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bidescu

Tifoso Juventus
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Tutti i contenuti di bidescu

  1. JOHN SAVAGE http://it.wikipedia.org/wiki/John_Savage_(calciatore) Forse il primo dei pionieri, certamente il più importante. Non più giovanissimo, nel 1896, con alcuni connazionali, si ritrova in Piazza dArmi, il sabato, per giocare a football, con un pallone originale, di vero cuoio. È già stato professionista per alcuni anni in Inghilterra, nelle file del Nottingham County e qui, naturalmente, spopola e fa scuola. Veloce, dotato di un buon dribbling, gioca a più riprese nella prima Juventus in camicia rosa, nel ruolo di mezzala sinistra. Nel 1903, insieme allamico Goodley, gli viene lidea di far venire dallInghilterra, ed in particolare da Nottingham, delle divise da gioco più moderne. Il fornitore, che ha in magazzino le maglie destinate al Nottingham County, spedisce quelle che sono a strisce verticali bianco e nere. Nasce, così, la leggenda juventina. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2009/08/john-savage.html
  2. Vittorio (Ciccio) Sentimenti con i fratelli Lucidio e Primo
  3. MARK IULIANO http://it.wikipedia.org/wiki/Mark_Iuliano Esordisce in serie B con la Salernitana, nella stagione 1990-91 ma non riesce ad evitare la retrocessione in serie C1. Lallenatore Giovanni Simonelli decide di lanciare, definitivamente, i giovani cresciuti nella società come De Palma, Grassadonia ed, appunto, Iuliano. I granata concludono la stagione settimo posto, ma Mark guadagna ugualmente la promozione, con il trasferimento al Bologna che milita in serie B. È un piccolo gioiello, ha venti anni tutti da spendere ed Eugenio Bersellini non ha dubbi quando deve fare scelte precise: 24 presenze portano alla ribalta questo giocatore duro, difficile da superare frontalmente e sulle parabole alte. Nella città felsinea gioca, a centrocampo, Gianluca Pessotto: si ritroveranno più tardi nella Juventus. Ma il Bologna non fa più tremare il mondo da tempo, al DallAra tremano solo i tifosi rossoblu, che vedono la squadra finire in serie C. Mentre la società rossoblu ricomincia da Gazzoni, Reja e Pecci, Iuliano passa al Monza, ancora in serie B. Nedo Sonetti, però, non riesce a fare miracoli: la formazione, pur presentando elementi interessanti come Artistico e Brambilla, scivola sempre più verso il fondo della classifica. Alla fine della stagione 1993-94, per Iuliano è nuovamente serie C. La Salernitana, che nel frattempo ha trovato un nuovo assetto tecnico con larrivo in panchina di Delio Rossi, richiama Mark, che deve recuperare anche una condizione fisica precaria rimediata a Bologna. Rossi ne fa il jolly della difesa che, per due anni, si regge sulla tempra fortissima di questo calciatore. Nel 1996-97 arriva la grande occasione: lo chiama la Juventus, che gli infila addosso la maglia numero tredici e lo fa volare verso lo scudetto, la Supercoppa Europea e la Coppa Intercontinentale. Dopo tante retrocessioni, Mark viene letteralmente scaraventato nel football mondiale. «Non dimenticherò mai il mio esordio juventino», racconta, «è avvenuto al Delle Alpi, contro il Manchester in Champions; lo stadio pieno, le maglie rosse dei Red devils, noi che vincevamo e loro che attaccavano per recuperare. Lippi mi dice di togliermi la tuta; le gambe mi tremavano, sarebbe sciocco non ammetterlo, ma poi, quando sono entrato in campo, tutto è passato ed ho cercato di dare il meglio, aiutato anche dal fatto che sono un tipo tranquillo. È stata una stagione straordinaria; vinciamo lo scudetto con un mio goal a Bergamo, vinciamo la Coppa Intercontinentale, la Supercoppa Europea. Peccato solo per la finale di Monaco; per me, è un ricordo bellissimo, considerato che lanno prima giocavo in serie B, ma anche bruttissimo, perché la partita andò molto male. Merito al Borussia, certo, ma sono convinto che, se giocassimo altre dieci volte quella partita, non la perderemmo più». Il 5 settembre 1998, Dino Zoff, commissario tecnico della Nazionale, lo fa esordire allo Anfield Stadium di Liverpool contro il Galles. Vincono gli azzurri per 0 a 2, con reti di Fuser e Vieri. Zoff inserisce Iuliano in una difesa a quattro, con Panucci che gioca nel Real Madrid, Cannavaro del Parma e Pessotto arrivato anchegli alla Juventus. Per i presunti bomber Blake e Hughes è una brutta giornata, non vedono palla. La concorrenza di Panucci, Nesta, Torricelli e dellanziano ma sempre valido Ferrara, costringe Mark a limitare i momenti di gloria. Zoff lo ripesca per lamichevole contro il Belgio (1 a 3) a Lecce ed, in pratica, gli consegna un ruolo di titolare sicuro per gli Europei del 2000. Nella sfortunata finale al Golden Goal contro la Francia, il 2 luglio, allo stadio Feyenoord di Rotterdam, timbra il cartellino dellundicesima presenza. Smaltita la delusione, si rituffa nel campionato; per la Juventus e per Mark, sono nuovi trionfi. Mark non è più titolare fisso, ma la sua parte la fa sempre, fino al 2005 quando, dopo aver indossato per ben 286 volte la maglia bianconera ed aver realizzato 7 reti, decide di emigrare in Spagna, al Mallorca di Cuper. «A Torino sono cresciuto e diventato uomo, grazie alla società ai tifosi ed ai miei compagni di squadra; i miei anni in maglia bianconera, durante i quali ho vinto tutto, saranno sempre i miei ricordi più belli. Dopo la Juventus non aveva senso giocare in Italia con unaltra maglia, non mi sembrava giusto e non avevo gli stimoli necessari; ho scelto la Spagna, lottando per la salvezza e riuscendo a conquistarla, dopo notevole difficoltà». Lavventura spagnola, per Mark, dura poco e lanno successivo si trasferisce a Genova, sponda Sampdoria; al termine della stagione 2005-06 scende in Sicilia, per vestire la maglia giallorossa del Messina. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/08/mark-iuliano.html
  4. ROBERTO TAVOLA http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Tavola Nato a Pescate, in provincia di Como, il 7 agosto 1957, Roberto cresce nell
  5. DOMENICO DURANTE https://it.wikipedia.org/wiki/Domenico_Durante
  6. VALERIO BONA http://it.wikipedia.org/wiki/Valerio_Bona Esistono due strade per arrivare al goal: la potenza e l
  7. DINO DA COSTA A ogni estate, con il tradizionale calciomercato, si verificano acquisti-boom e acquisti che passano in secondo piano, offuscati dai primi; quello che fece la Juventus nel giugno 1963, prelevando il già trentenne Da Costa dall’Atalanta, apparteneva sicuramente a quest’ultimo gruppo. Nel primo già c’erano nomi del calibro di Menichelli, Gori, Dell’Omodarme e Nené. Alla Juventus il problema del centravanti non è stato risolto certo con Miranda, che l’anno prima ha fatto sfracelli con memorabili legnate, ma non ha lasciato un grande segno. E così è arrivato Nenè, che centravanti non è, ma che quanto a tecnica garantisce assai più del predecessore. Da Costa, prelevato in extremis dall’Atalanta, rappresenta niente di più di un’alternativa alle punte; nessuno, infatti, pensa a lui come a un possibile titolare, tanto meno l’allenatore Amaral che, del resto, rimane al timone della squadra ben poco, rilevato dal serafico Monzeglio.L’esordio di Da Costa in maglia bianconera avviene nell’inedito ruolo di mediano di spinta, a Modena, nella gara persa di misura contro i Canarini. Per la Juventus è un brutto momento; le polemiche sono tante e Sivori, fresco capitano, spesso si rabbuia. Alla quinta giornata, Omar esce di squadra, squalificato, e Monzeglio lo rimpiazza con Da Costa. Dino, che è subito diventato uno dei beniamini dei tifosi bianconeri, per il suo impegno in partita come in allenamento, diventa vice Sivori proprio in occasione della partita contro la Roma, la formazione in cui egli aveva conosciuto i primi e più consistenti successi nel campionato italiano.È una gara puntigliosa quella che i bianconeri disputano il 20 ottobre 1963 e molta parte del netto successo sui capitolini va proprio a Da Costa, che realizza il primo dei tre goal a uno della Juventus. Riscoperta la sua vena di cannoniere, non gli riesce difficile essere confermato, o al posto di Sivori oppure a quello di Nenè o di Del Sol. La prima stagione juventina di Da Costa si chiude in lieve calando, complice una serie di incidenti che, in parecchie partite, pregiudicano la sua utilizzazione. Si deve accontentare di dodici presenze con tre reti all’attivo, una delle quali, ottenuta a spese della Sampdoria; esecuzione esemplare, con tanti contrasti vinti e una conclusione perentoria a fil di montante.Per la sua conferma in maglia bianconera, comunque, non ci sono problemi. Nella squadra che eredita Heriberto Herrera, non c’è più l’altalenante Nené e al suo posto è giunto Nestor Combin detto la folgore. Di Da Costa c’è più che mai bisogno, come nella partita di Catania persa malamente, in cui solo Dino si salva, con una prestazione maiuscola e il goal della bandiera; come la successiva gara interna con il Mantova, in cui Da Costa gioca al centro dell’attacco rimpiazzando l’infortunato Combin, subito a disagio con i ruvidi difensori del nostro campionato. La Juventus vince la partita ma perde Sivori, costola rotta e addio campionato per un bel po’; ora Dino diventa indispensabile e dalla squadra non esce più.Da Costa, nella Juventus heribertiana 1964-65, svolge mansioni di regista offensivo e, intanto, fa vedere che la classe è ancora integra, anche se non è più smaltata dalla grinta dei tempi di Roma. Da Costa applica alla lettera gli insegnamenti di Heriberto, che gli chiede prodezze nei sedici metri, ma anche tanto oscuro lavoro al servizio degli altri, per cercare di scardinare le difese avversarie, sempre più chiuse. Il tifoso che vede e capisce un tantino più in profondità delle mere apparenze, apprezza Da Costa come pochi altri. Arrivano anche goal importanti; derby di andata, è novembre inoltrato e nessuno delle torinesi ha già raggiunto un’apprezzabile condizione di forma, ma la Juventus azzecca la giornata buona e rifila un sonante 3-0 al Torino, nonostante la grandissima prova del portiere granata Lido Vieri. Il secondo dei tre goal è di Da Costa, ma anche sul terzo, lo zampino del nostro c’è e si fa sentire. Altro goal di un certo rilievo è quello segnato a Vicenza, nella vittoriosa trasferta di inizio 1965 (3-1), con gran botta dal limite. Non è per la Juventus un campionato esaltante, ma i tempi consentono poche speranze e bisogna accontentarsi. Giornata atipica è quella del 7-0 inflitto al Genoa, che pure schiera, all’attacco, un tipo strambo che è già stato e presto sarà di nuovo juventino, Gianfranco Zigoni. Uno dei sette goal inflitti al Grifone, stanco di Serie A, è proprio di Da Costa. Nel vittorioso epilogo casalingo del torneo, contro il Vicenza, Dino conclude degnamente la sua stagione in bianconero, realizzando la sesta rete personale in trentuno partite. Tutto sommato, è stato l’attaccante più regolare, ha fatto anche meglio di Combin; a trentatré anni è ancora utilissimo e, naturalmente, è confermato.«Faccio vita tranquilla, senza pretendere nulla di eccezionale – confessa Da Costa – so che devo avere cura del mio fisico, come facevo quando ancora ragazzino aspettavo che mi chiamassero in prima squadra, nel Botafogo. Poi un giorno l’allenatore mi disse di prepararmi. Era il secondo tempo dell’incontro con il Vasco de Gama. Mancavano venti minuti alla conclusione. Mi disse di entrare e presi il posto di mezzala. Avevo il cuore che mi batteva forte, forte; le gambe mi tremavano per l’emozione. Però quando sono rientrato negli spogliatoi l’allenatore disse che avevo fatto il mio dovere. Ecco che cosa mi è rimasto in mente da quel giorno, la parola dovere. Mi prendevano in giro, dicevano che alla mia età sarebbe stata presunzione sperare nel posto in prima squadra. Non mi facevo illusioni. Ero anche rassegnato al destino di guardare le partite dalla tribuna. Qualche volta soffrivo, perché c’era chi scherzava sui miei sogni. Avevo fiducia, convinto che un uomo che abbia volontà non è mai finito. Non sbagliavo. Con l’arrivo di Heriberto Herrera è cambiata la mia vita. Ho indossato la maglia bianconera ritrovando forza e volontà di combattere ogni domenica per la squadra e il pubblico. Non mi sento un campione. Non credo neppure che sia eccezionale quello che faccio. Mi sento bene, mi diverte giocare. Non c’è miracolo nella mia vita di atleta. Cerco di non agitarmi, mangio a ore fisse, passeggio quando posso e la sera, dopo aver guardato un po’ di televisione, vado a dormire. Mi circondo di cose semplici, non desidero cose impossibili, sono felice con mia moglie. Ho tutto, capisce? Non mi manca proprio niente».Chiaro che ripetersi su quei livelli di regolarità non è facile, a quell’età; infatti, accade che Heriberto, che intanto ha trovato in Cinesinho, detto Cina, il podista-regista per il suo “movimiento”, spesso accantona Da Costa, anteponendogli lo speranzoso Silvino Bercellino, detto Bercedue, o Traspedini. Al momento opportuno, Dino riesce ancora a rendersi utilissimo, realizzando una rete a Ferrara nella gara pareggiata 2-2 con la Spal e, soprattutto, segnando la rete della vittoria a Roma contro la Lazio, con magistrale colpo di tacco.La parentesi di Da Costa in bianconero si chiude qui; tre campionati e parecchi momenti da ricordare. Un posto nella galleria di bianconeri degli anni Sessanta gli spetta di diritto e non è necessariamente un posto di secondo piano.«Correre più del pallone – racconta Caminiti – amministrarlo con furore agonistico, battendosi fino allo stremo e, in realtà, Da Costa aumentò la sua credibilità tecnica, risultò pratico fiondante sprintato eclettico possessivo, il primo heribertiano in terra, da brasiliano infine superstizioso e amabile si prodigò con meraviglioso slancio». http://ilpalloneracconta.blogspot.nl/2012/08/dino-da-costa.html
  8. la seconda maglia del 1985-86 ? perfettamente uguale alle altre ... gialla con il colletto blu ... stessa cosa per il 1987-88 ... la maglia rosa ? stata utilizzata solamente nella partita contro l'Avellino, per festeggiare il compleanno ...
  9. mah ... sinceramente quella maglia non l'ho mai vista ... pu? darsi che fosse la terza ma, a quei tempi, non si usava quasi mai la terza maglia ...
  10. questa ? la maglia di riserva del campionato 1991-92: http://img25.imageshack.us/img25/522/reuterp.jpg
  11. EDGAR DAVIDS http://it.wikipedia.org/wiki/Edgar_Davids Nasce a Paramaribo in Suriname, il 13 marzo 1973. Appena diciottenne debutta nel campionato olandese, indossando la mitica maglia dellAjax. Con i Lancieri, dal 1991 al 1996 la sua carriera è una linea di successi personali; Edgar è giocatore potente, selvaggio, sempre pronto a ringhiare contro tutti gli avversari. Van Gaal, il suo maestro olandese, gli regala il nomignolo di Pittbull: il personaggio è astioso, scorbutico ed irascibile, ma è un grande campione. Se ne accorge il Milan, che alla vigilia del campionato 1996/97, lo ingaggia, convinto di avere fatto un grosso affare. Limpatto con Milano e con la stampa sportiva non è dei più facili. «Quando arrivò in sede», scrissero, «dietro un paio di occhialoni scuri che non si tolse mai, emerse quel ghigno pietrificato e provocatorio che non si sarebbe più tolto e che avrebbe urtato tutti in casa Milan. Ci furono poche domande e, già allora, nessuna risposta». I cronisti gli voltano le spalle. I giornali si occupano di Davids più per le notti nelle discoteche e le scazzottate per strada che non per le imprese sul campo. Del resto gioca poco, appena 15 presenze nel primo anno con la maglia rossonera. Le cose si complicano nel febbraio del 1997 quando, in un violento scontro con il portiere Bucci subisce la frattura di tibia e perone. I difetti di Edgar, che sono atroci, emergono in maniera ancora più vistosa. Ma la rabbia è anche la sua forza: in soli sei mesi supera il grave infortunio lavorando duro in palestra, solitario e silenzioso, e si presenta agli allenamenti con una rabbia tale da stupire tutti. Capello, che cerca di ridare una reputazione alla squadra rossonera che non se la sta passando benissimo, conosce alla perfezione il talento e la grinta dellolandese, ma è preoccupato della sua pericolosa influenza sullo spogliatoio. Quando i dirigenti gli dicono che la Juventus è interessata allacquisto del giocatore, non si oppone al trasferimento. A Torino sono convinti di poterlo recuperare e di cambiargli quel carattere che non si sposa certo con lo stile Juventus. Moggi e Lippi non hanno dubbi: Davids è luomo giusto, il giocatore che può far volare la squadra. A Milano, intanto, fanno festa. «Ci siamo tolti una bella grana», dicono; così, nel dicembre del 1997, Edgar arriva a Torino. Dopo le feste di fine anno, inizia la sua fulgida ascesa: è davvero un pittbull, i bianconeri vincono scudetto e Supercoppa Italiana. Tanto per la cronaca, il Milan arriva decimo. «Ho scelto la Juventus», dice allatto della presentazione, «perché negli ultimi quattro anni è stata la società che ha vinto più di tutti: in Italia, Europa e nel Mondo. Il sogno di ogni calciatore, il paradiso calcistico. Ho raggiunto il massimo: adesso spetta a me non sperperare questa fortuna». Alla fine del campionato, Davids vola in Francia, per disputare i Campionati Mondiali. LOlanda e la Croazia sono le autentiche rivelazioni e si troveranno a disputare la finalina per il terzo posto. Edgar è eletto uno dei migliori giocatori del torneo. Il ritorno nel campionato italiano, però, è molto diverso; la Juventus stenta, la squadra non è più brillante come prima, tanto è vero che il suo condottiero, Marcello Lippi, da le dimissioni a metà stagione. Al suo posto arriva Ancelotti ed il feeling con il Pittbull è immediato, ma la squadra perde lo spareggio per la Coppa Uefa. La stagione 1999/2000 termina in modo deludente, nella piscina di Perugia ed ancora più deludente sarà il Campionato Europeo, disputato proprio in Olanda, nel quale la squadra dei mulini a vento, perde la semifinale ai rigori contro lItalia. Davids è considerato il migliore giocatore del torneo ed uno dei più forti giocatori del mondo, ma non è sufficiente. Ma la stagione successiva sarà ancora peggiore. Edgar soffre di un glaucoma agli occhi e, per giocare, è costretto ad indossare un paio di occhialini. Al termine di una partita allo stadio Friuli contro lUdinese, Davids è trovato positivo allantidoping; si parla di nandrolone; il giocatore si difende, la società corre ai ripari, sostenendo che il giocatore ha dovuto prendere della medicine contro la malattia agli occhi. Il presidente Chiusano cerca di smontare le accuse pezzo per pezzo, ma come sia finito il nandrolone nella provetta di Davids, nessuno sa spiegarlo; fatto sta che Edgar viene squalificato per cinque mesi. Terminata la squalifica, Edgar ritrova Lippi, ma la Juventus non ingrana; Zidane non cè più, al suo posto cè Pavel Nedved e proprio con il ceco nascono i primi problemi. Pavel ha la tendenza, come Edgar, di giocare sulla fascia sinistra; considerato che anche Del Piero ama iniziare la propria azione da quella parte, nascono grossi problemi tattici e di convivenza. Lippi, con un colpo di genio, risolve la situazione: Del Piero viene spostato più avanti, di fianco a Trézéguet, a Nedved viene data la licenza di vagare per il campo a suo piacimento e Davids ritrova, dincanto, la fascia sinistra e lo smalto dei giorni migliori. La Juventus vince uno scudetto rocambolesco ai danni dellInter, bissando la vittoria anche la stagione successiva, dovendosi però ancora una volta inchinare alla maledizione della Champions League, perduta ai rigori contro il Milan. La stagione 2003/04 nasce sotto cattivi auspici; cominciando a dubitare delle sue qualità fisiche, la società ingaggia il ghanese Appiah, ritenuto il logico sostituto di Davids. In più, il suo contratto sta per scadere ed Edgar chiede un sostanziale aumento di stipendio; Moggi non è per niente daccordo ed il giocatore si impunta. Lippi, ritenendo il giocatore a fine carriera, lo schiera con il contagocce ed il Pittbull decide di fare le valigie. I tifosi juventini sono perplessi; per loro, Edgar è un idolo, in lui vedono quella voglia di combattere e di non mollare mai che è il marchio di fabbrica della Juventus. Ad inizio 2004, Davids vola a Barcellona, sponda blaugrana, dove ritrova tanti amici di vecchie battaglie, a cominciare dallallenatore Rijkaard. Limpatto è devastante; con lingaggio di Edgar, il Barça comincia a volare ed a rosicchiare punti su punti alla lepre Valencia. Alla fine della stagione, il Barcellona arriva secondo, ma Edgar non è ancora soddisfatto; vuole prendersi la rivincita su Moggi e viene allettato dalle sirene interiste. Un errore gravissimo; Edgar non scende quasi mai in campo, totalizza una quindicina di presenze, diventando una sorta di oggetto misterioso. Mancini lo lascia marcire in tribuna e non si oppone alla volontà del giocatore di andarsene. Alla fine del campionato 2004/05, Davids ha di nuovo le valigie pronte, destinazione Londra, sponda Tottenham; nonostante le poche presenze, riesce a portare gli Spurs al quinto posto, ad un solo punto dalla qualificazione per la Champions. Nellinverno del 2006, fa ritorno allAjax; con i Lancieri vince la Coppa olandese, realizzando il rigore decisivo. Nella Juventus totalizza 235 presenze e 10 reti, tre scudetti vinti e laccesso diretto nel Gotha dei migliori giocatori bianconeri di tutti i tempi. «Con la Juventus ho imparato a vincere. Non so come è successo, è qualcosa che si respira nell'aria dello spogliatoio, sono concetti che vengono tramandati da giocatore in giocatore, è il sentimento che ti trasmettono milioni di tifosi e non c'è club nel mondo che ti faccia lo stesso effetto». IL RITRATTO DI SIMONE SALVEMINI, DA I NOSTRI CAMPIONI: Davids non è mai stato un giocatore simpatico, non ricordo sue memorabili interviste, né grandi sorrisi. Ma tutto ciò non era necessario: Pitbull è stato un atleta senza fronzoli, specchio di quella Juve muscolare che non mollava mai, neanche nei minuti di recupero. Gambe salde, cuore e nervi dacciaio: la Juventus di Lippi. Se provo ad immaginarlo, lo vedo lì in mezzo al campo con le treccine raccolte ed il grugno del duro, un po ingentilito dagli occhialoni tecnici, necessari dopo lintervento per un glaucoma, che macina chilometri e sradica palloni dai piedi degli avversari. I suoi tackle scivolati, sempre al limite del regolamento, sono entrati nella storia del calcio. Le sue risse, sempre e solo frutto della trance agonistica, lo caricavano di unulteriore energia da sfogare sul campo. Un calciatore vero, che nei contrasti non ha mai tirato via la gamba, quasi a costo di infortunarsi, spinto dal suo furore di olandese del Suriname ed animato da una volontà non comune che in bianconero lo ha fatto diventare uno dei centrocampista più forti del calcio moderno. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/03/edgar-davids.html
  12. DINO ZOFF «È stato unico come portiere – scrive il sommo Vladimiro Caminiti – per la sobrietà dello stile non privo di un suo fascino misterioso, segreto, che risaltava in certe partite all’estero, ad esempio in Inghilterra, al forcing martellante cross su cross dei fondisti inglesi, il suo spazzare l’area di rigore con uscite monumentali per tempismo e autorevolezza atletica. Ma più di tutto ha avuto, come portiere, mente e fisico corrispondenti come nella massima di Giovanale (“mens sana in corpore sano”) da cui questo suo rendimento inattaccabile, e le sue mani sempre intatte (un solo infortunio fisico in una carriera interminabile), e la sua strategica sapienza nell’interpretare il ruolo su se stesso, fuori da ogni tradizione. Nessun campione di calcio somiglia a Zoff nell’asprezza contenuta del carattere, così poco facondo e così fecondo di risolutive intuizioni. Il suo sodalizio con Scirea è bellissimo sul piano umano; Boniperti se ne ricorderà il giorno che lo promuove allenatore. per affiancarglielo. Poi, Scirea muore tragicamente e Zoff rifiuta qualsiasi altro secondo». L’estate del 1972 è importante soprattutto per l’arrivo alla Juventus di un giocatore e di un uomo eccezionale: Dino Zoff; ha appena compiuto trent'anni, l’età nella quale altri calciatori sono vecchi, ma per lui, è il momento migliore della carriera. Napoli, che aveva adottato Dino, lo vede partire a malincuore. Attila Sallustro, gran centravanti degli anni d’oro ed allora direttore dello stadio San Paolo gli dice al momento del saluto: «Ho visto tanti campioni in maglia azzurra, ma tu sei il migliore. Non solo fra i pali, ma sempre, dall’allenamento allo spogliatoio». La gente bianconera lo ama subito: Dino in porta è una sicurezza ed una guida per la difesa, fuori dal campo è un ragazzone misurato che parla poco ed al momento giusto, in allenamento è una belva (è il suo segreto, le partitelle come e più della partita in fatto di impegno e di concentrazione). Forte tra i pali (più piazzamento che voli, ma anche questi quando occorre), sicuro nelle uscite, attento e rapido nei rilanci, sempre presente nel match, anche se la palla è lontana dalla sua zona. Tra maglie bianconere ed azzurre, Dino Zoff inizia a trent’anni la parte più bella e gloriosa della sua carriera. Gli è mancata, e come l’avrebbe meritata, solo la Coppa dei Campioni. Si ritira il 2 giugno 1983, in bellezza, ancora integro ma capace di dire basta da solo.: «Sono arrivato che c’erano Causio, Haller, Bettega. La velocità insieme alla fantasia, la classe mescolata al dinamismo. Dopo arrivò gente come Benetti e Boninsegna, che aumentò forza fisica ed esperienza del gruppo. Ma quella prima Juventus mi è rimasta nel cuore». Nato a Mariano del Friuli (Gorizia) il 28 febbraio 1942. Comincia a giocare nella Marianese, a sedici anni passa all’Udinese con la quale esordisce in serie A il 24 settembre 1961 (Fiorentina-Udinese 5-2). Bilancio in campionato: 74 partite in serie B (Mantova e Udinese), 570 in serie A (Udinese 4, Mantova 92, Napoli 143 e Juventus 331). Bilancio in Nazionale: esordio il 20 aprile 1968 a Napoli (Italia-Bulgaria 2-0), ultima partita il 29 maggio 1983 a Goteborg (Svezia-Italia 2-0). 112 presenze in Nazionale, secondo solamente a Paolo Maldini. Quattro campionati del mondo: Messico 1970, Germania 1974, Argentina 1978, Spagna 1982. Campione del mondo 1982. Campione d’Europa 1968. Sei scudetti nella Juventus (1973, 1975, 1977, 1978, 1981, 1982). Una Coppa Italia, Juventus 1979. Una Coppa Uefa, Juventus 1977. Record di presenze in serie A, 570. Record di presenze consecutive in A, 330 (2 nel Napoli e 328 nella Juventus). Primati di imbattibilità: 903 minuti nella Juventus, 1143 in Nazionale. Mai espulso e mai squalificato. Lasciamo al racconto del portiere stesso il ritratto di Dino Zoff fra i pali. Fra le tante cose da lui dette a mezza voce, questa è una spiegazione che rivela tante cose. Perché è stato così forte, nella Juventus ed in azzurro: «Si dice che è il tiro sbagliato il più pericoloso, ed è vero. Ma è altrettanto vero che ci sono giocatori portati a far goal, ed allora anche se il loro tiro è pulito dritto, vanno a segno lo stesso. Prendiamo Gigi Riva: non faceva cose strane, non cercava astuzie o pallonetti, sparava con quel suo sinistro e faceva centro. Così da parte del portiere è logico si facciano delle valutazioni. Io ho sempre il massimo rispetto di tutti gli avversari, ma mi sembra giusto temere più uno che l’altro a seconda delle caratteristiche. Questo senza che si arrivi a dualismi, a guerre personali. Certo, si individua per così dire il nemico più pericoloso già alla vigilia, ben sapendo che magari il goal poi te lo fa un altro. Arriva un terzino, ti piazza una botta nel sette dal limite dell’area e sei fritto. Certamente la concentrazione del portiere aumenta quando la palla arriva fra i piedi del cannoniere avversario. Sai che è molto improbabile che lui cerchi il cross o il passaggio, sai che tenterà il goal direttamente nell’80/90% delle situazioni. Non tutto è puro ragionamento, comunque, nel lavoro di un portiere. Prendiamo la scelta fra la presa e la respinta a pugno come conclusione dell’uscita su una palla alta. Io per principio parto sempre con la convinzione di dover bloccare questo benedetto pallone, ma a volte la situazione che si presenta nel momento decisivo è tale da farmi cambiare idea. Questione di attimi, come nella vita». Per Giovanni Trapattoni, il suo ultimo allenatore: «Dino è uno dei calciatori più seri che abbia conosciuto, con una fiducia assoluta nell’equazione “lavoro uguale risultati”. È stato abituato da sempre a contare solo su se stesso, sulle sue capacità di sacrificio. Gli dicevo spesso di prendersi qualche pausa salutare. Non ne voleva sapere, è un magnifico esempio di passione sportiva vera, anche disinteressata. Difficile trovargli un difetto, anche a volerlo. Non certo nel gioco.. Al massimo lo si può accusare di non saper sfruttare sino in fondo il personaggio che si è costruito con anni di sacrifici. È un uomo con il suo mondo privato, come è giusto sia. La famiglia, la casa, hanno grande importanza per Dino. Su molti compagni, comunque, il suo ascendente era forte. Quando prima della gara, in settimana od addirittura la vigilia, si parlava del prossimo impegno, si analizzavano le qualità dell’avversario, i punti forti o gli eventuali lati che pensavamo deboli, Zoff partecipava ed entrava volentieri nei particolari tecnico-tattici. Come affrontare una punizione, come aspettare il corner, specie se nell’incontro precedente c’era stata qualche sfasatura. Un giocatore eccezionale, insomma. Due o tre con il suo carattere, oltre che con la sua bravura, e non ci sarebbero davvero problemi per qualsiasi squadra». La Juventus gli offre la panchina, nell’estate del 1988; Dino accetta, e porta con sé, nell’avventura, l’amico Gaetano Scirea. Sembra la felicità, ma il destino è una bestia feroce che sta in agguato; si porta via Scirea in un dannato incidente stradale, in Polonia, e Zoff si sente all’improvviso un po’ più solo. «Mi manca molto l’appoggio di un amico vero come Gaetano Scirea. Mi sento più povero. E mi fa arrabbiare il fatto che abbia ricevuto i giusti onori solo dopo la morte. Prima era stato dimenticato. Il fatto è che in questo mondo il buono, il corretto, l’uomo vero è banale». E dopo un anno e mezzo di Juventus, capisce di aver già fatto il suo tempo; non c’è bisogno di troppe parole, per spiegare i cambi di ritmo a uno come lui. Del resto, alla Juventus l’aveva voluto Boniperti, mentre l’Avvocato si era invaghito del nuovo verbo zonaiolo del profeta Maifredi. Zoff prende atto e non fa polemiche quando Maifredi viene annunciato ufficialmente a metà della stagione 1989/90. «Il mio allontanamento dalla panchina della Juventus fu la conseguenza di un radicale cambiamento societario. Non fu una decisione improvvisa, conoscevamo tutti i nuovi indirizzi della dirigenza. E non mi sono mai sentito una vittima di quella situazione». C’è una stagione da chiudere, Zoff chiama a raccolta la squadra che gli si stringe intorno e consegna alla bacheca juventina, prima di fare le valigie, una Coppa Italia ed una Coppa Uefa. Se ne va alla Lazio, tra i rimpianti dei tifosi bianconeri. “HURRÀ JUVENTUS” LUGLIO-AGOSTO 1983 Rispetto la decisione di Zoff solo perché l’ha presa lui. So quanto gli è costata, so che avrebbe voluto chiudere diversamente la carriera. In un campetto di provincia, in una squadra piccola, ma in Italia non si può. Mi sembra che la storia di un calciatore, del capitano dell’Italia vincente, sia amaramente esemplare e meriti qualche considerazione, al di là della stima e del “grazie” che vanno ad un vero sportivo. Zoff ha preferito un taglio netto ad un lungo sfilacciamento, a pressioni sempre più pesanti. Perfino nella fredda Svezia qualche cretino ha fatto dello spirito con uno striscione che paragonava Zoff ad un fantasma: in Italia, paese notoriamente caldo, si è andati giù più pesanti. Zoff paga il fatto di avere quarantuno anni, di essere il portiere della Juve e della Nazionale e di non essere un personaggio. In questi giorni, un portiere di quanrantuno anni, Boranga, è stato determinante per la promozione in C1 del Foligno: segno che, a certi livelli, il “vecchio” funziona, diciamolo sottovoce. In un’Italia incline a beccarsi tutte le malattie infantili, compresi il finto giovanilismo ed il protagonismo d’accatto, Dino Zoff era un bersaglio ideale. Eraldo Pizzo in piscina, Raimondo D’Inzeo a cavallo, Miro Panizza in bici: quanti violini, quanto amore, quanto caramello per questi grandi vecchi. Nel nostro calcio, invece, basta aver pochi capelli e si è fregati anche da giovani (sto alludendo a Scanziani): figuriamoci se hai quanrantuno anni, cos’aspetti a toglierti dalle palle? E così Zoff scende dalla giostra. Ci aveva già pensato, dopo il Mundial, ma perché rinunciare alla Coppa dei Campioni? Il tiro di Magath non era parabile, ecco un altro bel processo. Qui i processi si fanno specialmente a quelli che non li meritano, e l’irrisione è più gratuita e volgare nei confronti di chi lavora seriamente. Un goal, si può parare o beccare: i primi a saperlo sono i portieri. Ovviamente, per un razzismo calcistico assai diffuso, un attaccante può sbagliare goal facilissimi e tutto si dimentica, mentre Zoff da anni ha le orecchie che fischiano per Haan, da mesi per Cuttone. «Io sono un operaio specializzato che cerca di timbrare tutti i giorni il cartellino», mi aveva detto qualche anno fa. Undici campionati giocati di fila, mai un raffreddore, un infortunio: di questa resistenza e continuità andava fiero, non dei record d’imbattibilità o degli scudetti, da dividere con altri. E in tutti questi dieci, venti anni ad alto livello, mai una polemica con un collega, una cattiveria, una frase ad effetto, ma un esempio di cavalleria sportiva, innata, non posticcia. Ha fatto notizia per essere finito sulla copertina di “Time”: sommo provincialismo. Capisco che per un uomo come lui, nato in Friuli, che è profondo nord, non sia divertente girare l’Italia raccogliendo berci ed insulti, manco rubasse il pane agli orfani. Ma spero ci ripensi, è giusto andare fino in fondo alla strada dei propri desideri. E ricordi: meglio “vecchi” che stupidi, meglio operai che pataccari, meglio tacere alla sua maniera che parlare senza aver nulla da dire. Con affetto lo saluto in modo non definitivo, nella sua lingua. Ciao, ragazzino.Gianni MuraSi può azzardare questa classifica dei portieri italiani: 1. Zoff, 2. Moro, 3. Olivieri, 4. Ghezzi, 5. Albertosi, 6. Giuliano Sarti, 7. Sentimenti IV, 8. Combi. Perché metto Zoff al primo posto, in questa passerella di campionissimi? Perché è quello che è durato più a lungo ed a livelli sempre altissimi. È un riconoscimento che si merita, perché se lo è guadagnato in tanti anni di fatica.Piero DardanelloMeritava un altro addio. Non questo: forzato, amaro, malinconico, rattristato da due sconfitte irrimediabili e conclusive. Meritava di andarsene sul campo, la coppa in mano, le bandiere al vento. Ma in fondo non conta il modo in cui ci si congeda. Nulla addolcisce lo strazio di dire basta. Basta ad una vita di avventure; basta al brivido di entrare in campo sotto un tuono di urla; basta al sorriso della gente che ti guarda ammirata ed intimidita; basta alla gioia di sentirsi forte e giovane; basta a quelle lunghe vigilie darmi; basta alla tensione che ti rende vivo; basta al tuo nome gridato forte; basta al piacere di una nuova impresa; basta agli scherzi con i compagni; basta alla fatica serena degli allenamenti; basta alle mille piccole e grandi cose che ti han riempito la vita e che oggi te la lasciano improvvisamente vuota.Se ne va Zoff; un congedo di cui si parla da tempo: eppure nel momento in cui diventa reale ti accorgi di quanto se ne vada con lui. Non solo un lungo, felice pezzo di storia calcistica; non solo la memoria di tanti trionfi; non solo quell’immagine consegnata alla leggenda delle sue mani che stringono la Coppa del Mondo; non solo il campione più longevo, fedele, ferreo del campionato e della Nazionale. Zoff è stato di più. Più di un fuoriclasse da inserire nel ristretto Olimpo dei campioni di ogni tempo e di ogni Paese. Più del portiere che meglio ha identificato la rocciosa sicurezza, la forza morale, la solitudine di questo ruolo folle e romantico. Zoff è stato un punto di riferimento esemplare nel campo e fuori di esso; un leader naturale, un trascinatore senza parole: come se il suo silenzio fosse più galvanizzante di mille discorsi, la sua inalterabile saldezza infondesse più fiducia di qualsiasi proclama. Un uomo così forte, sereno, giusto da poter attraversare questo mondo passionale, isterico, fazioso, pettegolo, turbolento del calcio senza lasciarsene coinvolgere mai. Né polemiche, né sgarbi, né alcune delle mille piccole e grandi miserie di cui son fitti i giornali. Ben pochi hanno interpretato come lui la fondamentale essenza dello sport, la sua etica, la sua dignità, la sua bellezza. Questo ha reso Zoff unico nella sua grandezza; resto senso di forza e d’integrità morale cui ci si aggrappa come ad un baluardo, un esempio, una prova di quali livelli educativi e sociali possa raggiungere lo sport. Nel dire addio a questo John Wayne del calcio, a questo sceriffo senza macchia, a questo predicatore taciturno, sappiamo come si avvertirà (fra tanti strepiti) l’assenza del suo maestoso silenzio.Giorgio TosattiÈ stato sicuramente più grande di Combi, non soltanto per continuità di rendimento e longevità, ma anche perché ha raggiunto risultati migliori. Lo metterei, in una ipotetica classifica, subito dopo Aldo Olivieri, Campione del Mondo con l’Italia nel 1938 e Carletto Ceresoli. Abbiamo avuto un grande genio nel ruolo ed è stato Moro, ma era genio ed anche sregolatezza, niente a che vedere con la costanza e la linearità do Zoff. Albertosi? Per carità, aveva un sacco di lacune. Zoff ha chiuso con un acuto, a Goteborg ha tolto tre palle goal. Ha fatto bene a ritirarsi dopo quel capolavoro, perché in genere le carriere dei grandi si chiudono sempre con un rimpianto. Quella di Zoff è finita bene, anche lui avrà i suoi rimpianti, come li abbiamo tutti noi, ma ci lasci con il ricordo di un acuto degno di lui.Gianni BreraLa Juve ha avuto i due più grandi portieri della storie del nostro calcio. Negli anni trenta, c’era Combi, il più professionista fra i dilettanti di allora, uno che non ha mai giocato al calcio per guadagnare, essendo di estrazione borghese e negli anni Settanta, Zoff, il professionista più dilettante che io abbia mai conosciuto. Se la classe è anche una questione di longevità, allora è giusto dire che Zoff è stato più grande persino di Combi, dunque il miglior portiere italiano di sempre. Combi si è ritirato abbastanza presto ed è giusto ammettere che anche il calcio di allora era un’altra cosa, lo spirito perfezionamento e la grande serietà hanno condotto Zoff ad essere il migliore. Ma nei primi cinque, dietro Zoff e Combi, metterei senza un ordine preciso, Olivieri, Sentimenti IV e Ceresoli.Giglio PanzaÈ finito su un francobollo, è passato per la copertina di “Newsweek” come capita ai divi, ai premi Nobel ed ai grandi del nostro pianeta, ha vinto a quaranta anni un titolo mondiale, ha battuto record di bravura e di durata, è uno degli italiani più popolari nel mondo con Pertini, Agnelli e Ferrari. E adesso Dino Zoff, friulano indistruttibile, gran commendatore del nostro sport, campione di due generazioni, ci saluta con uno dei suoi amabili mugugni: «Cari amici, io ho chiuso, grazie di tutto». Forse avrebbe preferito congedarsi con uno dei suoi abituali silenzi. Ma non era possibile. La notizia era nell’aria sin dallo scorso aprile. Nell’animo di Zoff essa venne concepita a Bucarest, nella triste giornata del virtuale addio azzurro all’Europa. Dino si lasciò scappare un sussurro. Ed all’indomani i giornali di mezzo mondo lo registrarono. In Brasile quel sottile preludio all’addio di Zoff fu presentato come la notizia del giorno, dopo una delle tante stragi di Beirut. Il Brasile, in effetti, resta l’ultimo sfondo sontuoso della leggenda del nostro portiere. Fu Zoff, con una incredibile parata, a negare il goal del pareggio, sul campo di Barcellona, a quegli stupendi funamboli che sembravano predestinati al trionfo mondiale ed invece se ne tornarono a casa scornati e distrutti. Quel fuggevole fotogramma della scorsa estate rimane la pietra miliare di una storia che è stato bello vivere e sarà altrettanto suggestivo raccontare. Ci siamo accorti già da un pezzo (forse dal giorno in cui Zoff festeggiò in campo i suoi quaranta anni) che questo friulano timido ed introverso, pieno di pudori e di silenzi, con una vita ed una carriera senza svolte, senza pettegolezzi e senza clamori, è il personaggio più solido e convincente del nostro calcio a livello mondiale. Campioni più fascinosi, più eleganti, più controversi ed anche più bravi di lui sono fioriti e tramontati sotto gli occhi di Zoff. Decine di portieri che gli sono stati alle spalle hanno visto sfumare le loro speranze di successione. E, rassegnati, hanno finito con l’ammirarlo. Si direbbe che il nostro Dino abbia esplorato (come pochissimi altri campioni) una nuova fisiologia atletico sportiva, consegnando al mondo un esempio che non potrà essere cancellato. Ed oggi, al tirar delle somme, all’ultimo atto sempre venato da una certa tristezza, ci sembra perfettamente naturale che questo saluto a Zoff sia un rito che non appartiene soltanto a noi ma s’incrocia dal Sud America alla Russia, dall’Inghilterra alla Cina, dalla Germania all’Australia. È il mondo, insomma, che festeggia il nostro campione interpretandone una vicenda dove valori umani, tecnici, atletici e professionali felicemente convivono. Limitarsi a valutare il campione sarebbe, in effetti, limitativo. Dalla straordinaria carriera di Zoff emergono soprattutto luminosi valori morali: trionfi vissuti in umiltà, brucianti sconfitte smaltite con la ricerca silenziosa e tenace di una rivincita. Dopo l’Argentina sembrava seppellito, in Spagna è diventato Campione del Mondo. Zoff è stato serio e coerente con sé stesso sino in fondo. In un mondo in cui un personaggio di grande impatto popolare può commerciare persino la propria intimità, anche la notizia dell’addio di Zoff avrebbe avuto un prezzo. Dino l’ha maturata in sé stesso, poi ha dato un appuntamento a tutti quanti fossero interessati a sapere quale sarebbe stato il suo futuro. Ed ieri ha detto quel che doveva dire, in tutta tranquillità, con il solito terrore per l’enfasi e per la retorica. Tra le tante doti, ne va sottolineata una, la più semplice, quella che ci porta alle radici del personaggio: una persona seria. Non è il caso, mi sembra, di moltiplicare le parole. Dino se ne offenderebbe. Limitiamoci a offrirgli un “grazie” grande quanto la sua carriera che ci sfuma davanti, forse al momento giusto, prima che certi meravigliosi ricordi possano invecchiare.Candido Cannavò NICOLA CALZARETTA, “GS” MARZO 2012 Dino Zoff un monumento della fiducia popolare. La pennellata, in un vecchio servizio in bianco e nero, è di Beppe Viola. C’è tutto Zoff nella definizione: monumento, perché grandissima è stata la sua carriera, dall’esordio nel 1961 all’addio a quarantuno anni dopo aver toccato la luna, ma solo perché «non posso parare anche il tempo», come disse annunciando il ritiro. Fiducia, perché lui c’era sempre. E Nando Martellini finiva sempre con la stessa, tranquillizzante frase: «Parata di Zoff».Popolare perché il suo nome e cognome (Dinozoff, tutto attaccato) alzi la mano chi non lo conosce. Ha unito Nord e Sud giocando per il Napoli e la Juve, ma soprattutto perché è stato il portiere della Nazionale Campione d’Europa nel 1968 ed il capitano dell’Italia Mundial quattordici anni dopo, quando diventò un francobollo. Il 28 febbraio compirà settant’anni. Un traguardo speciale, un’occasione per parlare di sé, forse come mai era successo prima d’ora. Lo fa seduto su uno dei divani del salotto del Circolo Canottieri Aniene, sul Lungotevere romano. Sorridente e confidenziale. Ma allora non è vero che lei è una sfinge? «Questa è l’impressione che davo, sembravo freddo e distaccato. In realtà alla base del mio atteggiamento, oltre ad un naturale equilibrio, c’era molto pudore. Apparivo poco socievole e capisco di non essere stato molto “giornalistico”».Però per il “Guerin Sportivo” lei ebbe un’intuizione notevole: «Non mi piaceva che anche il “Guerino” stesse dietro alle polemiche. Una sera a cena, dopo una partita con la Nazionale a Mosca nel 1975, proposi ad Italo Cucci di puntare sulla cronaca sportiva e sulle fotografie, come faceva “Il calcio illustrato”».In sintonia con il suo stile di vero sportivo: «Lo sport è una cosa meravigliosa, con le sue regole, i suoi valori. Si vince e si perde ed il risultato va accettato. Per me è sempre stata una cosa seria: mi sono allenato al massimo, spingendo a tavoletta tutti i giorni, con il segreto di migliorami, anche a quarant’anni».Cosa le piaceva di più? «L’allenamento. Era una cosa bellissima, mi divertivo. Anche a sfottere i compagni. Quando non riuscivano a farmi goal, li prendevo in giro con il verso del granchio. Gli ultimi annidi carriera sono stati i migliori: cominci ad apprendere veramente il lavoro. Da questo punto di vista mi sono sempre sentito un dilettante pagato bene. Ho lavorato tanto, per il piacere di farlo».Così tanto che per le sue riserve non c’è mai stato spazio: «Un po’ mi dispiaceva, ma non mi sono mai sentito in colpa. Le gerarchie erano chiare. E d’altronde lo sport è questo. Gioca chi merita, chi è il migliore. Io, poi, facevo di tutto per non mancare».Anche quando non stava bene? «Non ero condizionabile dal male. Anzi, il dolore per me era un fattore positivo perché significava aumentare la concentrazione, dote fondamentale per un portiere. Poi ci sono state anche situazioni limite: al Napoli (dodicesimo era Cuman, ndr) giocai addirittura con una mano incrinata».E successo anche alla Juventus, vista la collezione di panchine di Piloni, Alessandrelli e Bodini? «Ma qualche volta hanno giocato, magari a fine stagione o in Coppa Italia. A proposito di Alessandrelli, fu lui a suggerirmi dove buttarmi la sera del 15 marzo 1978, nei quarti di finale di Coppa dei Campioni finita ai calci di rigore. Ne parai due».Ma intanto in campo c’era sempre lei! «Volevo esserci. Diciamo che qualche volta c’è stato qualche accordo segreto con Trapattoni. Quando avevo qualche problema andavo dal Trap e gli dicevo: “Ho male”. E lui: “Te la senti comunque di giocare?”. Ed io: “Me la sento”. La cosa rimaneva tra noi. Era un modo per condividere una situazione, non certo per scaricare le responsabilità. Quelle me le sono sempre prese senza sconti».Severo con sé stesso? «Severissimo. Ero presuntuoso, orgoglioso, anche un po’ vanitoso e dunque alla ricerca della perfezione. Per questo mi sono sentito sempre responsabile, in tutto o in parte, delle situazioni che si creavano in campo. Per questo non volevo saltare mai una gara».Se è per questo alla Juve c’è riuscito benissimo, undici anni senza mai una sosta. Quando è iniziata la serie infinita? «Quando ero ancora al Napoli. La prima delle 332 partite consecutive ha preso il via con la penultima giornata del campionato 1971-72, dopo il rientro dall’infortunio al perone».Cosa era successo? «Mi ero fratturato la gamba durante un “torello” in allenamento: quella volta la mia solita voglia di fare senza risparmiarmi mi giocò un brutto scherzo. Potevo rompermi soltanto da solo».Come è stata la sua esperienza al Napoli? «Molto positiva. Anche dal punto di vista umano: c’è stata una fusione straordinaria tra il pudore friulano e l’apertura partenopea. Se non fosse stato per la società, quella squadra avrebbe potuto fare grandi cose. Essere andato al Napoli è stata una fortuna».Eppure lei nel 1967 pareva destinato al Milan: «Tra Mantova e Milan c’era un accordo verbale. All’improvviso saltò tutto in aria. Nell’ultimo giorno di mercato, il Napoli fece l’offerta. Addirittura di notte fu fatto aprire un ufficio postale per consentire la spedizione dei documenti in tempo utile».Affare rocambolesco, al pari del suo esordio con la nuova maglia in amichevole al San Paolo: «Ero militare a Bologna. Non avevano fatto in tempo ad inserirmi nella compagnia atleti di Roma. Sistemate le ultime cose, presi la mia auto e mi misi alla guida per Napoli».Che macchina era? «Una Giulia GT Ho sempre avuto la passione per le auto. Da ragazzo ho lavorato in officina tra pistoni e carburatori. A Mantova avevo una 850 Abarth, mentre prima viaggiavo su una 500 modificata».Torniamo al viaggio verso il Sud con la Giulia: «Feci tutta una tirata. Rimasi sempre lucido e concentrato. Arrivai allo stadio un’ora prima della partita. Era un’amichevole estiva contro l’Independiente, ma era la prima uscita con il Napoli, non potevo steccare. E poi, dovevo abituarmi alle nuove usanze».Quali? «Salutare il pubblico. Me l’aveva detto Pesaola. Quando entri in campo, devi andare sotto la curva. Un po’ la timidezza, un po’ il fatto che quella cosa mi sembrava una ruffianata, dissi: “Non ce la faccio”. Le prime volte fu davvero faticoso, alzavo a malapena la mano. Con il tempo è diventata una bella abitudine».Come era quel Napoli? «Buonissima squadra. Zoff, Nardin, Pogliana; Stenti, Panzanato, Bianchi o Girardo; Orlando, Juliano, Altafini, Sivori e Barison. C’erano anche Canè e Montefusco. Quell’anno arrivammo secondi dietro al Milan. Era un Napoli bello e spettacolare. Là davanti c’erano dei pezzi da novanta, con il grandissimo Sivori».Ma è vero che era ancora arrabbiato con lei per quello scontro in un Juve-Mantova in cui gli ruppe un paio di costole? (sorride) «È vero, ma il motivo era un altro. Un giorno mi disse: “Non ti perdonerà mai: mi hai fatto portare fuori dal campo in braccio da Heriberto Herrera!”»A Napoli arriva il debutto in Nazionale, 20 aprile 1968, Italia-Bulgaria 2-0: «Fu una bella coincidenza esordire proprio a Napoli. Così come fu fantastica la serata della monetina, contro la Russia. Semifinale dell’Europeo, il San Paolo era una bolgia. Il pubblico ci sostenne sino alla fine».Poi arrivò la doppia finale con la Jugoslavia per il primo storico trionfo continentale: «La Jugoslavia era forte, il loro numero undici, Dzajic, era un fuoriclasse. La prima fu sofferta, e finì in pareggio. Nella ripetizione, cambiammo mezza squadra. Andò bene: Burgnich poteva sbagliare una partita, non due».Quali sono i flash di quel 10 giugno 1968? «L’1-0 di Riva, il raddoppio di Anastasi. Non ci crederai, ma al goal mi aggrappai alla traversa e ciondolai come una scimmia, pensa te. E poi le fiaccole accese alla fine della partita: la prima grande coreografia di massa che abbia mai visto».Lei è Campione d’Europa, ma ai Mondiali 1970 gioca Albertosi, perché? «Perché era il portiere del Cagliari che aveva vinto lo scudetto e che aveva mezza squadra in Nazionale. Io giocai tutte le partite di qualificazione ai Mondiali e dopo la penultima amichevole (Italia-Spagna finita 2-2, con due autogol di Salvadore) mi fecero fuori».Livello di rodimento? «Altissimo. Ero incazzato. E scaricavo la rabbia durante gli allenamenti. Ci rimise Bobo Gori che, almeno in due occasioni, fu vittima dell’esuberanza. Ma lo sport è anche questo, sono cose che vanno accettate. Con Albertosi c’era rivalità, non correva buon sangue, anche perché eravamo all’opposto su tutto».Anche nella scelta delle divise, vero? «Per me la divisa vera del portiere è nera, con le maniche lunghe. In Nazionale ho sempre giocato con il grigio. Albertosi era più appariscente. Io, comunque sia, l’apprezzavo, era il portiere esuberante, spaccone».E che non parava con i piedi, come faceva qualcun altro: «Quante volte l’ho dovuta sentire. Paravo anche con i piedi perché coprivo di più. Ero un portiere completo, ma il mio punto di forza erano le uscite basse. Anticipavo l’azione e tuffandomi riuscivo a coprire più spazio. E poteva venir fuori la parata con i piedi».Dicevano anche che volava poco: «Perché il volo, tante volte, copre un errore di piazzamento. Io sentivo naturalmente la porta, la vedevo, ovunque mi trovassi. E spesso riuscivo a capire un attimo prima. Per questo non c’era bisogno del tuffo plateale e la parata sembrava facile».E intanto torna la maglia numero uno della Nazionale ed arriva la chiamata della Juventus. «Mi è dispiaciuto lasciare Napoli, Io dico con sincerità. La verità è che la società aveva bisogno di soldi».Il matrimonio con la Juve era annunciato: «Erano almeno due anni che mi cercavano. Ricordo un episodio durante la prima stagione con l’Udinese. Giocammo a Torino, ma la Juve aveva una divisa nera, come la mia. Il portiere juventino Vavassori, che quella domenica era fuori, mi prestò la sua. Tolsero lo scudetto e giocai per la prima volta con la divisa della Juve».La prima immagine del suo arrivo a Torino? «Il sentirsi in famiglia, visto che c’erano molti compagni di Nazionale. Tra i tanti mi viene in mente Francesco Morini, uno che aveva sempre voglia di scherzare. Una volta mi fece un autogol e, mentre il pallone mi superava, mi faceva: “Chiappala, chiappala”: era il tormentone di Max Vinella, uno dei personaggi della trasmissione “Alto Gradimento” di Renzo Arbore».Si aspettava una prima stagione a Torino così ricca di eventi tra primati e scudetto? «Alla Juve non mi sono posto limiti. Avevo trent’anni ed una gran voglia di vincere. Riguardo al record di imbattibilità (903 minuti, superato dopo ventuno anni, ndr), non ho mai lavorato per quello».Belgrado 1973, la Coppa Campioni sfuggita all’ultima curva: «Non eravamo preparati in campo internazionale, ci mancavano esperienza e personalità. Di là c’era l’Ajax di Cruijff nel pieno boom. Peccato, perché con la Coppa in tasca avrei potuto vincere il Pallone d’Oro, visto che quell’anno arrivai secondo».Merito anche delle prodezze a Wembley: «La prima vittoria dell’Italia in Inghilterra. Giocai una delle più belle partite di sempre. Gli inglesi ti cacciavano dentro l’area ed il portiere non è che fosse molto protetto dagli arbitri. Tiravano da tutte le parti ed il pallone bianco, marca Mitre, era simile a quelli moderni: leggero, all’apparenza sgonfio, con traiettorie da decifrare. Quella sera fu l’apoteosi del calcio italiano».E per lei arrivò anche la copertina di “Newsweek”: «Fece clamore la mia imbattibilità in campo internazionale. All’estero ero più considerato rispetto all’Italia».Con la Juve 1976-77 lei ha messo insieme Italia ed Europa: «Fu una stagione eccezionale. Il primo ricordo è per la Coppa Uefa vinta a Bilbao. Gli ultimi quindici minuti furono di vera battaglia. Quattro giorni dopo arrivò anche lo scudetto record dopo un derby durato tutto il campionato con il Torino del mio amico Castellini».Eravate amici? «Si, nonostante la rivalità cittadina. Fu lui che mi procurò il primo paio di guanti moderni. Li fece venire apposta dalla Germania. Prima di allora si giocava con i guanti del 1938, quelli con la gomma delle racchette da ping pong sul palmo. Meglio le mani nude».Contro chi era meglio avere i guanti? «Contro Paolo Pulici. Al Comunale, di fronte al proprio pubblico, si trasformava. Una volta riuscì a fregarmi con un pallonetto in corsa, da più di venti metri».I famosi tiri da lontano che lei non vedeva: (ride) «Eccola l’altra storia. Di diottrie parlò Gianni Brera dopo Argentina 1978. Molto onestamente ai Mondiali non ebbi un gran rendimento. Ma a parte casi eccezionali, nel calcio non esistono tiri imparabili. Sui famigerati quattro gol presi da lontano, sicuramente avrei potuto fare meglio, e dunque le critiche erano giustificate. Ma si travalicò il limite e per sei mesi non parlai più con nessuno. Ma la cosa peggiore è che certe etichette non te le togli più. Vedi il goal di Magath».Già, Atene 1983: perché? «Per tutti era diventata una formalità, quella finale con l’Amburgo. Noi eravamo fortissimi: la Juve più grande in cui ho giocato. Sicuramente i favoriti, ma eravamo mentalmente scarichi e fuori giri. Fu un disastro».Lasciamo Atene e spostiamo le lancette indietro di un anno: estate 1982: «Una gioia così violenta non l’avevo mai provata. È impossibile da descrivere. Solo lo sport riesce a dare questi scossoni».Perché l’Italia ha vinto il Mundial? «Perché aveva un uomo che si è preso tutte le responsabilità, anche non sue: Enzo Bearzot. E poi perché era forte, rapida, attaccava con cinque, sei giocatori davanti la porta, altro che contropiede! Quella era una squadra che aveva la straordinaria capacità di condurre l’azione con una velocità e qualità di gioco eccezionali».Che non poteva fare a meno di Paolo Rossi: «Era indispensabile per la sua rapidità di pensiero ed il suo tempismo. Era veramente in crisi all’inizio. Però non hai mai mollato, trovando appoggio nel gruppo e, soprattutto, in Bearzot. E contro il Brasile è risorto».A proposito di Brasile: se le dico Oscar? «Rispondo: una parata complicata, perché era l’ultimo minuto e perché ho bloccato la palla sulla linea. Sono stati secondi di terrore, già una volta in Romania mi dettero goal per un pallone che non era entrato. Andò bene, anche se devo dire che la parata più importante la feci sul 2-1, uscendo a terra su Cerezo».Dopo il fischio finale è scattata la festa. Ci racconta cosa è successo tra lei e Bearzot? «Gli ho dato un bacio sulla guancia. Una cosa francamente straordinaria, dettata dall’euforia, dall’immensa gioia. Un gesto bello, spontaneo. Autentico».Cosa ha significato sconfiggere i brasiliani? «È stata la partita della svolta. Dopo la vittoria con il Brasile ciascuno di noi ha avuto la convinzione che avremmo vinto la coppa. Nessuno ha mai detto nulla. Era una certezza intima, non espressa con le parole».Cosa rimane dopo aver vinto un Mondiale? «La gioia pura, quella dei bambini. E poi Sandro Pertini. La partita a carte sull’aereo presidenziale ha azzerato ogni distanza. Quando ci invitò a pranzo al Quirinale fu eccezionale. Disse: “Voglio Bearzot alla mia destra e Zoff alla mia sinistra. Poi tutta la squadra. I ministri se trovano posto, bene. Sennò vadano pure da un’altra parte”. Unico».Spostiamo nuovamente le lancette del tempo e torniamo al 1983. Si chiude la sua carriera: «Avrei potuto anche andare avanti, stavo bene. Ma dissi basta. Certo: Atene aveva inciso non poco».E la fascia di capitano alla Juve passò a Scirea: «Quello di Scirea è un capitolo doloroso per me. Pensa che la notizia della morte ce l’ha data un casellante dell’autostrada a Torino. Tornavamo dalla partita contro il Verona con il pullman, ci fermammo a mangiare in un ristorante. Poi ripartimmo senza sapere nulla. Gaetano era un uomo dallo stile autentico. Mi manca molto, soprattutto per la sua serenità. Me lo sono chiesto tante volte come faceva a essere sempre così sereno».Siamo in chiusura. C’è lo spazio per un bilancio forale di una vita di sport: «Il bilancio è positivo. Non ci sono delusioni o rimpianti. La mia filosofia è questa: se una cosa non l’ho fatta è perché in quel momento non potevo farla. O perché non me l’hanno fatta fare». da "Il pallone racconta" di Stefano Bedeschi. http://ilpalloneracconta.blogspot.nl/2008/02/dino-zoff.html
  13. ALESSANDRO BIRINDELLI http://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Birindelli Alessandro Birindelli nasce a Pisa, il 12 novembre 1974. Inizia a giocare a calcio all
  14. VINICIO VERZA http://it.wikipedia.org/wiki/Vinicio_Verza Nato a Boara Pisani (Padova) il 1
  15. GIANPIETRO MARCHETTI http://it.wikipedia.org/wiki/Gianpietro_Marchetti
  16. FEDERICO MUNERATI http://it.wikipedia.org/wiki/Federico_Munerati «Munerati, di nome Federico, uno altone, con una bella faccia ariosa, che si aiutava ad essere bello, con una capigliatura frenetica, tutti quei capelli neri a riccioli. Proprio per questo era soprannominato Ricciolo». Così, Vladimiro Caminiti, descrisse una delle più forti ali che la Juventus abbia mai avuto. A quei tempi, le ali giocavano entrambe avanti, ed il loro compito principale era quello di effettuare traversoni per i piedi o per la testa del centrattacco. Se il cross arrivava da sinistra, lala destra si proiettava incontro al pallone per incornarlo in rete e viceversa. Munerati sapeva fare in modo ottimale entrambe le cose, perché era un giocatore, velocissimo ed opportunista, con eccezionali doti di palleggiatore che gli permisero di vestire per nove anni la maglia bianconera, collezionando 254 presenze e realizzando ben 114 goals. Era nato a La Spezia e, proprio nelle file della squadra locale, aveva iniziato la carriera di calciatore; passò ben presto al Novara, squadra che a quei tempi, recitava un ruolo di primo piano nelle competizioni nazionali. Quando Mune venne acquistato dalla Juventus, aveva solamente 22 anni. Era un entusiasta, un volitivo, sempre in vena combinare degli scherzi ai compagni, anche in campo era sempre allegro. Nella prima stagione juventina, Munerati fu schierato nel ruolo di mezzala per far posto al velocissimo Grabbi, che era abile sulla fascia laterale destra. Munerati era un eclettico e seppe cavarsela molto bene giocando anche qualche partita come centrattacco. Fu l'allenatore Karoly, grande maestro di gioco e profondo conoscitore dei propri uomini, a schierare definitivamente Federico all'ala destra, portando il piccolo e robusto Torriani all'estrema sinistra, per far posto all'ungherese Hirzer nel ruolo di mezzala. Ricciolo fu la prima pietra di quel favoloso attacco bianconero che sarebbe diventato, nel giro di qualche anno, devastante e che avrebbe permesso alla squadra bianconera di vincere cinque scudetti consecutivi. Dopo aver vinto con la Juventus il suo primo scudetto al termine della stagione 1925-26, Munerati dovette aspettare quattro anni prima di riassaporare le gioie del trionfo; vinse, infatti, il suo secondo scudetto nel 1930-31, il terzo ed il quarto nelle successive stagioni, dividendo l'onore ed il merito di giocare all'ala destra con Ministrinho Sernagiotto, il brasiliano del Club Palestra Italia che i dirigenti juventini avevano ingaggiato per sostituirlo. Oltre ai quattro scudetti, Federico può vantare anche sei maglie azzurre, quattro in Nazionale A e due in Nazionale B. L'esordio con la maglia azzurra avvenne a Stoccolma il 18 luglio 1926 e fu Augusto Rangone a selezionare lattaccante juventino per lamichevole contro la Svezia, che vinse lincontro per 5 a 3. Meglio andarono le cose nella seconda partita, quella giocata a Bologna il 26 maggio 1927 contro la Spagna: vinsero gli azzurri con il punteggio di 2 a 0. A Praga il 23 ottobre di quello stesso anno, la Nazionale italiana ottenne un lusinghiero pareggio (2 a 2) contro la fortissima rappresentativa boema. Fu la gara dello storico confronto tra il nostro centromediano Bernardini ed il biondo capitano dei cechi, il famoso Kada. Due reti segnò Libonatti, due Svoboda, la seconda su calcio di rigore. A Bologna, infine, contro lAustria, lItalia fu costretta a cedere con il minimo scarto (1 a 0), ma anche in quella partita, come nelle tre precedenti, Munerati seppe fornire un grande saggio delle sue eccellenti qualità tecniche ed atletiche, risultando sempre fra i migliori in campo. Il popolare Ricciolo fu anche allenatore della Juventus per due stagioni, 1940-41 e 1941-42. È deceduto nel 1980, lasciando un grande rimpianto in quanti lo avevano conosciuto ed apprezzato, sia come giocatore sia, soprattutto, come uomo. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/09/federico-munerati.html
  17. FABIÁN O'NEILL http://it.wikipedia.org/wiki/Fabián_O'Neill Di pari passo con Carini, un altro uruguagio appare allorizzonte bianconero allo scoccare del terzo millennio. Il suo nome è Fabian ONeill; nasce il 14 ottobre 1973 a Paso de los Toros. «Ho cominciato inseguendo un pallone di stoffa nella campagna uruguagia, dove sono cresciuto. Poi, sono entrato a far parte del Defensor, la squadra dilettantistica del mio paese, Paso de Los Toros, oltre trecento chilometri da Montevideo. A quindici anni ho lasciato il Defensor, per entrare nelle giovanili del Nacional. Allora, giocavo centravanti ed avevo una voglia matta di arrivare. Quattro anni dopo, vinco lo scudetto con il Nacional ed a ventuno anni ho debuttato in Nazionale, contro Israele». Centrocampista di grinta e fisico Fabian arriva a Cagliari nel novembre del 1995 ed esordisce in serie A il 26 novembre dello stesso anno, contro il Napoli. Con la maglia rossoblu, gioca cinque campionati, segnando dodici goals. La Juventus ancelottiana lo prende pensando ad una alternativa a Zidane in caso di necessità, visto che Zizou, nelle annate precedenti, ha dovuto fare i conti con parecchi infortuni. Ma il francese è di una continuità inaudita e lascia a Fabian giusto le briciole. Né le cose migliorano sensibilmente lanno successivo, nonostante non abbia più Zidane davanti a lui. Lippi lo schiera come vice-Davids, in attesa che lolandese sconti la squalifica per il nandrolone. Fabian non convince e, dopo solo due anni, lascia la Juventus con un bilancio di 14 presenze in campionato ed una mezza dozzina nelle coppe. ONeill era davvero un grande talento; piedi finissimi, fisico da stopper, grinta da mediano, lancio alla Suarez. Peccato gli mancasse una cosa fondamentale per un calciatore: la testa. Probabili problemi personali, dicono avesse preso la strada dellalcol ed, a certi livelli, se non fai vita da professionista, se finisci le nottate ubriaco sul bancone di un bar, hai vita brevissima. Infortuni a catena e scarso rendimento, obbligarono la società bianconera a non confermarlo. Peccato, perchè sarebbe stato un potenziale grandissimo regista alla Pirlo, tanto per intenderci; davanti alla difesa avrebbe potuto esprimere al meglio le sue caratteristiche ed il suo innato talento. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/10/fabian-oneill.html
  18. MASSIMO BONINI http://it.wikipedia.org/wiki/Massimo_Bonini Al termine della trionfale stagione del ventiduesimo scudetto, Boniperti lo ha definito:
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