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bidescu

Claudio Gentile

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Maradona nella sua carriera di botte ne ha prese tante , ma credo che si ricordi ancora adesso quante ne ha prese in una sola partita da Gentile durante Argentina - Italia ai mondiali dell'82

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Maradona nella sua carriera di botte ne ha prese tante , ma credo che si ricordi ancora adesso quante ne ha prese in una sola partita da Gentile durante Argentina - Italia ai mondiali dell'82

:sisi::sisi: Un vero mastino !! Con le buone o con le cattive.......ma nn si passava!!!!!!

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Claudio Gentile: a master of defense - Juventus TV

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CLAUDIO GENTILE

UNO DEI PIU' FORTI DIFENSORI DI SEMPRE

Nato in Libia, vincerà sei scudetti nella Juventus di Trapattoni
e i suoi duelli nel mondiale di Spagna passeranno alla storia.

 

Sicilian Football no Twitter: "Happy birthday to Claudio Gentile. The  Azzurri and Juve legend turns 66 today. ⭐️🏆🎉 Born in Libya to Sicilian  parents, Gentile became one of Italy's toughest and versatile

 

 

 

Doveva essere un personaggio del mondo del calcio è lo diventato, ma alla “grande”. Claudio Gentile nasce in Libia da genitori italiani e presto per lui il soprannome di “Gheddafi” è un passo obbligatorio, proprio quando il leader nord africano si accingeva a diventare socio di primo piano nella Fiat di metà anni settanta, in un momento di crisi del gruppo.

Del resto i suoi capelli ricci e la sua pelle bruna incutevano non poca paura, per un giocatore che diventerà uno dei più spietati difensori della storia del nostro calcio. Spietato, ma corretto. Fermava il suo avversario, ma mai fallosamente. Lo superava in velocità, con astuzia e con tecnica.

Nella Juventus arriva nella stagione 73-74, ad appena venti anni. L’anno successivo diventa titolare per vincere il suo primo tricolore. La sua carriera è quella della Juventus di Trapattoni, che lo porterà nell’arco di nove anni a vincere sei scudetti. Mentre si accinge a vincere il suo primo campionato, Bernadini lo convoca nella nazionale post-Monaco, quando la nostra squadra era interamente da ricostruire. Giocherà terzino in coppia con Francesco Rocca, in un ruolo che vedrà alternarsi anche il suo compagno di squadra Marco Tardelli. Presto diventerà la colonna insostituibile della nostra difesa e Bearzot lo renderà il campione prezioso che tutti ricordiamo.

In qualsiasi incontro è per lui la marcatura dell’attaccante più pericoloso, Bearzot è sicuro che Gentile saprà fermarlo.

Gioca le qualificazioni per i mondiali in Argentina e realizza anche il gol del vantaggio nella delicata trasferta in Finlandia. Nella Coppa del Mondo giocherà in coppia con Antonio Cabrini, creando una coppia di difensori che farà la storia del nostro calcio. Diventa un giocatore di livello internazionale e nei successivi mondiali in Spagna sarà protagonista assoluto. Per scaramanzia si fa crescere dei baffoni minacciosi, per rendere il suo aspetto ancora più “cattivo”. Il voto che ha fatto è quello di tagliarseli solo se l'Italia arriverà in finale.

Nella partita con l’Argentina Gentile deve marcare la leggenda vivente Diego Maradona; comincia subito alla grande e Diego capisce che avrà vita dura. Nei primi minuti lo anticipa su tutti i palloni rendendo sterile gli attacchi argentini. Maradona perde convinzione con il passare del tempo; gli avversari con il loro giocatore più forte ormai annichilito, non riescono più a creare alcun pericolo per Zoff. Nella successiva partita con il Brasile per Gentile ancora un compito difficile, marcare Zico. Il duello è basato sulla velocità e sulla tecnica,ma alla fine Zico renderà pochissimo.

Per tutti l’immagine da ricordare e quella del campione brasiliano che mostra all'inizio della partita la sua maglia già strappata da un Gentile furente ma corretto. Arriva però la sua seconda ammonizione e la squalifica per la semifinale contro la Polonia , ma in finale ci sarà, senza baffi per marcare un Rummenigge in non ottime condizioni fisiche.

Ormai Gentile, dopo il mondiale vittorioso, è il simbolo del “cattivo” per eccellenza del calcio mondiale, un aggettivo sicuramente esagerato. Nella Juventus arrivano i suoi rivali Platini e Boniek, ma ci sarà la sconfitta di Atene e la vittoria nella Coppa delle Coppe del 1984.

Dopo la vittoria, la nazionale delude fino all’eliminazione in Coppa Europa. Claudio ha trenta anni e dieci anni di nazionale; ormai non è più titolare e Bergomi e poi Baresi prendono il suo posto; per lui la panchina e scampoli di partita. La sua ultima maglia azzurra la veste in una amichevole contro il Canada nel 1984. Sarà titolare e avrà la fascia del capitano per la prima ed unica volta.

Pochi mesi dopo il passaggio alla Fiorentina, una squadra ambiziosa con Passarella e con campioni come Oriali, Pecci e Pulici. Con i viola giocherà tre stagioni per poi passare nel 1988 al Piacenza dove conclude la sua carriera da calciatore.

Come tecnico vincerà altrettanto, allenando per ben sei anni la nazionale under 21, conquistando nel 2004 il titolo europeo e pochi mesi dopo il bronzo olimpico ad Atene.


GolCalcio.it

 

Gentile habla de su marcaje a Maradona del Mundial 82: "Ahora no podría  hacerlo"
Mondiali in Spagna 1982 e il famoso duello con Maradona

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Bestand:1974–75 Serie A - SS Lazio v Juventus - Claudio Gentile and Roberto  Bettega.jpg - Wikipedia

 

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Inolvidable y brutal: la marca de Gentile sobre Maradona en el Mundial de  España | TN

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1017539510_juventus1931.jpg.4842e5fbeef60352d9a7bd3676287099.jpg2142587268_juve1977.jpg.e1e775a5f5708299003fb0263e509df2.jpg CLAUDIO GENTILE 453850400_juve1982.png.d508ee38f769a3fa6b80a98c4125fd9a.png

 

Claudio Gentile - IMDb

 

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Claudio_Gentile

 

 

Nazione: Italia Italia
Luogo di nascita: Tripoli (Libia)
Data di nascita: 27.09.1953

Ruolo: Difensore
Altezza: 178 cm
Peso: 71 kg

Nazionale Italiano
Soprannome: Gheddafi - Gento

 

 

Alla Juventus dal 1973 al 1984

Esordio: 29.08.1973 - Coppa Italia - Juventus-Ascoli 3-1

Ultima partita: 16.05.1984 - Coppa delle coppe - Porto-Juventus 1-2

 

415 presenze - 10 reti

 

6 scudetti

2 coppe Italia

1 coppa delle coppe

1 coppa Uefa

 

Campione del mondo 1982 con la nazionale italiana

 

 

 

Claudio Gentile (Tripoli, 27 settembre 1953) è un dirigente sportivo, allenatore di calcio ed ex calciatore italiano, di ruolo difensore, campione del mondo con la nazionale italiana nel 1982.

Considerato uno dei migliori terzini della storia del calcio italiano, legò la sua attività calcistica principalmente alla Juventus, squadra nella quale militò per undici stagioni a cavallo tra gli anni 1970 e 1980, vincendo sei campionati di Serie A, due coppe nazionali, una Coppa delle Coppe e una Coppa UEFA, e disputando inoltre una finale di Coppa dei Campioni. Assieme al portiere Dino Zoff, al libero Gaetano Scirea e al terzino sinistro Antonio Cabrini, tutti e tre compagni di club e nazionale, Gentile fu membro di una delle migliori linee difensive di sempre.

In nazionale ha totalizzato 71 presenze, partecipando a due Mondiali (Argentina 1978 e Spagna 1982) e a un Europeo (Italia 1980), distinguendosi in più occasioni come uno dei pilastri della squadra.

Da allenatore, alla guida dell'Italia Under-21, ha vinto un Europeo di categoria nel 2004.

 

Claudio Gentile
Claudio Gentile - Juventus FC 1981-82.jpg
Gentile alla Juventus nella stagione 1981-1982
     
Nazionalità Italia Italia
Altezza 178 cm
Peso 71 kg
Calcio Football pictogram.svg
Ruolo Allenatore (ex difensore)
Termine carriera 1988 - giocatore
Carriera
Giovanili
1964-1968   Maslianico
1968-1971   Varese
Squadre di club
1971-1972    Arona 34 (4)
1972-1973   Varese 34 (1)
1973-1984   Juventus 415 (10)
1984-1987   Fiorentina 70 (0)
1987-1988   Piacenza 20 (0)
Nazionale
1974 Italia Italia U-23 2 (0)
1975-1984 Italia Italia 71 (1)
Carriera da allenatore
1998-2000 Italia Italia U-20  
2000 Italia Italia Vice
2000-2006 Italia Italia U-21  
2004 Italia Italia olimpica  
2014   Sion  
Palmarès
 
Olympic flag.svg Olimpiadi
Bronzo Atene 2004
Coppa mondiale.svg Mondiali di calcio
Oro Spagna 1982
Transparent.png Europei di calcio Under-21
Bronzo Svizzera 2002
Oro Germania 2004

 

Biografia

Nato nell'allora Regno Unito di Libia da genitori originari di Noto, a loro volta cresciuti in Libia durante gli anni della colonizzazione italiana, da bambino Gentile inizia a giocare nei vicoli di Tripoli con compagni arabi e altri figli di coloni: qui acquisisce la grinta e la cattiveria agonistica che lo avrebbero contraddistinto lungo la sua carriera professionistica. Prevenendo le persecuzioni agli italiani che avranno inizio qualche anno dopo con l'instaurarsi del regime gheddafiano, all'età di otto anni rientra frettolosamente in Italia con la sua famiglia e si stabilisce a Brunate, nel Comasco.

Proprio le origini libiche gli hanno valso l'appellativo di Gheddafi, tuttavia mai amato dallo stesso Gentile per via dei succitati eventi che avevano portato alla brusca separazione dalla sua terra natale — «non si rendevano conto di quanto detestassi quel soprannome [...]: non lo sopportavo perché sapevo che cosa aveva fatto [Gheddafi, ndr] agli italiani e ai miei parenti» —, preferendo essere identificato con il semplice vezzeggiativo del proprio cognome, Gento.

Nel 2013 il suo nome compare inizialmente tra gli indagati in un'inchiesta fiorentina su false fideiussioni per l'iscrizione di alcuni club alla Lega Pro; per lui, sei mesi dopo, il Tribunale di Firenze richiede l'archiviazione del procedimento in quanto «del tutto estraneo» ai fatti.

Caratteristiche tecniche

Giocatore

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Gentile (a sinistra) esce dal campo con Antonio Cabrini, coppia di terzini della Juventus e della nazionale tra gli anni 1970 e 1980.

 

Già distintosi come difensore eclettico e tenace nelle file del Varese, poco più che ventenne seppe emergere quale «rivelazione» della Juventus vincitrice del campionato 1974-1975, grazie alla sua abilità nel coniugare una costante partecipazione alla manovra con il controllo dell'«avversario più pericoloso», ispirandosi sul piano difensivo a specialisti della marcatura a uomo come Tarcisio Burgnich e Angelo Anquilletti.

Dapprima schierato nel ruolo di terzino destro, agli ordini di Giovanni Trapattoni si spostò sulla corsia opposta: pur essendo inizialmente poco avvezzo all'uso del sinistro, acquisì la capacità di effettuare precisi traversoni anche col piede debole, in virtù di un progressivo raffinamento tecnico voluto dall'allenatore, confermandosi protagonista dei due successivi Scudetti bianconeri, nelle stagioni 1976-1977 — «il mio miglior campionato in assoluto» — e 1977-1978.

Negli anni a seguire, l'affermazione di Antonio Cabrini come fluidificante mancino lo restituì alla fascia destra, stavolta con compiti più difensivi per via di esigenze tattiche: la propensione al gioco d'attacco restò comunque tra i suoi punti di forza, consentendogli di formare con il compagno di squadra un duo atipico, vista l'abilità di entrambi nell'arrivare sul fondo, e a lungo decisivo per i successi della Juventus e della nazionale italiana.

 

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Gentile (a sinistra) in marcatura sul fantasista Zico nel campionato di Serie A 1983-1984. In precedenza, il loro "duello" con le maglie di Italia e Brasile era stato tra i momenti salienti del campionato del mondo 1982.

 

Oltre che da terzino, poteva essere impiegato in varie zone del centrocampo — specialmente nel ruolo di mediano, a lui piuttosto gradito — rivelandosi invece refrattario ad agire da stopper, posizione ricoperta con profitto in caso di necessità, ma che lo costringeva a minimizzare le sortite offensive. In forza alla Fiorentina, ultratrentenne, tornò a disimpegnarsi come terzino di spinta, per poi concludere la carriera da libero nelle file del Piacenza.

«Irriducibile combattente», nel 2007 è stato inserito dal quotidiano inglese The Times all'ottavo posto nella classifica dei calciatori più rudi di tutti i tempi; nonostante questo, ha ricevuto una sola espulsione in carriera, peraltro per somma di ammonizioni.

Carriera

Giocatore

Club

Gli esordi: Arona e Varese
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Un giovane Gentile (in piedi, secondo da destra) al Varese nella stagione 1972-1973

 

Inizia l'attività nel settore giovanile del Maslianico, da cui lo preleva il Varese dopo una trattativa col presidente del Maslianico, R. D'Angelo, che cedette assieme a lui i giovani promettenti Garganigo (poi diventato professionista come Gentile) Secchi e Bianchi. La precedente trattativa con il Como era saltata per motivi economici. Con i biancorossi lombardi compie tutta la trafila delle giovanili, tuttavia non viene ancora considerato all'altezza della prima squadra sicché viene ceduto in prestito all'Arona, dove disputa la stagione 1971-1972 nel campionato di Serie D.

Le prestazioni di Gento inducono il Varese a riportarlo alla base: gioca una stagione da titolare tra i cadetti (1972-1973), segnalandosi tra i migliori giovani della categoria, ma ancora una volta non convince l'allenatore Pietro Maroso e il direttore sportivo Sandro Vitali.

L'affermazione: Juventus
220px-Serie_A_1974-75_-_Lazio_vs_Juventu
 
Gentile (a sinistra) e Roberto Bettega con la maglia della Juventus nel campionato 1974-1975.

 

Nell'estate del 1973 viene acquistato dalla Juventus, voluto da Giampiero Boniperti, per oltre 200 milioni di lire, in vista della sostituzione dell'anziano Sandro Salvadore. Viene inizialmente impiegato come riserva di Giuseppe Furino, per la contemporanea presenza di Marchetti, Spinosi e Longobucco nel ruolo di terzino. Esordisce in campionato in maglia juventina il 2 dicembre 1973, nella vittoria per 5-1 sul Verona, giocando proprio da mediano, e nei mesi successivi guadagna gradualmente maggior spazio in prima squadra, nonostante un evidente calo di forma nel finale. In quella stagione disputa anche il derby della Mole, giocando in marcatura su Claudio Sala: il duello si ripeterà più volte negli anni successivi.

 

220px-Claudio_Gentile_-_1984_-_Juventus_
 
Gentile agli sgoccioli della sua esperienza juventina, in un momento di relax al termine della stagione 1983-1984.

 

A partire dalla stagione 1974-1975 forma con Antonello Cuccureddu la coppia di terzini titolare; inizialmente è impiegato sulla fascia sinistra e in seguito, dopo l'affermazione di Antonio Cabrini, sulla destra, con compiti più difensivi. Con l'altro giovane difensore Gaetano Scirea contribuisce alla conquista del suo primo Scudetto, tuttavia nel campionato 1975-1976, a causa di una squalifica e di attriti con l'allenatore Carlo Parola, perde temporaneamente il posto in squadra, sostituito da Marco Tardelli. Nella stagione successiva, con Giovanni Trapattoni allenatore, torna titolare contribuendo a un nuovo Scudetto dei bianconeri e alla vittoria in Coppa UEFA.

Conclude l'esperienza juventina nel 1984, dopo undici stagioni di militanza nelle quali vince complessivamente sei Scudetti, due Coppe Italia, una Coppa UEFA e una Coppa delle Coppe. Colleziona 283 presenze in campionato, e 415 in totale comprendendo la Coppa Italia e le Coppe europee.

Il finale di carriera: Fiorentina e Piacenza

Nell'estate del 1984, all'età di trentuno anni, lascia la Juventus per trasferirsi alla Fiorentina, approfittando della nuova normativa sullo svincolo dei giocatori. L'esperienza in viola, durata tre stagioni, è costellata di difficoltà: inizialmente viene contestato dalla tifoseria, a causa del suo passato bianconero, e in seguito ha problemi con l'allenatore Aldo Agroppi, a causa della politica di svecchiamento da lui portata avanti a discapito dei giocatori più anziani.

 

220px-Serie_A_1984-85_-_Sampdoria_vs_Fio
 
Gentile (a destra) alla Fiorentina nel campionato 1984-1985, in marcatura sul sampdoriano Evaristo Beccalossi.

 

Svincolatosi dal club gigliato, trascorre alcuni mesi senza squadra, partecipando (insieme all'altro campione del mondo Marco Tardelli) al ritiro per calciatori disoccupati organizzato a Pomezia. Nel dicembre del 1987 viene ingaggiato dal Piacenza, squadra neopromossa in Serie B: scende in campo in 20 occasioni, contribuendo alla salvezza del club prima di concludere definitivamente la carriera agonistica.

In carriera ha totalizzato 353 presenze e 9 gol in Serie A.

Nazionale

Dopo il debutto nella nazionale Under-23, il 29 settembre 1974 contro i pari età della Jugoslavia, ha esordito con la nazionale maggiore il 19 aprile 1975, a ventuno anni, nella partita Italia-Polonia (0-0) disputata a Roma. Nel corso del 1976 esce temporaneamente dal giro azzurro, avendo perso il posto da titolare nella Juventus e a causa di alcuni dissapori con il commissario tecnico Fulvio Bernardini. Tornato in azzurro, diventa titolare fisso con Enzo Bearzot, e realizza il suo primo e unico gol in nazionale l'8 giugno 1977, a Helsinki, nella partita vinta 3-0 contro la Finlandia.

 

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Gentile (a sinistra) in nazionale al campionato del mondo 1978, alle prese con l'argentino Mario Kempes.

 

Ha partecipato da titolare al campionato del mondo 1978 in Argentina, nel quale è stato considerato tra i migliori difensori della manifestazione, giocando inizialmente come terzino destro e, dopo l'infortunio a Mauro Bellugi, come stopper; impiegato in marcatura su campioni quali Mario Kempes, Hans Krankl, Johnny Rep e Roberto Dinamite, ha impedito ai suoi diretti avversari di realizzare reti. In seguito è stato titolare al campionato d'Europa 1980 organizzato in Italia, segnalandosi nuovamente tra i migliori, e al vittorioso campionato del mondo 1982 in Spagna, dove si è fatto notare per le sue marcature a uomo su Maradona e Zico. In entrambi i casi è stato ammonito, saltando così la semifinale vinta contro la Polonia; rientra tra i titolari nella finale contro la Germania Ovest, nella quale viene impiegato in marcatura su Pierre Littbarski.

Ha disputato la sua ultima gara in nazionale il 26 maggio 1984, a trent'anni, nella partita amichevole Canada-Italia (0-2) giocata a Toronto, indossando nell'occasione la fascia da capitano. In totale ha collezionato 71 presenze con gli Azzurri.

Dirigente e allenatore

Terminata l'attività agonistica, Gentile è rimasto nel mondo del calcio, indirizzandosi inizialmente verso l'attività dirigenziale. Nella stagione 1990-1991 è tornato alla Juventus in veste di collaboratore, in particolare per la ristrutturazione del settore giovanile bianconero. Tra il 1991 e il 1993 è direttore generale del Lecco, ricoprendo anche il ruolo di direttore sportivo dal marzo del 1992.

 

220px-Claudio_Gentile.jpg
 
Gentile nel 2006, in veste di commissario tecnico dell'Italia Under-21.

 

In seguito è entrato nel settore tecnico della FIGC, come allenatore della nazionale Under-20. Nel 2000 è inizialmente vice di Giovanni Trapattoni sulla panchina della nazionale A; in ottobre sostituisce Marco Tardelli (nel frattempo passato all'Inter), come commissario tecnico della nazionale italiana Under-21. Con la rappresentativa giovanile è arrivato alle semifinali nell'Europeo di categoria del 2002, ha vinto l'edizione del 2004, conquistando nello stesso anno la medaglia di bronzo ai Giochi olimpici di Atene. Ha concluso la sua avventura sulla panchina degli Azzurrini con l'eliminazione ai quarti di finale nell'Europeo del 2006.

Nel luglio dello stesso anno viene sostituito da Pierluigi Casiraghi per decisione del commissario straordinario della FIGC Guido Rossi e del suo vice Demetrio Albertini, nonostante i risultati ottenuti e le rassicurazioni sulla riconferma. Negli anni successivi non ha allenato alcuna squadra, pur essendo stato in corsa per la sostituzione di Ciro Ferrara sulla panchina della Juventus, e per la panchina della nazionale libica, dopo la caduta di Gheddafi.

In un'intervista concessa alla giornalaccio rosa dello Sport nel settembre del 2013, ha rivelato che nell'estate del 2006, prima di essere sostituito alla guida dell'Under-21, un grande club gli aveva offerto un ingaggio e Gentile ne aveva informato la Federcalcio, che gli chiese di aspettare: quando fu allontanato dalla guida degli Azzurrini, era nel frattempo sfumata anche la possibilità di allenare il grande club, sicché questi eventi lo spinsero a citare a giudizio la FIGC; ha quindi rifiutato le offerte di diverse società calcistiche ricevute dal 2006 in poi, perché se le avesse accettate non avrebbe potuto rivolgersi alla magistratura civile.

Il 5 giugno 2014 viene ingaggiato come allenatore del Sion, ma il 10 dello stesso mese non si presenta al raduno della squadra e, nei giorni successivi, inizia con la proprietà una controversia per la risoluzione del contratto.

 

Palmarès

Giocatore

Club

220px-Juventus_FC_-_Coppa_Italia_1982-83
 
Gentile (in primo piano), con (sullo sfondo, da sinistra) Tardelli, Koetting e Cabrini, festeggia la vittoria della Juventus nella Coppa Italia 1982-1983.
Competizioni nazionali
Competizioni internazionali

Nazionale

Individuale

Allenatore

Nazionale

Individuale

Onorificenze

Medaglia di bronzo al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia di bronzo al valore atletico
  «Campione italiano professionisti»
— Roma, 1975.
Medaglia d'oro al valore atletico - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al valore atletico
  «Campione mondiale»
— Roma, 1982.
Collare d'oro al Merito Sportivo - nastrino per uniforme ordinaria Collare d'oro al Merito Sportivo
  — Roma, 19 dicembre 2017.

 

 

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Nel giugno 1958, cominciava a brillare ed a far parlare di sé la stella di Pelè, ma nessuno di quei ragazzini che sfidavano il sole nelle polverose strade del quartiere Sant’Antonio a Tripoli, disputandosi accanitamente una palla, aveva la benché minima idea che in quei giorni in Svezia si disputassero i campionati mondiali di calcio. Neanche se qualcuno glielo avesse detto, il loro interesse sarebbe mutato: erano ben più importanti le sfide quotidiane tra figli di emigranti e piccoli arabi che, in fondo simili a quelle che tutti i giorni si disputano nei nostri oratori, avevano però protagonisti ben lontani dall’identificarsi o voler emulare i celebrati campioni del tempo.
In quelle sfide, giocate il più delle volte a piedi scalzi, occorreva tanta determinazione, grandi o piccoli che si fosse. E fu lì che Claudio Gentile imparò a forgiare il suo carattere, non potendo immaginare che ventidue anni dopo il suo nome sarebbe stato consegnato alla storia del calcio da un titolo mondiale e dall’essere stato capace di fermare gli ideali successori di Pelè, Zico e Maradona.
«Sono cresciuto in Libia, mio padre si era trasferito con la famiglia a Tripoli ed è lì che ho avuto le prime esperienze calcistiche; esperienze a livello di bambini, ovviamente, ma che mi hanno dato un’impronta incredibile. In parole povere, giocavamo a calcio, ma finiva a botte; io ero piccolo, ma ricordo che ogni pomeriggio, dopo la scuola, ci trovavamo in strada, gli italiani da una parte e gli arabi dall’altra. Si cominciava fra cento sorrisi poi, alla minima discussione, giù botte da orbi; sono stato temprato così alla battaglia, lì bisognava colpire il pallone ma, soprattutto, guardarsi alle spalle, per evitare i calcioni che arrivavano».
Se i Campionati del Mondo in Spagna rappresentano il fiore all’occhiello, sono gli 11 campionati giocati in maglia bianconera (nei quali ha totalizzato 415 presenze e 10 goal) ad aver affermato, partita dopo partita, le qualità di grande combattente di Claudio Gentile. Gli anni juventini rappresentano un magnifico esempio di carattere e professionalità, uniti alla volenterosa capacità di adattarsi alle esigenze della squadra.
Gentile arrivò alla Juventus nell’estate del 1973 dopo una militanza, poco più che anonima, ad Arona (serie D) e Varese (serie B). Per trovar posto in prima squadra non incontrò grosse difficoltà, i problemi vennero in seguito: «Inizialmente, ero l’alternativa a Furino, mi toccò fare il mediano, giocare cioè in un ruolo abbastanza atipico per me. D’altronde la concorrenza come difensore di fascia era terribile: c’erano Marchetti, Spinosi e Longobucco. Giocatori validi e senz’altro più esperti di me. Esordii in bianconero il 2 dicembre 1973 e fu una bella vittoria, 5-1 con il Verona. Giocai mediano ed, almeno a quanto mi disse l’allenatore ed quanto lessi sui giornali, me la cavai benino e venni confermato. I veri guai iniziarono qualche mese più tardi, quando ormai venivo considerato più di una promessa. La forma incominciò a scadere, rischiai di uscire di squadra. Furono giorni bruttissimi. Mi dissi: è ora che dimostri di essere uomo oltre che giocatore. Fu la molla per risalire».
Una molla alla quale Gentile ricorse spesso, rendendosi conto che quella era l’interpretazione professionale giusta per continuare a vestire la maglia juventina: «Giocare nella Juventus, non è né facile né difficile, come vorrebbe qualcuno. Però se non sei uomo, vai sicuramente a fondo. Perché si è condannati a vincere sempre e non ci si può mai permettere di sbagliare. Non è vero che alla Juventus ti vengono chiesti maggiori sacrifici sul piano fisico: l’unico vero guaio è se non riesci a farti la mentalità vincente. Ho visto tanti, più bravi di me, naufragare per non aver retto lo stress psicologico. Io, posso dire di non dover niente a nessuno. A Varese, ad esempio, né Sandro Vitali, né l’allenatore Maroso si accorsero mai di me. Le loro attenzioni erano piuttosto rivolte a Manueli, Calloni e Gorin. Per loro, io ero uno che aveva soltanto tanta volontà».
L’emozione del primo derby: «Mi toccò marcare Claudio Sala, l’elemento più difficile da controllare, perché non sapevi mai dove ti poteva scappare via. Me la cavai benino».
Facendo leva sulla propria grinta e determinazione, Gentile ha dunque costruito la sua carriera juventina vincendo tutto eccetto la Coppa dei Campioni: al suo attivo sono 6 scudetti, 2 Coppe Italia, un Mundialito, una Coppa Uefa, una Coppa delle Coppe. Tanti, naturalmente, i ricordi: «La mia stagione magica fu quella 1976-77. Trapattoni era convinto delle mie qualità, al punto da farmi giocare a sinistra nonostante io non sia mancino e anzi con quel piede ci sappia fare piuttosto poco. Invece di spaventarmi, feci leva anche quella volta sulla grinta. E tutto andò benissimo, dando ragione a Trapattoni. Vincemmo campionato e Coppa Uefa ed io disputai la mia miglior stagione in bianconero».
Nella tarda primavera del 1984 il divorzio dalla Juventus: «Fu una scelta difficile perché, oltretutto, non avrei per nessuna ragione al mondo voluto fare uno sgarbo a Boniperti. Non dimentico certo quello che il presidente ha significato per me, la sua fiducia e la sua stima per la mia carriera. Non ho tradito, bensì fatto una scelta; a trentun anni mi offrivano delle condizioni migliori di lavoro e le ho accettate, come avrebbe fatto qualsiasi professionista con famiglia a carico. Cambiano soltanto le cifre, la sostanza è la stessa».
Nell’album dei ricordi di Gento (soprannome che gli venne dato dai compagni e forse anche per questo gli è sempre stato più gradito di quel Gheddafi riferito alle sue origini) ci sono anche capitoli curiosi. Uno di questi è quello riferito a tal Galuppi, attaccante del Vicenza: «Altro che Maradona o Zico: è quel Galuppi lì che mi fece ammattire ogni volta che lo incontrai. Una vera dannazione, mi sgusciava da tutte le parti ed io non riuscivo a fermarlo neppure ricorrendo alle maniere forti. Mi spiace per lui, ma è stata una fortuna per me che non sia riuscito a sfondare ai massimi livelli del calcio!».

VLADIMIRO CAMINITI
L’artigiano che modella i suoi piccoli capolavori, con quelle mani che gli anni hanno reso rugose e dello stesso colore della creta che adopera, ci fa capire dell’uomo la volontà tesa ad un traguardo, modesto che sia. Ma tante volte un artigiano è più di un artista, alla società da certamente di più; ed il parallelo mi è utile per confrontare la carriera di Claudio Gentile di Tripoli a quella di tanti ragazzoni come lui persi per strada, non avendo posseduto la vocazione del lavoro, l’amore per un ideale, da servire in ogni momento della giornata. La Juventus lo aveva prelevato dal Varese, dove spiccava la sua pelle scura insieme al suo tackle ruvido e cattivo. Ma chi poteva prevedere sviluppi radiosi a quel gioco rudemente difensivo? Invece, prima l’occhio attento di Vycpálek, poi i progressi effettivi del ragazzo gli fecero conquistare la maglia di titolare, presto anche in Nazionale. E nacque uno dei più risoluti cerberi della pedata tattica, un fenomeno per applicazione che anche il piede si decideva a seguire, il Gentile poco gentile che però si allunga nella corsa e la cui discesa sull’out culmina in cross peranco precisi, peranco decisivi. Non credo che il suo capolavoro sia stata la marcatura di Maradona contro l’Argentina al Sarriá di Barcellona. Certo, fino a quel momento il calcio era ancora gioco virile, i ruzzoloni e le capriole di Maradona non commossero l’arbitro romeno. In realtà, nelle sue oltre 400 partite in bianconero, Claudio Gentile ha testimoniato una classe plebea adamantina, per cuore, per vigore, per spirito di sacrificio, anche per tecnica: un grandissimo terzino, che ben può stare al confronto dei migliori, Allemandi, Foni e Monzeglio compresi. Quale migliore elogio, per un tripolino che aveva cominciato a giocare scalzo nei polveroni?

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL DICEMBRE 2013
Ci troviamo a Como. La convocazione è per le tre del pomeriggio, al Sinigallia. Claudio Gentile; maglioncino azzurro su camicia a righe bianche e blu, arriva puntuale. Oltre 400 presenze con la Juve e 71 con la Nazionale: Campione del Mondo nel 1982 da giocatore, Campione d’Europa nel 2004 da Commissario Tecnico dell’Under 21, oltre alla medaglia di bronzo alle Olimpiadi. Prima che gli venisse inspiegabilmente tolta la guida degli Azzurrini. Giusto il tempo di trovare il parcheggio ed entriamo allo Yacht Club Como, tra lo stadio e il lago. Nell’elegante salone d’ingresso luccicano coppe e trofei in quantità. Sulle pareti, le foto di barche vincenti. Dietro un’ampia vetrata, il Lario, sul quale si riflettono i sovrastanti monti e le splendide ville di Cernobbio. Un colpo d’occhio magnifico, anche se la giornata autunnale è grigiognola, con il sole che riesce a malapena a fare capolino. Pochissime le imbarcazioni che escono, giusto qualche canoa per gli allenamenti di canottaggio.
Ci sediamo nella stanza attigua al salone, al bar. Sul tavolino compare un volume con vecchie foto juventine. C'è pure la sua, anni Ottanta, sotto lo scudetto c’è già lo sponsor Ariston. Sorride Claudio Gentile, fresco sessantenne (è nato il 27 settembre 1953) nel rivedersi in maglietta e pantaloncini. Anche se per lui il tempo pare essersi fermato: fisico asciutto e riccioli ancora oggi colore della pece. «Vado molto spesso in bicicletta. Ho sempre apprezzato il ciclismo, soprattutto quella grande componente di sofferenza che si porta con sé». Ci diamo del tu.
Ma è vero che una volta per vedere una gara hai simulato un malessere? «Campionato del Mondo su strada, Mondiale del 1980, si correva a Sallanches, in Francia. Era il 31 agosto ed eravamo in ritiro. Dissi a Trapattoni che non mi sentivo bene per rimanere in camera a guardarmi la corsa. Vinse Hinault, secondo Baronchelli. È stata l’unica volta in cui ho fregato il Trap».
E lui quante volte ti ha fregato facendoti giocare dappertutto? (ride) «No, niente colpi bassi da parte del Mister. Semmai lui ha sfruttato una mia qualità, quella di sapermela cavare discretamente in più ruoli. In difesa li ho ricoperti tutti, e anche a centrocampo ho spesso fatto il jolly, giocando anche con il 10. Su tutte, comunque, me ne ricordo una con il 7 contro Luigi Martini della Lazio, al mio primo anno alla Juve con Vycpálek: non ho mai corso tanto come quella volta».
Tu comunque nasci marcatore: «Sì, fin dai primi passi con il Maslianico, qui vicino Como, la mia prima squadra».
A proposito, com’è che arrivi proprio a Como? «Perché lì vicino, a Brunate, viveva un fratello di mio padre. Era uno dei pochi punti di riferimento che avevamo in Italia quando nel 1961 fummo costretti a lasciare la Libia: l’aria laggiù si stava facendo pesante».
Che ricordi hai della tua infanzia a Tripoli? «Molto belli. Abitavo vicino alla chiesa di Sant’Antonio. Lì nei pressi c’era un campetto, tutti i giorni erano partite di calcio, italiani contro arabi. Loro erano molto più smaliziati di noi e spesso giocavano a piedi nudi. C’era già una discreta rivalità, ma solo per il pallone. Per il resto si viveva in armonia. A Tripoli di italiani ce ne erano molti, la gran parte proveniente dalla Sicilia».
Come tuo padre? «Mio padre è originario di Noto ed è emigrato in Libia molto presto. Lì ha conosciuto mia madre Elvira. Si sono sposati e sono arrivati tre figli. Frequentavamo le scuole italiane, ma avevamo un’ora di arabo al giorno, obbligatoria. Mio padre lavorava nell’edilizia, mentre uno zio aveva un’officina meccanica. Ci raccontava di Gheddafi che aveva una Fiat 124 e che spesso la portava da lui a farla sistemare. Poi tutto si è complicato e siamo stati costretti a lasciare l’Africa».
Fu un viaggio doloroso? «Ho ricordi molto nitidi di quando sono andato via, anche se avevo soltanto otto anni. Lasciavo tutto lì: amicizie, giochi, legami. Non è stato semplice. La passione per il pallone sicuramente mi ha aiutato».
Sognavi di diventare calciatore? «Mi piaceva il calcio, c’era la passione. Volevo arrivare, questo sì. Un giorno dissi che se mai avessi vinto uno scudetto, lo avrei fatto cucire sulla maglia a mia madre. Mi sono fatto veramente un mazzo così per raggiungere l’obiettivo. Ancora oggi mi inorgoglisce avercela fatta».
Quali sono stati i punti di svolta dei tuoi inizi? «Il primo quando entrai nel settore giovanile del Maslianico, paesino nel comasco. Il Como mi voleva, ma non metteva i soldi per pagarmi la funicolare da Brunate. Quelli del Maslianico sì. In casa non si navigava nell’oro, io stesso a quattordici anni lavoravo come operaio per contribuire alle spese».
Andavi ancora a scuola? «No, ma ho recuperato dopo, quando ero già alla Juventus. La mattina mi allenavo e il pomeriggio studiavo, assieme a Scirea che faceva le magistrali. Mi sono diplomato a Torino, odontotecnico».
Odontotecnico? «Mio suocero faceva il dentista».
Torniamo al pallone e agli altri passi decisivi: «La seconda svolta fu l’ingresso nel settore giovanile del Varese. Dissi a me stesso: “Non posso perdere quest’occasione, devo fare di tutto per migliorare”. Così dopo ogni allenamento mi fermavo per lavorare, specie sulla tecnica. I piedi non erano proprio gentili».
È questo il motivo per cui i dirigenti del Varese parevano non avere molta fiducia in te? «Credo di sì. In marcatura ero forte, ma ero un po’ grezzo. Poi magari c’erano altri nomi che riempivano maggiormente gli occhi. Morale della favola, nel 1971, a diciotto anni neanche compiuti, mi mandano in prestito all’Arona, in Serie D».
Bocciato? «Diciamo rimandato (sorride). Ma l’anno di Arona è stato fondamentale. Giocai tutto il campionato, segnai anche 4 goal di cui uno all’Astimacobi del mio amico Antognoni e poi ci fu un colpo di fortuna».
Cioè? «Giochiamo un’amichevole contro il Cagliari, che è in ritiro sul Lago Maggiore. Nel primo tempo marco Angelo Domenghini, poi passo su Gigi Riva. E mi faccio valere, al punto che Arrica, il presidente del Cagliari, stacca un assegno e lo consegna ai dirigenti dell’Arona per il mio cartellino. Che è però di proprietà del Varese».
A quel punto che succede? «La notizia si diffonde e il Varese, nel frattempo retrocesso in Serie B, mi richiama subito alla base. In panchina c’è Pietro Maroso, che ho avuto nel settore giovanile e che mi conosce bene. Promosso titolare. Grande stagione: alla fine fui eletto miglior giovane».
È stato in quel momento che hai avuto la percezione che potevi starci con i grandi? «La molla era scattata qualche tempo prima, sempre durante un’amichevole, stavolta con il Cesena. Marcai Ariedo Braida, ex del Varese, che alla fine della partita, rivolto al Direttore sportivo Sandro Vitali, disse stupito: “Ma dove l’avete preso?”. Ecco, quelle parole le ricordo perfettamente, perché in quel momento mi dissi: “Claudio, ora devi crederci davvero!”».
E quando ti è stato detto che andavi alla Juventus, ci hai creduto o no? «Me lo disse il presidente Borghi, a fine campionato. Era il 1973, non avevo ancora vent’anni. Ci ho creduto, ma nonostante sia sempre stato tifoso bianconero, gli dissi che alla Juve non ci sarei andato».
Che cosa? «Proprio così. Non c’era posto per me alla Juventus con i vari Salvadore, Cuccureddu, Morini, Longobucco, Mastropasqua, Gian Pietro Marchetti e Luciano Spinosi. Gli dissi: “Ed io dove gioco?”. E lui: “Non ti preoccupare. Devi andare e basta”. A quei tempi il giocatore non aveva nessuna voce in capitolo».
Ricordi anche la prima volta con Boniperti? «Mi volle conoscere subito, a giugno, gli avevano detto che ero piccolino. Mi strinse la mano, mi squadrò e si rese conto che non era così. Il secondo appuntamento a luglio, in ritiro a Villar Perosa, per il contratto. Ovviamente fece tutto lui ed io misi solo la firma».
A Villar Perosa ci fu anche il primo incontro con Gianni Agnelli, giusto? «A un certo punto dal cielo spuntò un elicottero. Era l’Avvocato. Dopo l’atterraggio, scese dalla scaletta e venne verso il centro del campo, dove eravamo raccolti tutti noi. Io, in realtà, me ne stavo nascosto, quasi impaurito. Ma lui chiese: “Dov’è il libico che abbiamo preso?”. Alzai la mano, sbucai in mezzo agli altri e lui: “Ma lo sa che abbiamo Gheddafi in società?”».
Fu lui a darti come soprannome quello dell’allora leader libico? «Sì, ma a me in verità non è mai piaciuto, non ho mai nutrito simpatie per Gheddafi. Ma me lo mise l’Avvocato, una figura di incredibile carisma. Ti faceva capire, anche senza grandi manifestazioni esteriori, che aveva stima di te. E tanto bastava».
Domanda uggiosa: telefonava anche a te alle sei di mattina? «Posso dire che dopo i Mondiali del 1982 mi ha chiamato per sapere chi era più forte tra Maradona e Zico».
E tu cosa gli hai risposto? «Che con me nessuno dei due aveva fatto goal».
Come fu decisa la tua marcatura su Maradona? «Diciamo che nel passato era capitato spesso a Tardelli di occuparsi del dieci avversario. Tuttavia, qualche giorno prima della partita, Bearzot venne in camera mia e mi chiese: “Te la senti di marcare Maradona?”. Ed io: “E qual è il problema?”. Non appena il Commissario Tecnico uscì dalla stanza mi maledissi. “Ma che c**** m’è venuto in mente?”».
Ne hai riparlato con Bearzot? «No. Tra noi giocatori, specie dopo il primo turno, esisteva un patto di ferro. E lo stesso con il Commissario Tecnico. Ci avevano trattati malissimo e senza rispetto, specie alcuni giornali. Per questo fu deciso il silenzio stampa».
Cosa è che vi dette particolarmente fastidio? «Tutto il gioco al massacro, fin da prima del Mondiale. Noi eravamo imballati, per carità, si giocava male, non ci riusciva più nulla. Ma quando scrissero di Rossi e Cabrini gay e che per il passaggio del primo turno a ciascuno di noi sarebbero andati settanta milioni, lì fu chiaro che dovevamo proteggerci in qualche modo».
Per questo portavi i baffi? «In un certo senso sì. Feci una scommessa già nel pre ritiro ad Alassio con alcuni giornalisti sfiduciati. Me li sarei fatti crescere e me li sarei tolti se fossimo arrivati nelle prime quattro. Ho vinto io».
Torniamo a Maradona: «Mi sono messo a studiarlo. Avevo delle videocassette, facevo nottata andando avanti-indietro con il nastro per memorizzare i suoi movimenti, le finte, come lo servivano, cosa faceva appena aveva la palla».
Tradotto in pratica: come andava arginato? «Non andava fatto girare. Quello era il momento in cui rischiavi di non prenderlo più. Per cui giocare d’anticipo e cercare di estraniarlo il più possibile dal gioco dei compagni, in modo che avessero difficoltà a servirlo. In più, evitare di fare fallo in prossimità dell’area di rigore, perché sulle punizioni poteva essere micidiale».
In campo ti sei aiutato con qualche trucchetto? «La regola d’oro è: farsi sentire senza farsi vedere».
E Maradona? «Mi ha insultato per tutta la partita. Ma io non sono caduto nella trappola. Anzi, lui si è innervosito sempre di più. Se non vuoi avere pressione, cambia mestiere».
Maradona annullato, normale che Bearzot ti affidi poi anche Zico: «Normale un bel niente. Per la partita contro il Brasile, le marcature erano Oriali su Zico ed io su Eder, che avevo studiato a puntino. Bearzot in quel caso fu molto astuto. Eravamo sulle scalette del Sarriá, nel sottopassaggio, prima di entrare in campo. Il Commissario Tecnico mi chiama e mi fa: “Marchi Zico”. Ed io: “Solo lui o anche Eder?”».
Anche in questo caso, avversario annullato: «L’unica differenza è che Zico era più portato a giocare con i compagni rispetto a Maradona. Per il resto stesso trattamento e stessi trucchetti».
In più c’è la maglia strappata: «Il tessuto non era dei migliori! A parte le battute, con Zico siamo amici, mi ha anche invitato in Brasile perché recitassi nel film che racconta la sua vita. Lui ha sempre ammesso che la mia marcatura è stata dura, ma non scorretta».
Ne sei proprio sicuro? Tempo fa fece scalpore una sua intervista in cui pareva dicesse il contrario: «Non è così. Lui ha detto altre cose, seminai riferite agli aspetti tattici e alle differenze nel tipo di gioco tra Brasile e Italia. Non ce l’aveva con me. Il problema è che talvolta si travisa la realtà o, peggio, si inventano classifiche che non stanno né in cielo, né in terra».
TI riferisci a qualche Top Ten particolare? «Sì, a quella dei giocatori più cattivi stilata dal quotidiano inglese “The Times” qualche anno fa. Io sono all’ottavo posto e dopo di me ci sono Bergomi e Tardelli. Ma io non ho mai fatto male a nessuno, gli attaccanti che ho marcato hanno tutti giocato la partita successiva. Sono stato espulso solo una volta, per doppia ammonizione, e il secondo giallo fu per un mani a centrocampo».
Ti sento molto carico: «Mi ha dato molto fastidio questa cosa. D’altronde gli inglesi ce l’hanno con noi perché li abbiamo sempre bastonati, come i tedeschi. Ma la cosa che mi ha ferito di più è che nessun giornale italiano mi abbia difeso. Ho dovuto fare tutto da solo».
Però Brera ti chiamava il Feroce Saladino: «A parte che da Brera accettavi tutto, dentro quel nomignolo lui aveva messo assieme le mie origini e il mio modo deciso di intendere la marcatura. Un modo che mi ha permesso di mettere la museruola a tanti attaccanti di livello internazionale: nessuno di quelli che ho marcato ai Mondiali e agli Europei mi ha mai fatto goal. Da Kempes a Krankl, da Fischer a Boniek».
Se ti dico Didier Six? «Un diavolo. Prima azione del Mondiale d’Argentina, palla a loro, Bossis lancia Six sulla mia fascia e lui mi va via in velocità, crossa al centro e Lacombe segna: trentaquattro secondi ed eravamo già sotto di un goal. Il guaio è che io stavo parlando con Scirea, proprio per dirgli che questo Six era veloce e di coprirmi bene le volte che sarei avanzato. Quando è arrivato il passaggio, mi sono fatto sorprendere. Ma nel secondo tempo mi sono riscattato: feci io l’assist per il goal decisivo di Zaccarelli».
Che ricordi hai del Mundial argentino? «Dal lato sportivo un ricordo agrodolce. Bellissima la prima parte, con la ciliegina sulla torta della vittoria contro i padroni di casa e futuri Campioni del Mondo, con il bellissimo goal di Bettega».
A proposito di Italia-Argentina, è vero che voi juventini non accettaste il turn-over con i granata? «No, mai successo. La verità è che chi vinceva rimaneva a Buenos Aires e noi ci tenevamo a vincere».
Dicevi del ricordo agrodolce. «Le amarezze sono venute dopo, soprattutto con il 2-1 con l’Olanda con quegli incredibili tiri da lontano. Meritavamo la finale e sarebbe stato fantastico giocarsi la Coppa con l’Argentina».
Di ciò che accadeva fuori, aveste la percezione che qualcosa non andasse? «Un po’ sì, perché quando ci trasferivamo con il pullman, capitava di vedere la polizia che usava con una certa facilità il manganello. E poi a Buenos Aires vedemmo le madri dei Desaparecidos».
Cosa unisce l’Italia di Argentina a quella di Spagna 1982? «Intanto Enzo Bearzot, un padre per tutti noi, sempre pronto a difendere i suoi ragazzi. Una persona per bene, di valore e di valori. Dal lato calcistico fu bravissimo nel mantenere l’ossatura della squadra giovane e brillante del 1978, migliorandola con alcuni inserimenti mirati. Su tutti Bruno Conti, la rivelazione spagnola».
Quando avete capito di aver vinto il Mondiale? «La vittoria sull’Argentina ci ha rimesso in piedi, ma la svolta è stata con il 3-2 al Brasile. Era la squadra più forte, ma noi siamo stati più furbi. In più si è finalmente risvegliato Paolo Rossi. Da lì è cambiato tutto, soprattutto a livello mentale. La semifinale con la Polonia non la feci, perché ero squalificato, ma ero tranquillissimo perché nessuno ci avrebbe più fermato».
Neanche la Germania? «Figurati! E abbiamo anche sbagliato un rigore. Quella squadra era forte nella testa. Nonostante l’errore, nel secondo tempo li abbiamo massacrati».
E tu al goal di Tardelli ti lasci andare a un’esultanza fuori programma: «Mi venne così, di mettermi a cavalcioni su un mucchio azzurro in cui c’erano Tardelli, Oriali e Pablito. Poi arrivò anche Cabrini. In quel momento, francamente, ho pensato che era fatta».
Qual è l’ultima immagine di quel Mondiale che ti è rimasta nel cuore? «I festeggiamenti con il presidente Pertini dopo la finale. Senza formalismi, senza protocollo. Un momento di gioia pura, semplice. Lì ho avuto la percezione per la prima volta della grandezza del traguardo raggiunto e che dietro di noi c’era una nazione intera a gioire».
Tranne una bella fetta della stampa: «Ci volle ancora un po’ di tempo, ma poi anche i rapporti con chi ci aveva duramente attaccato tornarono buoni. Per i giornali fu una bella lezione Spagna 1982».
Chiudiamo i ricordi azzurri, prima di tornare alla Juve, con la trasferta canadese nel maggio 1984 che, di fatto, costò per alcuni anni la Nazionale a Roberto Mancini: «Eravamo a Toronto, quella con il Canada è stata l’ultima partita giocata in Nazionale. Una sera io e Tardelli chiedemmo il permesso al Mister di uscire e portammo con noi Mancini, che però non avvisò nessuno. Bearzot si preoccupò moltissimo, lo cercò dappertutto».
E quindi? «Il Mister se la legò al dito, arrabbiandosi con il Mancio. Noi cercammo di fargli capire che la colpa era nostra. Ma non volle sentire ragioni. Si era spaventato a morte non riuscendo a trovarlo. Tieni conto che all’epoca Roberto non aveva ancora vent’anni».
Tu li avevi compiuti da poco quando hai esordito in Serie A con la Juventus, 2 dicembre 1973. «Juventus-Verona 5-1. Mediano al posto di Furino. Ma la cosa incredibile era che pochi giorni prima, il 28 novembre, giocai addirittura da titolare la finale di Coppa Intercontinentale contro l’Independiente, sempre con il numero quattro. Presi una serie di gomitate e calci da paura, al che Vycpálek dalla panchina mi gridò: “Ragazzo, se non ti svegli esci fuori nero”. Quelle parole mi dettero la scossa giusta, anche per il dopo».
Infatti, già l’anno seguente avevi in pratica sbaragliato la concorrenza: «Salvadore chiuse la carriera, Marchetti e Mastropasqua andarono all’Atalanta in cambio di Scirea. Sulla panchina arrivò Carlo Parola, che mi promosse titolare. Ero uno dei terzini assieme a Cuccureddu. Saltai solo una partita e ad aprile debuttai anche in Nazionale. Ma soprattutto, alla fine vincemmo il campionato. Ero felicissimo, finalmente si avverava il sogno di far cucire lo scudetto a mia madre».
È la vittoria a cui sei più legato? «Direi di sì, anche se la doppietta campionato e Coppa Uefa del 1977 ha un sapore del tutto speciale, dato che arrivò finalmente la prima affermazione intenzionale. Quella rimane l’ultima Juve totalmente italiana ad aver trionfato in Europa».
Nel frattempo era arrivato Giovanni Trapattoni: «Il Trap ha rappresentato la novità, la rottura con il passato. L’anno prima, tra l’altro, con Parola ebbi qualche problema, mi tenne fuori squadra per un mese: secondo lui non stavo rendendo come prima. Chissà, forse aveva ragione, ma intanto persi anche la Nazionale».
Con il Trap cosa cambiò? «Cambiò tutto, dalla gestione dello spogliatoio alla preparazione della partita, alla cura della tecnica. Il Trap è un maestro, ti insegna a calciare, a stoppare, a marcare. Non molla mai la presa. Un martello. Io da lui ho imparato moltissimo: non mi sono mai sentito arrivato, neanche quando ho vinto il Mondiale».
Con il Trap hai vissuto i tuoi migliori anni alla Juve, vincendo tutto. C’è stato mai uno screzio? «No. Nemmeno quando mi faceva giocare stopper (ride). L’unica volta in cui abbiamo avuto visioni diverse è stato ad Atene, nella finale contro l’Amburgo. Mi disse di marcare Bastrup, che però mi portava sempre a sinistra. Ci siamo trovati io e Cabrini dalla stessa parte, quasi a marcarci a vicenda. Io gli urlavo di cambiare la marcatura, ma lui disse di no. Sia chiaro: non è stata certamente questa la causa della nostra sconfitta, perché quella sera nessuno di noi ha reso al cento per cento».
Hai citato Cabrini. Quando Trapattoni decise di dargli una maglia da titolare, hai tremato? «Francamente no. Anzi, quando è entrato in pianta stabile lui, io sono tornato finalmente a fare il terzino destro. Quello era il mio ruolo, oltretutto con Causio c’erano degli automatismi collaudati. Lui accennava il dribbling ed io partivo in sovrapposizione. In quella Juve si giocava a occhi chiusi e si vinceva spesso».
E perché nelle Coppe facevate fatica? È capitato di uscire al primo turno di Coppa Campioni: «La formula di allora era crudele e talvolta capitava di dover affrontare avversari più avanti nella preparazione, perché il loro campionato iniziava prima del nostro. E buttavi via una stagione. Altre volte non ci ha voluto bene la sorte. Nel 1977-78 siamo andati fuori in semifinale nei supplementari con il Bruges. Ci negarono un rigore e poco prima del goal decisivo di Vandereycken, che marcavo io, fui espulso per aver toccato il pallone con la mano. Ero appena entrato negli spogliatoi che sentii lo stadio tremare. Una maledizione».
E la Coppa dei Campioni rimane un sogno: «E vero, ma sono riuscito a vincere comunque tantissimo e a chiudere con la Juve con un’altra incredibile doppietta: scudetto e Coppa delle Coppe nel 1984».
Perché lasciasti la Juventus a trentun anni e andasti alla Fiorentina? «Mi volevano anche l’Inter e la Roma. Il presidente Viola, nell’estate del 1983, si era persino nascosto nell’aeroporto di Fiumicino con il contratto in mano per farmelo firmare, mentre con la Juve stavo partendo per una tournée negli Stati Uniti. Scelsi la Fiorentina che mi offrì tre anni di contratto e un buonissimo ingaggio. Fui molto onesto con Boniperti e con la società».
Non c’entra nulla quello che era successo nell’estate del 1982 con il divorzio successivo? «No, quella volta lì io, Tardelli e Rossi ci impuntammo perché non ritenevamo giusto che gente come Platini o Boniek prendesse più di noi che eravamo alla Juve da una vita ed eravamo diventati Campioni del Mondo».
Siamo alle ultime battute. Al di là delle vittorie, c’è un altro momento a cui sei particolarmente legato nei tuoi undici anni in bianconero? «È il goal vittoria nel derby, 25 ottobre 1981. Cross di Brady e di testa batto Terraneo. Una soddisfazione enorme, anche perché la partita con il Toro era per noi un mezzo incubo. I granata erano assatanati. Ricordo i duelli con Pulici e Graziani e la fatica enorme una volta con Claudio Sala. Ma la cosa più terrificante era il libero Cereser che ti aspettava al limite dell’area con le braccia larghe per picchiarti».
Chi ha deluso e chi ha avuto meno nelle tue molte Juventus? «Virdis poteva dare di più, non lo vedevo convinto. Meglio potevano fare anche Musiello e Mastropasqua, giovani e dotati. Il più sottovalutato, invece, è stato Massimo Bonini, penalizzato dal fatto di essere nato a San Marino».
Ultima domanda: hai qualche tatuaggio? «No, non mi piacciono. Una volta, però, mi è venuto il desiderio di farmi disegnare sul braccio la Coppa del Mondo. Ma ci ho rinunciato».

 

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Modificato da Socrates

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