Vai al contenuto

bidescu

Tifoso Juventus
  • Numero contenuti

    141
  • Iscritto

  • Ultima visita

Tutti i contenuti di bidescu

  1. ANTONIO CABRINI http://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Cabrini Si è imposto subito come un ottimo terzino moderno: le sue qualità apparvero talmente evidenti, che anche in un club come la Juventus, rispettoso della tradizione e, soprattutto, delle gerarchie, decisero che sarebbe stata follia rinviare il lancio di quel giovanotto dal volto d’attore e dal fisico di atleta. La vita juventina di Antonio Cabrini inizia ufficialmente alle quindici di domenica 13 febbraio 1977 a Torino. L’incontro, con la Lazio, è vinto per 2-0 dai bianconeri. Buon auspicio, del resto anche quello era un anno scudetto. Sette partite e quindici nel campionato successivo, tutte giocate ad altissimo livello. Quando la stagione del Mundial di Buenos Aires si apre, Enzo Bearzot decide che Cabrini avrebbe fatto parte della comitiva azzurra. E così, il debutto in azzurro avviene nella più famosa ribalta del mondo.Cabrini è nato l’8 ottobre 1957 nella fattoria dove, da duecento anni, vive la sua famiglia, fra i paesi di Casalbuttano e Casalverde, a pochi chilometri da Cremona. Il nome della cascina è singolare: Mancapane, perché, si dice, in tempi remoti, una volta al mese, arrivava il gabelliere per riscuotere le tasse e gli abitanti protestavano che mancava tutto, anche il pane.A tredici anni si trasferisce a Cremona, in casa di una nonna. Libri e gioco del calcio. Frequentava le medie, gli sarebbe piaciuto il diploma di perito agrario e arriverà fino al penultimo anno quando l’impegno nel calcio diventa totale. Il futuro campione del mondo giocava nel San Giorgio, squadra di Casalbuttano. Poi il salto nelle giovanili della Cremonese.Ha raccontato: «Mi sono presentato da solo, avevo quattordici anni. Cercavano ragazzini, quel giorno eravamo una cinquantina. C’erano diversi allenatori, fra i quali Nolli, ex giocatore della Sampdoria ai tempi di Baldini. È stato il mio vero scopritore, lui mi ha creato come giocatore. Inizialmente giocavo all’attacco, ala sinistra. Negli allievi c’era bisogno di un terzino e Nolli mi mise lì».Il football, allora, era ancora soltanto un gioco, ma presto sarebbe arrivato il debutto in Serie C: «Fu a Empoli, cercavamo un punto, mi resi conto che in questo mestiere c’era da lottare, ma potevo starci».Tre anni con la Cremonese allenata da Titta Rota, poi l’Atalanta, in Serie B: trentacinque ottime partite e un goal. Cabrini era in comproprietà con la Juventus che, a fine stagione sborsò, senza batter ciglio, i 700 milioni per il riscatto.E in bianconero l’ascesa è rapida: la maglia da titolare, le convocazioni nelle Nazionali giovanili, l’ingresso nel Club Italia: «Ho un carattere abbastanza espansivo e aperto, per cui non ho avuto difficoltà di ambientamento a Torino e non ho mai avuto problemi di solitudine; per questo devo ringraziare Tardelli e Scirea, due ragazzi straordinari con i quali ho legato tantissimo, sin dai primi giorni del mio arrivo alla Juventus. Non ho avuto nessun problema nemmeno in Nazionale; al mio esordio, in Argentina, i nove-undicesimi della squadra erano bianconeri, quindi avevo la sensazione di giocare ancora nella Juventus».È l’idolo delle teenager, elegante di un’eleganza alla moda, un po’ casual, forse un po’ vistosa e così, nelle rare partite mediocri, allo stadio, qualcuno lo chiama Uomo Vogue. Nessuno lo discute come giocatore: è diventato The best in the world, più bravo dell’argentino Alberto Tarantini, più bravo del brasiliano Leandro. Non beve, non fuma, ama leggere, soprattutto Hemingway; gli piace la musica, più leggera che classica, e apprezza Bob Dylan; al cinema lo hanno incantato Jacqueline Bisset e Robert De Niro. Qualcuno gli ha anche suggerito di fare l’attore, con quel volto da bello dello schermo. Un giorno avrebbe sospirato: «Sarebbe bello girare un film sotto la regia di Ingmar Bergman».Gira il mondo con la Juventus, ma nel cuore gli rimarrà sempre la sua fattoria e a Cremona corre appena può. Quando decide di mettere su famiglia, conferma di essere oramai maturo. In campo il rendimento è sui livelli più alti: gli affondo verso la porta avversaria appaiono incontenibili. «Per me il calcio è un fatto anche dinamico. Anzi, è soprattutto un fatto dinamico. Io non sarò mai un tattico», ha spiegato.Ma quando gli viene chiesto di seguire le consegne, lo fa con scrupolo. Pochi si accorgono che accarezza il pallone, soprattutto con il sinistro. Come Sivori, del resto, o Puskás. Un grandissimo, da primi cinque di ogni epoca nel suo ruolo; sa mettere il silenziatore ad ali veloci e temute, spingersi avanti e rifornire di cross gli attaccanti e, alla bisogna, è frequentemente in grado di risolvere personalmente l’incontro, sia di testa, eccellente tempismo ed elevazione fuori dal comune, sia su calcio piazzato, sia con ciabattate da fuori. Una continuità di rendimento impressionante, fu fuori fase solo dopo il Mundial argentino; non seppe, infatti, reggere l’impatto con l’improvvisa fama. Stuoli di ragazzine lo avevano eletto loro idolo, al punto che il Trap non esitò a rispedirlo in panchina; rischiò di perdere il posto anche in Nazionale (la concorrenza non era affatto male, Maldera, Baresi e, soprattutto, Nela).Superato il momentaneo sbandamento, ritornò a essere il miglior esterno sinistro al mondo in quegli anni, nonostante gli antagonisti: l’inglese Sampson, il brasiliano Junior (bravissimo, ma in realtà centrocampista, dirottato sulla fascia solo perché quel Brasile aveva un numero impressionante di centrocampisti di grande valore: Socrates, Falçao, Cerezo, Batista e Dirceu), il francese Bossis, il belga Renquin, il tedesco Briegel (il grandissimo Breitner era stato oramai dirottato in mezzo al campo, per mere ragioni anagrafiche). Tutta gente di assoluto valore ma che non poteva competere con Cabrini nel ruolo di esterno.Con la Juventus totalizza 440 presenze con cinquantadue goal. Vince tutto: oltre al Mondiale 1982, sei scudetti, due Coppa Italia, una Coppa Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea.VLADIMIRO CAMINITIQuel terzino casalese che aveva convogliato su di sé tutte le nuvole e tutte le stelle, che il calcio concepì primigenia passione, senz’altro che il calcio così da morire sboccando sangue per un match fra scapoli e ammogliati che fu Caligaris, ha avuto per me il suo seguito ideale in un cremonese bello come il sole, di nome Cabrini. Caligaris si agitava con il suo fazzoletto bianco attorno alla fronte, anticipando oniricamente le soluzioni tattiche che Cabrini, ex attaccante, avrebbe realizzato in modo perfetto, sgusciando in dribbling sull’out, andando al tiro anche in mischia, con quel piede sinistro versatile e acrobatico. Un puro giovane, tal da stupirsi, appena iniziata a Bologna la carriera di direttore sportivo, di vedere certe scene al mercato, di ragazzi di vent’anni con i loro genitori al seguito a caccia di un qualsivoglia ingaggio. Cabrini ha scritto una favola e l’ha vissuta interamente. Prima di sposare Consuelo, tutte le ragazze d’Italia l’hanno amato, senza essere divo l’hanno divinizzato, come ideale di uomo e di calciatore. Molto vero. Ha occupato nella Juventus e in Nazionale un ruolo spesso nevralgico, dalle sue incursioni e dai suoi tiri molte partite hanno trovato soluzione. Mi rivedo in quello che è il palcoscenico culminante della sua carriera, il bianco stadio Bernabéu la sera magica della finale per il titolo di Campione del Mondo fra Germania e Italia. È l’11 luglio 1982. Tutti i nodi vengono al pettine, ma c’è un momento di viva tensione, di accoramento, di lacrime; appartengono a Cabrini, che manca un calcio di rigore, e le squadre vanno al riposo sullo 0-0. Come andrà a finire? Nel miglior modo, siamo Campioni del Mondo e con tutti i meriti del gioco. La squadra si è superata, Cabrini ha confermato la sua classe alata.Un terzino di ostruzione sempre sprigionante anticipo ed eleganza, che diventa ipso facto terzino di costruzione, il più ispirato e incisivo dell’intera storia della pedateria italica. Forse, come eclettismo, il massimo, anche a paragone del più potente e lineare Facchetti. Poi l’uomo. Tornito dentro e fuori come un capolavoro, un ragazzo sentimentale, un esteta che ha sempre rifuggito da ogni atteggiamento forzato, il più bello juventino di un ciclo insuperabile, un Rodolfo Valentino del calcio senza le falsità e le angosce del divo per forza.NICOLA CALZARETTA, “GS” APRILE 2013Una grande macchia azzurra colora Coverciano, tra rappresentative Under delle varie categorie e quella femminile, allenata dal maggio 2012 da Antonio Cabrini. L’appuntamento con lui è nella hall. Scegliamo un angolino nello stanzone dietro al bar, dopo un bel caffè. Cabrini è in grande forma. Solare e sorridente. Ha accettato con entusiasmo la proposta della Federazione di guidare la Nazionale rosa, dopo aver fatto l’osservatore per Cesare Prandelli. Non poteva essere altrimenti: il Bell’Antonio Commissario Tecnico della Nazionale delle ragazze, un cerchio che si chiude. «A parte le battute, mi sento allenatore, come mentalità. Ho fatto anche il Direttore Sportivo appena chiuso con il calcio giocato, ma quella era una vita che non faceva per me. Mi piace allenare, insegnare, guidare un gruppo. Questa è una bella opportunità e ringrazio la Federcalcio per avermela offerta».Esperienza ne ha, avendo giocato ad altissimi livelli per una vita intera. Ma oggi siamo qui per parlare dei suoi trascorsi di calciatore. Gli mostro un libro sulla Juve e lui va subito a controllare il suo palmares. Ci sono degli errori? «Non mi sembra. Ci sono gli scudetti e tutte le coppe internazionali. In verità lo guardo per ricordarmi cosa ho vinto (ride)».Hai vinto molto. «Con quella squadra lì era impossibile non vincere. Eravamo quasi tutti nazionali. Nel 1978, ai Mondiali in Argentina, siamo stati anche nove su undici. Ognuno di noi era un leader nel suo ruolo. E la nostra forza, spesso, la leggevamo nei volti degli avversari».Cosa dicevano quei volti? «C’era preoccupazione, alcune volte paura. Vedevi questo timore e di qua ti sentivi ancora più convinto, la partita era già vinta ancora prima di giocarla. La stessa soggezione che si ha quando entri perla prima volta in certi stadi, per esempio a San Siro».Tu hai avuto paura? «Ero emozionato, certo. Spaventato no. Diciamo che la maglia della Juve stempera molte tensioni. Indossare il bianconero è una bellissima corazza che ti protegge da tutto e ti dà le giuste motivazioni per vincere. Sempre».Tu quanto tempo hai impiegato ad assorbire la mentalità vincente? «Pochissimo. Ho capito in fretta dove ero e cosa mi veniva richiesto. C’era molto istinto da parte mia, il feeling è stato immediato. Ovviamente sono stato aiutato, anche perché quando sono arrivato alla Juve ero veramente un ragazzino».Non avevi ancora compiuto i diciannove anni. Era l’estate 1976. «È così. Boniperti mi aveva preso già l’anno prima, dopo il mio primo vero campionato in Serie C con la Cremonese. Mi aveva segnalato Vycpálek, osservatore della Juve. Ricordo che a fine stagione Luzzara, il presidente grigiorosso, mi disse: “Ti abbiamo venduto alla Juventus, ma il prossimo anno andrai a Bergamo”. All’epoca ero così: Cremonese e Atalanta erano molto legate alla società bianconera. Era giusto che io facessi esperienza in B. E stato un anno molto positivo e a fine campionato sono andato subito a Torino».Quando hai incontrato per la prima volta Giampiero Boniperti? «A Villar Perosa, durante il ritiro, per il mio primo contratto. Boniperti arrivava alle otto di mattina. In sette ore sistemava tutti i contratti. Oggi ci vogliono sette mesi. Andava in ordine alfabetico, partiva da Alessandrelli e finiva con Zoff».A te è toccato presto, allora. «Sì, in mattinata. Entro nella stanza dove c’è anche il dottor Giuliano. Mi metto a sedere e, pronti via, Boniperti prende una foto e mi fa: “Chi sono questi?”. Ed io: “Quelli del Torino”. “Se arriviamo un’altra volta dietro questi qua, non contiamo un c...o. Arrivare secondi alla Juve è come avere perso, ricordatelo”. Questo il messaggio di benvenuto».E il contratto? (risata) «Mi disse: “Firma qui”. Firmai. Durata dell’incontro: tre minuti e mezzo. Ah, ovviamente la cifra non c’era».Ricordi di quanto fu il tuo primo ingaggio? «Credo dodici milioni e il mio primo acquisto fu una BMW 316. Comunque, prima di uscire dalla stanza, Boniperti mi disse: “Non preoccuparti, a fine stagione sarai contento”. Alla Juve c’erano dei bei premi. All’epoca era in uso dare un tot a punto, oltre a una cifra robusta in caso di scudetto o coppa. Più vincevi, più guadagnavi. Boniperti era avanti, i contratti legati ai risultati li faceva già negli anni Settanta. Un grandissimo presidente».Mai avuto screzi con lui? «Mai. Con Boniperti il rapporto è stato meraviglioso. Aveva legato anche con mio padre, in fondo le radici erano comuni: la terra. Mio padre aveva un’azienda agricola. Una volta invitai tutta la squadra alla nostra cascina a Cremona. Facemmo una grande merenda. Venne anche il presidente e, a un certo punto, comparve perfino Ugo Tognazzi. Un pomeriggio fantastico».Quali erano i punti di forza di Boniperti? «Intanto le fondamenta: la famiglia Agnelli. Boniperti ha avuto la fortuna di avere basi solide e l’Avvocato quella di scegliere il miglior dirigente sportivo. Boniperti aveva mentalità vincente, grinta, grande competenza tecnica, juventinità, carisma. E il suo passato di calciatore gli consentiva di capire noi. Certo, era un tipo intransigente, faceva le bucce a tutti, specie ai giovani. Ma sapeva dare il consiglio giusto. Ah, dimenticavo una cosa».Prego. «La capacità progettuale. A partire dal totale rinnovamento del 1970, ogni stagione c’era l’inserimento di un giovane. Gentile, Scirea, Tardelli, io. L’anno dopo Fanna e Virdis, quindi Brio. Idee chiare e grande prospettiva, non è da tutti».Hai un ricordo tutto tuo del presidente? «Tra i tanti ce n’è uno, per me molto significativo. A metà anni Ottanta mi operai a un ginocchio. Appena dimesso dall’ospedale, per prima cosa Boniperti mi rinnovò il contratto. Un gesto che va aldilà degli aspetti materiali e che dà il senso di quali valori ci fossero in quell’ambiente».E uno degli esempi dello Stile-Juve? «Certamente. Perché quella era la cifra di comportamento tipica di quella società. Che aveva alle spalle la famiglia Agnelli. E tu che indossavi la maglia bianconera dovevi essere così, ti sceglievano soprattutto se possedevi certi valori. Per questo per me lo Stile-Juve vuol dire essere un eletto».Non abbiamo ancora parlato di Giovanni Trapattoni. «Il Trap è stato il completamento dell’opera, iniziata molti anni prima quando Boniperti scelse il povero Armando Picchi. Con Trapattoni si è creato un connubio vincente. Ricordo che Boniperti ci diceva: “Se venite a lamentarvi, sappiate che noi stiamo sempre con l’allenatore”. Il confronto tra loro era costante. E non è un caso che nei suoi dieci anni sulla panchina bianconera, la Juve abbia vinto tutto, specie all’estero».E per te cosa ha significato Trapattoni? «Mi ha insegnato a calciare di destro. Alla fine dell’allenamento, mi prendeva con sé e stavamo sul campo parecchio. Lui ed io. Il pallone e il muro. I primi mesi alla Juve li ho passati così. E giuro, non mi è mai pesato».E poi? «E poi stato l’allenatore che mi ha lanciato, che mi ha fatto crescere sotto tutti i punti di vista. Un maestro. E un martello. Non mollava mai la presa, parlava molto con i giocatori. Ogni sabato, in ritiro, faceva il giro delle camere. Ti faceva il film della partita. “Mi raccomando domani fai così, succederà questo, tieniti pronto a quest’altro”».Hai parlato di camera: chi era il tuo compagno nei tuoi primi tempi in bianconero? «Beppe Furino, un altro juventino fino all’osso. Anche lui è stato fondamentale con i suoi insegnamenti, non sulla tecnica (ride); piuttosto i tempi degli inserimenti, le marcature, le diagonali. E qualche dritta sul comportamento, sia fuori che dentro il campo».Era Furino il leader dello spogliatoio? «Per certi versi sì. Ma leader era anche Dino Zoff. O lo stesso Bettega, che era intelligente, sveglio e il più cattivo in campo. Durante le partitelle erano scintille, siamo arrivati anche a scontri duri, in fondo erano tanti i personaggi di spicco. Ma la forza di quella squadra era che ogni cosa rimaneva all’interno dello spogliatoio».Ma allora la regola aurea che per vincere bisogna essere un gruppo di amici non è sempre vera. «Non credo che esistano regole fisse. Ti posso dire come funzionavano le cose da noi. Eravamo legati, senza dubbio, nel rispetto delle proprie personalità, del carattere, dell’età».Tradotto? «C’erano due tronconi. I giovani, quelli dal 1953 in giù, e i senior. Scirea era l’ago della bilancia: stava un po’ con noi e un po’ con gli anziani. Un grande, Gaetano, sempre calmo e serafico. Negli anni successivi ha iniziato a fare coppia fissa con Bodini, li chiamavamo Stanlio e Ollio, perché, nel loro modo, erano buffissimi».Ma Scirea si è mai arrabbiato? «Non succedeva spesso, ma quando si incavolava, aiuto. Erano cinque minuti di fuoco. E accaduto qualche volta in allenamento, meno spesso in partita. Capitava quando non si sentiva sicuro dei compagni e percepiva imminente il pericolo».Torniamo al gruppo, o meglio ai due tronconi. «Ci si divertiva, com’era normale che fosse per dei ventenni, ma senza sgarrare. Boniperti era uno al quale non sfuggiva niente. Io stavo tutto il giorno con Tardelli, abitavamo nello stesso condominio (trovato da mio padre) in Corso Trapani: lui al quarto piano, io al secondo. Sono stati tempi bellissimi, sempre insieme: colazione, pranzo e cena».E il dopo cena? (ride) «Torino non offriva molto. Si passavano le serate a casa, qualche festa tra amici. Ma non abbiamo mai passato certi limiti. Anche noi giovani eravamo ben consapevoli delle regole. Io, per esempio, non bevevo, né fumavo. Non lo nego, avevamo due soldi, eravamo bei ragazzi, ambiti, talvolta ne abbiamo approfittato».Ne parlavate l’indomani nello spogliatoio? «No. Le avventure erano condivise solo tra i protagonisti. Per il resto, vigeva la regola del segreto. Cosa che applico anche oggi. Su certi argomenti, non trovo giusto a distanza di anni andare a rimestare. Hanno fatto parte della tua vita, di un momento ben preciso e stop».Tra gli anziani, oltre a Furino tuo compagno di camera, chi ricordi con particolare affetto? «Roberto Boninsegna. Io lo adoravo. Anche lui era appena arrivato alla Juve e per noi ragazzi è stato un punto di riferimento importante. Ci invitava spesso a casa sua a mangiare, ci dava consigli, ci ascoltava. In campo ci proteggeva: gli scatti più impegnativi che gli ho visto fare servivano per andare a difendere il compagno in difficoltà. Poi c’era Dino Zoff, una persona sensibile e attenta. Ma anche spiritoso. Ricordo che quando si facevano le serie di tiri in allenamento, ogni sua parata era accompagnata da una presa in giro».Che bilancio fai del tuo primo anno alla Juventus? «Meglio di così! Scudetto record a cinquantuno punti e Coppa Uefa, il primo trofeo internazionale per la Juve. Io debutto a febbraio, gioco anche in Europa, faccio parte dell’Under 21. Una stagione bellissima. Su questa scia abbiamo costruito le vittorie degli anni successivi».Qual era il segreto? «Quella Juve lì, oltre a essere fortissima dal punto di vista tecnico, era una squadra granitica, mentalmente inattaccabile. E poi c’era la coppia Boni-Trap e la loro sete di vittoria. Il presidente, nello spogliatoio di Bilbao, con la coppa in mano che dice: “Ragazzi, basta festeggiare. Ricordatevi che domenica c’è la Sampdoria, io voglio vincere anche lo scudetto”. E Trapattoni non era da meno. La partita era appena finita: “Bravi, abbiamo vinto, ma ora scordatevi tutto, perché domenica c’è un’altra battaglia”. Secondo me qui sta il segreto della continuità».E veniamo alla stagione 1977-78, quella che ti ha portato ai Mondiali d’Argentina. Credevi che saresti diventato titolare? «No, sapevo di essere considerato, percepivo un clima di fiducia. E di natura sono un ottimista».Qual è stata la prima spia che le cose stavano cambiando? «In verità il primo segnale si era già verificato l’anno prima, in occasione del mio debutto con la Lazio. Quella domenica mancava Gentile. La soluzione più logica sarebbe stata quella di sostituirlo con Spinosi, che era la prima riserva. Invece Trapattoni mise dentro me. Fu una precisa scelta tecnica».Questa è la base di partenza per il tuo decollo. Tu cosa ci hai messo di tuo? «Ho messo dentro un miglioramento continuo. Dovuto a quattro motivi».Partiamo con il primo. «La grandissima concentrazione. Ero sempre sul pezzo. La testa è stata la mia vera forza. E poi la convinzione di iniziare a essere una pedina fondamentale e non solo un rincalzo».Secondo. «Il rapporto con l’allenatore. Trapattoni, specie con i giovani, ha una marcia in più. In quel secondo anno si è preso cura di me al cento per cento. Anche perché aveva in mente un nuovo assetto tattico che io, con le mie caratteristiche, gli potevo garantire».Immagino che qui ci stia il terzo motivo. «Sì. Io coprivo tutta la fascia, avevo facilità di corsa e tecnicamente, con la cura del destro, ero cresciuto moltissimo. Mi rendevo conto che avevo delle doti particolari, forse uniche. Ma la cosa più bella è che mi veniva tutto naturale, non ero impostato, era istinto».E pensare che da piccolo giocavi all’attacco. «Fu Mister Nolli a cambiarmi posizione quando ero negli Allievi della Cremonese. All’inizio non fui per niente contento, anche perché a me piaceva fare goal, ma lui mi disse che in quel ruolo li avrei raggiunto grandi traguardi. Ha avuto ragione. Mi piace ricordare Nolli e i tempi della Cremonese, anni bellissimi. Pensa che nella squadra c’erano Gozzoli, De Gradi, Azzali, Malgioglio, Cesare Prandelli: tutta gente che è arrivata ai massimi livelli».Manca l’ultimo motivo alla base della tua esplosione. «Il divertimento: per me il calcio è sempre stato un gioco. I soldi hanno avuto il loro peso, ma mai superiore alla passione e alla gioia che mi dava giocare».E un bel giorno arriva Enzo Bearzot. «Il Commissario Tecnico mi convocò nell’Italia Sperimentale, che a Verona, a fine aprile 1978, avrebbe fatto un’amichevole con la Lega scozzese. Giocai tutta la partita e feci bene. A fine gara Bearzot mi prese da parte e mi disse: “Tieniti pronto perché ti porto in Argentina, ma non dire niente a nessuno”. Mi si chiuse lo stomaco, ero felicissimo, ma mantenni il silenzio assoluto. Fino al giorno delle convocazioni».Sapevi anche che avresti debuttato al Mondiale? «No, anche se la spinta al rinnovamento era forte. La Nazionale era sotto assedio. Per me la svolta ci fu con la partita contro il Deportivo Italiano, a pochi giorni dal Mondiale. Entrai nel secondo tempo al posto di Maldera e, dall’allenamento successivo, nei vari schemi da provare, nel ruolo di terzino sinistro c’ero io».E così il 2 giugno 1978 debutti in Nazionale, addirittura in un Campionato del Mondo. «Seppi tutto due giorni prima della gara. Bearzot me lo disse, senza la necessità di tante parole. Io mi sentivo pronto, sia mentalmente che fisicamente. Mettiamoci anche un po’ di incoscienza dell’età. Debuttai, e feci un bel Mondiale. Lì in Argentina è nato il trionfo di quattro anni dopo».Già: 11 luglio 1982, Campioni del Mondo. A distanza di oltre trent’anni, cosa rimane? «La sensazione di aver fatto qualcosa di eccezionale, storico, unico. Specie per come eravamo partiti e per il trattamento che ci avevano riservato in molti. La Nazionale di Spagna è figlia di quella dell’Argentina. Meno potente ma più rapida, più cinica, più brillante».Quali sono le tue foto personali di quel trionfo? «Non il rigore della finale (ride). Piuttosto il goal contro l’Argentina. Sinistro di prima intenzione a incrociare sul palo più lontano. Uno dei miei gol più belli in Nazionale. E poi Sandro Pertini e il suo abbraccio a ciascuno di noi: ci ha dato l’esatta misura di quel che avevamo fatto. Che andava oltre l’ambito sportivo».Chiusa la parentesi azzurra, torniamo alla Juve. A un certo punto ti raggiunge in bianconero anche Cesare Prandelli. «L’amico di sempre, nonché il vero artefice del mio cambio di look nell’estate del 1983».Una scommessa? «Più o meno. Eravamo insieme dal parrucchiere e lui disse: “Tu decidi il taglio per me ed io faccio lo stesso con te”. Feci l’errore di far andare per primo lui, acconciatura normale. Poi toccò a me: e mi tolsero tutti i riccioli. Fu uno shock. Cesare è così, di scherzi ne ha sempre fatti».Aveva una vittima preferita? «Era Roberto Tavola, un altro dei mattacchioni che nell’estate del 1979 passarono dall’Atalanta alla Juve. Il top era Marocchino, lui era incontenibile. Tavola, invece, era condizionato da tutto. Ricordo sempre il giorno in cui Trapattoni gli consegnò la maglia con il numero dieci e lui: “Ma io non so se ce la faccio a portarla”. Ma come, porca miseria, il Mister ti dà la maglia da titolare e tu rispondi così?».E tu hai mai avuto paura della maglia bianconera? «Mai. Semmai me l’ha fatta pesare il Trap dopo l’Argentina».Perché, cosa successe? «Mi tenne fuori per le prime domeniche di campionato. Me la presi molto, caspita avevo fatto un Mondiale incredibile. Ma aveva ragione lui. In quel momento non ero all’altezza di giocare titolare. Il problema è che quando sei calciatore non riesci a valutare appieno le cose. In più c’è un dato statistico: chi ha giocato ai Campionati del Mondo paga pegno nella stagione successiva per almeno quattro-cinque mesi».Successe così anche dopo Spagna 1982? «In campionato sì. Facemmo meglio in Europa, a parte Atene».Eppure cerano anche Platini e Boniek. «Due fuoriclasse. Stratosferico Michel, era un piacere vederlo giocare. Zibì era devastante, ma non riusciva a capire come “regolarsi”».Siamo alle pillole finali: il tuo goal più bello con la Juve? «Goal-partita nel derby del 26 marzo 1979: collo pieno e pallone nell’angolino opposto. Il tutto a un paio di minuti dalla fine. Venne giù il Comunale. Al secondo posto, il goal scudetto due anni dopo, contro la Fiorentina: più di prenderla con il sinistro, mi avvitai in aria, ancora non so come feci».L’avversario più duro? «Odoacre Chierico, ai tempi della Roma. Era una finta continua, con lui ho durato fatica. Poi c’è Bruno Conti che passava da Gentile a me. È capitato spesso che le convocazioni in Nazionale arrivassero dopo Juve-Roma e che il duello, verbale, continuasse pure li, anche se ridotto a livello di scherzo».Tra le tante, quali sono le vittorie più significative con la Juve? «La Coppa delle Coppe perché venne subito dopo Atene. E poi l’Intercontinentale a Tokyo nel 1985. Alzai la Coppa da capitano perché Scirea era uscito».L’Heysel? «Una tragedia incancellabile. Era giusto non giocare, eravamo tutti frastornati. Siamo stati obbligati e, a quel punto, è stata partita vera, soprattutto da parte loro. Doveva essere una festa, è stata una sciagura».Perché nel 1989 hai lasciato la Juve? «Non l’avrei mai lasciata, qualche anno prima avevo rifiutato una buona offerta della Roma. Ma era finito un ciclo. Per me ci sarebbe stato un ruolo di secondo piano. Io, invece, volevo giocare e, d’istinto, scelsi Bologna».Ti è pesato andare via? «Molto. Dopo tredici anni. Ero arrivato ragazzino, me ne andavo via da adulto, con tutti i sogni realizzati. La Juve mi ha dato tanto ma credo di averle dato pure io, giocando oltre i limiti».Quando è successo? «Nella finale di Supercoppa Europea contro il Liverpool nel 1985, avevo il distacco della retina per una pallonata presa da Brio nella partita contro la Sampdoria. Il medico mi disse di stare fermo per un mese. “Non posso” rispondo io . Allora lui si raccomanda che non prenda il pallone di testa. Bene: prima palla, colpo di testa. Per non parlare del ginocchio sfasciato».Parliamone. «Ho giocato più di mezza stagione con le stecche d’acciaio a protezione del ginocchio. Il tutto coperto da una fasciatura color carne per non far vedere niente all’arbitro. Oggi non ti farebbero neanche avvicinare al campo! Per me questo era normale. Sopportavo il dolore, non volevo mollare. C’era la maglia, c’erano i tifosi. E c’era la Juve». http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/10/antonio-cabrini.html
  2. OMAR ENRIQUE SIVORI http://it.wikipedia.org/wiki/Omar_Sivori «Omar Sivori è un vizio». Soleva ripetere l’avvocato Giovanni Agnelli con un accostamento tanto colorito quanto efficace. Omar arriva da Buenos Aires nell’estate del 1957, grazie al programma del dottor Umberto Agnelli, che esige il rilancio della Juventus dopo cinque stagioni di vacche magre. Omar è uno degli Angeli dalla Faccia Sporca del calcio argentino. Non è alto, ha un baricentro piuttosto basso, dettaglio importante per un calciatore, una zazzera corvina e lo sguardo pungente di chi ti vuole prenderti in giro. Il resto della storia non ha misteri. Su di lui sono stati versati torrenti di inchiostro. Il suo è un calcio diabolico, cinico, quasi maligno, che nasce dal piede di un prestigiatore fatto per pungere i difensori e divertire il pubblico. La scuola argentina gli ha insegnato che innanzitutto conta il divertimento, lo spettacolo, il numero a effetto del giocoliere. Omar, però, è anche essenziale. È perfetto nel profilo, la posizione del corpo rispetto alla palla.Quando corre in linea retta verticale, per superare meglio chi gli si affianca si esibisce in ripetuti tocchi prima di cambiare direzione in diagonale, d’improvviso, con carezza d’esterno, proprio in mezzo alle gambe dell’avversario che sta effettuando la normale falcata. È il momento del coup de théâtre, il famoso tunnel. Questione di tempo e di coordinazione. Il pubblico delira. Omar è imprevedibile e fantasioso quanto istintivo. La sua grandezza si definisce soprattutto nella capacità di mantenersi freddo in area di rigore, là dove i calciatori di solito perdono la testa con entrate tempestose.Per lui tutto è un gioco per ragazzi. Gli avversari non fanno complimenti ma Omar è astuto come una volpe e difende la palla sollevando e inclinando il piede a protezione della stessa, in modo che l’avversario calci contro la pianta della sua scarpa. Quando supera il portiere, lo fa con irriverenza, mai di forza e piuttosto con perfida delicatezza. Sfrutta con estrema abilità gli assist di John Charles, un gallese stupendo per generosità e forza penetrativa: «C’era il desiderio di fare qualcosa di speciale, di giocare con gli avversari. Per cui, giocavo con i calzettoni abbassati per far vedere che non avevo paura; c’erano i tunnel, i dribbling, tutto quello che si poteva fare per innervosire i rivali. Io, poi, sentivo moltissimo il pubblico, non riuscivo a far finta di niente. E i miei compagni si divertivano tantissimo con queste mie esibizioni».È un emotivo: quante volte lo si vede sbiancare prima di una gara importante. È terrorizzato dai viaggi in aereo. In campo non esibisce un bel carattere: è infatti squalificato per trentatré giornate complessive. È il suo tallone di Achille. Il tallone di un campione immenso: «Io e Boniperti avevamo una concezione totalmente diversa del calcio e non riuscivamo ad andare d’accordo. Tutto lì, avevamo dei caratteri forti e inconciliabili. In campo, però, questo dissidio non aveva alcuna conseguenza; si giocava senza pensare alle differenze o alle polemiche».Tanti sono gli aneddoti da ricordare. In un Juventus-Sampdoria portò la sua irrisione verso gli avversari a un punto estremo: scartato anche il portiere, si fermò sulla linea con il pallone sotto la suola, aspettando il recupero del difensore avversario, e quando il poveretto (Vincenzi) si avventò a corpo morto, spostò il pallone indietro mandandolo a vuoto, per poi appoggiarlo in rete: «Stavamo vincendo 3-0 con il Padova e la partita stava già finendo, quando l’arbitro ci concesse un rigore che i padovani contestarono vivacemente, nonostante non avesse influenza sul risultato finale. Vedendo la disperazione di Pin, il portiere, mi avvicinai e gli dissi: “Non preoccuparti, tanto lo tiro sulla sinistra”. Andai sul dischetto e, ovviamente, tirai sulla destra, segnando. Pin si arrabbiò come un matto, inseguendomi e insultandomi. Non me la perdonò mai. Lo incontrai nuovamente, un paio di anni dopo su una spiaggia, e lui ancora si arrabbiò. Inutilmente tentai di spiegargli che io avevo inteso la mia sinistra e non la sua. Non ci cascò e continuò a odiarmi».All’atto della presentazione, Sivori fece qualche palleggio davanti agli occhi dell’Avvocato, il quale, da grande intenditore, gli fece notare che era bravo, ma che non sapeva usare il piede destro. Omar prese il pallone e fece tre o quattro giri di campo palleggiando con il sinistro, senza mai far cadere il pallone. Poi si fermò davanti all’Avvocato e con la sua naturale sfrontatezza disse: «Secondo lei, cosa ci dovrei fare con il destro?».Una mattina Sivori si presentò all’allenamento con gli occhi gonfi di sonno; i compagni stavano già facendo i soliti giri di campo da una ventina di minuti. La giornata era bella e Omar si sdraiò sull’erba. Arrivò Gren, il Professore, che era allenatore della Juventus, affiancato da Carletto Parola. Gren si sdraiò di fianco a lui e gli passò il pallone sul piede; Omar, sentendo la palla, aprì gli occhi e si mise a palleggiare, passandosela dal destro al sinistro, dal sinistro al destro, sempre rimanendo coricato. Quindi passò il pallone al Professore, anche lui sdraiato sull’erba, e diedero vita a un numero da circo, da autentiche foche del calcio. A un tratto si alzò e piazzò la palla sulla lunetta dell’area di rigore; scommise con Gren e Parola, sulle traverse e sugli incroci che avrebbe colpito. Ne fallì uno su dieci. Ogni tiro era annunciato: incrocio dei pali sulla sinistra, palo interno sulla destra, traversa centrale. E così fece.Erano anni molto difficili per gli attaccanti, soprattutto quelli dotati di grande talento, come il Cabezón. I difensori erano soliti tracciare, con i tacchetti, una riga fuori dall’area di rigore minacciando il malcapitato attaccante di entrare duramente se l’avesse superata. Sivori non solo la oltrepassava allegramente, ma aveva la fissazione di umiliare l’avversario facendogli tunnel e, magari, di ritornare a sfidarlo per farglielo una seconda volta. Così, un giorno a Torino, lo stopper del Catania, tale Grani, lo minacciò, dicendogli che, al ritorno, gli avrebbe spaccato una gamba. Omar, con molta calma, accettò la sfida, avvertendo il difensore di affrettarsi a farlo, altrimenti se ne sarebbe pentito. Detto e fatto; dopo pochi minuti del match del Cibali, del 26 febbraio 1961, il Cabezon entrò con il piede a martello del povero Grani, distruggendogli il ginocchio.Sivori realizza 167 reti nelle 253 partite disputate in maglia bianconera. Vince tre scudetti e due Coppe Italia e si aggiudica nel 1961 il Pallone d’Oro. Si trasferisce al Napoli nel 1965 per incompatibilità di carattere con Heriberto Herrera, il Sergente paraguagio. «Sivori come Coramini», aveva detto il Ginnasiarca. «Purtroppo, si arrivò al distacco definitivo. Non riuscivamo a intenderci e a concepire il calcio nella stessa maniera. Me ne andai io, nonostante la stima della società, perché non mi sembrava giusto porre il dilemma “o Sivori o Herrera”. L’allenatore doveva restare ed io andare, non potevamo restare insieme. Inizialmente, pensai di tornare in Argentina, ma alla fine mi convince Flavio Emoli, ex capitano juventino approdato al Napoli, a tentare un’altra avventura italiana». Per Omar, da quel giorno, cominciano a sognare i tifosi partenopei.ANGELO CAROLIOmar aveva il sorriso di un adolescente che sa tutto della vita. Era simpatico, di battuta pronta e salace. Prima di ambientarsi con il fuso orario del nostro meridiano passarono tre mesi. La notte non riusciva a prendere sonno. Durante la tournée in Svezia divise la camera con Garzena. Le assegnazioni venivano stabilite da una partita a scopone. Prima di spegnere la luce, Bruno si sentiva ripetere, come una litania insopportabile: «Parlami dell’Italia e della tua fidanzata ma non dormire, altrimenti impazzisco». Garzena era costretto a fare le ore piccole per impedire che quei giorni tanto lunghi portassero il genio argentino sull’orlo dell’esaurimento. Una volta preso sonno, Omar dormiva fino a mezzogiorno e non si contano le volte in cui si presentò tardi all’appuntamento con gli allenamenti.In campo era uno spettacolo. Come in partita, del resto. Quando correva in verticale e spingeva il pallone con tocchi ripetuti e brevi era imprendibile. Per bloccarlo ci voleva la doppietta da caccia. Il profilo, la posizione del corpo rispetto al pallone, era perfetto. Non si riusciva mai a sapere quale direzione prendesse. Il tunnel era il colpo di teatro da regalare alla platea. Lo eseguiva in tanti modi, il più strano lo effettuava correndo al tuo fianco. Un colpo di magia che stordiva. Mentre cercavi invano di intervenire, con disinvoltura e guardando avanti toccava il pallone lateralmente, scegliendo il tempo con precisione incredibile, quando avevi una gamba sollevata dal suolo, secondo gli sviluppi normali della falcata. Il pallone ti sfilava in mezzo alle gambe senza che tu potessi intervenire. E lui, sorridendo con malizia, passandoti dietro, andava a raccogliere il pallone e i battimani del pubblico.Con Garzena aveva fatto una scommessa singolare: «Mi pagherai una cena ogni volta che farò passare il pallone fra le gambe del primo avversario che mi viene a tiro dopo il fischio d’inizio dell’arbitro». Il Falco di Venaria accettò. La sfida si riferiva alle amichevoli che la Juventus doveva disputare in Inghilterra e che rientravano nell’operazione dell’acquisto di Charles. Gli inglesi, si sa, sono impulsivi. E Omar sapeva che avrebbe avuto ottime possibilità di riuscita. Boniperti toccava il pallone piano, l’avversario si avventava contro Omar, il quale, con indifferenza e precisione, infilzava le gambe avversarie. Garzena pagò tre cene e rinuncio alla disputa.VLADIMIRO CAMINITILa storia del calcio mondiale si arricchisce anche di partecipazioni straordinarie, assi dall’incredibile talento e l’increscioso carattere, tipi umani da prendere con le molle. Ce ne sono stati, ce ne saranno sempre. La tempra del carattere è alla base della classe, e si può essere forti in molti modi; c’è la forza temperata dall’educazione, dal rispetto di sé da cui nasce il rispetto per gli altri; e c’è la forza selvaggia, istintiva ed emotiva. Sivori, un po’ come George Best appartiene a questa seconda categoria di fuoriclasse specialisti. Egli anticipò in tutto le stravaganze di Maradona, salvo domarle con un carattere durissimo e spietato, da capo indio, fin dalle guance butterate e i fondi occhi neri che sapevano bruciare di odio come accendersi d’amore.Contrariamente a quanto si è letto, Sivori non fu subito accolto in Italia da consensi della critica. La sfortunaccia di un esordio agostano in notturna in amichevole a Bologna con sonora legnata che preoccupò il giovane saggio Umberto Agnelli, partecipò a suscitare qualche perplessità sul suo modo di interpretare il calcio e su come avrebbe potuto adattarsi a quello nostro. Carlin se ne fece interprete sulle colonne di “Tuttosport”, dove scriveva ogni mercoledì una seguitissima pagina di critica satirica: quell’argentino dall’arruffato testone e i calzettoni arrotolati alla cacaiola sulla caviglia, rallentava il gioco, considerava la squadra una proprietà personale. Carlin fu smentito nei fatti, fu saltato anche lui in tunnel dal diabolico Omar. E se era vero che aveva un’opinione del calcio tutta sua, più vero ancora era che, accoppiato a Charles, andava a costituire un tandem irresistibile, Omar in particolare col suo coraggio sprezzante, la sua sfida a stinchi nudi ai più smaniosi terzini, la sua classe a passettini incalzanti che lo portava a esprimere nel tunnel, pallone fatto passare tra le gambe divaricate dell’avversario, la “summa” della sua strategia individualistica.Non amava allenarsi, anche se sopportò per il primo anno il serioso e bravo slavo Broćić, che Giordanetti aveva assunto per corrispondenza, ma in campo, in condizioni fisiche appena passabili, faceva la differenza; il suo goal era catturato nel vivo delle difese, irrideva alla forza con la tecnica più spericolata nel possesso e uso del pallone. Volle, al secondo anno, avere come allenatore il suo maestro e scopritore Cesarini, le sue bizze e la sua nevrosi della fama lo fecero squalificare a ripetizione (il più squalificato giocatore d’Italia, secondo solo ad Amarildo: ben trentatré giornate di squalifiche). A quali vette avrebbe potuto attingere se avesse anche saputo darsi un contegno atletico, se si fosse allenato seriamente, se avesse avuto più equilibrio in campo e fuori? In campo, spesso impazziva letteralmente, nonostante la saggezza materiata di disciplina che Boniperti infondeva alle truppe, lui se ne tirava fuori.Agiva sempre di sua testa, non obbediva a nessuno. Viveva la partita in prima persona singolare indeclinabile, tenendo palla come e quanto volesse. Vero che i suoi fulgori tecnici furono titanici, e tante sue partite restano memorabili anche sotto l’aspetto strategico; ma qui siamo all’ultimo anno di Boniperti calciatore, il secondo e terzo scudetto di questo fenomeno maldicente linguacciuto rimangono pietre miliari nella storia del campionato. Le cronache di calcio celebrarono le insuperabili prodezze di Omar per la fabbricazione di quei due scudetti artistici, dopo i quali l’asso di San Nicolas cominciò a rabbuiarsi. Eppure aveva accelerato i tempi del ritiro di Boniperti. Eppure era rimasto sulla tolda del comando. Ma bisogna che un fuoriclasse sappia innanzitutto comandare a se stesso.Il declino atletico di Sivori cominciò presto. La Juventus, ingaggiata da Heriberto Herrera per ripristinare l’ordine professionale, lo mandò per disperazione al Napoli. Toccò a Piercesare Baretti raccontare su “Tuttosport” la malinconica guerra privata tra Heriberto e Omar. La vinse Heriberto, perché la Juventus non ha mai tollerato i ribelli.ANGELO CAROLI, “HURRÀ JUVENTUS” APRILE 2005Non imitabile, perché rappresenta il sogno che si fa realtà e la fantasia che diventa calcio. Una pietra miliare perché trasforma un gioco in felicità senza tempo. Omar Sivori è tante cose messe insieme. Ora lo piange chi ama lo sport nell’accezione più favolistica. Omar fallisce solo l’ultimo exploit poiché non sa segnare un goal al destino. E gli spasmi del destino sono cinici e imbattibili, anche perché spesso allontanano in modo prematuro i ricordi più affascinanti e cari. Il destino chiude i battenti davanti ad uno dei discoli più irridenti del pallone. Adesso uno degli angeli dalla faccia sporca ritrova e riabbraccia, lassù fra le nuvole, un grande partner di stagioni irripetibili, John Charles. Il gigante mancato l’anno scorso all’affetto dei familiari e dei tifosi bianconeri disseminati in ogni angolo dei quattro continenti.Omar è una stravaganza del destino; un vizio lo definisce un giorno l’avvocato Giovanni Agnelli; una piroetta tecnica figlia dell’invenzione; un tocco che ricorda il pungere dei serpenti a sonagli; un’occhiata demoniaca rivolta all’avversario; uno show arrogante; un impulso suggerito da un gene maligno e spettacolare; uno slancio viscerale e luciferino che gli lievita dentro e che intanto gli ispira gesti leggiadri; insomma Sivori è un prim’attore alquanto introverso nato per ammaliare le folle anche di colore avverso. Per chi vive al suo fianco è e resta lo showman universale senza limiti di tempo e spazio. Cerco nella memoria accostamenti.Impossibile, lui non è imitabile, appunto. Resta nella mia memoria il Giamburrasca del pallone che prova e regale gioia ai compagni di squadra, ai dirigenti e ai tifosi. Una creatura diabolica a cui piace respirare i battiti della vita nel modo più scanzonato, irriverente, talvolta dissacrante. Uno zingaro, un picaro attaccato alla famiglia ma pure cittadino di ogni dove e capace di una sensibilità che non vuole comunicare. È facile pensare a Omar e al suo zazzerone corvino, gli occhi scuri come i capelli e indiscreti come sonde che ti penetrano in fondo all’anima. Quando posa per i fotografi è quasi frenato da un imbarazzo misterioso tanto che tiene le mani appoggiate ai fianchi, il testone (cabezón per gli argentini) appena inclinato in basso, lo sguardo sfuggente e fisso verso un punto imprecisato del prato, i calzettoni ravvoltolati alle caviglie, le tibie con il marchio di tacchetti nemici nuovi e antichi. Poi il sorriso, un sorriso dolce che riserva alla famiglia, sorriso indocile e talvolta perfido da mostrare sul campo. Una specie di etichetta satanica.Che cosa si può raccontare di ciò che Omar offre sull’erba del Comunale, del Marchi, del Combi e di ogni stadio italiano? Innanzitutto il vorticoso frullio dei piedi. Toccano il pallone con la rapidità del baleno, la lievità delle carezze e il garbo di mani guantate. Se volete mettere le ali alla fantasia immaginate un bisturi che incide con l’asettica e pitagorica perizia di un chirurgo. Il calcio di Omar è prima di tutto illusionismo. Un illusionismo mai fine a se stesso, che provoca guasti e umiliazioni all’avversario. Quando si presenta per la prima volta al Comunale è un pomeriggio assolato dell’estate 1957. Compie un paio di giri di campo senza che il pallone tocchi terra. Il sinistro si muove in verticale, rapido e leggiadro, con la meticolosa bravura di un prestidigitatore. Un dirigente delle minori bianconere lo scruta insoddisfatto, inclina la testa da un lato e mette una mano sotto il mento quasi per sorreggerlo. È perplesso, molto perplesso, strizza le labbra tra i denti e azzarda una storica profezia: «Questo qui va bene in un circo equestre, da noi non sfonderà».Tutto intorno volteggia un silenzio sospetto. E imbarazzante. Mai profezia fu più incauta e fallace. Qualche giorno dopo, ci alleniamo al Comunale non ricordo per quale ragione, il nuovo allenatore Broćić raduna la rosa a metà campo. Sussurra in un italiano stentato una frase che suona più o meno così: «Se Boniperti lancia il pallone a Stivanello e Stivanello crossa per Charles segneremo un sacco di goal. Perché John ha due strade, indirizzare la palla in porta o servire Omar. E lui farà la festa ai portieri». Detto e fatto. Gli score di quegli anni sono la testimonianza più obiettiva.Omar debutta in campionato e da quel giorno tira fuori dal repertorio numeri di puro divertimento e praticità. Quando si gioca in casa prima del match entra in campo prima degli altri, si fa servire il pallone e si sposta sotto la curva Filadelfia per battere a rete con semplicità didascalica. Il gesto è scaramanzia che diventa tradizione. Il segnale di una sorte benefica che gli dà ulteriori stimoli. La folla saluta con ovazione prolungata. Lui sente gli eventi. Gli capita ogni tanto di vomitare prima di una gara importante. Dotato di una padronanza assoluta del pallone, accoppia il pragmatismo al senso più genuino dell’estetica. Il tunnel sta in cima ai suoi pensieri come un’impensabile follia. E sta allo Zenith della filosofia, sempre ai limiti dell’azzardo, degli incantatori di platee. Lo realizza in due modi: con l’avversario di fronte e con il guardiano che lo marca correndogli di fianco. È impossibile chiudere per tempo il compasso delle gambe, quando ti accorgi che sta per toccare il pallone questo è già schizzato dall’altra parte, sempre di sua proprietà.Un altro fiore all’occhiello, che vent’anni dopo verrà riproposto da Diego Maradona, è il continuo tocco breve, ripetuto e verticale come per seguire una linea retta. Sono pizzicate di stradivari eseguite con alta frequenza. Incredibili le conclusioni in area di rigore, dove gli attaccanti sono per solito preda di ansie e frenesie. Lui esercita e arricchisce il carisma attraverso intuizioni tecniche programmate con cinismo e messe in atto con la lievità insostenibile delle farfalle. È immenso soprattutto nell’area di rigore, dove per ogni calciatore l’erba scotta come il sole in agosto e dove, perdonatemi se mi ripeto, lui diventa algido come un robot. Nonostante questo, Omar è emotivo, capace di reazioni spropositate. Sente le partite come un predicatore percepisce i suggerimenti del Vangelo. Talvolta va ben di là dalle indicazioni del Nuovo Testamento. Se provocato non mostra l’altra guancia ma replica ai colpi che gli segnano le tibie. Un giorno Charles lo schiaffeggia davanti all’arbitro per placare un’isteria improvvisa che sta offuscando il versante razionale di Omar.Parla il necessario e quando parla incide. L’ironia è per lui pane quotidiano, forse figlia di un’autostima autorizzata dalla grandezza calcistica. Talvolta l’ironia si trasforma in satira che colpisce e incide. Sivori ama la vita ma questo non gli impedisce di adorare la famiglia, che successivamente si arricchisce della moglie Maria Elena, la quale gli dà tre figli, Umberto, Nestor e Myriam.Il dottor Umberto Agnelli preleva Omar dal River Plate nell’estate del 1957 su segnalazione di Carletto Levi che avverte la società bianconera: «Il River è in crisi economica e Sivori non è incedibile, costa solo troppo». Il Dottore fiuta l’affare e lo acquista per poco meno di 180 milioni, questa è la cifra di cui si parla all’epoca. Umberto Agnelli accompagna l’assegno con una dichiarazione confessione: «Sivori ha ventidue anni, con lui creeremo una squadra che diverte e può vincere per cinque o sei anni. Potremo tenere alto il livello di incassi e garantire bilanci in ordine». Operazione felicemente conclusa, è l’inizio di una storia fantastica che all’apice offrirà pagine leggendarie di duelli con il Real Madrid targato Di Stéfano, amico di lunga data, e Pachín, badilante che lo marca con maniere selvagge.È l’epoca della Torino soft, piena di garbo e discrezione. Della Torino di Buscaglione e di Van Wood, del salone dell’automobile e di via Roma che di notte appare come una scintillante propaggine di Parigi. D’inverno i calciatori indossano giacca, camicia e cravatta; d’estate polo Fred Perry e Lacoste. La moda è confezionata dalle grandi case e non dagli sponsor. O tempi o costumi!Omar nasce a San Nicolas, Argentina, il 2 ottobre del 1935. San Nicolas è a circa 200 chilometri da Baires. Lui gioca nel River Plate che lo vende alla Juve. Dopo 253 partite ufficiali in bianconero con 167 reti all’attivo e dopo aver vinto tre scudetti, tre Coppe Italia e un Pallone d’Oro nel 1961 (è il primo bianconero a fregiarsi del prestigioso titolo) si trasferisce al Napoli dove milita fino al 1969. In serie A disputa complessivamente 278 partite e realizza 146 reti. Come oriundo in maglia azzurra vanta nove presenze e otto goal. Torna in patria e diventa commissario tecnico della Nazionale argentina raccogliendo l’eredità di Cap che nei Mondiali di Germania 1974 non fa molto, anche se elimina l’Italia con un pareggio. Come commissario tecnico fa il duro, manicheo irreprensibile e rigoroso. I ritiri da lui programmati sono lunghi e fustiganti. Ecco l’insospettabile sdoppiamento di personalità. Forse le imposizioni di Heriberto Herrera che lo obbligano a divorziare dalla Juve nel 1966 sono una specie di tardiva redenzione caratteriale.Al ritorno in Argentina acquista due fattorie a cui dà il nome di Juventus e Napoli. Non smetterà di seguire le imprese dei bianconeri. Ottimi sono i rapporti con Bettega, Giraudo e Moggi ai quali non fa mancare indicazioni su prodotti raffinati nell’area argentina. Lo rivedo in un paio di circostanze, la prima all’inaugurazione di “Juvecentus” nel 1987. Sorridente e ironico come sempre e con lo sguardo velato dalla nostalgia per il passato e una tristezza derivatagli dalla morte del figlio Umberto, si allontana a testa bassa dai saloni dove tutto ha respiro bianco e nero. Quasi a voler fiutare gioie pregresse e nostalgie. Bruno Garzena ed io lo osserviamo mentre svanisce al di là dell’ingresso. All’unisono osserviamo: «È impossibile non amare il calcio quando gli attori sono fenomeni come lui».È quasi un’impresa estrapolare dalla sua favola italiana una diapositiva speciale che lo riguardi. Omar, dicevo all’inizio, è una successione di miracoli messi insieme. Personalmente mi piace citare un 19 marzo del 1961, quando la Juve batte il Torino 1-0 nel derby di ritorno. Il Comunale è sferzato da un vento fastidioso ed è ovviamente stracolmo. Mi capita di crossare un pallone abbastanza teso da sinistra verso il centro area granata. Omar anticipa Bearzot e segna uno dei rari goal con la testa. Vado ad abbracciarlo. Andiamo ad abbracciarlo. Gli dico che con un cross del genere è un facile fare goal. Mi sbircia e risponde: «Hai avuto solo c**o». Lo dice con un ghigno affettuoso, dopodiché abbassa di nuovo gli occhi pungenti come spilli e pieni di sarcasmo. Con il trotterellare di un personaggio da favola si risistema a centrocampo per la ripresa del gioco. «Il derby dobbiamo ancora vincerlo», incita. Lo vinciamo e lo scudetto verrà dopo.La domenica successiva Omar compie l’ennesimo miracolo. Charles ed Emoli sono out. Il sottoscritto, umile gregario, ha la tonsillite. Il medico mi blocca e Parola (Gren vola in Svezia per i funerali del suocero) affida a Leoncini il compito di marcare Vinicio e utilizza Mazzia, il Professore, a centrocampo. Sono in tribuna, pieno di sciarpe e antibiotici. Più che a una partita assisto a un fuoco d’artificio: Omar segna tre goal, uno più spettacolare dell’altro, Nicolè arrotonda il punteggio mentre Vinicio appaga le aspettative bolognesi con una doppietta.Ho usato il presente storico per raccontare Sivori, quasi per riascoltare una storia incredibile, l’illusione di rivivere nel presente, congelandoli per un po’, fotogrammi remoti. È la mia intenzione. Solo che adesso Omar appartiene davvero al passato. Immenso Cabezón con la sindrome del “ganar” (di vincere), chi ama il calcio ti saluta con nostalgia e tristezza nel cuore. E tanta affettuosa riconoscenza. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2012/10/omar-enrique-sivori.html
  3. CLAUDIO GENTILE http://it.wikipedia.org/wiki/Claudio_Gentile
  4. LUIGI BERTOLINI http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Bertolini Raccontava: «Sono nato a Busalla, nel 1904, per caso. La mamma, prossima allevento, abitava ad Alessandria, dovera nata. Mio padre, Aristide, era di Caprino Veronese; un tipo strambo, per come posso rammentarlo. Simbarcò per lAmerica che ero ancora bambino. Faceva il pittore e saggiustava a suonare la chitarra. Un fratello di mamma aveva un negozio di frutta e verdura. Come ebbi letà e la forza di lavorare mi volle con sé. Vita dura, mica scherzi. Mi alzavo di mattino presto, verso le quattro, per andare al mercato generale, con il carretto. Ne tornavo tre ore dopo e facevo il garzone di bottega. Dopo la sfaticata giornaliera, a sera, andava a scuola. Diploma di arti e mestieri, licenza commerciale, medaglia doro per il disegno meccanico. Nei pochi momenti di svago, via in piazzetta a giocare alla palla. Di stracci, mica col pallone vero. Ci davo dentro un paio dore, poi la fame ed il sonno minducevano a smetterla. Mi ero fatto, con gli anni, lungo e secco. Abile comunque per il servizio di leva nel 22° Fanteria. Si era nel 1924 ed il football cominciava davvero a fare strada. Si disputò persino un torneo militare ed ebbi, con la squadra reggimentale, il mio primo titolo italiano: campione militare di calcio. Da notare che giocavo centravanti, segnando fior di goals con la testa, già ricoperta dalla benda bianca che poi mi fu quasi demblema per il resto della carriera. Finito il servizio di leva raggiunsi a Savona un amico dei tempi passati. Faceva il manovale in ferrovia lavorando di notte. Dividemmo in due il lavoro ed in due la sua paga settimanale. Faticavamo a turni di due ore, dormendo con lo stesso ritmo. Un giorno lamico mi avvertì di aver parlato di me ai dirigenti del Savona, che a quel tempo militava in serie B. Gli chiesi se era impazzito. Mi rispose di non preoccuparmi. Sapeva il fatto suo, mi aveva visto tante volte giocare ad Alessandria sulle piazze o nella Borsalino che era convinto di non sbagliare. Piuttosto incerto mi recai alla prova. Unora dopo firmavo un contratto per giocare nel Savona. Stipendio di calciatore: 25 lire al mese, oltre ad un lavoro allIlva, acciaierie dItalia. Finii il torneo come capocannoniere». Proprio i suoi goals lo resero famoso ed i dirigenti dellAlessandria, che se lo erano lasciato scappare nel 1925, lo riebbero per la cifra di mille lire, con lintenzione di farne il centravanti di riserva. Gli avevano anche promesso un lavoro, ma questa promessa non venne mai mantenuta; così, per tirare avanti, il nostro Luigi si adattò a molti umili espedienti di modestissimo guadagno, come vendere giornali od aggiustare biciclette. Una vita di sacrifici. Numerose volte, forse per dare una dimostrazione non necessaria della sua forza danimo, Bertolini raccontò incredibili avventure legate al tempo della sua giovinezza. «Allenatore dellAlessandria era Carcano. Vedendomi allopera nelle riserve si chiedeva perché mai giocassi bene il primo tempo e nel secondo non facessi altro che cadere a terra. Venne finalmente a domandarmelo e gli risposi che con 25 lire alla settimana non riuscivo a mangiare altro che caffelatte e brioches. Il giorno dopo venivo messo a pensione allalbergo Croce Verde dove iniziai un duello (che mi vide sempre vittorioso) contro le più grosse bistecche che mi fosse dato di vedere. Con il nutrimento giusto ripresi vigore ed in pochi mesi passai alla prima squadra». Non avendo il posto di titolare in prima squadra, Bertolini doveva provvedere alla propria attrezzatura di gioco; lo faceva abitualmente, acquistando scarponi militari alla Cittadella e sostituendo i bulloni ai chiodi, in modo da essere a posto con il regolamento calcistico. Ma quando, imponendosi con le armi della tecnica e del coraggio, conquistò il posto in prima squadra, le scarpe cominciò a riceverle dal magazziniere. Lesordio avvenne presto: «Era di scena ad Alessandria il fortissimo Torino, quando si ammalò il mediano Papa. Carcano mi cercò (era di sabato) e mi avvertì che il giorno seguente avrei esordito in serie A. Giocherai mediano mi disse svelto e se ne andò. Gli corsi appresso: Come mediano ??? Ma se sono il centravanti delle riserve. Il mediano non lo so fare. E poi, proprio contro il Torino. Non ti preoccupare fu la risposta gioca come sai e andrà tutto bene. Vincemmo per 3 a 1 su di un campo più fango che prato. Feci una gara spettacolosa. Vezzani e Baloncieri toccarono pochi palloni ed impararono a conoscermi. Divenni, in unora e mezzo, lidolo di Alessandria. Mi pareva di sognare. Un anno prima dormivo destate sotto il ponte del Tanaro, in una specie di capanna con un letto di paglia e di fieno». In campo, Bertolini, dava limpressione di spendere allinizio tutte le energie che aveva in corpo. Spesso, a metà partita, sembrava già in riserva sfiancato e sfiatato; ma non era che una impressione. Il giocatore alessandrino era come un motore con il compressore che gira più del suo regime normale e Bertolini recuperava sempre: allultimo minuto era ancora quello del primo tempo, sempre con laspetto di un atleta sfinito che, miracolosamente, era arrivato alla fine della partita. Dove giocava lui, la zona risultava effettivamente coperta, lì non cerano falle o buchi, né vuoti improvvisi. Sembrava che catturasse palloni facendoseli calamitare sulla fascia bianca che gli legava la fronte. Quando si trasferì alla Juventus, lAlessandria mise nelle casse sociali la bellezza di 150 mila lire. A Bertolini non andò neppure una lira. Ma il barone Mazzonis, con esemplare magnanimità, gli pagò in anticipo lo stipendio di agosto, mese che di norma restava fuori dal contratto, dal momento che la paga correva da settembre a luglio, quando, cioè, si giocava. E Bertolini, nelleuforia del recentissimo ingaggio, si precipitò ad Alassio, a quei tempi rinomatissimo luogo di villeggiatura, spiaggia mondana e tentatrice, dove pullulavano le belle donne. Il neo bianconero ad Alassio dovette folleggiare non poco, perché era giovane, bello e felice. Ma il vice presidente Mazzonis, inevitabilmente, lo venne a sapere e nel giro di pochi giorni lo richiamò in sede con un telegramma, per rispedirlo di volata a finire le ferie a Forte dei Marmi, dove già cerano Carlo Carcano e Giovanni Ferrari: al riparo, dunque, da ogni follia. Ed il buon Bertolini sorrideva, nostalgicamente, ogni qual volta rievocava queste cose. Da unintervista del 1966: «Lanno 1928 mi portò davvero fortuna. Fu per me una stagione meravigliosa che coronai con lesordio in maglia azzurra contro il Portogallo. Vincemmo per 6 a 1, grazie anche allapporto superbo della prima linea che contava sul fantastico Orsi, oltre che sul centravanti Sallustro. In due anni ero passato dai prati di piazza dArmi agli stadi che ospitavano le vedette del calcio mondiale. Nel 1929 affrontai vittorioso la Juventus. Una gara memorabile. LAlessandria schierò: Curti; Viviano, Casta; Lauro, Gandini, Bertolini; Cattaneo, Avalle, Canchero, Ferrari, Chierico. Vincemmo 1 a 0 con un goal di Chierico. Al termine del campionato lAlessandria iniziò la smobilitazione. Se ne andò lallenatore Carcano (alla Juventus) portandosi appresso Ferrari. E fu proprio Gioanin a caldeggiare con Carcano il mio acquisto lanno successiva. La cifra di cessione fu di 150.000 lire. Il mio stipendio passò di colpo da 100 lire a 5.000 lire mensili. Quando lessi il contratto mi parve di diventare matto. Di, cifre del genere ne avevo, fino a quel momento, solo sentito parlare. E poi cerano i premi di partita: 500 lire per ogni confronto vinto, 250 per i pareggi. Nelle file bianconere assaporai davvero lebbrezza della fama. Fu una specie di girotondo quasi fiabesco. Alberghi di lusso, viaggi in vagone letto, schiere di tifosi in ogni parte dItalia. Erano anni dorati. Vinsi in bianconero quattro scudetti consecutivi, dal 1931 al 1935. Ricordo con particolare emozione un campionato conquistato alla spasimo, dopo un estenuante inseguimento allAmbrosiana che pareva irraggiungibile. A sette domeniche dalla conclusione eravamo cinque punti dietro i nerazzurri. Allultima giornata il vantaggio dei milanesi era ridotto ad un solo punto. Entrambe le squadre giocavano in trasferta: la Juventus a Firenze, lInter a Roma contro la Lazio. I nerazzurri vennero sconfitti, noi vincemmo per 1 a 0 con un goal di Giovanni Ferrari. Due incidenti piuttosto seri mi capitarono nel periodo juventino. La frattura di una tibia contro la Triestina. per un violento colpo subito ad opera dellala giuliana Mian; la frattura di due costole in un match internazionale contro lUngheria, da noi vinto. Lala magiara Markos, un tracagnotto veloce e grintoso, per difendersi da una mia carica mi piazzò il gomito dritto nel petto. Sentii un dolore acutissimo, credetti di svenire. Mi ripresi subita ma finii la gara piegato in due per il dolore. Tra i miei ricordi più belli, la gara ormai famosa di Londra, quando lInghilterra ci sconfisse per 3 a 2 dopo averci inflitto tre reti (a zero) nel primo tempo. Lo stadio di Higbury ribolliva come un vulcano. Poco prima dellinizio Pozzo mi ordinò di togliermi la benda bianca che mi cingeva la fronte, alla quale era abituato armai da anni. Gli inglesi, mi spiegò Pozzo, non accettavano quella piccola mania, definendola esibizionistica. Me la tolsi a malincuore. Senza quella benda candida sulla fronte mi pareva desser nudo di fronte a 100.000 spettatori. Nel clima rovente della battaglia di Higbury scordai benda ed ogni altra cosa. Monti si fece male, frattura ad un piede, dopo pochi minuti. Gli inglesi, che volevano ad ogni costo travolgere gli azzurri appena reduci dallalloro mondiale di Roma, attaccarono con una violenza impressionante: Ridotti in dieci replicammo colpo su colpo e nella ripresa, con il pubblico che man mano sazzittiva, cominciammo la rimonta. Due volte Meazza fece centro ed a 30 secondi dalla fine Guaita, solo davanti ai portiere britannico, colpì il palo con un tiro irresistibile. Persi una sola partita, in maglia azzurra, e la triste storia mi toccò proprio a Torino, davanti al mio pubblico. Si giocava contro lAustria dei Sindelar e dei Jenisalem. Andai completamente in barca, insieme a Combi e Caligaris. Perdemmo per 3 a 4 ed il mio diretto rivale, lala destra Svoboda, fece centro due volte. Promisi solennemente ai miei compagni di squadra che se avessi incontrato altre volte Svoboda e quegli fosse riuscito ancora a segnare, io avrei abbandonato il football. Il duello si ripeté altre due volte, a Milano ed a Roma nei mondiali. Svoboda non riuscì più a segnare. Io, continuai a giocare. Nel 1938 (avevo 34 anni) un dirigente juventino che aveva grossi interessi in riviera mi fece una proposta allettante: alle stesse condizioni della Juventus, dove ormai mi veniva rinnovato il contratto di anno in anno, mi avrebbe assunto come giocatore/allenatore del Rapallo per tre anni. Restai in Liguria anche dopo lo scoppio della guerra e ripresi lattività sportiva come allenatore dellAcireale nel 1946. Lanno seguente passai alla Reggina quindi, ritornai a Torino. anzi a Torre Pellice, dove avevo acquistato, a rate, un albergo. Con la Juventus ripresi i rapporti accettando di dirigere la preparazione delle squadre minori e vidi crescere sotto i miei occhi atleti notevoli come Umberto Colombo, Flavio Emoli, Tortonese, Bruno Garzena. Nel 1952 divenni, insieme a Combi, responsabile della prima squadra dopo lallontanamento di Carver. Nel 1953 Pietro Beretta mi volle a Brescia, ma fu un esperimento non troppo fortunato che mindusse a piantarla definitivamente con lo sport attivo. Inizia così, ancora una volta, una carriera. Assunsi una rappresentanza di sofà-letto. poi unaltra di mobili svedesi e danesi. Il giro seguì la corrente giusta ed ora la mia azienda commerciale di corso Giulio Cesare è solida ed efficiente. La mia vita scorre quieta, serena. Ho una figlia di quattordici anni che pratica tutti gli sport. Per me cè ogni tanto un tuffo nel passato quando corro ai raduni degli ex azzurri. Mi resta in fondo ai cuore un desiderio grande e struggente. Vorrei riabbracciare Luisito Monti, luomo tutto dun pezzo che tanta parte ebbe nelle glorie juventine e della nazionale. Di lui serbo un ricordo incancellabile. Forse in quegli anni ruggenti ero lunico che fosse riuscito a conquistarne lamicizia. Monti era un tipo speciale: da una parte lattività professionale come calciatore (ed alla società, come alla Nazionale m dava il meglio di sé), dallaltra la vita privata, dove non tollerava intrusioni. Io gli fui amico. nel senso più profondo della parola. Ora lo so lontano, sempre arcigno come un tempo, sempre uomo-roccia, come se gli anni non fossero passati anche per lui. A Luisito Monti dedico queste mie brevi note di vita vissuta, i miei ricordi di calciatore. A Luisito Monti, tenace come la mia Juventus». http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/09/luigi-bertolini.html
  5. MICHELE PADOVANO http://it.wikipedia.org/wiki/Michele_Padovano
  6. FABIO PECCHIA http://it.wikipedia.org/wiki/Fabio_Pecchia Nasce a Formia, in provincia di Latina, il 24 Agosto 1973; dopo due ottime stagioni allAvellino, viene ceduto, nellestate del 1993, al Napoli dove disputa quattro stagioni ad altissimo livello, tanto da guadagnarsi le attenzioni della Juventus. «A sei anni», racconta, «mio padre mi ha iscritto presso la scuola di calcio di Lenola, il mio paese. A dodici anni, il talent-scout Gino Corrado, mi ha portato ad Avellino, lontano dalla famiglia e dagli amici; è iniziata, per me, una vita di responsabilità, senza certezze. Solo uno su mille riesce a diventare qualcuno; io sono stato molto fortunato». Lippi, che ha avuto Fabio a Napoli, ritiene che sia un giocatore fondamentale per far rifiatare Zidane e, così, Pecchia approda in riva al Po, nellestate del 1997. Purtroppo per lui, però, la stagione non è fortunata; Zizou è praticamente sempre presente in campo e la società bianconera acquista Edgar Davids, chiudendo, praticamente, le porte del campo allex giocatore del Napoli. Peccato, perché Fabio è un ottimo giocatore abile a giostrare su entrambe le fasce, nonostante sia il destro il suo piede preferito. Molto abile nelle verticalizzazioni, è molto veloce con la palla al piede e questo gli consente di ribaltare efficacemente il gioco, rendendosi molto pericoloso in fase offensiva. Pecchia scende in campo solamente 37 volte, ma ha la fortuna e la bravura di realizzare un goal ad Empoli, che risulterà fondamentale per la conquista dello scudetto. Al termine di quella stagione, viene ceduto alla Sampdoria ed inizia un lungo girovagare per lItalia: Torino, Napoli, Bologna, Como, ancora Bologna, Siena e di nuovo nel capoluogo emiliano, sempre disputando campionati da protagonista. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/08/fabio-pecchia.html
  7. FRANCESCO MORINI http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Morini Francesco Morini, veste la maglia bianconera nell’estate del 1969, arrivato, dalla Sampdoria, in compagnia di “Bob” Vieri. Due personaggi completamente differenti: lui pisano (nato a Metato, frazione di S.Giuliano Terme) concreto, attento, preciso, attaccato alla professione, ed il piombinese geniale, quanto incostante, promessa mai mantenuta nel nostro calcio. L’allenatore della Juventus è Luis Carniglia, un esigente sognatore, il quale avrebbe voluto che tutti i propri giocatori, anche uno stopper, saltassero gli avversari con un tunnel. Morini non aveva per niente queste caratteristiche e si trovò a disagio. Era una piovra che con mille tentacoli toglieva il pallone dai al diretto rivale, uno stopper perfetto, dalla marcatura ferrea. «Sapevo di avere dei limiti, ma sono sempre stato sorretto da un buon fisico e da un’ottima condizione atletica; seppure fossi alto, ero molto veloce e scattante, sicché potevo marcare, indifferentemente, avversari piccoli o ben messi. Anche se non cattivo, sono sempre stato molto spigoloso, rognoso ed appiccicoso, pronto in ogni momento a far valere il mio anticipo, Di certo, non mi cimentavo in lanci millimetrici, preferivo appoggiare la palla ad un compagno vicino a me». Soprannominato “Morgan”, come il pirata, perché, come scriveva un giornalista a quel tempo, «da pirata era il suo modo di depredare l’avversario del pallone roteandogli addosso i bulloni, di arrangiarsi coi gomito, e pazienza se non fluidificava molto». Fisico poderoso e asciutto (un metro e 81 per 73 chili), undici volte nazionale, Morini era uno di quei rari atleti mai domi, di grandissima utilità, capaci di giocare anche con una caviglia a pezzi, con un muscolo dolente. Arrivò a marcare un extraterreste come Cruijff, malgrado avesse un tallone fuori uso: bastava un’iniezione antidolorifica per farlo scendere in campo. «In bianconero ho passato degli anni meravigliosi. Abbiamo centrato risultati eccezionali, sia in Italia che in Europa, ho avuto per compagni di squadra, dei veri campioni. È importante giocare con dei campioni, perché ti trascinano ed io mi sono fatto trascinare. Ricordi ne ho tanti, rimpianti un solo: Belgrado, eravamo nel 1973, finale di Coppa dei Campioni, persa contro un Ajax grande, ma non poi così grande. Insomma, avremmo potuto anche giocarcela, invece andò come tutti sanno». Francesco lascia la Juventus alla fine del campionato 1978/79, dopo 372 presenze in bianconero solo in campionato. Si trasferisce in Canada, nel Toronto Blizzard a studiare lingue, per poi presentarsi, successivamente, al corso di manager di Coverciano. Terminato il corso, “Cecco”, ritorna alla Juventus come dirigente: «Un tipo di lavoro che mi ha sempre affascinato ed appassionato», mettendo a disposizione la sua esperienza maturata sul campo, che unisce la professionalità all’amore per colori per i quali ha dato molto ma dai quali, dice, ha ricevuto moltissimo. «Ho sempre cercato di imparare dai più bravi, sia da calciatore che da dirigente ed ho sempre continuato a farlo. Sono stato onorato di far parte della famiglia bianconera, mi sono sempre identificato in questo ambiente, conoscendone i segreti; non mi sarei mai visto a lavorare altrove». Non ha mai segnato una rete ufficiale: «A dire il vero, una volta un goal l’ho fatto, in un torneo italo/inglese, disputato in un estate di tantissimi anni fa. In ogni caso, la mancata segnatura di reti non mi ha mai contagiato più di tanto, perché ciò che mi esaltava era fare in modo che non andasse in goal l’uomo che dovevo marcare; questo equivaleva, per me, ad una rete, perché se in squadra devono essere particolarmente attivi i bomber, altrettanto devono esserlo i difensori ad imbrigliare il gioco delle punte avversarie». Come dargli torto? Da “Hurrà Juventus” del maggio 1980: Lo stopper più granitico e guerreggiante dei tempi moderni, dunque, prende e se ne va. Francesco Morini, gloria vivente di tanto calcio italiota degli anni sessanta e settanta, decide che è giunto il suo momento, ma prima vuole, fortissimamente vuole, concedersi una divagazione sportiva che è emblematica del tempo presente, inimmaginabile per il pioniere. Morini va a chiudere la sua carriera di ineguagliabile lottatore in America, Canada per l’esattezza, ed è decisione niente affatto sorprendente, semmai perfettamente allineata con la personalità di questo difensore tra i più illustri della Juventus trionfante di questi anni. Duro è il mestiere di stopper, dove il talento non basta e spesso il coraggio e la cattiveria sono valori ben più essenziali. Durissimo, poi, fare lo stopper nella Juve. 1969, anno di grazia e di parecchie disavventure. Undici anni orsono, undici anni di Juve tanto diversa. Francesco Morini arriva venticinquenne dalla Sampdoria con la fama di marcatore ruvido ancorché insormontabile. Deve rilevare le incombenze dell’araldo difensivo della Juve “heribertiana”, dell’ultimo centromediano antico del nostro calcio, di Giancarlo Bercellino da Gattinara, eroe con “Tino” Castano del tredicesimo scudetto. È una eredità grave, un fardello dei più ingombranti. Gli inizi non sono facili, né potrebbero esserlo. La Juve che dovrebbe voltare pagina e tornare ad essere trionfante, in realtà inciampa spesso in ostacoli all’apparenza agevoli e le colpe si ripartiscono tra tutti, stopper compreso, stopper prima di altri. Il derby di andata in una luminosa e calda giornata di ottobre si vinceva a una manciata di secondi dalla fine grazie ad una rete di Zigoni detto “Zigo” e va a finire che si perde per una dabbenaggine di Morini nostro, che fa saltare indisturbato Bui sotto porta, e gli consente la più comoda delle realizzazioni. Lo sguardo solare di Francesco si rabbuia, ci sono giornate tristi di solitudine per questo atleta in cerca di comprensione tecnica. Carniglia, l’ “entrenador” che nulla ha da insegnare a Vieri ed Haller fuoriclasse d’altri tempi, non riconosce l’indispensabile lavoro di rottura del biondo stopper toscano e si lascia andare ad affermazioni poco felici che rattristano il ragazzo. Ci vuole tempo, non molto, ma ci vuole. Carniglia non può avere futuro in questa Juve che vuole proiettarsi sugli anni settanta. Morini fa parte della Juve settanta. Il dilemma tecnico tra il vecchio hidalgo ed il giovane stopper non si pone neppure. La leggenda bianconera di Francesco Morini, certo, passa attraverso tappe e momenti speciali. Per esempio, momento importante ed altamente significativo il suo duello con “Gigi” Riva, che inizia nel novembre del 1969 all’ “Amsicora” di Cagliari e prosegue per anni, sempre all’insegna della massima correttezza pur nel massimo dispiego di energie e sforzi. Tenacemente assertore del gioco all’inglese, dotato di un anticipo che non concede scampo all’attaccante in cerca di leziosità, Morini costruisce il suo stile in pochi tratti essenziali e lo spiega al volgo con prestazioni monumentali. I duelli rusticani con “Giorgione” Chinaglia esemplificano al massimo grado questa concezione di gioco, di tempesta ed assalto, di pionierismo nel senso di impegno cristallino, di dedizione alla causa bianconera. A qualcuno può non piacere questo modo brusco di cercare il tackle, questa volontà tremendamente applicata alla marcatura. Nessuno, però, può discuterne l’efficacia. “Cesto” Vycpalek, chiamato a proseguire il lavoro del povero Picchi su un telaio di giovani campioni in cerca di grandi traguardi, eredita già lo stopper di tutte le leggende. Nella Juve 1971 che sta per vincere tutto, Morini è già colonna insostituibile. I centravanti del campionato imparano a conoscere ed a temere la disfida lanciata dallo stopper toscano ormai saldamente trapiantato a Torino. Lo scudetto della sofferenza, il quattordicesimo, arriva con il determinante contributo dello stopper giunto a piena maturazione tecnica ed umana. Morini onora la maglia con un rendimento medio altissimo e giganteggia con fior di campioni, soffrendo praticamente in una sola circostanza, un Juventus-Napoli che anche per questo finisce pari, 2-2. Morini nell’occasione è chiamato a controllare un centravanti che ne sa una più del diavolo e che, secondo alcuni, sta per appendere le scarpe al fatidico chiodo. Non sarà così, per fortuna della Juve che anche grazie a costui costruirà il suo mito. Fin troppo chiaro che stiamo parlando di Altafini. Trenta presenze nel magico campionato 1971/72, trenta erano pure statele presenze nel 1970/71. Due stagioni senza manco una assenza che è una rappresentano già un fatto significativo. Ma il bello deve ancora venire. Lo scudetto numero quindici, quello del 1972/73 propone un Morini ancora migliorato sul piano della sicurezza, ormai dotato di un bagaglio di esperienza che solo un veterano può permettersi di vantare. E Francesco a tutto si può avvicinare, meno che ad un veterano. 1973/74 e 1974/75 coinvolgono anche il biondo difensore bianconero, ne toccano assetti umani non inediti ma comunque suggestivi in prospettiva futura. Morini accusa qualche infortunio, il dispendio di energie e gli elevati rischi che comporta il suo modo di giocare, sempre estremamente battagliero, intaccano, talvolta, la sua dura scorza. Accade che talvolta la critica non sia benevole nei suoi confronti. Sono accadimenti, episodi, che lasciano il tempo che trovano. La volontà contribuisce ad assorbire infortuni e critiche a tempo di record. Il tallone che lo la soffrire viene spesso ignorato a scusante di certe prestazioni non propriamente inappuntabili, e sono le poche volte che il personaggio, che poi personaggio non è almeno nel senso comune del termine, esce allo scoperto ed affronta le critiche con la medesima risolutezza e linearità con cui duella con i centravanti. Le fortune bianconere non coincidono che raramente con analoghe soddisfazioni azzurre, e questa è la principale ragione di rammarico di Morini. La Nazionale “messicana”, che giustamente Valcareggi, per meriti effettivi oltre che per normale riconoscenza, mantiene a lungo intatta o quasi, non concede spazio allo stopper bianconero, all’ormai leggendario “Morgan” delle mille battaglie. Né si può dire dei più fortunati l’impatto di Francesco con la maglia azzurra, alle porte del Mondiale di Germania. A trenta anni, coinvolto negli esiti infausti di una spedizione nata male e finita peggio. Morini paga colpe che non ha mai avuto e finisce nel dimenticatoio, proprio mentre la sua vicenda bianconera raggiunge vertici assoluti, tanto in campo nazionale che a livello di coppe. È un neo assolutamente ingiustificato, sul quale Francesco ha lungamente filosofeggiato, senza acredine e inutili polemiche. Anche questo contribuisce a rendere grande e assoluto il personaggio. Il Morini più grande, quello cui tutti i supporter bianconeri sono maggiormente legati, è però senza dubbio l’ultimo, il più vicino a noi. La maturità del campione è spesso segnata da una lenta quanto inesorabile parabola discendente sul piano del rendimento: nulla di tutto questo nel caso di Morini che conosce nella Juve “trapattoniana” i momenti forse più esaltanti di una carriera sfolgorante. Le battaglie di Coppa Uefa esaltano l’ardore e l’attaccamento alla causa bianconera dello stopper più roccioso dei tempi moderni, ne affinano l’acume tattico, ne rendono sempre più efficace il contrasto. Anche gli esteti devono alfine ammettere uno stile Morini, e di stile autentico si tratta, affinato dalla partecipazione a tutti i massimi eventi della recente storia bianconera. Entrato di diritto, nella stagione passata, tra i grandi della Juve quanto a fedeltà di presenza, Francesco Morini lascia in modo glorioso, in perfetta sintonia con il suo carattere. In America ritroverà una fetta del suo passato, e rivivrà con sfumature diverse gli attimi esaltanti della sua ineguagliabile carriera. E sarà tramonto ancor più glorioso. Il momento di appendere le scarpe al chiodo rappresenta per molti giocatori un vero e proprio trauma; vediamo esempi quasi quotidiani di uomini dal passato eccellente che, non sapendo rassegnarsi, accettano ruoli quasi patetici in squadre, per così dire, periferiche. Nel caso di oggi c’è, al contrario, chi impegna le sue attività sempre nel calcio ma in altra direzione restando in “servizio attivo” ad alto livello. Non poteva essere altrimenti: Francesco Morini stopper tutto d’un pezzo, terrore di tanti attaccanti di casa nostra e del resto del mondo, non soddisfatto delle sue esperienze ha deciso di studiare il calcio straniero ed in particolare quello d’America. Visto che, in casa, vi era ormai un degno e promettente sostituto, se ne è andato a vedere da vicino le società calcistiche del nuovo mondo. “Sir Morgan”, come lo soprannominano i tifosi, giunto quasi al momento di ritirarsi in pensione, ha voluto rimanere sé stesso: infatti, il segreto della sua carriera è sempre stato condensato in queste due parole: «saper osservare». «Vi sono due modi di essere buoni giocatori», ha detto “Morgan” in un intervista, «avere innato il senso del gioco e della posizione oppure imparare guardando per far tesoro delle prestazioni altrui». Nella sua lunga carriera, non ha mai sgarrato da questo intendimento. Per lui non vi sono mai state polemiche se doveva starsene in panchina, sia quando militava nella Sampdoria, sia quando vestiva in bianconero. «Anche stando ai bordi del campo c’è tutto da apprendere; certo, dipende da chi vedi all’opera ma, stai tranquillo, se hai occhio critico, impari come comportarli anche se fai la riserva». Il ruolo che ha ricoperto nella sua carriera non è stato dei più facili, eppure in virtù della sua umiltà è riuscito ad intimidire e ridicolizzare tanti avversari di grido. Tralasciando l’attività nelle squadre minori, la sua carriera si è svolta in sei anni alla Sampdoria ed undici alla Juventus, vivendo due aspetti diversi di gioco, due modi distinti di lottare: il primo quasi totalmente intento alla ricerca della salvezza, il secondo diretto invece alla conquista di tanti primati. Il segreto di una carriera sempre, in crescendo è costituito esclusivamente dalla professionalità di Morini e dal suo comportamento lineare che non ha mai sgarralo dille precise regole che si era imposto. Comportarsi secondo i dettami della disciplina sportiva non gli è mai costato sacrificio: ubbidire all’allenatore è sempre stato per lui facile, mantenersi in forma altrettanto, nessuno può imputargli crisi od impennate di carattere. «Rimpiango una sola cosa: di non essere mai arrivato a segnare un goal in campionato nonostante tante sgroppate in avanti». Il nostro biondo Vichingo, ha poi un altro cruccio: «In mezzo a molti successi, a tanti trofei, sento la mancanza di una Coppa dei Campioni. Ogni volta che la Juventus ha giocato in quella competizione è sempre arrivata a due passi, ad un soffio da quel traguardo ed ogni volta se l’è vista sfuggire». È vero, fare previsioni specie in quel campo, è assai arduo: quella è una strada intessuta di tanti piccoli frammenti di mosaico che fanno storia a sé e poi vi partecipa la “crema del calcio mondiale” per cui il successo ti arriva con la stessa difficoltà di un terno al lotto o di una vincita al totocalcio. Si è parlato troppe volte di un Morini terribile come se fosse un pirata dell’area di porta. «Non mi sono sempre fermato in quel punto, sovente mi sono spinto in avanti perché così mi ha imposto di fare il gioco praticato dalla Juventus. Ho fatto anche lo stopper avanzato e, credetemi, il mestiere in quel punto del campo è quanto mi ardito». Le più grosse soddisfazioni di Morgan sono quelle di aver fatto passare notti insonni agli avversari e di aver mandato a monte innumerevoli piani tattici di allenatori avversari che pensavano di poterlo distogliere facilmente dai suoi compiti. «Cruijff mi ricorderà certamente, Bersellini e tanti altri mi sogneranno, però dovranno dare atto della mia lealtà sportiva, perché falli cattivi con il preciso intento di far male, non ne ho mai compiuti. Non fanno parte del mio bagaglio mentale e neppure del mio stile». Con queste parole, egli intende chiudere la bocca a taluni denigratori che, per poter segnare reti, avrebbero voluto incontrare un Morini suonatore di violini o clavicembali. Nella vita di ogni giorno, “Cecco”, è tutt’altro che un duro: legato sì alle tradizioni ed ai ricordi ma è anche previdente e sa mettere le mani avanti con oculata preveggenza. «La vita di un calciatore è veloce, possa con la rapidità di un lampo per cui bisogna aver gli occhi ovunque: sul passato, sul presente e sul futuro». In vista del futuro si è inserito nella concessionaria “OTMA” e volgendo le spalle indietro ha chiamato Jacopo il figlio. «Ricorderò sempre i primi passi che ho mosso sul campetto dell’Oratorio di San Jacopo a San Giuliano in quel di Pisa». Questa è una sorta di legame tra il passato ed il più bel presente dello stopper juventino. Ora, è partito per l’America a studiare l’ambiente calcistico di laggiù: «È che non sono tuoi sazio di esperienze, mi sono cercato un’altra panchina perché so quanto sia utile “vedere” cose nuove per continuare ad “imparare”». Ecco cosa gravita oggi attorno alla realtà Morini, quell’uomo tutto d’un pezzo che non ha mai speso una parola in più del dovuto e che, forse, ha fatto un solo sogno di troppo: la Coppa dei Campioni. Che cosa si poteva chiedergli e cosa poteva darci di più? Nulla! Ha vestito la maglia bianconera e quella azzurra della Nazionale con eguale ardore ed impegno, ha collezionato successi in Italia ed all’estero in piena umiltà ed in nome di una inimitabile professionalità. Il racconto di Caminiti: Ciccio Morini detto “Morgan”, stopper sgranocchiante il pallone come una cabala misteriosa, soltanto in fin di carriera finalmente in grado di stopparlo al volo, eppure negli scudetti juventini della prima serie bonipertiana uno dei “fondamentali” della squadra, per l’epica grinta. Aveva negli occhi tutto l’infinito della speranza quando lo conobbi nella Sampdoria allenata da Ocwirk. Biondo ed aguzzo, andava in campo e risolveva la vicenda del gioco come un fatto personale con l’asso a lui affidato. Bisognava arginarlo e possibilmente annichilirlo, ed ecco “Morgan”, piratesco il suo stile nell’irruzione tra pallone e piede portante, nella spallata leale ma dura, l’avversario interdetto tentava la replica, ma incespicava fatalmente nel rivale a lui addossato, come una parte del suo stesso intendere, felinamente intuitivo negli anticipi più condizionati. Allenandosi con ossessiva costanza, rispettandosi come un anacoreta, Morini risolse nella Juventus decisa a vincere tutto, allenata da Vycpalek, da Parola e anche dal giovane “Trap”, ogni problema delle domeniche affliggenti, e se un avversario riuscì a superarlo fu "Giggiriva" di Leggiuno, che sgomitava anche lui, ferocemente proteso al goal d’autore. Quando, nel 1973, Valcareggi lo convocò in Nazionale, insieme a Zoff, Spinosi, Furino, Causio, Anastasi e Capello, era divenuto proprio necessario. Aveva già due scudetti sul petto, ne avrebbe vinti altri tre, con un rendimento sempre sostanziale, che aveva sbugiardato quel verdetto del “caballero” falsamente appassionato Carniglia dei suoi pochi mesi di permanenza juventina. Il cherubino Morini, pur non possedendo l’aire dello stile di Bellugi, completava idealmente la squadra ruggente su tutti i traguardi, in un tempo di calcio a misura di uomo, e di chi uomo era nella vita come in campo. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/08/francesco-morini.html
  8. MICHELANGELO RAMPULLA http://it.wikipedia.org/wiki/Michelangelo_Rampulla Michelangelo Rampulla nasce, juventino, a Patti, in provincia di Messina, il 10 agosto 1962. Cresce nella Pattese e, diciottenne, muove i primi passi, nel calcio che conta, con la maglia del Varese, in serie B, dove ben presto conquista la maglia di titolare ai danni dell’esperto Rigamonti. Al termine del campionato 1982-83, viene ceduto al Cesena, per poi passare, due anni dopo, alla Cremonese. Nel capoluogo lombardo esplode definitivamente, giocando ben sette stagioni, di cui due in serie A, piena di grandi soddisfazioni, culminate con quell’incredibile goal realizzato a Bergamo: «Lo ricordo come fosse adesso, era il 23 febbraio 1992 e stavamo perdendo contro l’Atalanta per 1 a 0. All’ultimo minuto un compagno batte il calcio d’angolo della disperazione, io lascio incustodita la porta e mi spingo nell’area avversaria. La parabola del pallone è perfetta, mi avvento di testa sorprendendo gli avversari, colpisco con la fronte piena e faccio goal. Gioia indescrivibile, tutti mi abbracciavano, le televisioni ed i giornali per un paio di giorni non hanno parlato d’altro. Una volta tanto il mio nome era stato abbinato non ad una rete subita, ma ad un goal fatto». La stagione successiva il portiere goleador, che ha al suo attivo anche dieci presenze con la Nazionale Under 21, si ritrova catapultato in una realtà nuova e molto più importante: non più titolare inamovibile in formazioni di provincia, ma prezioso numero dodici nella Juventus, alle spalle di Angelo Peruzzi. «Quando sono stato ingaggiato dalla Juventus, ho fatto felice mio padre, Lui è sempre stato molto più tifoso di me, più tifoso di qualsiasi altro. Ai tempi di Paolo Rossi, Boniek e Platini, si presentò un giorno al lavoro, con la macchina dipinta di bianconero, a strisce, ovviamente. Dal 1969 al 1979 sono stato abbonato ad “Hurrà Juventus”; ricordi da tifoso ne ho tantissimi, quasi tutti legati a grandi successi. Dal vivo, ho ammirato la Juventus due volte a Palermo e poi sempre in televisione. Lo stile bianconero mi ha sempre colpito, sia da tifoso che da avversario; alla Juventus, nulla viene lasciato al caso, persino i dettagli più insignificanti rivestono un’importanza determinante. Doveva essere un’esperienza fugace, invece a Torino mi sono fermato per dieci campionati, coprendo le spalle anche a Van der Sar, Buffon e Carini. Ho giocato più di quanto immaginassi ed ho vinto davvero tutto». In effetti, Michelangelo, approfitta dei numerosi guai muscolari che affliggono Peruzzi e riesce a ritagliarsi un poco di gloria, considerato che la Juventus di quegli anni vince tutto. Come nella Supercoppa Italiana del 1995-96, quando entra in campo causa l’espulsione di Peruzzi e contribuisce, con un paio di parate sicure, alla conquista del trofeo. Con l’arrivo del portiere olandese e di Buffon, lo spazio si riduce notevolmente ed a Rampulla non restano che le briciole di qualche presenza in Coppa Italia. Nell’estate del 2002, Michelangelo decide di appendere gli “scarpini al chiodo”, ma resta alla Juventus in veste di collaboratore. Un grande esempio di professionismo da parte di Rampulla che, con le sue enormi potenzialità, avrebbe potuto giocare titolare in qualsiasi squadra, ma che ha sempre preferito rimanere nella sua amata Juventus, anche se questo comportava l'essere costretto a guardare gli altri giocare dalla panchina. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/08/michelangelo-rampulla.html
  9. LAMBERTO LEONARDI http://it.wikipedia.org/wiki/Lamberto_Leonardi Alla Juventus, Leonardi arriva trentunenne, da Varese, in un anno in cui pare giungano nomi illustri a rinnovare la squadra, in ogni reparto. Ma il suo arrivo non è casuale: l’idea è quella di ricostruire il tandem che a Varese, due anni prima, aveva destato sensazione: Anastasi-Leonardi. E La squadra, dopo una partenza piuttosto infelice, si assesta in ogni reparto e comincia a risalire la china. Leonardi, piano piano, conquista il pubblico torinese, che usa per lui lo stesso nome abbreviato di Leoncini, “Leo”. «È veramente una grandissima soddisfazione poter giocare in una squadra come la Juventus, amata in tutta Italia e con delle magnifiche tradizioni», racconta al suo arrivo a Torino, «sono certo che mi affiaterò presto con i miei compagni ed i dirigenti non dovranno rimpiangere la fiducia concessami. La Juventus, oltre che un grosso traguardo, rappresenta anche una piccola rivincita personale verso la Roma che, cedendomi al Varese, mi aveva certamente declassato». La Juventus, che Rabitti ha appena ereditato da Carniglia e subito messo in acque più tranquille, gioca in un modo semplicissimo, essenziale, moderno ed antico al tempo stesso. Si capisce che sarà protagonista anche Leonardi da Roma, ala pura tra le ultime in circolazione; era da tempo che la Juventus non aveva più un uomo simile, capace di sfruttare al massimo le fasce laterali e di far spiovere al centro palloni dorati per la delizia dell’attaccante appostato, Anastasi il più delle volte. L’intesa tra i due è pressoché perfetta e più di una partita viene risolta in virtù dell’abilità del tandem avanzato juventino. Juventus-Fiorentina, 30 novembre 1969: contro i viola, campioni uscenti, i bianconeri danno per la prima volta nella stagione una dimostrazione di grande efficienza tattica. La chiave di volta della partita è proprio Leonardi, inafferrabile e determinato nel dosare i lanci, una spina nel fianco della difesa viola. La Juventus vince 2 a 0, non segna lui ma fa segnare “Pietruzzo”. Ma Leonardi ha un altro grosso pregio tecnico da far fruttare al servizio della squadra; il tiro estremamente violento e preciso. Le occasioni per mettere in mostra le sue capacità in tal senso arrivano presto; in casa bianconera, i rigori continuano a rappresentare una vera spina nel fianco, nel senso che non si riesce a trovare uno specialista che garantisca il buon esito dell’esecuzione. Ed Rabitti decide che dovrà essere “Leo” a tentare; accade il 21 dicembre, in uno Juventus-Lazio che promette il rilancio al vertice per la Juventus già reduce da tre vittorie consecutive. I bianconeri, che conducono col minimo scarto grazie ad un goal realizzato in mischia da Salvadore, usufruiscono di un rigore al quarto d’ora della ripresa. Tocca a “Leo”, contro il quale è il portiere laziale Sulfaro. Rincorsa piuttosto lunga e niente tiro; nel frattempo l’estremo difensore è finito a mezza strada tra la linea di porta ed il dischetto. Tutto da rifare, il momento può essere importante e la tensione in campo e fuori è notevole. Ma Leonardi ha nervi d’acciaio e, col portiere al suo posto tra i pali, scaraventa il pallone in rete con memorabile legnata. A distanza di due domeniche, “Leo” fa ancora di più; risolve, su punizione dal limite la partita casalinga col Bari, fattasi difficilissima a causa del terreno innevato e perciò “ammazza gioco”. Il suo gioco, intanto, continua ad essere di estrema efficacia ed importanza nell’economia della manovra bianconera; a Bologna, contro i rossoblu scatenati alla ricerca del successo di prestigio, “Leo” disputa una grande prova, alleggerendo con i suoi spunti in velocità la costante pressione dei padroni di casa. E, nel derby di ritorno, la sua prestazione è addirittura memorabile, così come sono senza dubbio da ricordare quasi tutte le sue prove del finale di stagione. 8 febbraio 1970, è giorno di gran derby: all’andata hanno prevalso i granata su una Juventus perfino autolesionista nel dosare le marcature, ma adesso molte cose sono cambiate e nei bianconeri, secondi ad un passo dal Cagliari , è grande la voglia di vincere e convincere. Leonardi gioca qui forse la sua migliore partita in bianconero; una prestazione esemplare sul piano della manovra condita da un goal tanto bello quanto decisivo. Sull’1 a 0 per la Juventus, con i granata proiettati all’attacco in cerca del goal del pareggio, un difensore bianconero vince un contrasto e appoggia a Leonardi, che si trova appena oltre la propria metà campo. “Leo” compie uno stupendo slalom in progressione ai danni di tre difensori granata e, giunto in prossimità del vertice destro dell’area torinese, pur sbilanciato da un contrasto, beffa il portiere in uscita disperata con un pallonetto smorzato che si infila nell’angolino opposto. Esecuzione magistrale, una vera “pennellata” che esalta la platea del “Comunale”. Naturalmente, ci sono nell’arco del torneo momenti meno esaltanti per questa ala di grandi risorse atletiche, che sa pure risolvere situazioni in area di rigore, con la sua considerevole potenza di tiro. Come in Juventus-Napoli 0 a 0, rigore calciato sull’incrocio dei pali e punto importantissimo regalato agli azzurri di Zoff. Od ancora la prova opaca di Firenze, con relativa sconfitta che estromette in pratica i bianconeri dalla lotta per il titolo. Il 29 marzo 1970, comunque, è nuovamente festa per Leopardi; il Milan, che si illude forse di avere a che fare con una Juventus ridimensionata dalla sconfitta subita dai viola e perciò dimessa, subisce due magnifiche reti da uno scatenato Anastasi e, dopo una manciata di minuti, arriva il definitivo suggello alla vittoria. Haller filtra tra due difensori e scodella al centro un pallone millimetrico che Leonardi sbatte dentro al volo, agganciandolo di collo destro. Finisce 3 a 0 la partita e finisce anche il campionato, che per la prima volta nella sua storia è sfuggito alle squadre del continente per prendere la strada della Sardegna. Leonardi detto “Leo” si è praticamente congedato dal pubblico juventino con la prodezza della gara col Milan: 37 presenze, 8 goals, sono il bilancio della sua stagione. Un bilancio più che lusinghiero; c’è soltanto il rammarico che un giocatore del genere non sia arrivato prima in bianconero. I piani di rinnovamento della squadra sono estremamente chiari, occorre programmare a distanza e per questo occorre votarsi ai giovani. Leonardi è una soluzione positiva, ma elude il problema. Nessuno lo sostituisce; si torna a giocare secondo quanto comanda il moderno verbo calcistico, che parla di “punte” tuttofare e non di ala o centrattacco. Per questo, oltre che per il poco tempo trascorso da allora, Leonardi si ricorda bene, senza timore di confonderlo con qualche altro juventino di passaggio: parlare di lui “ala pura” è un po’ come fare un tuffo nel passato. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/08/lamberto-leonardi.html
  10. MICHAEL LAUDRUP http://it.wikipedia.org/wiki/Michael_Laudrup
  11. JOHN CHARLES http://it.wikipedia.org/wiki/John_Charles Alla fine di un derby, il gigante buono John Charles mostrò, nello spogliatoio, la spalla nuda sulla quale erano rimasti in modo molto chiaro dei segni di denti, perché lo stopper avversario lo aveva morsicato, per fermarlo in qualche modo. A chi gli chiedeva come mai rideva della cosa, John fece rispondere da Sivori, il quale precisò che se mai il gallese si fosse arrabbiato e avesse messo in atto qualsiasi reazione, il dentuto sarebbe morto. Una volta finì contro un palo e rimbalzò inanimato, mentre il palo vibrava. Molti spettatori pensarono all’infortunio del calciatore, ma fu, invece, la tragedia del palo che prese a muoversi a ogni sollecitazione, perché l’urto gli aveva tolto la guaina stretta del terreno. Charles si rialzò quasi subito, scrollando la testa come a rimproverarsi.Per averlo dal Leeds, la Juventus diede al club inglese, i soldi per ampliare la tribuna del proprio stadio: Prima di fare una stagione breve e infelice alla Roma, Charles riuscì a sistemarsi nella galleria dei grandissimi della Juventus, con un gioco fisico e potente, in contrasto con quello sfavillante e ubriacante di Sivori, con il quale si integrava alla perfezione.Parlò sempre poco l’italiano, e i colleghi garantivano che parlava poco anche l’inglese. Arrivò a Torino nel 1957 con già tre figli (Sivori, tre anche lui, ne ebbe due quando già stava a Torino) e trovò sempre riparo in essa.In campo era un grande, riusciva a conciliare la mole con l’estetica, la potenza con la precisione, la gagliardia con la realtà. I compagni lo ammiravano devotamente, gli avversari lo temevano rispettosamente. Chi era costretto a piantargli i denti nella spalla, in realtà doveva imporsi la cattiveria, perché John era uno di quelli che attiravano strette di mano. Una volta raccontò di quando, nel Galles, fece il suo primo viaggio con la squadra. Era in treno, passò quello con i panini offerti dalla società, lui aveva fame, allungò una mano, un anziano della squadra gliela trapassò con un coltello e gli spiegò che aveva mancato sul piano dell’educazione e lo ammonì a dare sempre la precedenza a quelli più vecchi.John aveva avuto anche esperienza in miniera: lo obbligarono a incidere un disco, raccontando questa storia; lui sosteneva che non era giusto, lui era fortunato e basta, la miniera gli era servita per fargli vedere com’era bello il mondo al di sopra.Aveva una velocità progressiva notevole e quando capitava che travolgesse un avversario, John subito lo aiutava ad alzarsi e gli chiedeva scusa. Una volta venne a giocare a Torino l’Arsenal e il centromediano era suo fratello, Mel: si diedero sanissime botte per novanta minuti, un bel western di famiglia: mai una cattiveria, sempre un’onesta gagliardia. Fu uno spettacolo.Disse di lui Farfallino Borel: «Sono oltre trent’anni che seguo il gioco del calcio e posso dire che mai nessun atleta mi ha impressionato nel gioco di testa, come Charles. È senz’altro favorito dalla statura, ma sa contemporaneamente saltare e colpire, con una precisione mai vista fino a quel momento. Nel gioco di testa è completo, sa effettuare il tiro diretto in porta con precisione e potenza e, nel medesimo tempo, sa effettuare il passaggio breve e preciso, per mettere il compagno nelle condizioni migliori per giocare la palla».John Charles era molto timido. Mai visto uno così rapido nell’arrossire, anche per cose di poco conto. Un cromatismo alla Mammolo di Biancaneve, dolce e assurdo in un uomo così grosso, così forte. John ebbe fama anche per come, unico forse al mondo, seppe reprimere, sino allo schiaffo, l’allegria isteria di Sivori in un match milanese di Coppa Italia. Omar aveva per John un rispetto terribile, nel senso che lo notificava sempre a John, per farlo arrossire, ma intanto lo coltivava pure, lo ammetteva, ne riconosceva la profonda giustizia.Il compagno Garzena, racconta: «Prima delle partite, avrebbe potuto mangiarsi una bistecca alla valdostana, con il formaggio e tutto il resto. E non aveva mai una lira in tasca; John non aveva mai capito troppo bene il cambio tra lire e sterline, era poco attento ai soldi e all’amministrazione del denaro. Capitava spesso che gli dovessi pagare persino il cinema. Che giocatore, però! Quello che fece nel primo anno alla Juventus, tra goal fatti, goal salvati e assist, non ho mai più visto farlo a nessuno».Dice di lui Jack Charlton: «John Charles era un uomo squadra. La gente spesso mi chiede chi sia stato il miglior giocatore che abbia mai visto. Ed io rispondo che probabilmente sono stati Eusébio, Di Stéfano, Cruijff, Pelé o Bobby Charlton. Ma il calciatore più efficace che abbia mai visto, quello che ha maggiormente migliorato le squadre in cui giocava, è stato John Charles».Ancora John: «Boniperti impostava dalla metà campo le nostre azioni. Omar, in fase avanzata, deliziava noi e il pubblico con impareggiabili serie di tocchi, di passaggi e di tiri diabolici. Quando la difesa marcava lui, doveva necessariamente concedermi una libertà, che mi consentiva di piazzare tiri in rete e colpi di testa. Quando i difensori, invece, si gettavano in massa su di me, la stessa libertà di azione, veniva concessa a Sivori e dare respiro a Omar significava incassare delle reti ed essere beffati».E ancora, quando decise di lasciare la Juventus: «Rimpiango di non essere arrivato prima in Italia, in questo paese magnifico, fatto per gente eccezionalmente simpatica. Se così fosse stato, anche la mia famiglia avrebbe assimilato, come ho fatto io, il vostro modo di vivere. Ma adesso avverto il bisogno di tornare a casa; i miei figli cominciano a essere grandi e mia moglie Peggy sostiene che non possiamo più perdere del tempo. Dovranno vivere in Inghilterra, è necessario che, nel minor tempo possibile, diventino inglesi. Per questo John Charles, vi lascia e vi saluta; io, lo giuro, sarei rimasto tra di voi per sempre. Ma non posso! Non posso proprio!»John Charles ci ha lasciato il 21 febbraio 2004. Lo chiamavano ogni tanto a Torino per qualche partita di vecchie glorie, il fisico era sempre buono, il suo colpo di testa sempre letale. John trovava sempre gente che gli ricorda un suo goal, e le emozioni e commozioni a esso legate, e lui, gentilissimo, faceva finta di ricordare perfettamente ogni particolare.D’altronde i suoi goal, di testa o di piede, furono sempre molto simili, perentori e sonanti, largamente annunciati da un volo, da un’avanzata, senza troppa invenzione e fantasia. I suoi goal non facevano arrabbiare i portieri, erano goal buoni, chiari, semplici. Erano John Charles.ALBERTO FASANO, “HURRÀ JUVENTUS” DICEMBRE 1981Dico subito che Charles è stato e resta un grande amico della Juventus e dell’Italia. Nella sua autobiografia dal titolo “Good bye Juventus”, il formidabile giocatore gallese ha scritto, infatti, che se Gigi Peronace, il talent scout che organizzò il suo trasferimento alla Juve, lo avesse scoperto a diciotto anni, quando ancora aveva sulle mani i calli del lavoro e in corpo tanta forza da spendere, molto probabilmente John sarebbe sceso tra noi senza il biglietto di ritorno per il suo verde paese.Quando arrivò in Italia per giocare centrattacco della Juventus, Charles aveva già alle spalle dieci anni di attività svolta nelle file del Leeds. Le caratteristiche fisiche e tecniche erano identiche: stessa potenza, stessa vitalità, stesso agonismo. Già allora il suo pezzo forte era il colpo di testa. Lo stesso John raccontava perché era diventato così bravo: solo di rado il giovanissimo stopper poteva allenarsi sul campo della prima squadra e allora si divertiva a ribattere la palla di testa contro il muro degli spogliatoi: ore e ore di esercizi; e alla fine non trovò più giocatore che arrivasse sui palloni alti con prontezza e potenza pari alla sua.Nel 1949, John indossò per la prima volta la maglia della Nazionale del Galles nel match con l’Irlanda. Aveva solo diciotto anni. Non era stato un esordio esaltante, ma il buon Charles non ebbe nemmeno il tempo per riflettere sui molti errori commessi che si ritrovò sotto le armi per il servizio di leva.Lo mandarono a Darlington, una cittadina distante cento chilometri da Leeds. Dopo aver fatto il ragazzo di fatica negli stadi il giocatore diventò di colpo carrista, costretto tutte le mattine ad alzarsi alle cinque, vestire la tuta mimetizzata e lustrare quei maledettissimi carri armati sui quali un tenente pignolo trovava sempre qualcosa di sporco. La sua piccola fama di calciatore servì tuttavia a salvarlo in tempo. Fu aggregato alla compagnia sportiva e ogni settimana poté fruire di tre giorni di licenza per giocare le partite di campionato con il Leeds. Pareva aprirsi un periodo felice!Un giorno il capitano Smith si accorse che il soldato semplice John Charles era alto 187 centimetri e pesava settantacinque chilogrammi: «Tu diventerai un grande pugile – gli disse – al reggimento manca un peso medio per i campionati militari!»Lo mandarono in palestra, gli insegnarono che cos’era il gancio e l’uppercut. John è sempre stato essenzialmente un buono: saliva perciò sul quadrato con una paura matta di far male all’avversario (ed anche di farsi male). Alla fine del primo e unico anno di attività pugilistica, il suo ruolino parlava di dieci vittorie su dieci incontri, cinque ai punti e cinque per KO. Ma a John Charles, chiaramente, il pugilato non interessava affatto. E venne in suo soccorso il maggiore Gordon, appassionato di calcio e più alto in grado del capitano Smith. Alla nazionale militare occorreva un centromediano: e Charles tornò ai verdi rettangoli del calcio.Nel 1951, tra incontri giocati per la Nazionale Militare e quelli disputati per il Leeds, toccò il limite record di 100 partite in nove mesi. Due anni dopo portò la sua Peggy all’altare, quella Peggy che poi gli regalò tre stupendi ragazzi, forti come il padre: Terry, Melvin e Peter.All’inizio del 1957 Gigi Peronace, incaricato da Umberto Agnelli di portare alla Juventus un forte centrattacco, fece senza riserve il nome di John Charles. In Italia la cosa non era sfuggita ad altre società. La Juve aveva offerto 55.000 sterline; offerte maggiori furono fatte dalla Lazio (attraverso l’allenatore inglese Mister Carver) e dall’Inter (per interessamento del General Manager signor Valentini). Il Real Madrid arrivò addirittura a offrire 70.000 sterline. Ma la Juventus era arrivata prima e Umberto Agnelli, dopo aver visto personalmente all’opera il giocatore gallese nel confronto internazionale tra Galles e Irlanda, firmò il contratto con Mister Sam, presidente del Leeds. La firma avvenne in una sala del Queen Hotel.John Charles arrivò in Italia il 3 aprile 1957. In serata, con un volo da Roma, il gigante gallese era a Caselle. Il giorno dopo era già in campo per un provino-allenamento. Giampiero Boniperti fu il primo a stringergli la mano e a consegnargli la maglia bianconera con il numero nove sulla schiena. Poi John tornò per breve tempo in patria e diventò italiano l’11 giugno di quello stesso 1957. Nella Juventus, oltre a Boniperti, trovò quell’altro fuoriclasse che era Ornar Sivori.I tre campioni si integravano a meraviglia: Boniperti e Sivori mettevano a disposizione di Charles i tesori della loro classe, della visione di gioco, del palleggio, del mestiere; e il grande King John sfornava reti su reti: ne segnò ventotto in trentaquattro partite nella sua prima stagione in bianconero, stagione che, non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo, si concluse con la vittoria dello scudetto. John non ha mai dimenticato l’esplosione di gioia con la quale fu festeggiato quel grande successo. I tifosi, che già avevano da dividere le loro simpatie tra Boniperti e Sivori, avevano trovato un nuovo idolo.È chiaro che le difese di tutto il campionato si coalizzarono, invano, per frenare l’impeto irresistibile di quel gigante che partiva da lontano con velocità sempre crescente e che non si arrestava se non quando aveva visto la palla in fondo la rete. Charles di botte ne prese moltissime, ma non ricordo un suo gesto di reazione, un suo fallo cattivo. Durante una partita nella quale aveva preso calci e gomitate un po’ da tutti, si rivolse a Boniperti dicendogli con aria supplichevole: «Boni, fai tu qualcosa, difendimi: io non ne sono capace!»Era di una bontà incredibile. Nel corso di una gara molto equilibrata con l’Inter, mentre il risultato era fermo sullo 0-0, Charles correva verso la porta avversaria, affiancato da un avversario; nel tentativo di svincolarsi, senza intenzionalità, John diede una gomitata in un occhio al neroazzurro; l’arbitro non fischiò e il centrattacco juventino ebbe via libera. Ma John, il Gigante buono, si arrestò e soccorse l’avversario caduto a terra.Tra i tanti goal epici realizzati da Charles, vorrei ricordarne uno messo a segno al Comunale contro il Bologna. Un’azione di contrattacco, con John che partì dalla propria area di rigore, puntando diritto verso la porta rossoblu. Se non ci fosse stato l’urlo della folla, si sarebbe potuto sentire lo scalpitare dei suoi zoccoli di bufalo lungo tutto il campo. In quegli ottanta metri gli si pararono contro almeno in sei avversari, spingendolo, urtando, cercando con ogni mezzo di fermarlo. John non si fermò: sbuffando come un treno, abbassando la testa come un rinoceronte, scardinò ogni ostacolo, riuscì a trovare la coordinazione per un breve scambio con un compagno ed entrò in rete con la palla al piede.Guardarlo da vicino quando entrava in campo, metteva paura, incuteva rispetto. Era un gigante tirato su a bistecche, spalle fortissime, lombi muscolosi, cosce corte e dure, resistente alla fatica, atleticamente irresistibile. Nelle mischie il suo balzo veniva fuori rapido, come quei barattoli cinesi dai quali, svitato il coperchio, scatta su la testa di un drago. Quella di Charles era una testaccia da catapulta, che sparava più forte e più fulminea delle sue scarpe. La sua potenza era contrappesata da un incredibile equilibrio morale, dalla lealtà, dalla coscienza che egli non stava guerreggiando, ma giocando a football per divertire il pubblico e far punti per la sua Juventus.Il suo corpo era irregolare, disarmonico: gambe corte, come ho già detto, fianchi bassi, piedi piccoli. Una macchina, però, che risultava perfetta quando si metteva in movimento per catapultare il pallone nella rete avversaria. Il suo modo di correre era addirittura buffo, con quelle lunghe braccia ciondoloni lungo i fianchi, più avanti del corpo, lasciando i polsi disarticolati. Aveva un gioco semplice, ma estremamente redditizio, i suoi passaggi perfetti, specie se effettuati di testa: in area di rigore terrorizzava le difese.Quando era lanciato pareva un carro armato, munito di un solo cannone, la testa, che demoliva i più solidi muri umani. Malgrado fosse e si sentisse un autentico cannoniere, John non fu mai un egoista nel gioco: per lui era importante soprattutto che la sua squadra facesse i goal, non che li segnasse lui personalmente. Ha lasciato in tutti i bianconeri e negli sportivi italiani un ricordo affettuoso, carico di simpatia e amicizia.Restò alla Juve sino al 15 aprile 1962, per cinque stagioni; poi passò alla Roma. E infine fece ritorno al verde Galles. Ricordo quanto scrisse un pittoresco cronista inglese sul “New Chronicle” quando il mondo calcistico d’oltre Manica fu informato che Charles sarebbe passato dal Leeds alla Juventus: «Se ne va John Charles, il calciatore che ha le fattezze di Marlon Brando, la struttura di un peso massimo, le gambe di un velocista in bicicletta, il fiato di una tigre e il mortale morso di un cobra».Una serie di frasi che strapparono a John un largo e divertito sorriso. Ogni tanto John torna ancora da noi, magari per divertirsi insieme ai vecchi amici in una partita di vecchie glorie. Lo accogliamo sempre con immenso affetto.ANGELO CAROLI, “HURRÀ JUVENTUS” APRILE 2004In questa circostanza dolente vorrei essere un semplice amico di John, un ex compagno di squadra e non un giornalista. Non sarei costretto a scrivere sulla scomparsa di un giocatore immenso e di un grande uomo mite, con l’animo fanciullo. La professione mi obbliga a scrivere molto di lui quando invece vorrei tenermi ogni ricordo dentro, dosare i pensieri, rievocarli con delicatezza, metterli in fila. Una fila gioiosa e intanto malinconica. Ma tenuta per me, custodita fra le cose belle, bellissime e irripetibili, di un passato oramai remoto.Ora che John ha lasciato un vuoto e un buio enormi dentro tutti noi, sento che devo raccontare il primo giorno che lo vidi spuntare dal cancello del Combi. Era in divisa e sembrava un gigante. Tanta folla si era radunata attorno all’ultimo fenomeno del pallone che il dottor Umberto Agnelli aveva acquistato dal Leeds. Alla competenza del Dottore era stato suggerito da Gigi Peronace. Era il maggio del 1957.Qualche mese dopo sarei andato in prestito al Catania. Sono transitati davanti ai nostri occhi stanchi quarantasette lunghi anni. L’arrivo di John fu accolto da molti tifosi e da una giornata scintillante. Indossava una giacca blu con tre file di leoni ricamati in oro sul petto. Il viso sembrava radunare tutte le scaglie di un sole tiepido. Ai tifosi deve essere apparso come un semidio. Si esibì. Calzava un paio di scarpe con bulloni di metallo, non se n’erano viste prima in Italia. Impressionarono la corsa in accelerazione, il colpo di testa straordinario, la forza d’urto. Un cemento armato che toccava la palla in modo scarno, essenziale e molto efficace.Strinse mani entusiaste, ricevette auguri e complimenti, salutò e ripartì per Swansea, in Galles, dove era nato. Quando tornò a Torino, un paio di mesi dopo, si inserì in un organico rivitalizzato dall’arrivo di un altro asso del pallone, Omar Sivori, e di un giovane promettente, Nicolé. Boniperti pilotava una truppa di uomini esperti miscelata con elementi maturati in un paio di stagioni congiunturali.A Ljubiša Broćić, allenatore jugoslavo, bastò poco per capire come la Juve dovesse attaccare gli avversari: un passaggio largo di Boniperti, un cross di Stivanello, un colpo di testa di Charles e i giochi erano fatti. Il pallone finiva in rete o sul mancino perverso di Omar che completava l’opera. Stupendo!Quei fenomeni stavano aprendo un ciclo. Io ero in mezzo a loro, a novembre sarei partito per la Sicilia, ma intanto mi lasciavo suggestionare dai talenti che mi correvano vicino. Sivori, Emoli e Stivanello divennero gli amici più stretti di Long John.Ma chi era veramente Charles? Lo chiamano Gigante Buono. Riduttivo. John era un immenso professionista. Un atleta dalla continuità e dal rendimento impressionanti. Uno sportivo incapace di sotterfugi, di ipocrisie e doppiezza, rasentava il paradosso con quella concezione leale dell’agonismo. Si ispirava a un rigore comportamentale che un giorno lo spinse a schiaffeggiare Sivori attanagliato da una sorta di trance isterica. Il campione deve essere un esempio, sembrava minacciare John con occhi che restavano buoni.Devo ricordare i tre scudetti vinti da lui, la capacità di riconvertirsi come centromediano o libero (lo ricordo in un match di Coppa dei Campioni nel 1962 ad Atene, contro il Panathinaikos, ero tornato alla Juve, giocavo al suo fianco e mi sentivo protetto come se viaggiassi su una corazzata).Ed ecco altre immagini vincenti, la corsa che travolgeva, una corsa a passi rapidi visto che era di bacino basso. Un caterpillar che temeva di fare male, di nuocere. E intanto gli avversari lo riempivano di botte come fosse un pung-ball. Lui taceva e andava avanti. Boniperti e Colombo lo invitavano a farsi furbo, almeno a difendersi. Lui rispondeva con un sorriso e una signorilità da cui era lecito trarre utili insegnamenti. Come dimenticare i colpi di testa che ricordavano arieti e catapulte! E il tiro simile a una frustata. Sento nostalgia e tristezza mentre mi aggrappo a tali memorie tecniche. Però a me preme raccontare, soprattutto ai giovani che non lo hanno conosciuto e ammirato, altre immagini della sua storia favolosa.Un giorno, non ricordo mese e anno, si scontra a metà campo (siamo al Comunale) con l’avversario, un tipo forte come una quercia di fusto corto: Bernasconi della Sampdoria. L’impatto è tremendo, ha la peggio il doriano che rotola a terra fra gemiti. Disco verde per John. Davanti ha solo il portiere, però si accorge dell’avversario che geme. Si blocca e scaraventa la palla in zona laterale. Dopodiché soccorre Bernasconi. Tanti applausi per il suo cuore immenso.Fra gli aneddoti tramandati di generazione in generazione c’è anche un impatto rovinoso contro un palo, durante un match con la Fiorentina. I pali, all’epoca, sono spigolosi. Nel catapultarsi sul pallone finisce contro un legno e poi rovina a terra. Lo stadio resta muto, come avvolto da una grande farfalla silenziosa. Il gigante è a terra. Il gigante quasi non respira. Il gigante ha gli occhi chiusi. Si riavrà poco dopo, stordito ma pronto a offrire altri show. Il Comunale è di nuovo in festa.Indimenticabili anche i fotogrammi che lascia in Versilia, quando in vacanza si esibisce in un night. La sua voce sembra arrivare dalle vie di New Orleans e offre al pubblico le note malinconiche di “Sixteen tons” e “The end”.John nasce a Swansea il 24 dicembre del 1931, suo padre è stato calciatore nello Swansea Town. Nelle file dei ragazzi della squadra cittadina John milita dal 1938 al 1945. In prima squadra debutta a diciotto anni. Il ruolo? Centromediano. In Nazionale esordisce l’8 marzo del 1950, contro l’Irlanda, e disputerà i Mondiali del 1958. Passa al Leeds e sfonda, in ogni senso, come centravanti. La stampa locale non si dà pace per il trasferimento, come i supporter. È intanto finito il tempo della spola da un ruolo all’altro, stopper, terzino, mediano. I tecnici fanno luce sulle sue capacità. La stazza (1,87 per ottantaquattro chili) secondo taluni dovrebbe essere un limite per un centravanti. Profezia errata e smentita dai fatti. Solo il servizio militare gli toglie spazio. Mentre serve la patria fa persino il pugile. Vince parecchi incontri, alcuni per KO. Sono gli unici scampoli violenti di un’esistenza pacifica.La firma con la Juve risale al 18 aprile del 1957. Costo 110 milioni di lire, a lui ne vanno diciotto. In Inghilterra diventa un caso.«Dopo Firmani, trasferito alla Sampdoria, se ne va anche Charles. Il nostro calcio dovrebbe riflettere», scrive il “Times”. Con la maglia bianconera si aggiudica tre scudetti e due Coppe Italia. Nel primo anno conquista il titolo di capocannoniere con ventotto reti. Mostruoso! A Torino lascia un’eredità esemplare oltre alle 150 partite in campionato e novantatré reti. Resta fedele alla Juve fino alla primavera del 1962, quando il colore della maglia diventa giallorosso. Si separa da Torino poiché Peggy vuole tornare in Inghilterra. John cede, ma una volta a Leeds e dopo un’offerta della Roma e l’ennesimo litigio con la moglie accetta un ingaggio per un anno. Gioca dieci partite e segna quattro goal.Quando torna in Galles milita prima nel Cardiff e poi nello Hilford United. Si stabilisce a Leeds e non si stacca più dall’ambiente del club che lo aveva lanciato. E dai pub dove beve birra e intanto rievoca storie fantastiche con amici ed ex compagni di squadra. Poi divorzia dalla moglie Peggy e conosce Glenda, una donna amorevole e presente. Vivrà sempre con lei. John ha quattro figli, Terry, Melwyn che ha giocato a rugby di buon livello, Peter e David.Lo rivedo qualche anno dopo grazie alla passione di Bruno Garzena e di Benito Boldi, amici ed ex colleghi. John crea puntuali sensazioni inebrianti. Ci si diverte fra vecchie glorie e lui è sempre un monumento. La vita, a un certo punto, sembra voltargli la faccia. Gli sta sempre vicino Glenda, con disperata devozione. Finché irrompe il destino malevolo. E maligno. Glenda lo fissa negli occhi sempre più spenti e gli dà tanto amore.John è malato, John ha avuto un ictus. John è sempre più lontano dalla vita, dagli amici, dai tifosi, dall’Italia e dal suo Galles. È oramai lontano da tutto. A Milano tentano di riaccendere speranze. L’organismo è logoro, si avventano su di lui complicazioni fatali. A disarmonizzare il battito cardiaco e ad appannare la lucidità si insinua un morbo implacabile. Subisce perfino una mutilazione al piede destro. Tante persone gli sono accanto: Umberto Agnelli («È stato uno dei grandi nella storia della Juve, uno che si faceva amare in campo e fuori»), Boniperti, Leoncini, Castano, Benito Sarti, Emoli, Garzena, Bettega e, soprattutto, Boldi. E ovviamente la dirigenza bianconera. Perché torni a Leeds la Juve gli mette a disposizione un aereo ambulanza. E a Leeds viene a mancare all’affetto di Glenda e dei figli. È il 21 febbraio. Sono le cinque del mattino.Ora che attorno alla sua immagine solare si sono spenti i riflettori non mi resta che dire addio, con pianto silenzioso, al professionista impeccabile, all’omone mite dall’animo fanciullo adorato dai tifosi, stimato e rispettato dagli avversari. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/12/john-william-charles.html
  12. SERGEIJ ALEJNIKOV http://it.wikipedia.org/wiki/Sergeij_Alejnikov Sergej Alejnikov nasce a Minsk, in Bielorussia, il 7 novembre 1961. Arriva alla Juventus nell
  13. Gianluca Pessotto, ?Pessottino? per chi gli vuole bene. E sono in tanti che lo stimano e che gli vogliono bene. Venti anni di calcio, comincia a quattordici nelle giovanili del Milan; vive in collegio e la solitudine, il freddo, la nostalgia di tanti bambini che crescono cos?, con il loro sogno sotto il cuscino sono i suoi compagni di camera. Il sogno di una carriera normale che poi diventa grande: Varese, Massese, Bologna, Verona, il Toro in serie A, stagione 1994-95, due derby vinti contro Lippi che, infatti, lo vuole alla Juventus. Con la Juventus gioca 366 volte, vince sei scudetti e tutte le coppe, compresa la Champions League, nel 1996, contro l?Ajax ai rigori. Uno lo segna proprio lui come quell?altra volta, agli Europei 2000 in semifinale contro l?Olanda. ? la partita del ?cucchiaio? di Totti, ma un altro pallone lo mette in porta proprio ?Pessottino?, ancora una volta contro Van der Sar, suo futuro compagno bianconero. Ma la vita non ? tutta rosa e fiori. Si rompe il ginocchio nell?amichevole prima dei mondiali 2002: li avrebbe giocati da titolare, invece, sta fermo sette mesi. La sua carriera finisce con l?ennesimo scudetto, il ventinovesimo bianconero, quello pi? amaro. Diventa ?team manager?, prima di quel gesto difficile da spiegare, gesto che tutti vorrebbero dimenticare il pi? presto possibile. Lo chiamano il ?Professore?; ha l?aria dell?insegnante, quando inforca gli occhialini e si tuffa nella lettura di un libro. L?amore esasperato per la moglie e per le splendide figlie Federica e Benedetta. E poi il sorriso e la sua lealt?; come quella volta a Perugia. La Juventus sta perdendo lo scudetto; ultimi minuti, l?arbitro da una rimessa ai bianconeri ma lui dice che ? un errore e restituisce la palla all?avversario. Questo ? Gianluca Pessotto. Intervistato nel maggio 1999: Quando si fece fotografare, sul terrazzo di Milanello, accanto alla Coppa dei Campioni, appena conquistata dal Milan di Arrigo Sacchi, Gianluca Pessotto non immaginava che, in una magica notte di maggio, l?avrebbe alzata nel cielo di Roma, con addosso la maglia della Juventus, dopo aver battuto l?Ajax. Aveva diciotto anni e giocava nella ?Primavera? dei club milanista, dove era approdato quattordicenne, proveniente da Latisana. Era stato un trauma lasciare il suo Friuli, poco pi? che ragazzo. Lontano da casa sentiva la mancanza della famiglia, degli affetti pi? cari, degli amici d?infanzia. Ma stringeva i denti, faceva grossi sacrifici e studiava da perito aziendale e corrispondente in lingue estere, sognando di diventare un calciatore famoso, come i neo campioni d?Europa del Milan che, tra gli altri, allineavano Carletto Ancelotti. A quel tempo, Pessotto, aveva gi? imparato cosa significa vivere in un collegio aperto a tutti, lavare la propria biancheria intima e mangiare cibi scotti. Gianluca ricorda che, quella del Milan, fu una scuola di vita importante e, se uno resiste a certe prove, nulla pi? lo spaventa. Pane duro, dunque, prima di pasteggiare a caviale e champagne, si fa per dire, grazie al calcio miliardario. Dalla gestione Farina, il Milan pass? a quella di Berlusconi e la situazione, anche a livello giovanile, miglior? notevolmente sotto il profilo economico. Ma il forte difensore, che nella Juventus ha ereditato il ruolo che fu di Cabrini, non ? cambiato, neppure adesso che ha vinto quasi tutto ed ha giocato in Nazionale ai Mondiali di Francia del 1998. Pessotto, qual ? il rimpianto pi? grande ??? ?Quello di non aver continuato gli studi, come desideravo. Mi ero sposato con Reana, conosciuta a Varese quando ero in prestito nella squadra lombarda e stavo superando i test per l?ammissione alla facolt? di Psicologia, quando ? nata Federica, che ora ha tre anni. Mia figlia ha assorbito completamente le mie attenzioni, dopo l?incredibile ?full immersion? calcistica che ho fatto nella Juventus. Quando ? venuta al mondo, ero in ritiro per un mese e riuscivo a vederla con il contagocce. Allora ho capito che, nelle vesti di pap?, dovevo dedicarmi a lei ed a Reana. Per questo ho messo da parte i libri, il mio cruccio. Ed anche gli hobbies. Ma la famiglia ? molto pi? importante. Quand?ero giovane mi ? mancata parecchio?. Non ti chiameranno ?dottore? ma la laurea in calciofilia l?hai presa ??? ?Non ancora con lode, ma ho superato tanti esami e mi sono preso belle soddisfazioni. Quattro stagioni in bianconero mi hanno ripagato di una gavetta lunga e faticosa. Dai ragazzi del Milan al Varese, prima in C2 e poi in C1. Dal Varese alla Massese, ancora in C1 e, subito dopo, il passaggio di categoria, nel Bologna e nel Verona. Dalla B alla A con il Torino dove debuttai in prima squadra al ?Delle Alpi? contro l?Inter, nel settembre 1994. Vinsero i nerazzurri 2 a 0, ma fu un ottimo campionato. Vincemmo entrambi i derby ed avemmo la fortuna di essere l?unica squadra a battere due volte la Juventus?. Cosa ti ? rimasto del Toro ??? ?Non rinnego nulla. ? stata una stagione importante, anzi inventandomi terzino sinistro, Sonetti fece la mia fortuna. Io sono destro naturale, anche se scrivo con la sinistra. E c?? carenza di mancini che giocano in difesa. Lo stesso Maldini ? un destro che ha trovato la propria strada a sinistra. Naturalmente, Paolo ? il pi? grande. Un problema, quello del fluidificante di sinistra, che aveva pure quel Torino. E Sonetti trov? la soluzione, cambiandomi la posizione che era originariamente quella di mediano destro, anche se, saltuariamente, mi ero cimentato sul versante opposto. Un segno del destino?. E la Juventus, che aveva bisogno di un terzino sinistro, ti prese. Come ti tratt? la tifoseria granata dopo il tuo passaggio in bianconero ??? ?Con rispetto. E tra i torinisti ho conservato molti amici, quelli veri. Qualcuno mi ha ?abbandonato? perch? era legato solo alla divisa che indossavo, non all?uomo. Meglio cos?. Abito nella stessa casa di Maltagliati, un piano sotto di lui. ?Malta? non mi porta rancore anche se l?ultimo derby si concluse 5 a 0 per la Juventus. Ero in campo. Quella batosta cost? la panchina a Sonetti e, per il Toro, signific? l?inizio di una crisi che lo port? in serie B?. Quattro anni di ?matrimonio? con la Signora. Tutto bene ??? ?La Juventus ? il massimo. Tante le gioie. Poche, anche se bruciano ancora, le delusioni. Nel primo campionato ci piazzammo secondi, ma poi vincemmo la Champions League. Mi viene ancora la pelle d?oca se penso a quando ho tirato uno dei calci di rigore che ci diedero il trionfo. Era una Coppa cui la Societ? teneva moltissimo dopo quella dello stadio ?Heysel?, insanguinata e piena di polemiche?. Un salto in lungo quello che hai compiuto. Poi ? arrivato il tuo primo scudetto, insieme con Supercoppa Europea e Coppa Intercontinentale. ?Purtroppo mi infortunai al tendine d?Achille e dovetti dare forfait a Tokyo, un appuntamento con gli argentini del River Plate che ci tenevo tantissimo a non perdere. Partecipai comunque alla gioia dei miei compagni. Purtroppo, dietro l?angolo, per me, c?era stata la iella. Lo scudetto mi ripag?, con gli interessi, di quella amarezza e dell?altra, a Monaco di Baviera, nella finalissima persa con il Borussia Dortmund. Quella sera mi tocc? soffrire in panchina. Ma non la dimenticher? facilmente?. Il 1996 fu anche l?anno del tuo debutto in Nazionale, a Perugia contro la Georgia, nella partita decisa da un goal di Ravanelli, tuo ex compagno nella Juventus ed all?epoca in forza al Middlesbrough. Da allora hai avuto altri due C.T., Maldini e Zoff. Quali le differenze ??? ?Si tratta di tre persone completamente diverse. E Zoff sta a met? tra Sacchi e Maldini. Sacchi era un grande teorico, meticoloso che curava, anche troppo, i minimi dettagli, esercitando una forte pressione su noi giocatori. Maldini era l?opposto, ci lasciava ampi margini sull?interpretazione del canovaccio tattico. Zoff, invece, ? pi? attento alle sfumature, ma senza assillarci pi? di tanto?. Un Mondiale perso ai rigori, lascia il segno ??? ?Certo, come dimenticare ??? Ma bisogna avere l?onest? di riconoscere i meriti degli avversari. E la Francia, che rischi? di essere eliminata sul pallonetto di ?Roby? Baggio che poteva essere il ?golden goal?, aveva giocato meglio di noi e non a caso divenne poi campione del mondo. Di quella sfida con i francesi, ricordo che marcai Zidane, a uomo. Una mossa che molti giudicarono avventata da parte di Maldini sia perch? non potevo ?picchiare? Zizou, sia perch? non avevo il passo adatto. Zidane gioc? bene ma non segn?. Comunque mi ha fatto piacere che il titolo iridato ed il ?Pallone d?Oro? siano toccati a lui. Mi ? rimasta la soddisfazione di essere diventato titolare pur essendo entrato nel ?Club Italia? in punta di piedi. Dopo quella sfortunata avventura, sono tornato altre due volte in azzurro, titolare con la Spagna e uno spezzone con il Galles. Naturalmente spero di conservare la fiducia di Zoff e rimanere nel gruppo?. Torniamo alla Juuentus. Terzo anno, secondo scudetto, seconda finale di Champions League persa. ? stato meglio battere l?Inter di Ronaldo od arrendersi ai Real Madrid nella ?Arena? di Amsterdam ??? ?Il campionato ? sempre la competizione pi? affascinante. soprattutto per i tifosi. ? stato uno scudetto vinto, con pieno merito, tra le polemiche che, per?, non intaccano quanto di bello abbiamo fatto sul campo. Neanche il tempo di gioire, ed ecco che arriva la cocente delusione di Amsterdam. A differenza di Monaco di Baviera, dove eravamo piuttosto scarichi, con il Real Madrid la carica era molta, persino troppa. Forse ? stata proprio questa grande tensione ad impedirci di esprimerci al meglio?. Quanto ha contato Lippi nella tua crescita ??? ?In quattro stagioni ? impossibile che tutto fili liscio, ma ho sempre detto che, quanto ? successo negli ultimi due o tre mesi, non pu? cancellare il resto. Sarebbe un peccato buttare nel cestino le pagine scritte insieme con Lippi. E nessuno mi pu? tacciare di ruffianeria, visto che all?inizio entravo e uscivo e avrei potuto lamentarmi. Non l?ho fatto allora e non lo faccio adesso che non c?? pi??. Cos?? cambiato con Ancelotti ??? ?Ha aperto un nuovo corso, ha ridato alla squadra la serenit? che aveva perso, dicendo che il nostro ciclo non era chiuso. Ci sono ancora alti e bassi, ma lo spirito dello spogliatoio ? cambiato. Ha ridato spazio a Ventrone e si vedono i risultati. L?allenatore Ancelotti ? molto simile al giocatore: non va mai fuori dalle righe. Qualcuno gli muove l?appunto di essere troppo amico dei calciatori. Ma, in realt?, ? molto equilibrato e ci fa capire le sue intenzioni, le sue scelte?. Cosa leggi nel futuro di Pessotto ??? ?Ho un contratto lunghissimo, sino al 2003. Spesso leggo sui giornali che la Juventus ? alla ricerca di un esterno sinistro ma, fino a quando la Societ? non mi comunica altre decisioni, io non faccio nulla per andarmene. Qui sto bene, anche se all?estero potrei magari guadagnare di pi?, ma i soldi passano in secondo piano rispetto al fatto di giocare in una grande squadra come la Juventus?. Ti sono arrivate richieste da parte di Club italiani e stranieri ??? ?Dall?Inghilterra e dalla Spagna hanno manifestato interesse nei miei riguardi, ma la Juventus ha rinunciato ad avviare qualsiasi trattativa. Se dovesse cambiare idea, nessun problema. A quasi 29 anni, debbo valutare se fare un?altra esperienza e guardarmi intorno, oppure continuare a lottare insieme con la Juventus per conquistare i traguardi pi? importanti?.
×
×
  • Crea Nuovo...