni

modo è stata una esperienza importante anche questa, che ha completato la mia

vita calcistica. Da presidente sono tornato due volte in panchina ad aiutare

la Lazio, con ottimi risultati».

Non è uscito troppo presto dal giro?

«Forse, non sono mai stato bravo nelle pubbliche relazioni. E questo, per un

personaggio sportivo, è un difetto».

Che differenze trova tra il suo calcio e quello odierno?

«Magari oggi si cura più l’aspetto fisico e lo spettacolo, a dispetto della

tecnica che conta meno. I balletti dopo i gol, i modi di festeggiare un

successo e di commentarlo».

Oltre al calcio, quale altra passione ha coltivato?

«Mi sono sempre piaciuti i motori e le auto».

Perché, dopo tanto girare, ha scelto di fermarsi a Roma?

«Mi sono subito trovato bene. Da buon friulano torno spesso nella mia

regione. Però la vita ormai è in questa città».

Possiamo considerare Zoff più bravo o più fortunato?

«Entrambe le cose, perché la vita mi ha dato tantissimo e ho potuto fare la

professione che mi piaceva e sognavo».

Ha mai pensato di entrare in politica?

«Me l’hanno chiesto diverse volte, non fa per me».

Come trascorre il tempo il settantenne Zoff?

«Golf, tennis, piscina e famiglia».

Ma allo stadio proprio non va più?

«No, preferisco guardare le partite in televisione e fare il nonno di due

nipotini. Sono un contadino e le stagioni della vita devono rispecchiare

quelle della natura». Allora, tanti auguri Super Dino.

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L’INTERVISTA MARTEDÌ È IL COMPLEANNO DELL’EX C.T. AZZURRO

Il portiere festeggia il traguardo

Zoff

Cin cin 70: «Viaggio tra i miti»

«Ho conosciuto Jascin, Cruijff, Totti, Buffon...

E una parata da Oscar m’ha lanciato tra i grandi»

di ALBERTO CERRUTI (GaSport 26-02-2012)

Non aveva mai parlato tanto come in questi giorni. Nemmeno nel 1982, in Spagna,

quando era il capitano che rappresentava i compagni in silenzio stampa. Ma

settant'anni sono un bel traguardo e Dino Zoff lo para volentieri, saltando da

un palo all'altro dei suoi ricordi, con lo stile di sempre, asciutto ed

efficace. Lo stile di un campione che ha saputo vincere in campo e nella vita,

come marito, padre e nonno sereno.

Buffon in un'intervista in tv si è immaginato più vecchio di 40 anni,

lei che cosa farebbe se tornasse indietro di 40?

«Per l'amor di Dio, non ho mai fatto voli di fantasia, specialmente sul

lavoro, si figuri se li faccio adesso».

Nell'amichevole di mercoledì, Buffon la supererà nel numero di

presenze in Nazionale: contento o un po' geloso?

«E' logico che mi superi, perché adesso si gioca di più. Ma a me rimane il

record di 330 partite consecutive con la Juve e quello sarà difficile da

battere».

Si ricorda la prima partita vista da ragazzo?

«Avevo 12 anni e da solo, quasi di nascosto, andai nel bar strapieno del mio

paese, per vedere il Mondiali del '54. Era tutto un circo, allora».

Quando è andato allo stadio l'ultima volta?

«Tre anni fa a Roma per la finale di Champions Barcellona-Manchester United.

Un'eccezione, perché preferisco la tv».

E davanti alla tv per chi tifa?

«Mai stato tifoso, a parte quando ero ragazzino ed erano tutti juventini

dalle mie parti. Al massimo provo simpatia per le squadre in cui ho giocato,

perché sono stato bene ovunque».

Lei è stato bene ovunque, ma a quale città è più legato?

«Vivo bene a Roma, anche se mi sento sempre friulano. A Udine vado a trovare

mia sorella e quando torno rivedo tutti i ricordi degli anni verdi».

Lei ha sempre amato le auto: qual è stata la più bella che ha avuto?

«Ricordo una 850 Abarth, ma anche la prima Giulietta non era male».

E qual è stato il pilota che ha ammirato di più?

«Il mio idolo era Jim Clark, mentre oggi mi piacciono Lewis Hamilton e

Sebastian Vettel».

Tra i campioni degli altri sport chi avrebbe voluto conoscere?

«Coppi. Ricordo le discussioni al bar tra i coppiani e i bartaliani, ma io

ero per Coppi».

Nel 1942 sono nati anche Ali, Agostini, Facchetti, Gimondi, Mazzola,

Reutemann: a chi si è sentito più vicino?

«Sicuramente non a Cassius Clay. Mi riconosco di più in Gimondi».

Che cosa la inorgoglisce di più dei suoi 70 anni?

«Il fatto di avere sempre fatto le cose per bene».

Qual è il complimento che le fa più piacere?

«Sentirmi dire che sono sempre rimasto lo stesso, senza montarmi la testa».

Qual è, invece, la critica che la disturba?

«Non mi piace passare per orso, perché non mi sento un orso».

C'è stato qualcuno, o qualcosa, che l'ha fatta arrabbiare?

«Nel ‘68 avevo vinto l'Europeo, poi ho giocato tutte le gare di

qualificazioni al Mondiale del '70, ma lì Valcareggi scelse Albertosi. Rimasi

molto male, però a mente fredda capii che non era stata un'ingiustizia perché

Albertosi aveva appena vinto lo scudetto con il Cagliari e lì c'erano molti

suoi compagni».

Qual è stata la squadra più forte che ha visto?

«La Juve che perse la finale di Atene nel 1983. Tra le straniere dico l'Ajax

di Cruijff».

Non si è mai pentito di avere dato le dimissioni da c.t. della

Nazionale, dopo le critiche di Berlusconi?

«Forse non erano da dare, ma non potevo non darle, perché erano critiche

all'uomo, non alle tattiche».

Poi anche Berlusconi ha dato le dimissioni...

«Lui è stato costretto, è diverso».

Se lo incontrasse che cosa gli direbbe?

«Ma io non lo incontro».

Come c.t., dopo aver allenato Baggio, in quell'Europeo aveva Totti e

Del Piero: chi sceglie?

«Totti è stato un fenomeno di tecnica e potenza, peccato che non abbia avuto

più successo a livello internazionale».

Giochino dei migliori: il miglior compagno?

«Segato all'Udinese, perché mi sosteneva nei primi momenti difficili».

Miglior portiere?

«Jascin, l'unico Pallone d'Oro».

Miglior avversario?

«Cruijff».

Miglior c.t.?

«Bearzot».

Miglior allenatore di club?

«Capello».

Miglior presidente?

«Bruseschi, l'unico a credere in me a Udine. Piangeva mentre mi diceva che

era costretto a cedermi al Mantova, perché lì non mi volevano più. Venivo da

un campionato balordo, ma lui vedeva lontano».

Anche lei aveva visto lontano con Buffon...

«Capii subito che sarebbe diventato il miglior portiere italiano».

Parliamo del Mondiale vinto: la parata su Oscar è sempre la più bella,

o ce ne sono state di migliori nella sua carriera?

«È stata la più importante e la più difficile. Se non avessi trattenuto quel

pallone, adesso non starei facendo questa intervista e non sarei stato

invitato a Vienna nella serata in cui la Fifa ha radunato i 50 campioni di

tutti gli sport».

E il ricordo più dolce del 1982?

«Quella sigaretta fumata la notte del trionfo a Madrid, in camera con Scirea.

Nessuno sapeva trasmettere serenità come Gaetano, sorridente e pacato come

nessun altro».

Quanto le manca Bearzot?

«Per me è stato come un padre e non è la solita frase. Sprigionava un alone

quasi di santità, con la sua onestà feroce. Oggi molti si lamentano delle

critiche, ma nessuno è stato linciato moralmente come lui, offeso a livello

umano con una cattiveria oggi inimmaginabile».

Che cosa avrebbe detto Bearzot a Ibrahimovic dopo l'ultima squalifica?

«Gli avrebbe parlato un po' scherzando e un po' seriamente. Ma credo che con

lui non sarebbe successo nulla, perché Bearzot sapeva prevenire i problemi con

il suo esempio contagioso».

Oggi si emoziona ancora?

«Quando vedo giocare Messi, poesia pura».

Per concludere, con quale aggettivo si definirebbe?

«Serio, anche se ormai non si usa più».

la
Lettera

di
JOSEPH BLATTER
(Presidente Fifa)

Un campione vero,

anche come uomo

Caro Dino,

Di cuore tanti auguri per il Suo 70° compleanno. Potrei elencare tutte

le vittorie che Lei è riuscito a ottenere grazie alla sua bravura, il

Suo talento e la Sua caparbietà di affrontare qualsiasi ostacolo -

quasi spudoratamente. Sì perché ci vuole un bel coraggio per

presentarsi a un Mondiale con più di 40 anni come fece Lei nell'82. E

voler vincere la massima delle coppe nel calcio internazionale.

Tutti oggi sappiamo che Lei non era spudorato ma, se mai, tutti noi

ingenui: non è l'età che conta bensì la qualità. Incredibile come

riuscì a salvare quella palla di Oscar, un colpo di testa nell'angolo

basso, ai Mondiali in Spagna. In Brasile se lo ricordano ancora oggi.

La Sua qualità che personalmente stimo di più però è un'altra: la Sua

autenticità. Essere, non sembrare. Gentiluomo dentro e fuori dal

campo. Non per convenzioni, ma per convinzione.

In un mondo sempre più chiassoso Lei si è sempre fatto sentire con

parole dosate, equilibrate, giuste. Non bisogna alzare il volume per

essere sentiti. L'importante è il contenuto. A prescindere da tutte le

coppe e tutti i trofei che uno può vincere: è proprio questo che

distingue il presunto campione da quello vero.

Bon anniversaire! Auguri!
Modificato da Ghost Dog

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L’intervista

TRAPATTONI

Domani compie 70 anni

Dino Zoff, il monumento

del calcio italiano

E Giovanni Trapattoni,

a lungo suo allenatore

alla Juve, racconta una

carriera e un’amicizia:

“Quando apriva bocca, gli

altri stavano zitti. Questo

è il capitano: uno che non

dice stupidaggini”

Caro

amico

Dino

di GIANNI MURA (la Repubblica 27-02-2012)

Caro Trapattoni, vogliamo augurare buon compleanno, e sono 70, a uno

che conosce bene?

«M´invita a nozze. Auguri, Dino. Pubblicamente. Poi ci sentiamo in privato».

Da quanto tempo vi conoscete?

«Non è che prendessi appunti, lui era in porta al Mantova e io giocavo nel

Milan. Si capiva che avrebbe fatto strada, doveva solo maturare. È maturato a

Napoli. Quand´è arrivato alla Juve mi ha chiesto: come mi regolo? Devo darti

del tu o del lei? Mi sono messo a ridere: ma dài, Dino, abbiamo giocato

insieme dandoci sempre del tu, vuoi cambiare adesso? Non scherziamo. È inutile

ricordarti il rispetto dei ruoli».

Era inutile, in effetti.

«Lo so, ma qualcosa dovevo pur dire. Vede, io con Zoff ho avuto un rapporto

molto bello fin dagli inizi. Avevamo una cosa in comune: il padre contadino. E

poi ho verificato che tra bergamaschi e friulani ci sono altre cose in comune:

il saper lavorare anche tanto, ma senza lamentarsi, e il rispetto per gli

altri».

Due ruoli diversi, però.

«Il portiere è un calciatore diverso da tutti gli altri. È un uomo solo. Deve

avere una forza interna che lo tiene su, quando un altro si demoralizzerebbe.

Anche a Dino sono capitati episodi negativi, dai cinque gol che beccò

all´esordio, a Firenze, a quello di Magath ad Atene. Ecco un´altra cosa in

comune: Atene è il nostro ricordo più brutto».

Era parabile il tiro di Magath?

«No, son passati quasi trent´anni e non cambio idea. Tiri gobbi, li chiamo.

Nei campionati britannici se ne vedono ancora molti, qui sono abituati a

tirare da tutte le parti. La valutazione visiva di un portiere, ho parlato con

degli specialisti, non è la stessa di uno spettatore. Questi tiri gobbi, di

collo pieno, sembrano destinati ai piccioni e s´abbassano di colpo. Dino era

piazzato correttamente, Magath ha indovinato l´angolino alla sua sinistra».

Brucia ancora?

«Tantissimo. Era una grande Juve, arrivò in finale senza perdere mai. Me la

sentivo, l´ho detto chissà quante volte a Boniperti: questi ci fanno uno

scherzo da prete. Infatti hanno vinto con un tiro in porta. Noi potevamo

segnare di testa con Bettega, c´era un rigore su Platini, ma è inutile

rivangare. Il calcio è anche questo. Bisogna accettarlo e guardare avanti».

Un mese dopo Atene Zoff annuncia il suo ritiro. Ha fatto bene?

«So che avrebbe voluto continuare, che non si sentiva un pensionato, e che ha

smesso per rispetto della Nazionale e del titolo di campione del mondo. Non lo

critico per questo, è una decisione sua. Qui al nord c´è più rispetto per gli

anziani, non sono visti come fossili ma come esempi di attaccamento alla

maglia, allo sport. So di non essere originale, ma Dino è stato un grande

calciatore e un grande esempio. E poi ha fatto bene anche da allenatore e da

dirigente. Mica facile. Come calciatore, nel suo ruolo non faceva certo la

gioia dei fotografi. Il famoso volo plastico, nemmeno a pagarlo che lo faceva.

Era tutto concentrazione e senso della posizione. In più, estrema

professionalità. Ha fatto campionati interi, al Napoli come alla Juve, senza

saltare una sola partite. Mai un raffreddore, un reumatismo. Niente. E sa qual

era la fatica maggiore, quando lo allenavo?».

Farlo parlare?

«No, farlo smettere di allenarsi. Avrebbe fatto notte. Dovevo sempre

dirglielo due o tre volte: oh, Dino, dopodomani giochiamo, tieni qualche

parata per domenica. Poi, detto tra noi, non è obbligatorio che il capitano

sia uno che racconta le barzellette. È vero che Zoff parlava poco o niente, ma

appena apriva bocca tutti gli altri stavano zitti e non solo i giovani, anche

Platini e Boniek. Questo è il capitano: uno che non dice stupidaggini. Nel

calcio contano anche i numeri: se nelle squadre di club Dino inizia e chiude

in modo amaro, con la maglia della Nazionale vince gli Europei a 26 anni e

chiude a 40 da campione del mondo. E tutti abbiamo in mente il pallone che

inchioda sulla linea all´ultimo minuto su un colpo di testa dei brasiliani.

Per molti, Dino era da pensionare dopo Argentina ‘78. Ma il tempo sa essere

galantuomo».

E lo Zoff allenatore? Lei si sarebbe dimesso dopo le critiche di

Berlusconi?

«Io no, ma capisco Zoff: l´aggettivo indegno non poteva accettarlo.

L´avvocato Agnelli diceva: l´italiano offende chi può, non chi vuole. E io lo

tengo a mente. In generale, se un pirla mi dà del pirla non faccio una piega,

mi entra da un´orecchia e mi esce dall´altra. Veda di metterlo in un italiano

corretto».

È più efficace così, direi.

«Va be´, solo che in quel caso Berlusconi non era un pirla ma copriva un

ruolo istituzionale, e questo ha reso le sue frasi molto più pesanti. E

comunque, visto che stiamo parlando dei settant´anni di Dino, gli voglio dire

che tirarsi fuori dal calcio è stata una scelta giusta. Oggi non riuscirebbe a

starci dentro».

Lei sì, però.

«Io sì, ma non in Italia. In Irlanda. Non mi avrete mica preso perché sono

nato il giorno di San Patrizio, vostro protettore? Io sono Giovanni il

peccatore. Così ho detto il primo giorno, una risata non fa mai male. E

qualcosa di buono ho combinato: da trentaquattresimi a ventesimi nel ranking

mondiale, qualificati per gli Europei e se non c´era la manina di Henry

andavamo anche ai Mondiali. Il mio vecchietto, e me lo tengo stretto, è Robbie

Keane, 32 anni, ma ha sfondato così giovane, come Franco Baresi, che rischia

di passare per Matusalemme».

Cosa non va, in Italia?

«È un calcio svilito sul piano comportamentale. A un tecnico si richiede

sempre più pazienza, più capacità di mediare. Non solo in Italia. Prenda

Platini, uno dei più intelligenti che ho allenato. Aveva tutto per essere un

ottimo allenatore ma ha smesso quasi subito. Perché ha capito che era un

mestieraccio. La cosa più complicata è fare i conti con un ambiente che ha un

codice etico diverso dal tuo. Con certi frillini sofisticati smussi, limi,

abbozzi e prima o poi sbotti, perché rodersi il fegato e star zitti è peggio.

È un mestieraccio ma ci sono affezionato e non saprei farne un altro».

La storia

Piloni, l´eterna riserva

"Io per lui non esistevo"

All´ombra del Mito: "Come stare in un imbuto"

di MAURIZIO CROSETTI (la Repubblica 27-02-2012)

E poi c´era anche lui. Con quella tuta celeste che pareva un

pigiama, a bersi tutta l´ombra che le leggende si lasciano

dietro, una corrente che porta via ogni cosa. Perché il prezzo

della gloria lo paga sempre la gente comune. La luce abbagliante

di Dino Zoff gli cadde addosso come un sacco, e Massimo Piloni

ci restò dentro per anni. Era il portiere di riserva, ma Zoff

avrebbe giocato anche da moribondo, anche nel sonno, anche a

briscola. Non gli serviva a niente, una riserva.

«Ero grande e grosso, però agile. Se la Juve mi aveva scelto,

vuol dire che mi stimava. Nella vita bisogna conoscere il

proprio ruolo, e il mio era essere la riserva di Zoff». Il

dodicesimo, come si diceva allora. «Fu importante, fu come

scivolare dentro un imbuto».

Di lui hanno memoria i bambini di cinquant´anni, quelli che lo

spalmarono sull´album a partire dalla stagione 1971-72. Piloni

aveva una faccia senza sorriso. Tre scudetti nell´imbuto e zero

presenze. «C´era quest´amichevole ad Ancona, la mia città.

Speravo che Zoff mi cedesse il posto, invece volle giocare lui a

tutti i costi. Una delusione come fosse ieri».

Poi i giorni passano, aspettando quello che non verrà. Massimo

Piloni si sedeva sulla panchina e tirava fuori la radio, se la

metteva all´orecchio come un pensionato ai giardinetti e

ascoltava Tutto il calcio minuto per minuto. Il suo compito era

aggiornare la squadra sui risultati degli altri. Gregario anche

in questo. «Ma io mi vanto di quegli anni, ero sempre pronto,

facevo vita da atleta più di tutti, perché se mi avessero

chiamato sarei stato pronto, perfetto, in forma. Non mi

chiamarono mai». I tartari non vennero, ma ecco Piloni sempre di

vedetta, con la mano a visiera. L´ombra, non solo negli occhi.

«Con Dino non parlavo mai di me, la sensibilità avrebbe dovuto

averla lui, quella di accorgersi ogni tanto che esistevo. Ma

Zoff non era così sensibile. Una volta giocò una semifinale di

Coppa Italia togliendosi il gesso dalla mano, perdemmo 2-3 in

casa. Credo che se lui è stato così grande, un po´ di merito

l´ho avuto anch´io, non gli ho mai dato fastidio».

L´uomo della radiolina si levò il pigiama solo due volte, le

uniche da titolare: in Coppa Italia con il Cesena e prima

dell´arrivo di Dino in semifinale di Coppa delle Fiere a Colonia,

1-1 il punteggio: «Fui un drago, il migliore in campo, parai

tutto e anche di più». Ma il destino è come il tempo, è come un

portierone friulano, è troppo forte e senza sensibilità: «Mi

ruppi il polso prima della finale contro il Leeds che sarebbe

toccata a me, lui non era ancora arrivato, io persi la partita e

la Juve la coppa».

Massimo Piloni detto Pilade. «Sarà lui il futuro della Juve»,

annunciò un giorno Boniperti. Poi prese Zoff. Pilade ebbe una

sorte simile, ma peggiore, di quella delle altre riserve del

mitico, Alessandrelli e Bodini, divorati dalla mantide. Però

Piloni di più, Piloni peggio. Gli hanno pure dedicato uno

spettacolo teatrale, Perseverare humanum est. Non più un

giocatore di pallone ma una metafora, forse una vittima, più

probabilmente un eroe della resistenza, della cieca fiducia,

perché domani sia migliore. Non lo è quasi mai. «Per giocare

dovetti andarmene».

Si fece crescere la barba e passò al Pescara: con quella faccia

nuova, piena di setole, finalmente era un altro, finalmente era

lui. «Titolare tre anni su tre, 107 partite su 108, la storica

prima promozione in serie A, tra i pali anche con uno strappo

all´inguine. Ero bravo, lo ero sempre stato, ora però si vedeva.

Un giornalista di Pescara chiese a Zoff: com´è, questo Piloni? E

Dino rispose non so, non lo conosco bene, eppure mi vedeva in

allenamento ogni santo giorno».

Il resto fu un viaggio nuovo, fuori dall´ombra del mito, fuori

dall´imbuto, nella luce tremula che si riverbera in periferia:

Rimini, Fermo, poi la carriera da preparatore dei portieri,

Perugia, Catania, San Benedetto, anche in Scozia, al Livingston.

«Ho lavorato con allenatori del calibro di Mazzone, Reja, Cosmi,

Boskov, modestamente ho allevato portieri come Iezzo, Mazzantini,

Pantanelli, Storari». Storari che è una specie di moderno

Piloni, visto che fa la riserva di Buffon alla Juve: al destino

piace girare in tondo.

«Vorrei ancora stare in campo, ho solo 64 anni, però non si

trova lavoro. Comunque nessun rimpianto: io ero quello che sono

stato». E Zoff? Mai più sentito? «Un giorno andai a trovarlo a

Roma, quando Dino allenava la Lazio. Mi presentai al campo, gli

dissi ciao, mi rispose ciao. Poi si mise a leggere il giornale».

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Dal Friuli alla Juve una vita tra i pali

Zoff, 70 anni da n. 1

“Il mio calcio silenzioso”

La festa del Mito: “Per diventare qualcuno ho dovuto vincere un Mondiale”

di MARCO ANSALDO (LA STAMPA 27-02-2012)

Dino Zoff, 40 anni e non sentirli»: era la pubblicità di un olio di

cui lei fu testimonial dopo il Mondiale dell’82. È così anche con i 70

anni che compirà domani?

«Questi li sento di più. Mi barcameno con il golf, il nuoto e il tennis ma so

quale stagione sto attraversando».

Come invecchia un monumento?

«Serenamente. Mi fa ridere chi a una certa età insegue ed accantona i soldi

come se non dovesse mai morire: nella cultura contadina si sa che le stagioni

esistono in natura e nella vita. E con quanto ho ricevuto, sarebbe un delitto

lamentarmene».

Molti suoi coetanei non riescono a staccarsi dal calcio, lei lo ha

fatto nel 2005 quando chiuse con la Fiorentina. Perché?

«Non mi sono mai dannato per avere un posto e ho continuato a non farlo.

Comunque non c’era la fila per cercarmi: ho avuto qualche proposta da

Nazionali un po’ sfigate. E basta».

Eppure lei è stato un buon allenatore: vinse la Coppa Italia e la Uefa

con una Juve appena discreta e a 15" dalla fine era campione

d’Europa con la Nazionale. Forse la grandezza del calciatore ha

schiacciato l’immagine del tecnico?

«Ero visto come l’esponente di una generazione vecchia di allenatori, io

dicevo contropiede e non ripartenza mentre il nostro mondo chiede enfasi ed

entusiasmo nelle parole. Io di entusiasmo ne avevo in modo esagerato, ma per

la sostanza».

È stato l’unico a dimettersi da ct per una critica. Non fu

un’esagerazione?

«Non accettai l’offesa di Berlusconi all’uomo, disse che ero inadeguato e che

si vergognava di me».

Poteva replicare.

«Non capivo cosa c’era sotto: ho pensato a tante cose. Diciamo che con il mio

carattere poco malleabile faceva comodo a tutti che me ne andassi. Infatti la

Federcalcio non mi difese. Preferii dimettermi e fu un gesto rivoluzionario

perché nel calcio si litiga su tutto senza arrivare mai alla rottura. Io ci

arrivai».

Trapattoni era più malleabile?

«Ha una furbizia straordinaria, tutto ciò che fa e dice è in funzione degli

effetti che produce. Come la tirata su Strunz».

Lei ha giocato 11 anni senza saltare una partita. Era di ferro?

«No, ero uno sciocco. Anch’io stavo male ma quando lo dicevo al Trap lui

replicava “davvero non te la senti di giocare”? Così andavo in campo e la

responsabilità della decisione diventava mia»

Ma perché si rendeva disponibile?

«In fondo mi piaceva poter pensare "io c’ero" e poi fa parte delle

regole della vita: gioca chi dà più garanzie».

A luglio saranno passati 30 anni dalla vittoria del Mondiale, nel 2013

altrettanti dal suo ritiro. Come starebbe nel calcio di oggi?

«Non sono un cavaliere dell’800 però faticherei ad abituarmi alle cose che ho

sempre combattuto: i balletti dopo un gol, le sceneggiate per una spinta o uno

sputo che ormai fanno quasi parte dello spettacolo»

Quale è stato il massimo della sua esultanza in campo?

«Il bacio a Bearzot dopo la vittoria sul Brasile nell’82. Fu un gesto al di

fuori del nostro pudore friulano»

Un pudore generazionale. Rivera disse di vergognarsi per i pugni

alzati dopo il gol del 4-3 alla Germania.

«Però adesso va a ballare in tv. Non è da mito del calcio»

Da mito, non sarebbe stato meglio chiudere con il Mondiale?

«Fangio diceva "potrei ancora correre ma non sono più i miei tempi"

ma io non sentivo che non lo fossero più. Nell’ultimo anno mi diedero

responsabilità che non avevo. Nel ’78, in Argentina, posso aver sbagliato.

Nell’83, sul gol di Magath, no. Era la Juve più forte di tutti i tempi ma

quella sera non fu in campo».

In una settimana disse addio a Juve e Nazionale. Come visse quei

giorni?

«Col mal di cuore, si chiudeva la parentesi più straordinaria della mia vita.

Da ct dicevo sempre ai giocatori: “cercate di fare bene perché in futuro

potrete avere successo in altri campi ma niente vi darà più la soddisfazione

che provate giocando”».

È vero che appese i guanti al chiodo e non li indossò più?

«Feci ancora 2 partite: a Zurigo per l’anniversario della Fifa e a Bologna

per un’Italia-Germania. Ma con gli amici non giocai più in porta. Mi pareva di

sporcare la sacralità del ruolo».

Si riconosce nella definizione di John Wayne del calcio?

«John Wayne interpretava chi è alla ricerca del giusto anche se non lo

raggiungi mai. Ho sempre cercato di stare nelle regole dello sport come della

vita anche nel saper vincere, che è difficilissimo: nel successo tanti vanno

fuori di testa».

Lei disse: a questo mondo l’uomo vero passa per banale.

«Fu una forzatura dopo la morte di Scirea vedendo la corsa a santificarlo di

chi fino al giorno prima non lo considerava. Feci un intervento molto duro dal

palco di un premio con il suo nome. Tra le autorità scese il gelo ma la gente

applaudì: io sono sempre stato qualcuno per la maggioranza silenziosa».

A proposito di Scirea: cosa si rimprovera della sua morte?

«Ho il rimorso di non essermi opposto con più forza al suo viaggio per vedere

gli avversari in trasferta. Lo ritenevo superfluo».

Per restare a quei tempi: è vero che con Boniperti erano scintille?

«Soprattutto quando fui allenatore. È stato un grande dirigente ma quando non

gli si dava ragione si arrabbiava ai limiti dell’isteria e a me non piaceva»

Non pensa che di lei si sia esaltata la serietà più della bravura?

«Non ho voluto essere personaggio in un mondo che ha bisogno di esaltarne. La

mia forza è stata solo nei numeri, ho dovuto vincere il Mondiale per diventare

qualcuno anche se mi hanno inserito tra i migliori atletie calciatori del

Novecento. Forse essere seri e bravi da noi è giudicato troppo».

Conferma il giudizio: Buffon da giovane era più bravo di me, poi lo

sono stato io?

«Da giovane è stato più forte di tutti quelli che ho conosciuto, dopo io sono

durato più a lungo. Buffon esce ora dagli infortuni che l’hanno frenato:

diciamo che sta tornando ad essere come fu Zoff da vecchio».

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il compleanno Festa speciale per l’ex ct, leggenda del calcio

Dino e Gigi uguali in porta

ma così diversi nelle uscite

Entrambi juventini e campioni del mondo

Uno muto fino alla noia, l’altro parla troppo

di TONY DAMASCELLI (il Giornale 28-02-2012)

Dino aveva già settant'anni quando era un bel frut friulano di anni venti.

Gigi è ancora uno sbarbato quindicenne, adesso che conta trentaquattro anni.

Dino non è mai stato intervistato dalle Iene, Gigi va davanti a qualunque

telecamera. Dino ha alzato la coppa dorata al cielo e ha giocato a scopa con

il capo dello Stato, anche Gigi ha messo le sue manone sul Mondiale ma con

Giorgio Napolitano non ha tentato nemmeno un cruciverba enigmistico. Dino non

ha mai avuto un suo sito web, Gigi tuitta , feisbucca , naviga in ogni dove.

Dino non ha mai fermato i suoi capelli con una forcina e il gel, Gigi davanti

allo specchio studia le uscite sulle palle alte e, nei dettagli, la propria

immagine; Dino e Anna, nonni, hanno un figlio che si chiama Marco, Gigi ha

messo il nome di Louis Thomas e David Lee ai due pupi che gli ha regalato

Alena.

Dino Zoff è stato uno dei più grandi portieri della storia del football,

Gianluigi 'Gigi' Buf­fon è, forse, il migliore di tutti, oggi. Numeri uno,

della Juventus, della nazionale, campioni sicuri, garantiti, uguali e

vicinissimi tra i pali, distanti una vita quando non c'è più un pallone da

parare.

Le quattro lettere del cognome sincopato del friulano rappresentano la

sintesi della sua esistenza, una firma rapida sotto la fotografia della

carriera, Zoff, basta, avanza.

Il nome del casato di Gigi si presta alla stucchevole battuta ma è anche un

ritorno all'antico, a parte il filosofo francese di nessuna parentela,

piuttosto a Lorenzo che fu portierone pure lui, sposo di una valletta

televisiva, la Campagnoli di Lascia o Raddoppia e cugino di secondo grado del

campione contemporaneo, Buffon, con l'accento sulla seconda vocale.

Dino Zoff compie oggi settant'anni proprio nel momento in cui Gigi Buffon

avrebbe voglia di lanciare qualche torta in faccia a chi vuole calciare una

domanda sul suo fair play.

Due persone e personaggi che appartengono alla stessa categoria ma a due

generazioni che non hanno alcun contatto.

Leggendo e ascoltando le frasi dure e anche volgari che Gigi sta pronunciando

sulle ultime vicende di campionato si può intendere perché questo calcio sia

figlio di un mondo nel quale i campioni di un tempo non troverebbero posto,

per scelta.

Di Zoff si scrisse e si disse, dopo il mondiale del Settantotto in Argentina,

che non avesse più le diottrie per giocare a pallone, i tiri da lontano di

olandesi e brasiliani lo avevano fatto fesso; quando Dino annunciò il ritiro

dall'attività Giorgio Forattini disegnò una vignetta feroce e malinconica,

l'area di rigore deserta, la porta vuota, un paio di occhiali posati sul prato

e questa didascalia: ZOFF LIMIT. Quattro anni dopo, Zoff, senza lenti a

contatto, andò a conquistare il titolo mondiale, Brera e Forattini

parteciparono, sul carro del vincitore come usiamo noi italiani.

Buffon ne ha passate mille, tra accuse difascismo, corruzione, bravate,

secondo repertorio con­temporaneo.

Per entrambi mi torna alla mente una frase che Enrique Omar Sivori sbattè sul

muso imbronciato proprio di Dino, durante una partita: «Se noi ci fossero quei

tre pali, voi portieri fareste la fame…». Dino e Gigi non hanno mangiato pane

nero e duro, semmai brioches e caviale ma stando seduti a tavole diverse.

Onore a Zoff, per il suo compleanno e per la leggerezza e la discrezione della

sua esistenza di calciatore, campione, uomo, portiere. Del resto quando aveva

vent'anni già ragionava, bene, e parlava, poco, come oggi, maturo e saggio,

anche un po' noioso come accade a chi posa ogni parola sulla bilancia e non

sul microfono. Un messaggio a Gianluigi Buffon: sappia che i pensieri e le

parole degli altri, che non siano calciatori e allenatori sodali suoi,

meritano comunque rispetto. Non sbagli uscita, lasci che soltanto il pallone

superi l'ultima linea bianca mentre lui, saldo, cerchi di mantenere

l'equilibrio al di qua, difendendo con l'intelligenza, non con le mani, il

proprio cognome, la propria storia. E spedisca oggi un augurio e un

ringraziamento a Dino. Omar Sivori, forse, aveva ragione.

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OGGI SUPER DINO COMPIE 70 ANNI

Zoff: «Io un mito?

Sì, adesso lo sono»

L’ex portiere della Juve e dell’Italia: «Il mio Mundial resterà unico»

Il 1° scudetto con la Juve il massimo. Platini, Sivori e Altafini i più forti.

Gascoigne il più pazzo. Che discussioni con Boniperti. Sì, a Scirea penso spesso

di FILIPPO CORNACCHIA (Tuttosport 28-02-2012)

BUON compleanno, Dino Zoff.

«Eh, sono arrivato proprio a 70. Tanti o pochi non lo so, sicuramente i 30

erano diversi... La natura lavora. Eccome».

Un mito per i portieri e per tutto il calcio.

«Sono sincero, io non mi sono mai sentito tale. Anche se le centinaia di

telefonate che sto ricevendo mi fanno capire che qualcosa ho fatto».

Mondiale ‘82, scudetti, trofei internazionali. Cosa mette davanti a tutto?

«Il primo scudetto con la Juventus, quello del 1972-’73. Ero appena

arrivato».

In realtà la maglia della Juve l’aveva vestita l’8 aprile 1962, quando era

ancora il portiere dell’Udinese.

«Che giornata. La Juve indossava le maglie nere, proprio come la mia di

numero 1 dell’Udinese. Gaspari, il loro portiere di riserva, mi prestò la sua.

Ovviamente gli tolsero lo scudetto. Un segno del destino, visto tutti quelli

che poi ho “ricucito” a Torino».

Il suo podio dei fuoriclasse ?

«Platini, Sivori e Altafini. Il primo un Pelé bianco, il secondo un artista e

il terzo una forza della natura. Però in una classifica del genere metto anche

i compagni del Mondiale ‘82».

Dovesse raccontare il Mondiale ai suoi nipoti con poche frasi?

«Direi una cosa, in particolare: “Un Mondiale così straordinario non lo

vedrete mai”. Squadre fortissime, tanti gol su azione. Quello del 2006,

strappato con le unghie, è stato un grande trionfo, ma il nostro non ha

paragoni come spettacolo».

Ha mai mandato a quel paese un compagno?

«Mai. E nessuno si è mai permesso con me».

Cosa detesta del calcio?

«Le sceneggiate. Ho sempre cercato di combatterle».

L’ultimo tormentone riguarda il suo erede, Gigi Buffon.

«Non giudico, non mi sono mai trovato in una situazione del genere. La

situazione, al massimo, sarebbe stata poco simpatica se l’arbitro gli avesse

chiesto un parere. Ma se non gli ha domandato nulla... Gigi è sincero, non

ipocrita».

Quali sono i maestri di Zoff?

«Ho imparato da tutti, da Trapattoni e Bearzot in modo particolare.

L’entusiasmo del Trap è unico».

Le capita spesso di pensare a Gaetano Scirea?

«Molte volte. Gaetano era lo stile fatto persona, oltre che un grande amico.

Scirea è Scirea, non può esistere un suo erede. I miti non hanno cloni».

La telefonata di Boniperti è già arrivata?

«Non ancora, vediamo... Duro e simpatico, con lui ho avuto molti scontri

sportivi».

Quello che non scorderà?

«Quando andai a discutere il contratto dopo aver perso lo scudetto. Aveva la

distinta di Perugia in mano e a tutti ripeteva: “Dunque, vediamo... Lei c’era?

Sì. E allora che soldi volete che avete perso anche con questi!”».

L’attaccante avversario che sognava la notte?

«Pulici. Era fortissimo e contro di me si trasformava. Anche Riva toglieva il

sonno».

Le capita ancora di rimuginare su qualche gol preso?

«No, neppure quello di Magath in finale di coppa Campioni 1983 ad Atene. Sono

sempre più convinto che in quella occasione non sbagliai. Era un bel tiro.

Contro l’Amburgo fu tutta la Juve a fallire».

Le maglie che conserva come cimeli?

«Una delle mie prime dell’Italia e quella del grande Sepp Maier, numero uno

della Germania e del Bayern. Sono affezionatissimo anche al samovar che mi ha

regalato Jashin».

Se pensa a Berlusconi?

«Non porto rancori per l’offesa dopo l’Europeo del 2000. Però non mi sono

pentito delle dimissioni».

Del Piero a fine stagione lascerà la Juve: consigli?

«Non ne ha bisogno. È uno dei pochi che non ha mai sbagliato una virgola né

in campo né parlando sui giornali».

Chi vince lo scudetto?

«Juve e Milan sono ancora 50 e 50. La squadra di Conte è la novità più bella

del campionato. Gioca bene e Buffon è tornato sui suoi livelli. A Gigi auguro

di giocare così fino a 40 anni, tanto il record di presenze consecutive resta

mio».

Ultima curiosità: il giocatore più strano?

«Gascoigne. Ai tempi della Lazio una volta si presentò nudo in albergo.

“Mister, mi hanno detto che mi voleva subito”».

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ZOFF

70 Domande per... 70 anni

Auguri

Dino

La vita, la carriera, gli incontri, i segreti di un mito italiano

«Se devo definirmi dico questo: sono una persona seria»

di FURIO ZARA (CorSport 28-02-2012)

Ci sono nomi che sono più belli di altri. Zoff. Nella doppia effe

c’è il tuffo, lo schiaffo del vento, l’essenza del portiere. Faceva

cose semplici, è stato straordinario. Il più forte portiere italiano

di tutti i tempi. Essenziale, definitivo. Friulano, non a caso. Un

mito per un paio di generazioni, se ancora mito significa qualcosa.

Tale Eliani, allenatore dell’Udinese, quando il nostro gli si

presentò davanti sentenziò: «Se ti te diventi un zogador, mi me tajo

i cojoni». Ruvido, ma chiaro, e la traduzione indebolirebbe il

concetto. Non sappiamo come è finita. Oggi compie 70 anni. Ci ha

fatto felici; lo è stato - felice - con pudore. Forse, nella vita,

non servirebbe altro. Non ha mai smesso di essere Dino Zoff: per

capire cosa significa, vi siano di aiuto queste 70 risposte.

1 - Zoff, se li ricorda i suoi primi guanti da portiere?

«Avevo dodici anni, me li regalarono: guanti con i gommini rossi»

2 - Come passava il tempo da bambino?

«La mia è una famiglia di contadini: lavoravo in campagna e studiavo da

motorista, tre anni alla scuola di avviamento»

3 - Il primo lavoro?

«In officina a Cormons, aiuto meccanico. Quattro chilometri e mezzo da Mariano

del Friuli, dove sono nato. Poi a Gorizia: quattordici chilometri andare e

quattordici tornare, bici o corriera, dipendeva anche dal tempo. Se non avessi

fatto il calciatore, sarei finito a fare il meccanico. La Ferrari? No, non

sognavo così in grande»

4 - Per che squadra tifava?

«Juventus. Era la squadra dei miei amici, della mia generazione, quelli nati

negli anni ‘40»

5 - Il suo mito?

«Non ne avevo, non c’era la televisione: facevo il portiere prima ancora di

leggere su «Sport Illustrato» che i portieri esitevano»

6 - La prima delusione.

«Venni scartato da Inter e Milan: non ero maturo»

7 - Ha mai giocato in un altro ruolo?

«No, mai avuta voglia»

8 - Cosa le disse suo padre quando capì che si sarebbe guadagnato da

vivere con il calcio?

«Hai imparato un mestiere. Se ti piace e sei bravo, fallo. Questo mi disse.

Non mi ha mai impedito di seguire la mia passione, gliene sarò sempre grato»

9 - A cosa pensa un portiere?

«A seguire l’azione, se ti distrai ti fregano. Devi sempre stare attento,

prevedere, immaginare»

10 - Stare tra i pali cosa significa?

«Sentirsi a casa. Hai anche la porta, no?»

11 - E’ vero che i portieri vivono di solitudini?

«Sì, sei un uomo solo anche se fai parte di una squadra. Ma la verità è che

sei solo»

12 - La parata più bella di tutta una vita.

«Mondiale ‘82, Italia-Brasile 3-2. Ultimo minuto, colpo di testa di Oscar,

fermo il pallone sulla linea. Non so se è stata la più bella, ma sono sicuro:

è stata la più importante»

13 - La papera che non si perdona?

«Lecco-Udinese, primi anni ‘60, serie B. Pallone facile, devo rinviarlo, un

rimbalzo strano, sbaglio, lo colpisco male, con la punta, finisce a Clerici,

il nome me lo ricordo ancora. Dunque Clerici è lì a pochi metri. Tiro, gol.

Non se ne accorse nessuno che avevo sbagliato»

14 - Eppure.

«Nessuno tranne me. Ci rimasi male, mi bruciava aver sbagliato così»

15 - All’epoca rivedeva le sue partite in tv per poi correggersi?

«No. E succede anche oggi: se le rivedo scopro sempre qualcosa che andava

fatto meglio. Anche Italia-Brasile o Italia-Germania, insomma le più celebri.

A parte che le ho viste davvero poche volte, ma ogni volta trovo qualche

errore»

16 - 24 settembre 1961, il debutto in serie A: difendeva la porta

dell’Udinese, ne prese cinque contro la Fiorentina.

«In settimana andai al cinema, davano la Settimana Incom, come succedeva

all’epoca. Sullo schermo mostrarono i gol che avevo preso. Sprofondai sulla

poltrona. Che vergogna, volevo alzarmi e andare via»

17 - I portieri più grandi di ogni tempo.

«L’inglese Banks, il russo Jascin, il tedesco Maier. E Zoff»

18 - Chi è il suo erede?

«Buffon, senza ombra di dubbio»

19 - A proposito di Buffon. Come giudica la sua uscita dopo

Milan-Juventus: anche se avessi visto che era gol non l’avrei detto

all’arbitro?

«L’arbitro è lì per giudicare, giusto? Comunque se fosse stato l’arbitro a

chiederglielo in campo, beh, allora sarebbe stato diverso»

20 - Moviola in campo: sì o no?

«Non lo so, non mi convince. Meglio magari il quarto arbitro dietro la porta,

altrimenti diventa calcio virtuale»

21 - L’avversario italiano più temibile.

«Paolino Pulici, era un incubo giocarci contro nei derby Juve-Toro: si

trasformava, diventava una furia. E poi Gigi Riva»

22 - E lo straniero?

«Cruijff e Maradona»

23 - Il più matto che ha incontrato?

«Facilissimo: Gascoigne»

24 - La squadra più forte in cui ha giocato?

«La Juve del 1982-1983»

25 - Quella della finale di Coppa dei Campioni persa ad Atene. Il tiro

di Magath si poteva parare?

«No, era difficile, insidioso. Ma non è quello il punto: fu una partita

strana, andò tutto sorto. Peccato, eravamo fortissimi»

26 - L’allenatore che ricorda con più affetto?

«Bearzot. Cioè, sono tanti, ma se devo fare un nome allora dico Enzo Bearzot»

27 - Dino Zoff era più forte a 20 anni, a 30 o a 40?

«A 20 ero un buon portiere, a 30 ero straordinario, a 40 ero molto buono»

28 - 1983, il 29 maggio, subito dopo Svezia-Italia 2-0. «Non posso

parare l’età», lo disse lei prima di salutare la compagnia.

«Era il mio congedo, mi ritirai. Avrei potuto fare qualche altro anno, ma non

a quei livelli. E allora non ne valeva la pena»

29 - Cosa le ha insegnato il tiramolla Reja-Lazio?

«Niente. Sapevo già come andava a finire. Conosco Reja. E conosco Lotito»

30 - Lei si è divertito di più in campo, in panchina da allenatore o

da presidente?

«Ma scherza? In campo»

31 - E incazzato di più?

«In campo: non c’è paragone»

32 - Cosa le piace di questo calcio?

«Il calcio»

33 - E cosa non le piace?

«Le esasperazioni, le sceneggiate dopo i gol, le simulazioni, giocatori che

si rotolano a terra per due minuti dopo un fallo»

34 - Perché non le hanno mai proposto seriamente un ruolo dirigenziale

in Federazione?

«Sinceramente? Non lo so»

35 - E’ tardi?

«Diciamo che non è presto»

36 - Come passa il suo tempo?

«Golf, tennis, mio nipote»

37 - Handicap a golf?

«Un handicap da pippa: 17»

38 - Ce lo giuri: non la vedremo mai a «Ballando con le stelle» o

all’«Isola dei famosi».

«Lo giuro»

39 - Ha visto Rivera ballare?

«Mi sono rifiutato di vederlo»

40 - Cosa pensa dei giocatori che twittano tutto il twittabile, per lo

più clamorose banalità da pianerottolo?

«Sono i tempi moderni, non me la sento di condannarli. E’ un’altra gioventù.

Ai miei tempi non ci si poteva nemmeno pettinare i capelli in un certo modo»

41 - Dino Zoff con un tatuaggio. Si sforzi.

«Non ce la faccio, ripeto: altri tempi»

42 - Piccole gioie quotidiane: a cosa non rinuncerebbe mai?

«Alla giacca blu»

43 - E la cravatta?

«Vengo dalla campagna. Se serve, la cravatta si mette. Certe occasioni vanno

onorate, e allora ci si veste bene»

44 - Il calciatore italiano più forte degli ultimi cinquant’anni?

«Modestamente nei 50 grandi scelti dalla Fifa io ci sono. Comunque dico Paolo

Maldini, un grandissimo»

45 - Platini o Sivori? Lei ha giocato con entrambi.

«E’ come dire Pelè o Maradona. Sono stati due artisti. Se proprio vogliamo

Platini era più Pelè, Sivori più Maradona»

46 - Totti, Baggio o Del Piero?

«Totti e Del Piero. Alex ha vinto di più in campo internazionale, ma alla

fine si equivalgono»

47 - Il cantautore preferito.

«Francesco Guccini»

48 - Il film e il libro della vita.

«Il film è «Cinderella Man». E’ un film di boxe e di vita. Ha una morale, una

storia forte. C’è tutto, dovrebbero mostrarlo nelle scuole. Il libro invece

«La marcia di Radetzky» di Joseph Roth: ogni tanto me lo prendo e lo rileggo,

qua e là»

49 - Su Facebook le hanno dedicato una pagina. Non so come dirglielo,

ma 8.348 persone hanno cliccato «mi piace».

«Che dire? Mi fa piacere»

50 - A che ora va a dormire?

«Tardi, dopo la mezzanotte»

51 - Prega?

«No. Ringrazio Madre Natura e i miei genitori»

52 - Sogna?

«Sogni strani, che non hanno nè capo e nè coda»

53 - Europei del 2000, finale persa con la Francia, golden gol di

Trezeguet, l’attacco di Berlusconi contro di lei, le sue dimissioni da

ct, la sua dignità.

«Non potevo non darle. Fece apprezzamenti sull’uomo, mascherate con altre

considerazioni tattiche. Non sono un integralista, non lo sono mai stato, ma

certe cose no, non si possono sopportare. No, Berlusconi poi non l’ho più

rivisto»

54 - Perché dicono che lei era un musone?

«Ero un po’ orso, questo sì, ma musone no»

55 - Gigi Sabani, Neri Marcorè e altri ancora l’hanno imitata per

anni. La facevano ridere?

«Beh, insomma... Lo capisco anch’io quando riascolto qualche intervista che

ho una voce che fa addormentare, però certe volte mi trattavano da deficiente.

Comunque non me la prendo, sono uno sportivo, io»

56 - Cosa la fa ridere?

«Molte cose. Attori, film, circostanze, episodi durante la giornata. Per

esempio i due del «Ruggito del coniglio», la trasmissione che va in onda su

RadioRai, mi fanno molto ridere: sono davvero bravissimi»

57 - Si divertiva a fare la pubblicità dell’Olio Cuore?

«Pfff, per niente. Sul set non vedevo l’ora di andare a casa»

58 - Suo figlio Marco una ventina d’anni fa ha provato a fare il

portiere. L’ha convinto lei a smettere?

«Marco ha giochicchiato, niente di più. Comunque ha deciso lui. Ora fa

tutt’altro»

59 - E suo nipote? Le piacerebbe che seguisse la sua strada?

«Ha due anni, è piccolo, lasciamogli il tempo di crescere e scegliere di

testa sua»

60 - Giampiero Boniperti e Gianni Agnelli: che ricordi ha?

«Con Boniperti facevamo un po’ la guerra, ma è stato un grande dirigente.

Gianni Agnelli mi prendeva sottobraccio prima dell’allenamento. Voleva sapere

tutto di tutti i giocatori che affrontavo, soprattutto in campo

internazionale: chiedeva e ascoltava attentamente»

61 - Chi era Gaetano Scirea?

«La persona più bella che ho incontrato, un amico vero»

62 - Cosa le manca di Scirea?

«Lo stile, la serenità. Pensi che Tardelli, durante i ritiri della nazionale,

veniva nella nostra camera e diceva: vado in Svizzera. Cercava tranquillità,

io e Gaetano eravamo una garanzia»

63 - Ha rimpianti?

«Nessuno. Ho avuto moltissimo dalla vita. Dovrei baciare dove cammino. Ho

trasformato il mio hobby in un lavoro. Ho giocato a lungo, più di quanto

pensassi. Sono stato felice»

64 - E allora tiri fuori dal film della memoria un’immagine che per

lei significa felicità.

«Il bacio a Bearzot al Bernabeu, dopo il trionfo al Mondiale dell’82, subito

dopo la fine di Italia-Germania. Con quel gesto sono riuscito a scalfire il

mio pudore»

65 - Cosa è stato per lei fare il portiere?

«Una vocazione»

66 - Le qualità di Dino Zoff portiere.

«La completezza e l’intelligenza»

67 - E dell’uomo Zoff?

«La misura»

68 - Cosa si aspetta dal futuro?

«Sono realista, cerco di stare bene: so che la natura fa il suo corso»

69 - Si definisca con un aggettivo.

«Una persona seria. Ma forse è una espressione antica, non crede?»

70 - No. E’ quanto di più moderno e rivoluzionario ci sia di questi

tempi.

«Bene, allora lo scriva: penso di essere una persona seria»

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Zoff compie 70 anni: classe

e dignità d'un campione

in campo e fuori

di GIUSEPPE CERETTI (Il Sole 24 Ore.com 28-02-2012)

Zoff, le due consonanti sono un soffio pudico che svela l'arcano delle

origini. Si spengono nell'aria lievi, come una coppia discreta che non ha

voglia di mettersi in mostra, predilige i toni bassi, le parole essenziali e

infine il silenzio.

Zoff, la sola pronuncia di quel cognome rassicurava i nostri sogni di

appassionati della Nazionale. C'è Zoff tra i pali e tanto basta. Anche quando

non era in campo pareva una garanzia. "In panchina, con Zoff" cantava Mina ,

celebrando nel 1970 con il brano omaggio Ossessione lo storico incontro

Italia - Germania.

Dino Zoff da Mariano del Friuli, di professione portiere, compie oggi 70 anni,

spesi tra la pratica sportiva che non manca mai e gli affetti familiari da

"nonno operativo", come ha confessato in una bella intervista rilasciata a

Maurizio Crosetti di Repubblica.

È stato uno dei più grandi portieri del secolo trascorso, senza pasticciare

con citazioni e paragoni che lasciano il tempo che trovano. Dei suoi primati,

forse il più significativo è la conquista della Coppa del Mondo a 40 anni

suonati, nel 1982. Un record che abbiamo il fondato sospetto reggerà a lungo e

indica la straordinaria statura tecnica e atletica del giocatore. La Coppa

levata accanto a Pertini e la famosa partita a carte sull'aereo sono forse il

ricordo più bello di un uomo che per un istante abbandona lo stile sotto

traccia: «Da giovane Buffon aveva più personalità di quanta ne avessi io alla

sua età, ma da vecchio io sono stato quasi imbattibile, vedremo lui».

E bravo Dino. Perché sobrietà fa rima con sincerità, come quando confessa di

provare rabbia dinnanzi ai ridicoli festeggiamenti d'oggi in campo o tristezza

di fronte alle esibizioni di vecchi e famosi colleghi in tv.

Preferisce di gran lunga la parola rispetto. Lui la conquistò e riconquistò

dopo che qualcuno (e che razza di qualcuno, il mitico Gioanin Brera), gli

consigliò d lasciare perdere e di fare una visita dall'oculista per via delle

diottrie che gli mancavano dopo le reti incassate da fuori area nel Mondiale

del 1978. Quattro anni dopo non solo si prese la rivincita sportiva, ma diede

un contributo decisivo alla Nazionale, oggi entrata nel mito riassunto nella

celeberrima immagine dell'urlo di Tardelli.

A proposito di immagini, nella prima rintracciata negli album della Panini

veste la maglia del Mantova. Gli è accanto un terzino familiare agli

appassionati di calcio che hanno superato da tempo l'età, che di nome fa

Schnellinger. Nella pagina accanto un altro suo compagno di maglia che si

chiama Gigi Simoni. La didascalia recita: "Cresciuto nell'Udinese, al Mantova

dalla stagione 1963-64, esordio il 24 settembre 1961 in serie A in Fiorentina

Udinese 5-2". Ma con la maglia bianconera friulana manca la sua figurina

perché all'esordio è riserva dell'istriano Franco Dinelli. Con i biancorossi

resterà sino al 1967 per approdare al Napoli dove rimarrà sino al '72. Poi la

lunga stagione e i ripetuti trionfi con la Juve e in maglia azzurra.

Inizia negli anni Ottanta la faticosa carriera d'allenatore, non per gli

ottimi risultati raggiunti, ma per la fatica di dover fatalmente esporsi più

del dovuto ai riflettori che tanto detesta, sino alla panchina della Nazionale

nel 1998. Due anni conclusi con una sconfitta nella finale degli Europei del

2000 contro la Francia e le sue dimissioni dopo le parole dell'ex presidente-

allenatore degli italiani che lo giudicò indegno.

Zoff anche allora mostrò schiena diritta e tanta dignità, replicando con

fermezza, ma rifiutando la rissa. Una lezione nei tempi d'oggi tanto pieni di

addetti ai lavori sempre proni al potente di turno e attenti a infilare perle

di banalità.

Un paio d'anni fa Marco Masini scrisse nel testo d'una sua canzone: "È Un

Paese, l'Italia, che rimane tra i pali, come Zoff". Chiamarono Dino per

chiedergli se non si sentisse offeso da quella frase che voleva essere uno

sberleffo contro l'ignavia e di chi non osa. Lui ci fece una bella risata e

invitò i giornalisti a occuparsi di cose più serie.

Noi ci auguriamo, al contrario, che l'Italia sappia, meglio impari, a restare

tra i pali come Zoff. Sobria, pudica, essenziale nei gesti, ma non ignava,

pronta a lottare per un posto da conquistare con fatica, con sudore e con

onestà.

Nella già menzionata intervista a Repubblica Il Venerdi di Repubblica, alla

domanda sul significato della sconfitta, Zoff risponde: «Rappresenta la vera

consapevolezza dell'atleta, il suo momento di crescita, perché si perde molto

di più di quanto si vinca».

Auguri Zoff, uniti alla nostra stima di appassionati del calcio. Continui a

sognare ad occhi aperti. In silenzio, s'intende.

Buon campionato a tutti.

Modificato da Ghost Dog

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La foto di Dino Zoff

Oggi compie 70 anni il portiere che tenne la coppa nell'82, e che seppe come tenerla

di LUCA SOFRI (Il Post 28-02-2012)

Oggi è il settantesimo compleanno di Dino Zoff, il portiere della Juventus e

della Nazionale che nel 1982, a quarant’anni, vinse i leggendari mondiali

spagnoli dell’82 in porta di una squadra molto più giovane, dopo essere stato

sotto accusa per le presunte disattenzioni sui tiri da lontano a quelli del

’78 in Argentina. Poi fu allenatore, e allenatore della Nazionale, e da preso

in giro per la sua brusca timidezza divenne simbolo di sobrietà e discrezione

ben prima che arrivasse il governo Monti. Di questo simbolo e di molte altre

cose ha scritto Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, in un capitolo del

suo libro Un grande paese.

zoff.jpg

È una vecchia pagina di «Time», ingiallita dal suo quarto di secolo, e con il

segno dello scotch sugli angoli. L’avevo attaccata al muro, quando avevo

diciassette anni, e me la porto dietro da allora, di casa in casa, nella ricca

scatola dei ritagli e ricordi (si è appiccicata assieme al biglietto di Bob

Marley a San Siro e a un vecchio foglietto a righe su cui è scritto: TANTI

BACI DAL TUO PAPÀ). La pagina di «Time» è fatta così: c’è una foto in bianco e

nero che occupa la parte superiore. Al centro della foto c’è la Coppa del

Mondo. L’Italia aveva appena vinto i Mondiali spagnoli. La coppa è in mano a

Dino Zoff, circondato dai suoi compagni durante il giro di campo al Santiago

Bernabeu, alla fine della partita in cui battemmo la Germania. Siamo nei

minuti successivi al «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del

mondo» di Nando Martellini. Come noi davanti alla foto, anche Zoff guarda la

coppa. Non la esibisce, non è rivolto verso il pubblico, i fotografi,

noialtri: non dice «Ecco, guardate un po’ cosa abbiamo combinato!». Zoff

guarda la coppa porgendola a Gentile, e insieme la porge a tutti noi, e pensa

«prego, è anche vostra», con quell’aria da Zoff che aveva Zoff. Quell’aria

con cui la volta che Silvio Berlusconi gli disse che avrebbe dovuto far

giocare la Nazionale in un altro modo – Zoff era diventato allenatore, nel

frattempo – lui rispose: «Ci sono rimasto particolarmente male per le sue

parole. Certamente non ho dormito bene». E si dimise.

Parentesi. In questa storia, Zoff è un modello. Quelle parole sono un

insegnamento. Disseminare insegnamenti, predicare col proprio esempio. Quelle

parole sono un esempio di misura, umiltà, mancanza di vittimismo. La misura

nelle parole usate per definire i propri guai è una delle cose che abbiamo

perduto, convinti tutti che terribili persecuzioni e sfortune si accaniscano

sulle nostre nobili e autorevoli esistenze. Ho trovato un altro ritaglio,

rovistando nella scatola di Zoff, che viene da una vecchissima copia del

«Manifesto». Nel giornale era pubblicato il racconto di un anziano signore

tedesco, Heinrich Steiner, che aveva fatto parte di un gruppo di intellettuali

e artisti – soprattutto ebrei – che vivevano a Firenze prima della guerra e

che si ritrovavano alla pensione Bandini. Molti di loro erano stati deportati

e uccisi nei campi. Il «Manifesto» aveva presentato l’articolo in prima pagina

con l’illustrazione di un brandello di una vecchia lettera che uno di quegli

artisti, Rudolph Levy, aveva scritto alla signora Elena Bandini il 21 dicembre

1943:

Cara signorina, avrete saputo già la disgrazia che mi è

capitata. Sono in prigione alle Murate da più di una settimana.

Dio solo sa quando potrò uscire. È duro per un uomo di 68 anni

che non ha mai fatto male a nessuno ritrovarsi in questa

situazione. Pazienza. Cordiali Saluti. Rodolfo Levy.

A rileggerle adesso, come il giorno in cui le ritagliai dal «Manifesto»

quelle parole di understatement, quella capacità di affrontare le catastrofi

con minor vittimismo e debolezza di quelli con cui oggi si affronta un mal di

gola mi sembrano spettacolarmente esemplari: gli americani usano quella parola

svenevolmente new age che è «inspirational». Noi non ce l’abbiamo una parola

così, nemmeno svenevole: sarà perché non capita di doverla usare.

Torniamo alla pagina di Zoff. È una pagina pubblicitaria, comprata da «Time»

sullo stesso «Time»: immagino comparisse solo sull’edizione internazionale, o

europea, non so. Per compiacere i lettori e gli inserzionisti italiani, per

confermare un rapporto con questa clientela. Ma non è importante. Sotto la

fotografia c’è scritto «Suddenly, the whole world is italian», che vuol dire

«All’improvviso, tutto il mondo è italiano». O anche «Siamo tutti italiani».

Quella pagina si impolverò, ingiallì e una volta si strappò, ma è bella anche

con un pezzo di scotch in un angolo. E sto rischiando di rinnovare il fondato

quanto trito luogo comune sugli italiani patriottici solo con la Nazionale di

calcio. Però in quella foto c’è molto più che il calcio: c’è un italiano di

cui essere fieri che è al centro dell’attenzione del mondo e sa come

comportarsi. C’è l’Italia al centro del mondo, e si capisce che non si tratta

solo di calcio.

[...]

small_110120-152005_to211210ap_003.jpg

Torniamo ancora a quella foto di Zoff e al perché è importante. Non perché si

tratti di calcio: altrimenti a farci sentire italiani basterebbe il solito

inno nazionale prima della partita. Le porga la chioma. Non parlo di essere

«italiani» in senso proprio: lo siamo, ovviamente. Parlo dell’avere caro un

sistema di cose condiviso, che somigli a quello che ognuno di noi sente per la

sua famiglia, o per la città dove è nato, o per il movimento politico che

frequenta, o per il gruppo di amici con cui condivide una passione. Per i suoi

simili. Parlo, e questo è il problema, di una cosa che si chiama ahinoi

patria. Non ha altro nome che quello lì, complicato come se non bastasse dallo

scricchiolio irritante di quella ti e quella erre. Bisognerebbe cambiarle nome,

alla patria, e chiamarla più dolcemente: paglia. «Amo la mia paglia» si può

dire. «Amo la mia patria», salvo alcuni arditi, no («Tutti hanno il diritto di

essere patriottici» disse Jon Stewart alla Manifestazione per il buonsenso,

sottraendo inni e bandiere al fanatismo di destra).

[...]

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Zoff, 70 anni

di ROBERTO BECCANTINI dal blog Beck is Back 28-02-2012

Oggi Dino Zoff compie 70 anni. E’ stato uno dei più grandi portieri di tutti i

tempi, non solo del suo. Friulano di pasta, inglese di stile, tedesco di

lamiera: un mix che lo ha portato in cima all’Europa e in vetta al Mondo,

sulla copertina di «Newsweek» e fra i denti di un francobollo. Da Guttuso a

Gattuso: giocatore, allenatore, commissario tecnico, e persino presidente

(della Lazio). Lasciò la Nazionale nel 2000, fresco di argento europeo, dopo

un diverbio con Silvio Berlusconi, che gli aveva dato del dilettante per non

aver marcato Zidane con un mastino (un Gattuso, appunto) nella finale con la

Francia.

Udinese, Mantova, Napoli, Juventus. Soprattutto Juventus, poi allenata con

Lazio e Fiorentina. Nessuno è perfetto, e nemmeno lui lo è stato: la sventola

chilometrica di Haan, per esempio; non però, secondo Trapattoni, il «tiro

gobbo» di Magath ad Atene. In questi casi, i turiboli d’incenso prendono la

mano. Sul mio podio ci sono tre portieri: Lev Jascin, Gordon Banks, Dino Zoff.

Tutti della stessa scuola. Dino ha sempre privilegiato la persona al

personaggio e il prestigio alla popolarità, di cui detesta gli eccessi.

Lontano per indole dal galateo acrobatico di Albertosi, Zoff dava sicurezza

anche nella insicurezza che sapeva celare. Ai giovani portieri rimprovera la

rinuncia alla presa come una fuga dalle responsabilità: tanti, fra i pali e

nella vita, preferiscono rinviare, temporeggiare, deviare, come se avessero

paura di bloccare gli attimi, le decisioni. E al diavolo gli alibi: la foggia

del pallone, le troppe notturne, le troppe partite. Un muggito vi seppellirà.

Che coppia, e che coppa, con Enzo Bearzot. I silenzi parlanti di Zoff hanno

raccontato il Paese meglio di tanti comizi. Un albero dalle radici profonde,

solitario e dimenticato. Sarebbe piaciuto a Umberto Saba.

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Dino Zoff,

parando s'impara

di GIGI GARANZINI (IL Magazine.it | 15 marzo 2012)

Il monumento sta a Roma da vent'anni, al Fleming. E prima quasi altrettanti a

Torino, e prima ancora a Napoli sulla collina di via Petrarca, vista

Posillipo. Un uomo di città a tutti gli effetti che non ha mai dimenticato e

tanto meno rinnegato la provincia in cui è nato, è cresciuto, e ha imparato a

stare al mondo senza fronzoli, badando innanzitutto a quelle poche cose che

contano davvero. A cominciare dalla posizione verticale della schiena che può

flettere, persino arcuarsi per andare a prendere un pallone all'incrocio. Non

certo per compiacere un potente, o per imboccare una di quelle tante

scorciatoie con cui la vita più sei bravo e più si diverte a tentarti. «Rimane

la terra promessa, il mio Friuli. Ma sto bene a Roma, come prima altrove, per

la buona ragione che il mio dna è molto simile a quello dell'animale. Perché

ridi? È vero, sono un animale che si adatta, e riesce a trovare il meglio di

dove vive».

Gli occhi piantati in faccia, di tanto in tanto una pressione sul braccio o

sulla mano a mo' di sottolineatura, proprio come usava il suo fratello

maggiore Bearzot. «Non solo vengo dalla provincia, ma la mia era la classica

famiglia contadina. Dove non serviva parlare, perché le regole di

comportamento a cominciare dal senso della dignità erano incise nell'aria. Da

ragazzino aiutavo mio padre in campagna, poi dopo i tre anni di avviamento,

quando già la passione per il calcio pareva promettere un futuro, arrivò la

domanda fatidica. Vuoi studiare o lavorare? Andai a Gorizia a fare il

motorista, operaio specializzato. Ma in quegli anni giocavo, e anche se Milan

e Inter mi avevano visionato e scartato un giorno arrivò il Mantova a propormi

il grande salto. Avevo già debuttato in A con l'Udinese, sempre continuando a

lavorare. Mio padre mi lasciò libero di decidere, anche se sotto sotto aveva

sempre saputo che sarebbe finita così perché già da piccolo ero il più bravo.

Non l'ha mai fatta lunga. La volta – giocavo già a Napoli – che presi un gol

un po' così, a tavola l'indomani mi chiese come mai. Risposi con un vago

imbarazzo che non mi aspettavo che quello tirasse. Perché, concluse, fai il

farmacista?».

Ne ha appena compiuti settanta, il monumento. Ed è sempre fieramente identico

a se stesso. All'orgoglio consapevole di essersi riconosciuto campione sin

dalla prima gioventù, al rispetto automatico di valori insiti nel dna di un

italiano antico, e di discendenza asburgica, a un senso di responsabilità così

severo da autorizzare sospetti di masochismo. «Ci credi? Io nel mio ruolo mi

sentivo colpevole. Mi sono sempre sentito così. E a distanza di tanti anni

rivedo volentieri solo le partite più belle, perché in quelle in cui prendo

gol continuo a ritenermi colpevole. All'ottanta per cento colpevole». È

partito con un tono tra il fatalista e il rassegnato. Ma finisce digrignando i

denti, convinto oggi come allora che qualcosa in più avrebbe potuto fare.

Tantomeno spiana la grinta se solo si accenna alla lealtà in campo. «Mai

sopportato i simulatori, i cascatori. Né da calciatore né da allenatore.

Parlano di terzo tempo, di stretta di mano finale, io a uno che mi ha rubato

un rigore la mano non la do. E tutti quelli che piombano a terra inanimati

tenendosi il viso, e bisogna fermare il gioco, sono cose che non ho mai

sopportato. Gli dicevo, ma stasera davanti alla tv che cosa racconti a tuo

figlio, che sei stato bravo o che sei stato furbo? Io ho sempre predicato

lealtà, pur sapendo che era ed è una battaglia persa. Per la buona ragione che

quando un giocatore si butta e lucra un rigore, in realtà sono contenti tutti:

presidente, allenatore, compagni e tifosi. E allora perché non farli felici?».

Come avrà fatto, il vecchio Dino, con le idee che si ritrova ad attraversare

mezzo secolo di calcio nostrano? «Innanzitutto non tradendole. Poi non

praticando sconti né a compagni né ad avversari. E mettendoci sempre il

massimo possibile della serietà, ma senza integralismi, vuoi che il lunedì non

mi bevessi la mia bella bottiglia di rosso? Di sicuro non mi sono mai fermato

per un raffreddore o un'influenza, se fisicamente non ero al massimo ci

mettevo ancora più attenzione per compensare. Se no, non avrei giocato 332

partite consecutive, che fanno 11 campionati e fischia. E non sarei arrivato a

41 anni in campo andando oltre i gol presi al mondiale d'Argentina quando già

ne avevo 36. A parte il fatto che su quei gol da lontano di olandesi e

brasiliani ero io che ero diventato cieco. Dopo sono diventati eurogol».

Parlava poco a quei tempi, il monumento. Tanto che la camera che divideva col

povero Scirea, sia alla Juve che in Nazionale, era soprannominata per

l'appunto zona del silenzio. «Avevo il pudore della parola. Anche perché

finché sei in carriera se vuoi comportarti correttamente devi essere banale. E

non potendo parlare liberamente me lo risparmiavo. Hai presente quel verso,

"Per dirti cose vecchie con il vestito nuovo"? Per la cronaca è Guccini».

Però. «Francesco Guccini, per me poeta assoluto. Avrò pure avuto il diritto

di riempire come mi pareva quella che voi chiamate la solitudine del portiere.

O vuoi che ti canti De André? Sai chi lo cantava da dio? Francesco Rocca.

Persona stupenda, gran giocatore, stroncato purtroppo da giovane per quei

legamenti del ginocchio. Oggi chissà, con le tecniche nuove la carriera

gliel'avrebbero salvata. E poi le grandi romanze di Verdi, di Puccini, quelle

da tenore anche se la mia voce è da baritono, o forse proprio per quello. Una

volta divoravo Mickey Spillane, poi sono arrivato a Joseph Roth. In compenso

la passione per la F1 mi è passata, per vedere un sorpasso devono cambiar

gomme non so nemmeno quante volte. Una noia mortale».

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A TU PER TU

Z O F F

Parla il mito dello sport italiano,

portiere campione del mondo nell'82,

allenatore, presidente, esempio di stile

«BERLUSCONI, BEARZOT E TOTTI VI SVELO TUTTO»

Dall’attacco del Presidente del Consiglio alla lealtà dell’amato ct

dal cucchiaio con l’Olanda alla Lazio: SuperDino non finisce mai

di WALTER VELTRONI (CORRIERE DELLO SPORT 12-09-2015)

 

Dino Zoff appartiene a quel tipo di italiani di cui speriamo non si perda mai lo stampo. Se parla di calcio, ricorda tutto e non finirebbe mai, si commuove quando pensa a due come lui, Bearzot e Scirea. Gente seria, di poche parole, con al centro del cervello e del cuore, quella parola, “responsabilità”, che farà da guida anche al nostro colloquio. Prima di commentare il grido di allarme di Conte, come prima di Prandelli, sulla non adeguata considerazione della Nazionale, Zoff mi ricorda quello che disse una volta a un suo giocatore che diceva di essere stanco... «Tu ti senti stanco? Dici che non ce la fai più? Pensa ai militari che tornavano dalla Russia a piedi per migliaia di chilometri, nel fango e nella neve. Sai perché ce la facevano? Perché avevano la testa e il coraggio, le due cose che servono sempre nella vita».

Ecco, così è Dino Zoff, mito dello sport italiano e persona schietta. Anche quando parla degli azzurri. «No, il deserto non lo vedo. Certo ha perso centralità. Travolta, anche mediaticamente, dalle rutilanti campagne acquisti e, soprattutto, dal fatto che molte squadre, anche le più blasonate, hanno in formazione, ormai, due o tre giocatori italiani, quando va bene. E poi c’è una tale offerta tv di calcio che se la Nazionale non gioca con una grande...».

 

Per i tedeschi, oggi, la squadra più importante è la Nazionale. Per gli italiani credo sia il club per il quale si tifa.

«Sì, lo temo anche io. Sa, ai miei tempi, i giocatori che arrivavano in azzurro erano i protagonisti assoluti dei propri club. Ora molti convocati passano gran parte del campionato in panchina e bene fanno i ct a denunciarlo. Appena diventai allenatore della Nazionale riunii i giocatori al centro del campo. Dopo i primi convenevoli feci loro una affermazione dura, forse inaspettata per chi mi conosce poco. Dissi loro “Voi, nelle vostre squadre, non contate un c... A parte Totti. L’unico modo di diventare primi nei vostri club è esplodere in Nazionale». Furono sorpresi ma capirono. Gli avevo parlato duro ma chiaro, come faceva con noi Enzo Bearzot».

 

Come è diventato il calcio, oggi?

«C’è una esasperazione mediatica eccessiva. Non si va dietro ai numeri. E invece sono molto importanti. I risultati che hai raggiunto, le partite vinte e perse, i gol, i passaggi etc. Non è che, siccome ti hanno inquadrato da dieci posizioni diverse, con un colpo di testa ben fatto diventi Pelè. Questo vale anche per gli allenatori. Quanti ne abbiamo visti, personaggi bravi in tv, che poi non hanno fatto nulla con le loro squadre? Quando sento dire, come un titolo di merito, che durante una partita hanno cambiato tre schemi di gioco io, che sono un semplice, penso che almeno due erano sbagliati».

 

E cosa le manca del calcio dei suoi anni?

«Mi mancano comportamenti meno esasperati. Mi piacerebbero meno creste sui capelli e più lanci di quaranta metri o dribbling riusciti. Meno scene quando si prendono i colpi. Mi indignano i balletti dopo i gol, è una mancanza di rispetto per l’avversario. Se li avessero fatti ai miei tempi dubito che avrei fatto 330 partite senza mai essere espulso. Mi sembra che la telecamera ormai sia diventata più importante del campo».

 

Come cominciò, nel suo paesino in Friuli?

«Mi scambiavano per lo scemo del villaggio. Non pensavo che al calcio. Da quando avevo cinque anni ho cominciato a giocare in porta. Non so perché volevo stare in quel ruolo. Non avevo idoli o modelli, la prima partita in tv l’ho vista di straforo nel 1954. I grandi mi facevano giocare con loro, sapevano che ero bravino. Ma ero molto timido e ogni tanto mi facevano un po’ di bullismo, per esempio mi tiravano sempre dal lato in cui c’era più fango. Perché c’era tanto fango, dove giocavamo noi».

 

Ci pensi bene, perché sentì di fare proprio il portiere?

«Me lo sono sempre chiesto. Ma in fondo è quello che più mi assomiglia, caratterialmente. Il portiere ha una immensa responsabilità, è l’unico che non può sbagliare. E però di quella responsabilità, se è bravo, conosce la gloria. E io sono cresciuto in una terra di tradizioni asburgiche. E tutti noi, nobili o contadini, eravamo educati alla precisione, alla serietà. I bambini avevano solo doveri. Ma assolti quelli potevamo giocare. I miei genitori erano severi, ma se io facevo il mio dovere potevo usufruire di grande libertà. Così passavo anche sette o otto ore a giocare al calcio in cortile. Quando sento oggi i genitori dire che portano il figlio a Trigoria o non so dove per giocare penso sempre che la migliore scuola calcio è la villa comunale o il cortile».

 

Mi parla dei suoi genitori?

«Erano due persone straordinarie. Quando si vive la vita che io ho vissuto si resta con la sensazione di non aver dato loro quello che meritavano. Anche nella fase finale della loro vita, se ne sono andati a un mese di distanza dopo aver vissuto sempre uniti. E anche quando stavano male hanno affrontato la sfida più difficile con la cura di non pesare sugli altri. Mio padre partì per l’Abissinia a metà degli anni Trenta, tornò squassato da una nefrite e poi si fece l’Albania, la Jugoslavia e, con l’otto settembre, i campi di lavoro in Germania. E’ stato contadino fino in fondo. Io penso, oggi di aver fatto certo una bella vita, piena di successi ma lui ha vissuto tutto il tempo con la natura, si è intrecciato con le stagioni, con il mutare delle giornate, con l’andamento del raccolto. Mio padre era severo con se stesso. Si infuriava se non venivano rispettate le bestie o le piante. Una volta, mentre lo aiutavo, col cavallo calpestammo una pianta e lui alzò l’aratro infuriato. Per lui la natura era viva, perché lo faceva vivere».

 

La sua prima maglietta?

«Fu una canottiera sulla quale mia madre cucì un numero di stoffa. Lo ricordo ancora. Era un numero uno, rosso».

 

Lei non ha mai amato le magliette sgargianti. Al massimo si concesse un verde.

«Sì, ma per la ragione che le dicevo prima. A me non importava della foto o dell’immagine tv. Io mi occupavo solo del campo. Diversamente dagli inglesi che pensavano che la maglia gialla attirasse l’attaccante, infatti Banks la usava molto, io mi ero convinto che non dovessi dare punti di riferimento ai tiri avversari e che perciò nero, grigio o beige, in Nazionale, fossero l’ideale».

Torniamo ai suoi inizi. Esordisce nell’Udinese a 19 anni con un micidiale cinque a uno subito dalla Fiorentina. Avrebbe atterrato un bufalo. Era emozionato?

«Emozionato no. Posso aver paura, l’ho avuta fino alla finale dei mondiali. Ma quando stavo tra i pali sentivo soprattutto responsabilità, la parola chiave della mia vita».

 

Poi passò al Mantova, doveva sostituire un gran portiere, William Negri detto “carburo” perché aiutava la mamma in una pompa di benzina.

«Sì, Negri andò al Bologna e in cambio arrivò Santarelli, portiere storico dei felsinei. Io ero il secondo portiere, troppo giovane per essere il primo, anche se Bonizzoni, l’allenatore, mi aveva voluto con sé. Le racconto questa: a quei tempi si davano undici premi partita ai titolari e altri tre o quattro che venivano divisi tra gli altri giocatori della rosa. Santarelli un giorno mi chiamò e mi disse “Senti, facciamo così, noi portieri, mettiamo i nostri premi in un fondo unico e poi lo dividiamo a metà”. Io fui onorato e colpito da tanta generosità. Solo che aveva visto lungo lui, non io. Infatti giocai 30 partite io e quattro lui. Si faccia un conto chi ci guadagnò da quell’accordo...».

 

Lei era in campo in quel Mantova-Inter del 1967 che, con la papera di Sarti, decise lo scudetto a favore della Juve.

«L’Inter veniva dalla sconfitta in finale di Coppa dei Campioni con il Celtic. Nel primo tempo meritava ma io feci gran parate e l’arbitro Francescon fu generoso su un fallo in area ai danni di Mazzola. Poi ci fu quel tiro sbilenco di Di Giacomo e il clamoroso e singolare infortunio di Sarti, gran portiere. Era destino. Come forse era destino che io andassi alla Juventus. Pensi che nel 1962 giocavo con l’Udinese contro i bianconeri e mi ero messo, al solito, la mia maglia nera. Ma quel giorno anche loro erano vestiti in nero. Così fu Vavassori, portiere di riserva dei bianconeri, a dare al suo avversario la maglietta bianca con la v nera. Destino».

 

Dal destino alla delusione, quale è stata la più grande della sua carriera?

«La finale di Coppa dei Campioni. Erano tutti convinti che sarebbe stata una passeggiata, una pura formalità. Chi gioca davvero sa che non è mai così. Infatti in campo dormivamo, non abbiamo fatto nulla. Quando Magath segnò, non da trenta metri come fu maliziosamente detto, ma dal limite dell’area, non ci fu reazione. Eravamo come ipnotizzati».

 

Nello spogliatoio che successe?

«Silenzio, fu una specie di dramma collettivo. Non si sentiva volare una mosca. È così fu anche sul pullman, in aereo. Nessuno poteva recriminare, non eravamo esistiti. Ed avevamo una delle squadre più forti che si fossero mai viste. Otto campioni del mondo più Platini, Boniek, Bettega. Scusate se è poco».

 

Si ricorda litigi nello spogliatoio da giocatore o da allenatore?

«Da allenatore no. Se fai litigare i tuoi giocatori tra loro puoi cambiare mestiere. Da giocatore qualche volta, normali conflitti personali, di ruolo, di leadership. Ma, vede, mi fa imbestialire quando leggo che un calciatore dice abbiamo vinto perché eravamo amici. Perché, se non volevi bene all’attaccante non gli passavi il pallone? Ci si dimentica che questo è un lavoro, per il quale si è pagati bene, che si fa per i tifosi, per la maglia. E soprattutto perché è il tuo dovere, la tua responsabilità. Lo vede? Torna sempre questa cavolo di parola, nella mia concezione dello sport. E della vita».

 

E con Boniperti che rapporto aveva?

«Stare alla Juve era come lavorare alla Fiat. Risultati, ordine, disciplina. Boniperti di calcio capiva, pensi a come compose, pezzo a pezzo, quello squadrone: prendendo dall’Atalanta Cabrini e Scirea e poi Tardelli dal Como. Nel mio libro “Dura solo un attimo, la gloria” ho raccontato come faceva le trattative per gli ingaggi. Nel 1976 noi avevamo perso una partita, decisiva per il campionato, a Perugia. Quando, a Villar Perosa, entrai nel suo ufficio aveva incorniciata la foto dei giocatori della squadra umbra. Mi chiese, indicandoli ad uno ad uno, “Avete perso con loro, vorrete mica lo stesso ingaggio dell’anno scorso?”. Lui cominciava queste sessioni dal mattino, in ordine alfabetico. Io quindi ero sempre l’ultimo e poi lui non aveva grande considerazione per i portieri. Ma un anno decisi almeno di vendicarmi. Avevo trent’anni e non volevo farmi trattare come un pivellino. Il mio turno arrivò verso le dieci. Lo tenni fino alle due di notte. Soldi non se ne videro, ma almeno la soddisfazione me la tolsi».

 

Lei non era appassionato dei tuffi, non era un genere che le piaceva.

«No. Ero sempre alla ricerca, da portiere, della semplicità. E della perfezione, che però non ho trovato. Cercavo di supplire con il piazzamento alla teatralità di un tuffo ad angelo. Io ero amico di Castellini, che era un portiere a cui piaceva volare. Ma lui si librava in volo e poi la palla la prendeva. Non come certi esteti che amano più la foto della parata. Pensi che una volta, all’Olimpico, durante un Inghilterra-Italia mi fecero un tiro che necessitava di un tuffo plastico per prendere la palla. Mi ricordo che, mentre ero in volo, già mi vergognavo».

 

Chi sono i migliori portieri di ieri, oggi e domani?

«Abbiamo avuto una scuola fantastica. Albertosi, Vieri, Castellini e il non sufficientemente ricordato Fabio Cudicini. Eravamo, per qualità e numero, i migliori del mondo. Oggi Buffon. Domani vedo Perin e Sportiello. Ma la scuola si è inaridita. I club continuano ad acquistare portieri stranieri... Sono arrivati persino tanti portieri brasiliani. Per usare un eufemismo potrei dire che erano bravissimi in tutto ma il Brasile non è mai stata la patria dei numero uno. Adesso dicono che è importante che un portiere sappia giocare con i piedi. Vero, certo. Ma se chi gioca in porta può farlo con le mani e gli altri con i piedi, una ragione ci sarà...».

 

Come si para un rigore?

«E chi lo sa? Io c’erano periodi in cui li paravo e altri in cui non c’era niente da fare. Devo confessare che non si studiava tanto, ci si affidava all’istinto. Ricordo una volta, col Bologna. Il Trap mi aveva detto che il rigorista rossoblù tirava sempre a sinistra. Purtroppo ci fu proprio un penalty contro di noi e quello si avvicinò al dischetto. Io volevo buttarmi a destra ma pensai che se poi lo avesse tirato a sinistra il Trap mi avrebbe sgozzato. Allora feci come diceva il mister. E quello, ovviamente, tirò a destra. Mi alzai come una furia e gridai verso la panchina “Maledetto te e io che ti sto a sentire, non mi dire più niente”. Se ci fossero state le telecamere di oggi sarebbe diventato uno scandalo nazionale. Comunque il Trap, da quella volta, non mi disse più nulla».

 

Parliamo dei suoi primi mondiali, quelli del ’70.

«Sono sincero, ho un ricordo poco simpatico. Ero stato campione d’Europa nel 1968, avevo fatto gran parte delle qualificazioni da titolare. Ma in Messico stetti in panchina. Avevo perso il posto, insieme a Sandro Salvadore, in Spagna dove pareggiammo con due autoreti di Salvadore stesso. Fu scelto Albertosi, non la presi bene. Eravamo agli antipodi, come carattere. Non è che ci volevamo bene. Italia-Germania, diciamoci la verità, fu una brutta partita fino ai supplementari, che furono epici. Poi la squadra un po’ si sedette, in fondo, si diceva, siamo arrivati fin qui...».

 

E la staffetta non fatta tra Mazzola e Rivera che giocò solo gli ultimi sei minuti?

«Io credo che fu un caso. Sinceramente Valcareggi aveva perso un po’ il controllo dopo la gragnuola di gol dei brasiliani, che erano stellari. Tanto che chiese a Juliano di scaldarsi senza rendersi conto che aveva finito le sostituzioni. Alla fine del primo tempo pareggiavamo e credo che lui abbia avuto paura di alterare la squadra. Mi ricordo il ritorno a Roma, con Valcareggi scortato dalla polizia e gente inferocita. Com’è il calcio! E com’è l’Italia! Solo una settimana prima erano tutti in piazza a festeggiare, dopo la Germania, gli “eroi dell’Azteca”.

 

Poi ci fu la catastrofe del 1974.

«Anche lì erano tutti convinti che fossimo fortissimi. Io avevo la porta inviolata da una vita. Un giocatore haitiano, Sanon, mi infilzò alla prima partita. E io non me lo perdono ancora. Ma in quella spedizione erano troppi a decidere. C’erano Carraro, Allodi, Franchi... Ricordo che, annusando l’aria, dissero solennemente che alla prima polemica il responsabile sarebbe stato cacciato. Ovviamente non successe, neanche dopo che Chinaglia aveva mandato a stendere l’allenatore. Altro che polemica, quella squadra era spaccata, divisa, in conflitto permanente. Ricordo che Allodi, in un viaggio in treno verso Stoccarda, ci riunì tutti e ci ammonì paternamente “Noi dobbiamo stare uniti, dobbiamo dirci tutto, dobbiamo essere sinceri”. Detto fatto. Per primo parlò Juliano che disse “Allora sono sincero, il cinquanta per cento della squadra non vuole Rivera in campo”. Gelo, riunione sciolta e spedizione fallita».

 

Veniamo al suo mondiale più difficile, quello del ’78. I famosi tiri da lontano con l’Olanda...

«Guardi, sono sincero. Il tiro di Brandts era imprendibile ma su quello di Haan potevo fare di più. Le ho detto che la perfezione non l’ho trovata...».

 

Veniamo al 1982, il trionfo. Quando lei leva in alto quella Coppa e l’Italia esplode di gioia.

«Guardi non posso parlare di quel mondiale senza rendere, in primo luogo, omaggio a Bearzot. Era una persona coraggiosa, leale. Quando ti diceva una cosa era quella. E te la diceva in faccia, non passava attraverso i giornalisti. Non gli piaceva certa gente che ruotava, anche a livello dirigenziale, attorno alla Nazionale. Per due anni non portò mai la Nazionale a Coverciano. Era una persona limpida, se c’era una pallottola in giro lui metteva il suo corpo davanti, un vero comandante».

 

Fu lui a consigliarvi il silenzio stampa?

«No, lui era istituzionale e non gli piacevano gli strappi. Fummo noi. Ci eravamo stufati. Avevano scritto follie sull’omosessualità tra noi giocatori, avevano detto che ci eravamo rifiutati di andare a promuovere una ditta italiana perché non ci avevano regalato gli orologi. Tutte invenzioni, che si aggiungevano, ma questo è ancora legittimo, a giudizi irridenti delle nostre capacità, dopo il girone eliminatorio. Poi cominciammo a vincere e diventammo, ovviamente, la più forte squadra del mondo. Insomma decidemmo il silenzio stampa, e io, proprio io, dovevo parlare in conferenza stampa ogni giorno. Quando aprivo bocca i giornalisti italiani se ne andavano per protesta. Questo era il clima, fino alla partita con l’Argentina».

 

Quel mondiale, per molti di noi, è anche la sua parata sulla riga all’ultimo minuto.

«In quell’istante mi è apparso di tutto. Ma la paura più grande era che l’arbitro vedesse male. La giudicasse dentro la porta. Per questo saltai in piedi urlando che era sulla riga. È stata la parata più importante della mia vita. Fu una gioia indescrivibile. Baciai persino Bearzot e tutti e due poi ce ne vergognammo. Alla premiazione ero in uno stato di gloria. Cercai persino di baciare la regina, cosa non proprio protocollare. In aereo con Pertini giocammo la famosa partita. Lo scopone è un grande parificatore sociale. Ricordo, con la Juve, che una volta il massaggiatore de Maria, che era un vero professionista, insultò sanguinosamente il Trap che aveva sbagliato a calare una carta. Pertini si infuriò perché perdemmo. Ma tempo dopo ricevetti un suo telegramma nel quale si incolpava della sconfitta. Ci aveva persino ripensato. Al Quirinale disse che voleva al fianco, a tavola, Bearzot, me e la squadra e che ministri e dirigenti potevano anche andare al ristorante».

 

Poi, della Nazionale, divenne allenatore...

«Esperienza bellissima, giocavamo un bel calcio. Arrivammo in finale agli europei del 2000. Io ero figlio di Bearzot, parlavo poco, non facevo la formazione e le tattiche con i giornalisti. Insomma, facevo più fatica, nel rapporto con la stampa. Ma potevamo e dovevamo vincerlo quell’Europeo. In finale abbiamo avuto molte occasioni. Avevamo avuto fortuna con l’Olanda, quando Toldo fu bravo e Totti fece il cucchiaio. Che io approvai, per me era importante solo che la mettesse dentro».

 

Ma dopo quella partita il Presidente del Consiglio Berlusconi la attaccò e lei diede le dimissioni, gesto non frequente, a nessun livello, in questo paese.

«Le critiche le ascolto tutte, non sono un integralista, non ho inventato io il calcio. Ma fu usato il termine “indegnità” e io questo non lo potevo accettare, anche perché era stato pronunciato da chi aveva alte responsabilità pubbliche. Così mi dimisi. Fu un gesto “rivoluzionario”, inusuale e che ho pagato. Ma tutti parlano di etica solo quando concerne gli altri. Quando riguarda te è più facile far finta di niente. Io non ne sono capace».

 

E la sua esperienza alla Lazio?

«Fu bellissima. Sono stato allenatore e presidente e le due cose insieme. Tornammo dopo quindici anni in Europa e posso dire che in quegli anni la squadra fece il salto, diventò una grande. Ho un rimpianto nel 2001, quando presi la squadra a dicembre dopo Eriksson. Facemmo una rincorsa meravigliosa e se non avesse segnato al 92’ Dalmat in una partita in campo neutro con l’Inter, noi avremmo conteso lo scudetto alla Roma. Signori era un giocatore fantastico e mi dispiace quello che è accaduto in questi mesi. E poi c’era Gascoigne, genio e disperazione. Sembrava un jazzista, aveva un talento sconfinato unito a un’ansia di autodistruzione».

 

Come vede il campionato? E la Lazio?

«Sarà una lotta vera, quest’anno. Con la Juve, ci sono Inter, Roma e altre. La Lazio deve stare attenta al rischio, che c’è sempre in questa città, capace di volare sulle ali dell’entusiasmo e la settimana dopo di sprofondare nella disperazione. Forse era troppo l’anno scorso, forse è troppo ora. Nel calcio occorre tempo, sempre».

 

Anche a lei chiedo la sua formazione ideale di tutti i tempi.

«Jascin, Burgnich, Beckenbauer, Scirea, Cabrini; Valentino Mazzola, Di Stefano, Platini; Garrincha, Pelè, Riva».

 

Allenatore?

«Che domanda... Bearzot. Che la farebbe giocare all’italiana. Lui diceva sempre che avevamo, nella nostra cultura calcistica, un dna preciso e che non dovevamo snaturarlo diventando, di volta in volta, olandesi, brasiliani o non so che. Era un italiano orgoglioso di esserlo».

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Afbeeldingsresultaat voor dino zoff campione del mondo 1982

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