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bidescu

Tifoso Juventus
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  1. non ti preoccupare, era inevitabile !!! ...
  2. ALBERTO PICCININI http://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Piccinini
  3. MORENO TORRICELLI http://it.wikipedia.org/wiki/Moreno_Torricelli Moreno Torricelli nasce ad Erba (CO) il 23 gennaio 1970. La sua storia ha dellincredibile; si può dire che interpreta la fiaba di Cenerentola ambientata nel mondo del calcio. Torricelli, infatti, lavora come magazziniere in una fabbrica di mobili della Brianza ma grazie, ad un amichevole disputata dalla Juventus nel luglio del 1992 contro la squadra nella quale milita per hobby, la Caratese (campionato nazionale dilettanti), la sua vita cambia. «Dai quindici ai ventidue anni ho lavorato fino alle sei del pomeriggio. Fare il falegname non mi dispiaceva, così come essere un calciatore solo per divertimento e qualche spicciolo. Avevo già allora una volontà di ferro. Ero uno dei quelli che appena finito il turno preparava la borsa e volava al campo sportivo per lallenamento. Fino a tardi, almeno tre volte a settimana. Sacrifici che oggi ricordo con grande piacere. Sarebbe stato bello farli anche se non fossi arrivato in serie A. In origine ero un libero. Staccato, si diceva quando la marcatura era solo a uomo. Ho giocato così nei primi anni a Oggiono. Poi nel 1990 andai a Carate Brianza, dove arrivò un allenatore, Antonelli, che portò idee nuove. Il Sacchi dei campionati minori. Ci fece giocare in linea e mi spostò a giocare sulla fascia. Mi ha inventato come terzino, sono stato bravo ad adattarmi». Giovanni Trapattoni, impressionato dalla carica agonistica e dalla grinta del giocatore lo convoca in prova nel ritiro precampionato bianconero e convince la Juventus ad acquistarlo per pochi milioni di Lire. «Allimprovviso è spuntata la Juventus e fino allultimo non ci ho creduto. Mi seguivano due società; avrei potuto andare alla Pro Vercelli, ho fatto un provino per il Verona, infine sembravo destinato al Lecce. Poi è arrivata la grande occasione, due amichevoli con la Juventus che aveva bisogno di prestiti per le gare di Vicenza ed Ancona. La favola è cominciata lì. Con la Juventus, mica una squadra qualsiasi». Non fatica molto a diventare titolare fisso della squadra che in quella stagione si aggiudica la Coppa Uefa, battendo in finale i tedeschi del Borussia Dortmund. «Probabilmente non ho avuto nemmeno il tempo di rendermene conto che giocavo con la Juventus, mi sono subito sentito a mio agio. Ora mi sembra tutto normale, grazie allaiuto dei miei compagni che, sin dal primo giorno, si sono comportati con me come se fossi uno di loro». Giocatore volitivo e dalla grande grinta, Torricelli occupa indifferentemente tutti i ruoli della difesa juventina, anche se preferisce giocare sulla fascia destra. Proprio per la sua generosità, per la sua voglia si lottare e per la sua determinazione, diventa immediatamente lidolo dei tifosi juventini. Dal Trap si passa a Lippi, ma la musica non cambia; Moreno è sempre titolare fisso della squadra bianconera. Le due stagioni migliori per Torricelli sono la 1994/95 e la 1995/96. Conquista lo scudetto, la Coppa Italia, la Champions League, la Coppa Intercontinentale, la Supercoppa europea e la Supercoppa Italiana, disputando partite memorabili per intensità e grinta. Da incorniciare è la finale contro lAjax, nella quale sfiora il goal dopo una corsa di cinquanta metri verso la porta avversaria e viene eletto miglior giocatore in campo. Naturalmente, arriva anche la convocazione in Nazionale con la quale disputa 10 partite, partecipando al Campionato Europeo inglese. «La stagione del primo scudetto è stata unica, memorabile; siamo partiti senza i favori del pronostico poi, strada facendo, arrivano le vittorie. Un pomeriggio, allo stadio Tardini, prima di Parma - Juventus, Luca Vialli si mise a strillare: Ragazzi, il treno passa una sola volta, non facciamolo scappare. Detto e fatto; battemmo i rivali emiliani per 3-1 e ci avviammo trionfalmente verso il titolo. Secondo me, quella è stata la partita della nostra svolta». Nelle stagioni 1996/97 e 1997/98 Geppetto è ancora protagonista ed è determinante per la conquista due scudetti. Nellestate del 1998, dopo 230 partite e 3 goal in maglia bianconera, chiede ed ottiene di essere ceduto alla Fiorentina, dove ad allenare la squadra cè proprio Giovanni Trapattoni, luomo che lo aveva scoperto sei anni prima. Moreno lo ringrazia con una ottima stagione che termina con la conquista da parte della squadra viola del terzo posto in campionato e con laccesso ai preliminari di Champions League. Disputerà ancora tre stagioni con i viola, fino allestate del 2002, anno del fallimento economico della società. Nel gennaio 2003 si trasferisce in Spagna, nellEspañol, dove disputa due stagioni. Torna in Italia nel novembre 2004 giocando nelle file dellArezzo, nel campionato di Serie B. INTERVISTATO DAL G.S. DEL FEBBRAIO 2010: Cosa ricordi del primo incontro con Luciano Moggi alla Juventus? «Cambiava unepoca. DallAvvocato si passava al Dottor Umberto. Da una dirigenza a gestione familiare ad una più fredda e tecnica. Da Boniperti a Giraudo e Moggi. Non fu un passaggio indolore. Della vecchia gestione rimase solo il magazziniere. Per stare al passo con il Milan era lunica strada da percorrere. E Moggi rappresentava il top, comprese le voci maligne». Voci legittime? «Di sicuro è che se la Juve voleva tornare a vincere, Moggi, per lesperienza e le capacità, era il dirigente più adatto per costruire qualcosa di importante». Tu come hai vissuto il passaggio? «Non cera più Francesco Morini come team manager, non cera più Boniperti. Erano stati ceduti anche diversi compagni. Eppoi andò via Trapattoni, al quale ero molto legato. È stato grazie a lui che sono arrivato alla Juve direttamente dallInterregionale». Allepoca si parlò di favola: è giusto dipingerla così? «Lincredibile sta nel salto mortale da una categoria dilettantistica alla società più titolata dItalia nel giro di pochissimo tempo. Fin qui può anche essere una favola. Però cerano delle basi importanti, altrimenti non avrei retto il colpo. E questa è tutta realtà». Che ricordi conservi? «Non ho dimenticato niente, come potrei? Era il 1992. La Juve doveva giocare alcune amichevoli di fine stagione ed io fui aggregato alla squadra come prestito. In quel periodo ero seguito da alcune società di C, insomma qualcosa si sarebbe mosso. Giocai bene, credo che Trapattoni abbia apprezzato la mia grinta, la determinazione, la fame che avevo. E così per lanno dopo chiese alla società di acquistarmi». Il primo ingaggio a quanto ammontava? «80 milioni, più i premi. Ma la cifra la mise Boniperti perché io firmai in bianco. Andai in sede con il mio procuratore, ma il presidente non lo fece neanche entrare». È vero che come prima cosa ordinasti una Lancia Thema? (ride) «Verissimo, daltronde ero senza macchina. La Bmw che mi ero comprato con tutti i risparmi che avevo, mi era stata rubata. Senza auto e senza denari, approfittai degli sconti Fiat. Mi è andata bene». Quanto ha inciso Trapattoni nella tua riuscita? «È stato determinante. Con me ha rischiato grosso. Non è da tutti puntare su un giovane che viene dai Dilettanti. Il nostro era un rapporto speciale, ci parlavamo in dialetto. E non sai quante volte sono rimasto a fine allenamento con lui per migliorare la tecnica». Dal Trap a Lippi. «Non fu un passaggio indolore. Inizialmente è stata durissima. Dico subito che Lippi è il miglior allenatore che ho avuto, il più completo. Però quando arrivò le distanze tra di noi erano notevoli. Dovevamo capirci, conoscerci, ma non è stato semplice. Al punto che stavo quasi per andare alla Roma». Davvero? «Un giorno durante la solita chiacchierata prima dellallenamento, il Mister mi attacca davanti a tutti. Per me, un fulmine a ciel sereno. Ci fu un battibecco tra me e lui. Incredibile. Dalla rabbia, mi vennero le lacrime agli occhi». Motivo? «Non cerano motivi specifici. Io avevo alle spalle due campionati tra i professionisti. Voleva qualcosa di più da me. Di sicuro non gli piaceva che io fumassi. Lì per lì lho odiato: perché attaccarmi di fronte ai compagni? Con il tempo ho capito che era il suo modo per spronare i giocatori, per tenerli sulla corda. Tutto in funzione del gruppo». A volte questa del gruppo sembra una storiella un po artificiosa. «Niente affatto. Per Lippi il gruppo è il fulcro di tutto, basta vedere quello che è successo ai Mondiali. La Juventus è stata per lui la prima grande occasione. Il rischio era grosso pure per lui ed aveva bisogno che la squadra lo aiutasse». Chiese a Vialli di rimanere. «Luca era giù di corda. Lippi seppe ricaricarlo e rinacque. Vialli in allenamento era un rompiballe incredibile. Guai a sbagliare un passaggio: voleva il pallone preciso dove indicava lui. Ma in partita era il primo a darti una mano. Finiva unazione dattacco ed era già vicino a noi difensori per aiutarci. Un vero leader, anche fuori dal campo. Quello che non è stato Baggio». In che senso? «Roby era uno tranquillo. Io credo che, per il grande giocatore che era, avrebbe potuto dare di più in termini di personalità, anche coi dirigenti. Per dirti: Vialli era uno che se avevi un problema se ne faceva carico con la società». Lippi quando svoltò davvero? «Dopo la sconfitta per 2-0 a Foggia, parlò al gruppo senza mezzi termini. Disse che si era stufato di vedere la squadra che rinculava e subiva. Se proprio dobbiamo rischiare, disse, allora andiamo avanti. Da lì nacque lidea del tridente. Fu la scossa vincente». Con Del Piero sempre più spesso in campo al posto di Baggio. «Ma al di là dei singoli, la forza di quella Juve era nella voglia di sacrificarsi per arrivare alla vittoria. Vedere quei tre davanti che non si fermavamo mai, dava a tutti noi una carica eccezionale». Merito della cura Ventrone? «Mamma mia. Al confronto gli allenamenti con Trapattoni erano passeggiate. Ci ammazzava. Ogni giorno ci aspettavano cinquecento addominali». Ma nessuno lo ha mai mandato a quel paese? «A turno lo abbiamo fatto tutti, ma poi si vinceva ed allora Ventrone era bravo. In campo andavi come una scheggia». Solo per merito della preparazione atletica? «No, anche della tua forza di volontà e della carica che ti da il successo». La cosa più bella che ti ha dato la Juventus? «La Coppa dei Campioni a Roma nel 1996. Ricordo tutto: la notte insonne, il viaggio in pullman fino allo stadio, la formazione letta dal Mister due ore prima, ladrenalina che ti scuote. Eppoi il campo. La vittoria. La Coppa ed il palco. E gli occhi di Vialli che brillano, perché il treno stavolta si è fermato. La gioia per aver giocato una delle più belle partite della mia vita, correndo per due ore. Ed alla fine, sorteggiato per il controllo antidoping con Kluivert, la battuta dellavversario sconfitto: Ti hanno beccato, eh?». http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/01/moreno-torricelli.html
  4. PIETRO CARMIGNANI http://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Carmignani
  5. PIETRO RAVA http://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Rava I ragazzi torinesi abitanti nel rione della “Crucetta” ed in quelli della periferia occidentale della città, avevano un numero relativamente alto di campi sui quali giocare a calcio; il più frequentato, tuttavia, era il campo del “Dopolavoro Ferroviario”, in corso Parigi, l’attuale corso Rosselli. Proprio sul terreno dei “Ferrovieri”, la squadra che non aveva nelle proprie file un ragazzone che si chiamava Piero Rava, aveva diritto a giocare con un uomo in più, per il semplice fatto che Rava valeva il doppio. Rava abitava a cento metri dal campo del Dopolavoro Ferroviario (il papà di Piero era capostazione a “Porta Susa”), mentre a poco più di duecento metri in linea d’aria c’era il campo in corso Marsiglia, dove giocava la Juventus, squadra per la quale, inutile dirlo, il ragazzone faceva il tifo. Rava diceva: «Lasciando aperta la finestra della mia camera, mi arrivava molto chiaro il grido d’incitamento della folla. Quando sentivo l’urlo irrefrenabile dei tifosi, capivo benissimo che la Juventus aveva segnato». Il campo di corso Marsiglia era vicino a quello di corso Parigi, ed era frequente che alcuni soci bianconeri andassero sino al terreno dei “Ferrovieri” per dare un’occhiata ai molti ragazzi che prendevano a calci un pallone. Fra questi soci c’era un certo Greppi, il quale rimase immediatamente impressionato dalla velocità di quel giocatore dai capelli biondi che giocava all’ala sinistra: un atleta dalla forza incredibile, foga che, dopo le prime battute di gioco, conferiva al viso del ragazzo tinte infuocate. “Pierone”, infatti, dopo cinque minuti dall’inizio della partita, diventava addirittura paonazzo, colore che dava in certo qual modo la misura della straripante passione del giovanissimo calciatore. Greppi aveva informato un dirigente juventino che si occupava delle squadre minori: Maccagno, factotum del Gruppo Anziani Juventus, questi andò a vedere un paio di partite nelle quali era impegnato Rava ed ebbe anche qualche colloquio con il giocatore. Piero Rava venne anche convocato per alcuni provini alla Juventus, tuttavia, per un certo periodo di tempo non ebbe più alcuna comunicazione da parte della società. Rava, come raccontava qualche tempo più tardi, ebbe la sensazione di essere stato scartato e trascorse un paio di mesi molto arrabbiato; avrebbe, infatti, pagato di tasca sua per indossare la maglia bianconera della Juventus. Invece la Juventus si rifece viva, tesserò Rava e lo mise a disposizione di Armano, ex terzino della squadra che nel 1905 aveva vinto il primo scudetto, che era in quegli anni l’allenatore della squadra ragazzi e vide immediatamente che il ragazzo possedeva ottime qualità. Nonostante ciò fu deciso il temporaneo trasferimento del giocatore alla Virtus, società affiliata alla Juventus. Tornò bianconero per l’esordio nella stagione 1935/36, quando Rava aveva appena diciannove anni. Nella Juventus di quegli anni c’erano ancora parecchi vecchi campioni pluriscudettatti, come Rosetta, Varglien, Monti, Bertolini, Borel, Varglien II° e Serantoni. C’erano anche Foni e Guglielmo Gabetto, inseparabile amico di Piero, cresciuto con lui nella squadra bianconera dei ragazzi. Così Rava raccontava la sua gara d’esordio: «La squadra aveva pareggiato in casa con il Bologna, per 0-0, nel corso della quale si era leggermente infortunato Rosetta. L’allenatore decise allora di spostare Foni a destra e di farmi debuttare nella successiva partita da giocarsi in trasferta contro la Fiorentina. Nel primo tempo la Juventus giocò un ottimo calcio e concluse in vantaggio, grazie ad un goal di Varglien I°, la prima frazione. Nella ripresa la Fiorentina riuscì a pareggiare con un goal realizzato dalla mezzala sinistra Scagliotti. Io me la cavai egregiamente, Rosetta guarì velocemente e per undici incontri consecutivi fu riformata la coppia con “Viri” a destra e Foni a sinistra. Fu poi nel febbraio del 1936 che disputai la seconda partita, quella volta in coppia con Rosetta. Risultato di gara decisamente negativo, perché la Lazio, a Roma, ci inflisse una secca sconfitta per 3-0. Ma intanto anche altri personaggi importanti si erano accorti di me. Non vi sto a dire la mia enorme soddisfazione nel vedermi convocato da Vittorio Pozzo nella squadra che avrebbe disputato il torneo calcistico alle Olimpiadi di Berlino». L’esordio in campo internazionale al “Post Stadion” di Berlino, fu emozionante, quasi drammatico: la squadra azzurra, infatti, trovò incredibili difficoltà a battere la squadra degli Stati Uniti. Gli americani, decisamente inferiori in linea tecnica, impostarono la partita sotto il profilo agonistico, costellando ogni azione con interventi decisi e scorretti. Rava, manco a dirlo, si trovò a nozze, ma incorse addirittura in un’espulsione. «All’ottavo minuto della ripresa, per contendere una palla alta, entrai a gamba tesa e colpii la mezzala destra americana, tale Namechik, ad una spalla; era un’azione scorretta, ma indubbiamente involontaria, con conseguenze volutamente esagerate da parte del giocatore americano e massimamente dall’arbitro, che accorse e mi indicò la via degli spogliatoi. Rimasi accovacciato sui gradini degli spogliatoi per seguire l’andamento della partita, facendo un tifo sfegatato. Per fortuna Frossi segnò e riuscimmo a passere il turno». Fortunatamente Rava non fu squalificato e poté quindi disputare tutte le altre gare, quella con il Giappone (3-0), con la Norvegia (2-1 dopo i supplementari) e l’ultima trionfale contro l’Austria (ancora 2-1, dopo i supplementari ). Le partite al calor bianco furono sempre la specialità dell’indomabile terzino della Juventus; alla sua apparizione nella nazionale maggiore, in coppia con Monzeglio al “Prater” di Vienna, il 21 marzo 1937, si trovò a fronteggiare le indiscriminate scorrettezze degli austriaci. In maglia azzurra “Pierone” inanellò 24 presenze consecutive e concluse poi a quota 30, dopo il vittorioso incontro di Milano contro la Spagna: 4-0. Piero Rava, dopo essere stato campione olimpionico nel 1936, diventò anche campione del mondo nel 1938, ai mondiali di Parigi. Il fatto di aver conseguito la laurea mondiale giustificò alcune pretese di carattere economico. Un terzino campione del mondo non poteva essere pagato come riserva: così il biondo Piero iniziò una specie di sciopero, non giocando come la sua immensa classe gli avrebbe consentito. Ciò avvenne nel campionato 1938/39 e dopo la sconfitta subita a Modena (2-0) il 5 febbraio 1939, la Juventus decise di punire il giocatore, lasciandolo fuori squadra fino alla fine del campionato, tra i commenti compiaciuti dell’indignatissima stampa torinese. «Io volevo essere considerato fra i titolari, cioè professionista», racconta Rava, «da anni mi dedicavo al calcio con tutto me stesso; avevo cominciato da piccolino, proprio con la Juventus, mio solo amore, perché quei dirigenti non potevano accontentarmi? Così, a Modena, decisi di fare sciopero ed incrociai le braccia; non mi vergogno di averlo fatto. Erano tempi difficili e, per noi calciatori, poteva esserci la gloria, non la ricchezza; all’avvenire dovevo pur pensarci, intendevo mettere su famiglia». Erano tempi molto difficili: «Era un derby, nel campionato 1944/45», racconta Piero, «Valentino Mazzola, arrabbiatissimo per un tunnel subito da Felice Borel, tenta vanamente di sferrargli una “carezza” a gioco fermo. Nasce subito una rissa, nella quale sono coinvolti una decina di giocatori e che termina con l’ingresso in campo delle milizie fasciste, che ci dividono. Contemporaneamente, udimmo dagli spalti l’inconfondibile boato provocato dalle sventagliate delle mitragliatrici, imbracciate da altri militanti del partito fascista; essi, infatti, non avevano trovato migliore soluzione per dissuaderci dalla nostra lite furibonda. Tutto il pubblico, scosso dalla paura, scappò dallo stadio e, noi giocatori, terminammo l’incontro in assoluta solitudine. Ovviamente, il giorno dopo nessun giornale riportò la notizia». Rimase alla Juventus fino al 1950, totalizzando 316 presenze, arricchite da 14 goal; ci lascia nel novembre del 2006, mentre la Juventus sta festeggiando il suo 109° compleanno. INTERVISTATO DA MAURIZIO TERNAVASO, SU "HURRÀ JUVENTUS" DEL SETTEMBRE 1988: Seppure settantaduenne, il signor Rava, piemontese vecchia maniera, particolarmente gentile ed affidabile, pare ben più giovane: fonti solitamente ben informate mi hanno riferito di aver scorto quest’inverno la vecchia gloria mentre praticava il jogging nelle vicinanze del “Comunale”. Signor Rava, che cosa ha implicato emotivamente la vittoriosa partecipazione alle Olimpiadi di Berlino? «Ha rappresentato sicuramente l’affermazione più prestigiosa della mia carriera, avendomi provocato una soddisfazione personale superiore a quella provata vincendo due anni dopo i Mondiali; sa, la squadra del 1936 era composta quasi totalmente da giovani provenienti dalla serie C, e per di più nessuno aveva mai giocato in Nazionale: immagini quindi la sorpresa». Crede che la presenza del calcio alle Olimpiadi di oggi sia snaturata o perlomeno diversa rispetto a quanto accadeva prima della Seconda Guerra? «Oh, non c’è paragone! Allora vigeva tra noi una gran voglia di giocare ed aleggiava il vero spirito decoubertiniano in una sorta di romanticismo dello sport; ora tutto è legato esclusivamente all’interesse monetario, la medicina chiamiamola sportiva ha fatto passi da gigante e l’ingresso dei munifici sponsor ha spoetizzato completamente anche un avvenimento quale l’Olimpiade. L’unico Dio pare oggi essere il denaro e, secondo me, ciò denota un pericoloso venir meno dei più genuini valori dell’umanità». Ha avuto modo, in questi ultimi anni, di rivedere i compagni di quella avventura? E che cosa vi ha reso, in termini estremamente concreti, quella vittoria? «Purtroppo sono passati tanti, troppi anni da allora, e molti di loro sono mancati; inoltre non ho la possibilità di incontrare i sopravvissuti, perché vivono tutti lontano da Torino. Mi chiede di eventuali premi in denaro: ma neanche per sogno, tutto ciò che ottenemmo fu di partecipare a Roma, ovviamente nelle vesti di protagonisti, ad una importante cerimonia voluta da Mussolini nella quale ricevemmo grandi onori». Chi era Pietro Rava prima che scegliesse di intraprendere la carriera di calciatore professionista? Cosa ne sarebbe stato di lui se non avesse sfondato in quel mondo? «Ero uno studente che si era iscritto ad Economia e Commercio e che forse avrebbe raggiunto la laurea pur giocando a pallone, se non fosse intervenuta la guerra: ero, infatti, un ufficiale e fui costretto dagli eventi a combattere anche in Russia, paese dal quale riuscii a tornare sfruttando una licenza stranamente concessami proprio per affrontare un esame che, ovviamente, non ebbi il tempo di preparare». Sia sincero: anche ai suoi tempi si guadagnava bene? «Certo, ma non è assolutamente proponibile un confronto con quello che i giocatori di oggi riescono ad incamerare. Pensi che la vittoria ai Mondiali del 1938 fruttò ad ognuno di noi 10 mila Lire, circa 10 milioni del 1988, mentre il mio ingaggio per un intero campionato raggiunse al massimo le 80 mila Lire: per quanto riguarda i guadagni noi eravamo al livello di medici ed avvocati di buona caratura, mentre oggi molti, terminata la carriera, devono essere considerati dei veri e propri miliardari». Ritiene che il divertimento provato dai giocatori che vanno in campo e quello di chi assiste agli incontri sia scemato rispetto agli anni in cui lei calcava i terreni di gioco? «In questi tempi perdere consecutivamente due partite provoca il finimondo e ciò fa sì che le tattiche, che a tutti i costi sono strutturate in modo tale da scongiurare un evento del genere, uccidano lo spettacolo ed il divertimento: spesso i giocatori paiono degli autonomi tenuti per le redini, perché si dimostrano privati della libertà di spaziare in ogni parte del campo; senza contare inoltre che le marcature sono diventate davvero troppo assillanti. Negli anni quaranta le tattiche permettevano ad ognuno di noi di sviluppare al meglio il proprio talento naturale e la personalità calcistica, sicché si poteva assistere domenicalmente ad incontri ricchi di emozioni e di reti e dall’andamento estremamente incerto». http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/01/pietro-rava.html
  6. ALFREDO FONI http://it.wikipedia.org/wiki/Alfredo_Foni
  7. ATHIRSON http://it.wikipedia.org/wiki/Athirson Athirson Mazzoli de Oliveira, nasce a Rio De Janeiro il 16 Gennaio 1977 e cresce in un quartiere ricco, da una famiglia benestante: il padre
  8. ALBERTO BERTUCCELLI http://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Bertuccelli Nasce a Viareggio (Lucca) il 14 gennaio 1924. Terzino. Cresciuto nella Lucchese, nell'estate del 1949 sembra debba finire al Torino, che sta faticosamente ricostruendo la squadra scomparsa a Superga: un infortunio determina per
  9. DANIELE FORTUNATO http://it.wikipedia.org/wiki/Daniele_Fortunato_(calciatore_1963)
  10. PASQUALE VIVOLO http://it.wikipedia.org/wiki/Pasquale_Vivolo Il campionato, alla fine degli Anni Quaranta, assomiglia parecchio ad una grande Legione Straniera ed anche i campioni nostrani pi
  11. LILIAN THURAM http://it.wikipedia.org/wiki/Lilian_Thuram Lascia a soli nove anni l
  12. MARIO VARGLIEN http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Varglien Raccontava:
  13. JEAN-ALAIN BOUMSONG http://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Alain_Boumsong Nasce in Camerun, a Douala, il 14 dicembre 1979; si trasferisce in Francia,esordendo nelle file del US Palaiseau, nel 1995.
  14. FABRIZIO RAVANELLI http://it.wikipedia.org/wiki/Fabrizio_Ravanelli Classe 1968, un fisico da lottatore sormontato da una chioma precocemente imbiancata. Ha già giocato per parecchie squadre, prima di esplodere nella Reggiana. È un idolo dei tifosi granata, ma quando viene acquistato dalla Juventus e lasciato in parcheggio a Reggio Emilia per una stagione, è accusato di tirare indietro la gamba e, aspramente contestato, lascia una cattiva immagine di sé. Lo chiamano “venduto”: «Non potevano dirmi una cosa più offensiva! Io ho sempre dato il massimo, ho cercato di segnare come in tutte le altre stagioni. Il fatto è che non appena le cose si sono messe male, certa gente ha dato tutte le colpe al sottoscritto». Quando arriva alla Juventus, in molti lo paragonano a Bettega, per il colore dei capelli; Ravanelli arriva come bomber di scorta, in una squadra che schiera Vialli e Roberto Baggio, Möller e Casiraghi. Prospettive di maglia sicura ridotte al minimo, ma uno con la grinta di quest’umbro giramondo non può arrendersi per così poco.«Essere arrivato alla Juventus è il massimo, mi sento realizzato sia come uomo, sia come calciatore. La Juventus è il massimo e quelli che ne parlano male, lo fanno solo per invidia. Sin da bambino sono tifoso bianconero; abitavo a Perugia e, tutte le volte che la Juventus giocava dalle parti dell’Umbria, chiedevo a mio padre di accompagnarmi allo stadio, per seguire i miei beniamini».Fabrizio è mancino, ha un buon tiro, sa colpire di testa, ma le movenze appaiono sgraziate e si ha la netta la sensazione che debba migliorare enormemente, anche nei fondamentali. Il Trap è un ottimo maestro e capisce che il ragazzo ha voglia di crescere, di sfondare e comincia a metterlo sotto torchio. Ad autunno inoltrato comincia a giocare qualche spezzone di partita e la sua prima rete in maglia bianconera, il 13 dicembre 1992 a Foggia, passa quasi inosservata: il suo goal, su rigore, infatti, non evita la sconfitta (1-2) a una Juventus in giornata di scarsa vena. Il ghiaccio è rotto, i tifosi ne apprezzano la strenua volontà di lottare e il 13 febbraio del 1993, in un Juventus-Genoa che sembra destinato allo 0-0 la sua zampata è di quelle che lasciano il segno. Ne segna altri, compresi alcuni decisivi per la conquista della Coppa Uefa, che gli valgono la riconferma. La stagione successiva è promosso a prima riserva, dopo la cessione di Casiraghi alla Lazio, e crescono le presenze e le reti.Penna Bianca è sempre più nel cuore dei tifosi e sempre meno lontano dal modello originario, Bobby-gol Bettega, appunto; non ha certamente la stessa classe, ma in area sa farsi rispettare e vede la porta come pochi altri. «Spero che non sia solamente una somiglianza fisica, ma questo paragone mi riempie di soddisfazione».La svolta avviene la stagione successiva. Si chiude il ciclo “trapattoniano” e inizia quello di Lippi. Ancora una volta è una sconfitta a Foggia che cambia il destino di Ravanelli. Lippi vara il 4-3-3 e gli attaccanti sono Vialli e Ravanelli, con Roberto Baggio e il giovanissimo Del Piero a supporto. È una formula molto spregiudicata, gli attaccanti devono sacrificarsi; nasce, così, un Ravanelli a tutto campo, capace di colpire e arretrare a coprire. Sta nascendo un campione universale, adatto a tutte le fasi della partita e questo coincide con la nascita di una Juventus entusiasmante, vincente e convincente: «La prima volta che ho incontrato Boniperti ero emozionatissimo, impacciato. Lui ha cercato di mettermi a mio agio e mi ha chiesto: “Allora, vieni o no alla Juventus?” Io, ancora più rosso del solito, gli ho risposto: “Non vedo l’ora di entrare nella sua famiglia”».Il ricordo dell’Avvocato: «L’avvocato Agnelli era il simbolo della Juventus. È stato il punto di riferimento sia per i giocatori sia per i dirigenti. Dopo aver approfondito la sua conoscenza, ho avuto modo di carpire le sue qualità umane. Sapeva metterti a tuo agio, l’Avvocato. Ricordo anche le sue telefonate mattutine, come ad esempio quella legata al mio addio, o alla prestazione memorabile di Liverpool, quando andai in Inghilterra. Credo proprio che non lo dimenticherò mai. Mi legano a lui troppi ricordi».La Juventus “lippiana” è travolgente: terza giornata, prima grande impresa in trasferta, 2-0 a Napoli con goal di Fabrizio e la prima perla, che lo renderà famoso, di Alessandro Del Piero. Padova-Juventus, 27 novembre, sarebbe un deludente pareggio se Ravanelli, partito dalla panchina, non siglasse nel finale un goal bello e impossibile. Ma c’è una data, in questa stagione, che segna il passaggio da normale attaccante a campione consacrato; Parma, 8 gennaio 1995, sfida al vertice. Il Parma passa in vantaggio con l’ex Dino Baggio, poi la Juventus pareggia e infine dilaga con Ravanelli. Il goal del 2-1 è da antologia, un colpo di testa in tuffo, come faceva Bobby-gol, che applaude in tribuna e commenta: «Roba che riesce solo a chi ha i capelli bianchi».Alla fine della stagione trionfale, con scudetto e Coppa Italia, il contributo di Ravanelli è straordinario: solo in campionato è andato a segno sedici volte, oltre a quattordici reti che ha collezionato nelle coppe: «Eravamo diciotto marines, all’epoca. Remavamo tutti nella stessa direzione. Non ci sono mai stati screzi e in questo aiutammo molto Lippi».Logico che anche la Nazionale si accorga di lui; alla fine saranno ventidue presenze con otto goal. Ma l’obiettivo principale della Juventus è la Champions League, che richiede un duro lavoro di avvicinamento. A segno nelle sfide iniziali contro Steaua Bucarest e Rangers, Penna bianca si astiene nei quarti e in semifinale, conservando la stoccata per l’occasione più importante. Roma, 22 maggio 1996, finale con l’Ajax: «Sicuramente, quella rete e quella partita, rimarranno indelebili nella storia. Anche perché Gianni Agnelli teneva molto a quella vittoria, considerando i fatti di Liverpool. Chiese di vincerla quella finale. E noi lo accontentammo con una grande vittoria. Quella rete rappresenta la mia carriera bianconera».Un goal per la storia ed anche per l’addio: «Fui venduto senza spiegazioni. Dentro di me, per tale ragione, c’è molta amarezza. Fossi rimasto, sarei stato lieto di far ancora parte di quell’organico di campioni. Ma a volte, si è costretti cambiare strada. Penso di aver ricevuto meno di quanto ho dato alla Juventus. Io, ero il vice capitano e portai la fascia al braccio nel ventre di un Bernabéu stracolmo, contro il Real Madrid. Mi sentivo il futuro di quella squadra. Fui persino chiamato nell’ufficio del dottor Umberto Agnelli. Mi parlò di tutti i capitani della gloriosa storia bianconera, indicandomi come uno di quelli futuri, mostrandomi tutti i trofei vinti in bacheca. Rimanemmo a parlare per molte ore. Sono in pochi a sapere questo aneddoto, ma andò proprio così».Lascia la Juventus per cercare altra gloria prima in Inghilterra e in seguito in Francia, e la lascia da trionfatore. 160 partite e sessantotto reti, di cui diciotto nelle coppe europee. In bacheca, uno scudetto, una Coppa Uefa, una Champions League e una Supercoppa italiana. «Non aver giocato la Coppa Intercontinentale è il mio rimpianto più grande. Anche se, lo dico con sincerità, la sento mia, quella Coppa che fu il frutto dei sacrifici della stagione precedente, con me e Vialli in campo. E per me, andare via dalla Juventus, non fu facile. Io, sono un bianconero vero. Però, la vita è questa e alcune cose, possono anche non andare per il verso giusto». NICOLA CALZARETTA, “GS” SETTEMBRE 2014 Estate intensa per Fabrizio Ravanelli, classe 1968. Soprattutto sulle due ruote. La bicicletta è il suo nuovo amore sportivo. Non solo come attività di diporto, utile antiruggine per muscoli e giunture, da praticarsi nei weekend su comode piste ciclabili. Da qualche anno, infatti, il nostro Penna Bianca altrimenti detto Old Fox, partecipa a gare di livello, anche in alta montagna. Corse amatoriali, ma fino a un certo punto. «Una delle ultime che ho fatto è la Maratona delle Dolomiti a luglio. Una fatica pazzesca, con otto passi dolomitici. Da quando mi sono operato di ernia al disco, ho preso sempre più passione per la bici. Sarei stato un bel passista, se non avessi fatto il calciatore».Parla e si tocca la fronte, che porta i segni di una recente caduta. Il rosso del mercurio cromo crea un curioso contrasto con il bianco della pelle e dei capelli. Ma il pallone? Quello c’è sempre, per carità. La sua vita, il suo mondo, i suoi desideri hanno come centro di gravità la panchina. La scorsa stagione, dopo un paio di annate di tirocinio nelle formazioni giovanili della Juventus, ha allenato per alcuni mesi l’Ajaccio, nella Ligue 1, la Serie A francese. Una buona occasione, conclusa prima del previsto con un esonero a novembre. «Non è andata bene, ma è stata comunque un’esperienza utile. Sono pronto per la prossima occasione. Mi sento allenatore».Qual è il bravo tecnico di oggi? «Idee precise sul modulo, senza essere troppo rigido; saper entrare nella testa dei giocatori, per creare una mentalità vincente. Tutto questo sulla base delle motivazioni e della fame di vittorie».Bello, questo quadretto mi ricorda un certo Marcello Lippi. «Vero. Non a caso Lippi è uno dei tecnici più apprezzati al mondo: bravo e soprattutto vincente».Tu lo conosci bene: vent’anni fa vi siete incrociati per la prima volta. «Io ero alla Juve già da due anni. Ma in pochi mesi, primavera del 1994, cambiò tutto per il passaggio di consegne tra Gianni Agnelli e suo fratello Umberto. Tra le novità ci fu anche quella dell’allenatore. Ecco Marcello Lippi, che aveva fatto bene a Napoli, ma che non aveva mai allenato una grande».Cosa ricordi dei primi tempi con lui? «Il discorso che fece alla squadra il primo giorno di ritiro. Riunì tutti in mezzo al campo e parlò in maniera schietta e diretta. Il messaggio fu chiaro: la Juventus non avrebbe dovuto dipendere più da nessuno».Qualcuno tradusse il discorso con: “Non voglio una squadra Baggio-dipendente”. «Non c’era niente contro Baggio. Il messaggio era un altro: tutti eravamo sullo stesso piano e dovevamo sentirci protagonisti. Fu una scossa: fece sentire ciascuno di noi importante e decisivo, senza alcuna differenza».Nemmeno riguardo a Luca Vialli? «Loro si conoscevano da tanti anni. Si davano del tu. Ma anche in quel caso il mister fu molto chiaro e leale con il gruppo. Fece presente a tutti la particolarità del loro rapporto e noi lo accettammo con serenità».A proposito di lavoro, tra i nuovi arrivi c’era anche quello del preparatore atletico Ventrone. «Gianpiero, che ho voluto con me all’Ajaccio, aveva collaborato con Lippi a Napoli. Introdusse carichi di lavoro pazzeschi. In ritiro ci si alzava alle sette e facevamo tre sedute di allenamento, anche dopo cena. Pressa, bilanciere, addominali. Una volta, nell’intervallo di un’amichevole a Chatillon, i giocatori sostituiti fecero otto volte il chilometro sui tapis roulant, una prova di resistenza allucinante».Eravate convinti dell’utilità di tutta quella fatica o vi sembrava eccessiva? «Ricordo Marocchi vomitare dalla fatica. Di Livio che qualche volta “tagliava”. Ma c’erano mister Lippi, e soprattutto Ciro Ferrara, che facevano da garanti».Con tutta quella mole di lavoro, nessuno ha mai preso nulla? (Sorriso amaro) «Eccola qua. Tutte le volte ritorna ‘sta storia. Nessun aiuto, te lo garantisco. Fatica, sacrificio, allenamento. Hanno cercato di tirare fuori cose che non esistono. Tutto falso. Non c’è mai stato doping, tant’è vero che l’accusa che hanno poi fatto alla Juve è stata “abuso di farmaci”».Non mi sembra poco. «Negli anni che sono stato io alla Juve, non ho mai visto niente di sospetto o di particolare. L’ho detto anche ai giudici. La crescita della massa muscolare nasce dall’enorme lavoro in palestra».Zeman non la pensava così, specie riguardo a Vialli. «Ma Luca era grosso già prima di Lippi e Ventrone! Fu uno dei motivi per cui Trapattoni non lo vedeva più come attaccante. Non ho mai avuto l’occasione di parlare con Zeman. Mi piacerebbe farlo, però».Torniamo al campo e al lavoro. Tu come eri messo? «Molto bene. Spesso ero il primo nei test. Per me l’avvento dell’accoppiata Lippi-Ventrone è stato il massimo, perché sono state valorizzate le mie caratteristiche: la resistenza, la generosità, la corsa. E lo spirito di squadra. Pur essendo attaccante, non ho mai avuto l’ossessione del goal. Come certi colleghi che ho sempre mal sopportato».Ti riferisci a Inzaghi? «Niente di personale. Io vedo il calcio così. Nel mio ipotetico “undici”, uno come lui non lo vorrei. Così come non vorrei chi, ad esempio, dopo che la sua squadra ha perso per 3-1 è contento per il goal che ha fatto».Ma gli attaccanti si valutano dal peso dei goal fatti. «Lo so, io comunque mi sono difeso bene con i numeri. Tuttavia, credo che un calciatore debba mettere se stesso al servizio della squadra. Compresa la sua fame di vittorie e la voglia di arrivare».A proposito: alla Juventus, nell’estate 1992, come ci sei arrivato? «Mi hanno visionato. So che a Reggio Emilia c’erano spesso a vedermi il Direttore sportivo della Juve Nello Governato e Sergio Brio, vice di Trapattoni».La svolta quando c’è stata? «Una notte, quando verso l’una suonò il telefono di casa. Al mio povero babbo. Carlo, per poco non venne un infarto. Era Boniperti. Convocò lui e mio fratello Andrea perché voleva conoscere la mia famiglia. Solo dopo che ebbe parlato con loro volle incontrare me».Per la firma del contratto? «Sì, alla Sisport. Mi disse che in quell’ufficio, prima di me aveva firmato solo Michel Platini. Bonetto, il mio procuratore, non entrò. La cifra la mise lui, 400 milioni, alla Reggiana ne prendevo 120. Io non ricordo se dissi qualcosa. Ero al settimo cielo e basta».Sogno che si avverava? «Decisamente. Tifavo Juve. Ero a Perugia allo stadio con mio padre quando nel 1976 perdemmo lo scudetto all’ultima giornata. Avevo otto anni, piansi tanto».E adesso eri un giocatore bianconero, pronto a scrivere la storia della “tua” squadra. «Il salto dalla B alla Juventus non è stato facile. I primi mesi ho fatto molta fatica. Solo lo stare a fianco di gente che fino al giorno prima avevo visto in televisione mi faceva girare la testa. In quei momenti è stato fondamentale Boniperti, una persona a cui vorrò sempre bene. E poi il Trap, che ha saputo aspettarmi. Un maestro eccezionale».Lavoro extra anche per te? «Mi è servito molto. Io ho capito che ci potevo stare a quel livello. Lui e la società hanno avuto conferma che avevano visto giusto con me. Ricordo come fosse oggi un episodio emblematico».Raccontacelo. «Il venerdì precedente la trasferta ad Ancona (28 marzo 1993, ndr) ebbi una colica renale e mi portarono in ospedale. Nel frattempo, avevo anche una caviglia gonfia. Mi dissero, però, che la mia presenza era fondamentale. Mi vennero a prendere con il pullman direttamente all’ospedale. Prima della partita, infiltrazione alla caviglia, poi feci tutti i novanta minuti».Giocasti abbastanza in quella prima stagione, nonostante la Panini non ti avesse messo nell’album. «Non lo sapevo. Per me contava era essere lì. La concorrenza era di altissimo livello: Vialli, Baggio, Möller, Platt. Eppure io feci ventidue partite in campionato, debuttai in Coppa Uefa e segnai nove goal».L’esame con il calcio che conta era superato. «Un esame difficile, bastava guardare il livello e la qualità degli avversari: Baresi, Costacurta. Tassotti. E poi Pietro Vierchowod, uno che se lo saltavi una volta, subito dopo ti era nuovamente davanti. Senza dimenticare Maldini o la coppia Benarrivo-Di Chiara, che dovevi rincorrere per tutta la partita».Quel tuo primo anno in bianconero si chiuse addirittura con la conquista della Coppa Uefa. «Fu la ciliegina sulla torta di una stagione indimenticabile, in cui feci tre goal. Vincemmo la Coppa, trascinati da un fantastico campione: Roberto Baggio, che in quel 1993 vinse il Pallone d’Oro».Che voto gli dai? «Dieci, come il numero della sua maglia. Non nove e mezzo come disse una volta Platini. Era introverso, parlava poco. Sicuramente era meno appariscente rispetto ad altri. Ma era un fuoriclasse assoluto».Perché? «Tecnicamente era meraviglioso. E poi aveva sempre una soluzione di gioco: una dote che possiedono solo i grandissimi».E con Lippi come andò? «Tutti dicono che Lippi fece il miracolo convincendo Vialli a rimanere. Ma Luca era arrabbiato con il mondo e aveva una grande voglia di rivalsa. Il vero miracolo Lippi lo fece con Baggio, convincendolo a modificare il suo atteggiamento in campo in funzione del sistema di gioco della squadra».Come fece? (ride) «Lippi era furbo. Parlava a nuora (cioè a me o a Vialli) perché la suocera, Baggio, intendesse. Capitava che il mister venisse da me e dicesse ad alta voce: “Fabrizio, devi rientrare prima oppure corri di più...” Ma in realtà il vero destinatario del messaggio non ero io».Mi sembra sia arrivato il tempo per affrontare il tema del tridente. «Fu una scelta condivisa con mister Lippi. L’idea partiva dalla constatazione che, ceduto Dino Baggio, non avevamo centrocampisti abili nell’inserimento da dietro. Le tre punte potevano essere una buona soluzione, tenuto conto che era stata appena introdotta la regola dei tre punti a vittoria».Lippi dunque puntò su un 4-3-3 allo stato puro. «Esatto. Tre attaccanti veri, di ruolo. Vialli, il sottoscritto e Baggio o Alex Del Piero. Potevamo garantire molte soluzioni d’attacco ed eravamo i primi a difendere. Lippi voleva dieci giocatori dietro la palla in fase di non possesso. Noi tre dovevamo coprire tutto il fronte. Quando c’era Baggio, lui rimaneva centrale, mentre Vialli ed io ci allargavamo. Con Del Piero, era Luca a occupare il centro».L’idea è buona, ma gli inizi non sono incoraggianti. «La svolta fu dopo il 2-0 subito a Foggia alla sesta giornata. Il martedì ci riunimmo in palestra e Lippi fece un discorso molto chiaro. Si doveva cambiare mentalità e si doveva giocare in attacco. Il tridente da lì in poi non fu più messo in discussione».Per te cambiò qualcosa? «Lo schema con i tre attaccanti era perfetto per uno come me. Stavo bene, dopo i primi tempi in cui ero appesantito dalla preparazione: ricordo la fatica anche a fare un semplice passaggio di piatto. Mi sbloccai il 27 settembre 1994, con la cinquina in Coppa Uefa al CSKA. Durante il riscaldamento mi accorsi di sentirmi meglio. Chiamai Ventrone e Pezzotti, vice di Lippi, e dissi: “Stasera mi carico la squadra”».Sei stato di parola. «Cinque goal tutti assieme non mi era mai capitato di farli. Poi con la Juve, in Europa. Una serata fantastica. Quella prestazione fece bene a me e a tutto il gruppo».A proposito: che aria c’era nello spogliatoio? «Ottima. Eravamo veramente uniti, affamati di vittorie come Lippi. Secondo me, è stato l’elemento trainante. E poi tutti i giovedì si usciva a cena assieme. Talvolta veniva anche il mister o qualcuno del suo staff. Un gruppo meraviglioso, non c’è mai stato uno screzio».Nemmeno nelle partitelle durante la settimana? «Che c’entra? Nessuno ci stava a perdere. Ogni sconfitta costava 5.000 lire».Com’era strutturata la settimana di lavoro? «Il martedì e il mercoledì erano dedicati alla parte fisica. Giovedì partitella, con lo sparring partner schierato con il modulo della nostra prossima avversaria. Venerdì tattica: undici contro zero per provare la fase offensiva: undici contro undici o contro sette per quella difensiva e poi schemi per punizioni e corner. Il sabato classica rifinitura».Mi sembra che di tattica ne facevate il giusto. «È vero e mentalmente non eravamo appesantiti. Oggi, purtroppo, il tatticismo ha preso il sopravvento. Ma in campo c’era organizzazione, tutti sapevamo cosa fare. Lippi era veramente un passo avanti, compresa la capacità di lettura della partita».Il più grande difetto e il più grande pregio di Lippi? «La permalosità come difetto, lo riconosce anche lui. Tra i pregi, oltre alle cose già dette, la capacità di motivare al massimo le persone. Parlando a tutto il gruppo oppure con colloqui a tu per tu. In questo Lippi è stato il più grande in assoluto. E lo ha fatto con tutti».Anche con te? «L’episodio più eclatante avvenne nell’intervallo di Juventus-Napoli del 19 febbraio 1995. Siamo sullo 0-0. Lui invita alla calma, ci dice che stiamo giocando bene e che è convinto che la gara la risolverà un campione. E mi guarda. Al 78’ segnai proprio io».Ed è un goal che è entrato nella storia per la tua particolare esultanza. «Mi venne di coprirmi la faccia con la maglia. Non c’era premeditazione, puro istinto. L’uomo mascherato è nato quel giorno. Poi ho sempre festeggiato così».Passo indietro. Eravamo rimasti al dopo Foggia. «Le parole di Lippi fecero centro. La domenica dopo vincemmo a Cremona con il goal di Vialli in rovesciata, ma la prima spallata al campionato fu data la giornata successiva con la vittoria sul Milan. Dicevano che avremmo rinunciato al tridente. Vero niente. Giocammo alla grande e Baggio realizzò la rete decisiva addirittura di testa, in mezzo a Baresi e Costacurta».E arriviamo così all’8 gennaio 1995, in calendario c’è lo scontro diretto con il Parma che vi precede di un punto. «Una partita decisiva. Tornai in anticipo dalle vacanze natalizie e chiesi a Ventrone di potermi allenare. Avevo una voglia matta di giocare. Il primo tempo fu equilibrato. Quindi avanti loro con Dino Baggio e 1-1 di Paulo Sousa. Poi arriva il minuto settanta. Vialli da destra la mette in area, la palla è bassa. Io ci vado in tufo per impattarla di testa. È tutto istinto, come ai tempi dell’oratorio. Ci vuole coraggio, ho due difensori addosso. La giro alla perfezione all’angolo opposto. Il portiere non ci arriva. Mi alzo e ricordo ancora adesso Del Piero che mi dice: “Ma che cavolo di goal hai fatto?!”».Ti sei reso conto subito della prodezza? «Sì. Era veramente un momento di grazia. Tre giorni dopo è nato il mio primo figlio. La domenica successiva feci altri due goal alla Roma, perché poi al Parma segnai il rigore del 3-1 definitivo. E poi ci furono le parole di Roberto Bettega: “Questi goal qui li fanno solo quelli con i capelli bianchi”».La precoce canizie ti ha mai pesato? «No, figurati. E un fattore ereditario. Ho iniziato a ingrigire a quattordici anni. La cosa suscitava curiosità, da ragazzo feci anche da testimonial per un fondo di investimento. Il parallelo con Bettega mi inorgogliva. Bettega è stato la storia della Juve, quella che ammiravo da bambino, per cui ho anche pianto. Con Giraudo e Moggi era uno dei membri della cosiddetta triade voluta da Umberto Agnelli. Tre fuoriclasse».Approfondiamo un po’ l’argomento? «Bettega era spesso al campo, ci dava consigli. Giraudo era una persona di grande intelligenza, bravissimo con i numeri. Luciano Moggi era il top dei dirigenti sportivi. Con lui la Juve è tornata ai livelli del passato. Poi è arrivato il ciclone di Calciopoli a spazzare tutto».Tu che idea ti sei fatto? «Mai avuto l’impressione che Giraudo e Moggi avessero in mano il calcio italiano. È emerso che il malcostume c’era, ma non posso credere che siano stati i soli. Mi sembra che alla fine abbiano pagato per tutti, soprattutto Moggi, verso il quale la mia stima rimane».Dopo la vittoria a Parma, la Juve conquistò la vetta e per te arrivò anche il debutto in Nazionale. «25 marzo 1995, qualificazioni agli Europei, a Salerno: Italia-Estonia. Mi chiamò Arrigo Sacchi. Giocai dall’inizio e segnai il 4-1. Ho fatto una ventina di gare con l’Italia, realizzando otto goal. L’unico rammarico è non aver disputato il Mondiale 1998 per infortunio».Nel frattempo la Juve marciava decisa verso il traguardo finale: altra tappa, sabato primo aprile 1995. «Trasferta a San Siro contro il Milan: 2-0. Aprii io di testa dopo aver saltato con un pallonetto Sebastiano Rossi, alto quasi due metri. All’84’ raddoppio di Vialli e i tifosi rossoneri abbandonarono lo stadio».In realtà ci furono anche delle clamorose sconfitte interne, Padova e Lazio per esempio. «Non ci hanno condizionato. Non siamo mai stati in difficoltà. Sono stati episodi. Ricordo che Cravero, dopo lo 0-3 della Lazio, disse: “Ho paura di uscire dallo stadio per come abbiamo rubato il risultato”».Da dove nasceva la graniticità di quella squadra? «Da Lippi, dalla voglia di arrivare. E poi dalla qualità dei singoli. Paulo Sousa era il nostro Pirlo, e poi Ferrara, Kohler, Conte. Senza dimenticare Tacchinardi, uno dei giovani più forti con cui abbia mai giocato, e Deschamps, a lungo infortunato ma determinante».In porta c’era Angelo Peruzzi. «Una bestia, tra i pali imbattibile, aveva un’esplosività incredibile. I piedi, invece, erano di legno». (ride)Intanto si avvicina il momento topico: lo scontro diretto con il Parma, il 21 maggio 1995. «Con tre giornate di anticipo potevamo vincere lo scudetto. Loro erano a sette punti. Eravamo carichi, motivati. L’unica nota stonata era la Coppa Uefa sfuggita proprio contro i gialloblu. Ce la siamo giocata male. Ah, dimenticavo: eravamo in finale di Coppa Italia, sempre contro la squadra allenata da Scala».Come hai vissuto la vigilia della sfida decisiva? «Non ho dormito. Tutta la notte in bianco. La mattina dopo mi vide Bettega, gli dissi che non avevo chiuso occhio. Lui mi fulminò: “Non è una bella cosa”».Per fortuna in campo le cose andarono bene. «Fu una domenica bellissima. Con tanto sole. Vincemmo 4-0, due goal miei. Un trionfo. I gavettoni a Lippi, la gioia in campo, la soddisfazione della mia famiglia e la festa di sera a casa di Umberto Agnelli. Avevamo riportato lo scudetto a Torino dopo nove anni».Tu avevi contribuito alla grande. «Giocai più di tutti, cinquantadue partite complessive. Feci trenta goal, l’ultimo nella finale di ritorno della Coppa Italia, che vincemmo. E l’anno dopo c’era la Champions».Era quello l’obiettivo primario del 1995-96? «Sì. C’era il desiderio di volerci affermare in Europa. Venivamo da due finali e la Coppa Uefa di vent’anni fa era un torneo altamente qualitativo. Ci sentivamo attrezzati per l’impresa. Il cammino di avvicinamento fu emozionante, molti di noi erano all’esordio in Champions. Facemmo grandi partite e Del Piero tirò fuori quelle prodezze in serie che ci diedero forza».22 maggio 1996: un anno esatto dopo lo scudetto, ecco la grande occasione. «Ed io non dormo per quindici giorni. Eravamo in ritiro alla Borghesiana. Un giorno, sotto la doccia, ne parlai con Vialli. “Luca, non riesco a dormire. Tu che fai?” “Non dormo nemmeno io”, rispose. Era tormentato dal ricordo di quattro anni prima e dal terrore di sbagliare ancora goal decisivi come contro il Barcellona nel 1992».Finalmente arriva il giorno della finale contro l’Ajax, campione in carica. Tu ci sei. «Avevo saltato alcune partite del finale di campionato per infortunio. Ma adesso stavo bene. Giocai con il solito undici, per la prima volta sulla schiena c’era il nostro nome. Avevamo la divisa di riserva, blu con le stelle gialle sulle spalle. Una maglia meravigliosa».E fortunata: al 13’ porti in vantaggio la Juve. «A me è sempre piaciuto studiare gli avversari. Avevo notato che i due fratelli De Boer spesso erano leggerini, per non dire presuntuosi, quando giocavano con il portiere. Me lo sono ricordato quando vidi quel pallone in area. Con la suola del sinistro me lo sono portato avanti e ho calciato con il destro».Da posizione impossibile. «La porta era strettissima. Silooy tentò un salvataggio in scivolata, ma non servì. In quel momento non ho capito nulla. Ero in estasi, come chi vede esaudita una grazia. Corsi alla disperata, esultai nel solito modo».Lo stato di grazia si tramuta di colpo al 77’ quando Lippi ti sostituisce. «Mi giravano e parecchio. Volevo rimanere in campo. Non ero da sostituire. Anche in previsione degli eventuali rigori, visto che ero il rigorista della squadra e non mi sarei certo tirato indietro».E una frecciata a qualcuno? «No, i quattro che tirarono fecero centro. Non servì il quinto: non l’avrebbe tirato Vialli ma Del Piero».E bene quel che finisce bene! «Appena Jugović fece goal, scattammo tutti in campo: chi piangeva, chi si rotolava per terra, chi si abbracciava, chi saltava come un invasato. Alzare la Coppa dei Campioni è uno dei più bei regali della mia carriera».Anche qui la gioia si tramuta presto in delusione. «Successe tutto all’improvviso, dopo la finale. La Juventus aveva deciso di cedermi. Non ci potevo credere. Per me fu una pugnalata. Mi sono sentito tradito. Un giorno mi aveva chiamato Umberto Agnelli dicendomi che sarei stato il capitano del futuro. Ci accordammo con il Middlesbrough, che nel frattempo aveva raggiunto l’intesa con la Juve».Siamo all’ultima domanda. Ci sono un nome e un cognome: Andrea Fortunato. «Un grande dolore. Io ho perso un amico, il calcio un sicuro campione, la sua famiglia, che ancora oggi fa fatica, un figlio nel pieno della sua giovinezza. Quello che ho vinto alla Juve lo dedico a lui».
  15. SERGIO MANENTE http://it.wikipedia.org/wiki/Sergio_Manente
  16. RINO FERRARIO http://it.wikipedia.org/wiki/Rino_Ferrario
  17. RAIMUNDO ORSI http://it.wikipedia.org/wiki/Raimundo_Orsi Alle Olimpiadi di Amsterdam, 1928, l’Argentina era arrivata seconda dietro l’Uruguay. La “stella di Amsterdam” era stata l’ala sinistra della Nazionale del Plata: tutti dicevano che quell’Orsi era un uomo prodigioso e la Juventus decise di assicurarselo. I giornali di allora non pubblicavano fotografie; non esisteva la televisione, perciò vi era grande attesa (non soltanto a Torino) di vedere in carne ed ossa quel fenomeno. Lo si immaginava un tipo grande e grosso, pieno di muscoli, con una grinta feroce; invece, quando arrivò con il piroscafo a Genova, si vide che era tutto il contrario, con grande sbalordimento degli juventini, che si credettero presi in giro. Raimundo, “Mumo” come venne subito chiamato, era piccolino, magro e stretto di spalle, con una vita da “sartina”, un naso a becco che non finiva più, i capelli lucidi di brillantina con la riga da una parte e due occhi da furetto. Per di più portava un soprabito troppo corto e strettissimo, che, aveva “rubato” ad un fratello minore. Poi si seppe anche che suonava il violino, che faceva le ore piccole ad eseguire tanghi lacrimosi, che sentiva tanta nostalgia per la patria lontana e si concluse che sarebbe stata una grande delusione. In più c’era un fatto decisivo; gli stranieri, anche se di origine italiana, cioè “oriundi”, non potevano essere ammessi al campionato. Si trovò, comunque, una formula accomodante: Orsi non avrebbe giocato per un anno. Una specie di purgatorio. Ma la Juventus lo pagava ugualmente: centomila lire di ingaggio. ottomila al mese (lo stipendio di un ammiraglio) più un’auto Fiat 509, di quelle con la ruota di ricambio appesa dietro, sul portabagagli. Questo avveniva durante l’ultimo campionato a doppio girone, cioè nel 1928-29, vinto dal Bologna. Orsi lo si vedeva solo in allenamento e dopo la partita di campionato della domenica. La gente si fermava per vederlo, piena di curiosità e di scetticismo. E così Orsi cominciò a sbalordire. Qualche corsetta per il campo, poi si esercitava a tirare in porta dall’angolino del corner. Almeno otto volte su dieci il pallone si alzava con molle parabola, veleggiava, rientrava, si ficcava in rete sotto la traversa. Nessuno aveva mai visto una cosa simile. Terminato l’anno di quarantena, “Mumo” poté debuttare in bianconero e fu subito convocato in Nazionale. Giocò 194 partite in prima squadra, fu settantadue volte in Nazionale (tra Argentina e Italia), e campione del mondo nel 1934. Nella Juventus segnò 88 reti, in tutti i modi: di destro, di sinistro, con il ginocchio, di testa (poco, per non sciuparsi la pettinatura), dopo una galoppata da solo od in mischia furibonda; segnò anche con il sedere, voltando la schiena alla porta, su passaggio a mezza altezza di Giovanni Ferrari, con il quale si intendeva alla perfezione. Segnò anche su rigore, perché l’incaricato del tiro dagli undici metri, nella Juventus, era proprio lui, contrariamente all’abitudine vigente in quell’epoca, in cui il rigore veniva tirato dai terzini, che erano per tradizione tipi spazzatutto, dalla cannonata micidiale. Il grande Bertolini, altro juventino pluriscudettato e campione del mondo, che ebbe la fortuna di essere il mediano dietro a “Mumo”, disse un giorno: «Orsi è assolutamente imprendibile. Quando era in vena ed aveva voglia (non sempre) faceva cose strabilianti. Mai visto un giocatore come lui». Fermava il pallone di botto, lo lasciava lì in mezzo, davanti all’avversario, immobile. Lo stadio piombava in un silenzio esterrefatto, astrale. Orsi muoveva appena l’anca, il terzino abboccava, finiva a terra, “Mumo” era già lontano, naso al vento. Mario Pennacchia, nel suo libro “Gli Agnelli e la Juventus”, ricorda: «Orsi riceve la palla, indugia in palleggio e Mandi gli si pianta a mezzo metro. Prima finta di Orsi, Mandi risponde. Seconda finta dì Orsi, Mandi è ancora là davanti a lui. Il pallone è sempre incollato a terra, ma appena Mandi abbassa gli occhi per accertarsene, il pallone è sparito, volato via con Orsi. Mandi ringhioso raggiunge Orsi o forse è “Mumo” che rallenta, fatto sta che i due proseguono la forsennata corsa affiancati. Improvvisamente l’attaccante lascia inchiodato dietro di sé il pallone pur continuando l’indiavolato gomito a gomito con l’avversario, che ovviamente non si è accorto di nulla. Orsi si gira, vede che l’attento Cevenini ha seguito il suo numero e sta piombando indisturbato sulla palla ed allora si ferma di scatto, attira l’attenzione dell’avversario e con un gesto plateale lo beffa». Ondate di risa amiche scuotevano gli stadi, poi scaturiva il grido ritmato e sillabato OR-Sl, OR-SI, il primo di questo tipo che si sia udito su un campo di calcio. Il racconto di Rosetta: «“Mumo” era un personaggio divertente, pronto a fare scherzi ed ad accettarli, molto superstizioso ed un vero maniaco della scommessa; scommetteva sulle vittorie della Juventus, concedendo vantaggi esagerati, scommetteva che personalmente avrebbe segnato un goal, scommetteva al ping-pong, al tennis giocato con il palmo della mano, al biliardo e, se eravamo al “Bar Combi”, scommetteva sulla prima macchina che si fosse presentata con il numero di targa che finisse con cifra pari o dispari. Una volta, in vettura ristorante, naturalmente si stava mangiando, Orsi era seduto al mio fianco e di fronte a lui sedeva un nostro amico tifoso che, abitualmente, ci seguiva nelle trasferte: Durando. Cosa propose Orsi a questo signore ??? “Tutte le volte che il suo accendisigaro si accenderà, io pagherò a lei cinque Lire (somma allora favolosa) che lei invece pagherà a me in caso contrario”; quel signore aveva una macchinetta quasi nuova di zecca e non voleva accettare la scommessa, perché troppo sicuro di vincere; ma “Mumo” insistette ed il gioco incominciò. Al primo colpo si accese ed Orsi pagò le sue brave cinque Lirette; al secondo, al terzo ed al quarto colpo non si accese. “Sei troppo nervoso ragazzo” gli disse Orsi. Anche il quinto colpo fallì fra l’ilarità generale, perché oramai tutti erano attorno al nostro tavolo a godere lo spettacolo. Il gioco continuò ancora, ma raramente quel signore riusciva ad accendere la sua macchinetta e cominciava ad accalorarsi. Ma finalmente si mise a ridere di cuore; aveva capito lo scherzo. “Mumo” gli soffiava sulla macchinetta tutte le volte che aveva deciso di vincere ma, naturalmente, non tirava troppo la corda e gli permetteva di vincere qualche volta. Con il ricavato della vincita Orsi offrì i liquorini a nome di quel signore». Depetrini: «Credo che “Mumo” sia stato l’ala sinistra più forte di tutti i tempi, senza limiti di età. Aveva scatto, velocità, un perfetto controllo della palla e disponeva di un dribbling e di un repertorio di finte di corpo che, da allora, non ho mai più riscontrato in un attaccante». Che cosa gli mancava, per essere perfetto ??? Forse un poco di grinta, fuggiva dalle entrate decise, probabilmente perché non aveva la potenza di un Caligaris o la stazza di un Monti. Ma sarebbe sciocco pretendere da Paganini che suoni anche la grancassa. Se ne andò dalla Juventus nella primavera del 1935, ai primi sentori della guerra in Etiopia. Inutilmente Bertolini gli disse: «Guarda che sei un fesso. Cosa torni in Argentina, mentre qui c’è gente che ti sgancia i biglietti da mille come fossero noccioline !!!» Scrive un giornale, nel maggio del 1935: «Orsi è partito domenica per Buenos Aires e probabilmente non tornerà più. Se ne sarebbe andato quasi certamente a fine stagione, ma la malattia di sua madre lo ha indotto a partire prima, col consenso dei dirigenti juventini, che lo hanno festeggiato offrendogli anche un vistoso ricordo. Orsi ha così chiuso la sua carriera, eccezionalmente gloriosa, perché oltre all’avere conquistato cinque volte il titolo di campione italiano ha anche vinto il Campionato del Mondo e la prima Coppa Internazionale». Ci lascia nel 1986; con lui scompare uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, ma anche un grande personaggio, per quanto di affettuosa simpatia ha espresso durante la sua vita. RACCONTATO DA UMBERTO MAGGIOLI, SU “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 1965: Chi lo ha conosciuto può fondatamente asserire che Raimundo Bibiano Orsi, o più brevemente “Mumo”, era quel che si dice un bel tipo: franco, gioviale, simpatico. Destava cordialità a prima vista, con quella sua aria di longilineo che lo faceva sembrare un po’ gracile, ma non lo era. In effetti era di costituzione abbastanza robusta e ben muscolata che lo faceva resistente alle cariche, anche le più energiche, che però cercava costantemente di evitare. E sapeva evitarle con abilità quasi diabolica. Quando giunse fra noi, preceduto dalla recente e clamorosa fama sportiva derivante dalle sue gesta calcistiche di nazionale argentino e di ammiratissimo calciatore olimpico, la sua maniera di vestire fin troppo ricercata fece sorridere un po’ tutti. Non che fosse ridicolo, tutt’altro, poiché vestiva impeccabilmente alla moda argentina di quel tempo: quella dei giovani instancabili danzatori di tango del famosissimo “Caminito bonearense”. Moda scesa direttamente nell’America del Sud dagli Stati Uniti, dove aveva imperversato nel periodo dei cosiddetti “roaring ninentieth”, cioè dei ruggenti anni novanta; moda che, come ci aveva raccontato il nonno, da noi non aveva attecchito granché, ma sulle rive del Plata evidentemente sì, tanto che ancora la seguivano. Era la moda dei “Guies”, ossia dei bulletti di Manhattan. Giacca attillata, con la vita lunga, e pantaloni un poco inverosimili: fatti a tubo e molto stretti: tanto che, si pensava, non potessero infilarsi come tutti i calzoni di questo mondo, ma che si fosse costretti a saltarvi dentro al mattino, subito levati di letto. Era una moda forse bellissima, solo che era quella di trent’anni prima, e “Mumo” le era ancora fedele. Solo dopo un po’ di tempo che era a Torino si aggiornò; ma rimase sempre un figurino. Aveva la parola facile e si esprimeva con discreta chiarezza nella sua madrelingua italiana, inframmezzandola a volte con qualche tipico sprazzo di spagnolo; era propenso agli scherzi, anche se in talune circostanze magari inclini ad una certa pesantezza. Abilissimo in qualsiasi gioco di destrezza, sia a sfondo atletico che con le carte; nel tennis da tavolo era imbattibile, ed anche in quello vero, sul “court”, se la cavava niente male. Una sua caratteristica piuttosto curiosa fu la seguente: ala sinistra tra le più famose era un destro naturale ed il suo vero piede era appunto il diritto: così nel football come in qualsiasi altro esercizio. Però sapeva usare il piede sinistro del tutto come l’altro, così come si addice ad un vero calciatore degno di tal nome. Non è davvero azzardato affermare che, nel periodo del suo più elevato splendore Raimundo Bibiano Orsi, nato a Buenos Aires nel settembre del 1901 da genitori figli di emigrati italiani, è stato la più grande ala sinistra del vecchio e nuovo mondo. In Argentina aveva avuto un predecessore che era stato l’estremo sinistro di maggiore classe e abilità negli anni nei quali in Argentina si delineava il trapasso fra il regime dilettantistico e quello professionale, ossia, all’incirca, nell’epoca del primo conflitto mondiale. Gli studiosi della storia calcistica ben lo ricordano: era Candido Garcia, calciatore che col piede sinistro sapeva trattare la palla come nessuno in quel tempo. Tanto che i tifosi gli coniarono un soprannome esplicativo. Fu, infatti, “El poeta de la zurda”, e tale ultima parola, nel gergo calcistico del paese, è appunto il piede (“la pierna”) sinistro. Si affermava in quel tempo in tutta l’America del Sud che Candido Garcia con quel suo piede mancino avrebbe potuto suonarci la chitarra, e magari l’arpa. Nella lingua spagnola esiste un verbo neutro caratteristico: “zurdear”, che Garcia sapeva coniugare a meraviglia, così come Dominguin, Ordofiez, “El Cordobés” sanno “torear”. “Mumo” sapeva “zurdear” come Candido Garcia che lo precedette, ed anche come Loustau, altra ala sinistra famosa, del River Plate, che laggiù prese presto il suo posto in Nazionale e nel cuore di tifosi. “Mumo” Orsi non sapeva soltanto “zurdear” ma sapeva anche adoperare il piede destro con eguale maestria ed osservandolo giocare non si notava alcuna differenza tra l’uso dell’uno e dell’altro piede, caratteristica che denota l’autentico fuoriclasse del calcio. Si era formato nelle file dell’Independiente, la grande società sorta a Buenos Aires nel “Barrio”, ossia del porto, popolato da gran numero di immigrati italiani. Aveva seguito tutta la trafila del periodo formativo, dai “Biberon” eppoi, via via, promosso alla “Quarta especial”, cioè corrispondente ai nostri “Juniores”, sino alla chiamata in prima squadra. Era già stato varie volte campione d’Argentina ed aveva poi conquistato il ruolo fisso di ala sinistra della rappresentativa nazionale biancoazzurra disputandovi decine e decine di partite internazionali, vincendo anche la Coppa Roca, torneo importantissimo fra le Nazionali dei paesi dell’America del Sud; sino alle Olimpiadi del 1928 ad Amsterdam, nel corso delle quali tecnici, giornalisti e avversari lo avevano proclamato migliore elemento della competizione. Venne così alla Juventus come “Stella di Amsterdam”, e vi giunse, logicamente, non più giovanissimo, di primo pelo. Nato, come già scritto, nel 1901, la società lo acquistò nel 1929, e la nostra Federazione lo classificò quale “oriundo”. Dapprincipio disputò in maglia bianconera soltanto le partite amichevoli, destando subito entusiasmo per la sua bravura. In campionato giocò la prima gara nel torneo 1929/30, contro il Napoli che, alla fine del primo tempo, vinceva per 2-1 ma terminò sconfitto per 3-2. La Juventus per averlo gli aveva offerto ottime condizioni, con uno stipendio (che egli volle corrisposto in Pesos) che si aggirava, allora, sulle seimila Lire mensili. Il comm. Pozzo, che lo conosceva bene, non esitò neppure un istante a chiamarlo nelle file azzurre. Come figlio di italiani nato all’estero beneficiava del diritto di mantenere la doppia nazionalità argentina ed italiana, secondo la convenzione redatta tra i due governi nel 1886, ed il relativo possesso dei due passaporti: così anche sul piano sportivo internazionale la sua posizione risultava pienamente regolare. Debuttò in Nazionale il 1° dicembre 1929 a “San Siro”, giocando contro il Portogallo, che fu battuto per 6-1, primo tempo 3-1. Segnò per prima la squadra italiana con Marcello Mihalich, pareggiarono i portoghesi con Soares, ma avanti che i primi quarantacinque minuti terminassero “Mumo” si era presentato con due sue irresistibili segnature che portarono la nostra squadra in netto vantaggio, che venne rafforzato nella ripresa con altre reti di Adolfo Baloncieri, poi Attila Sallustro e ancora Mihalich. Come azzurro fu anche Campione del Mondo nel 1934, dimostrandosi la migliore ala sinistra di tutte le formazioni concorrenti, così come Luisito Monti ne fu il più prestigioso centromediano. E parteciparono alla vittoriosa competizione altri bianconeri: così come “Viri” Rosetta, Felice Placido Borel, Luigi Bertolini, “Gioanin” Ferrari. Nella finale di Roma, contro la Cecoslovacchia, diretta dall’arbitro svedese Eklind, dopo il primo tempo concluso sullo 0-0, fu proprio lui, “Mumo” Orsi a pareggiare le sorti realizzando la segnatura dell’1-1, mentre fu poi Angelino Schiavio che segnò la rete della nostra vittoria. L’ultima apparizione con la maglia della Nazionale Orsi la fece a Vienna il 24 marzo del 1935 quando l’Italia, dopo tanti anni, superò l’Austria in casa sua, con due magnifiche reti dell’esordiente Silvio Piola. Quale calciatore Raimundo Bibiano Orsi era tecnicamente completo. Palleggiatore sopraffino, come detto,sia di destro che di sinistro, in quanto possedeva, come si dice nello speciale gergo del football, completamente i due piedi; il suo dribbling era largo o stretto, a seconda delle circostanze, ma preferiva superare gli avversari che gli contrastavano il passo con perfette finte eseguite col tronco, andandosene poi sia sulla destra che sulla sinistra, come credeva meglio riuscire. Le sue doti più efficaci apparivano la velocità ed il tiro che, specie in corsa, riusciva quasi sempre micidiale. Collaborava sempre con i compagni di linea ma, quando gli sembrava opportuno, era capacissimo di andarsene per suo conto e risolvere le situazioni da solo, anche se la spalla con la quale meglio se la intendeva fosse un elemento della classe e versatilità di “Gioanin” Ferrari, sia nella Juventus che, sovente, anche in Nazionale. Se come calciatore Orsi appariva inimitabile, come uomo era di buon carattere, affabile, generoso, attaccato alla famiglia che aveva recato con sé dall’Argentina. A Torino gli erano nati due figlioli, il primo dei quali, Huguito, tentò seguirlo nella carriera di calciatore, riuscendo a diventare, in Buenos Aires, nel Racing, soltanto un’ala destra appena discreta: ciò che conferma come la classe calcistica non risulti quasi mai ereditaria; almeno in linea diretta. Aveva una innocente mania ed un solido hobby. La mania era quella di non farsi mai la barba prima di una partita: teneva un rasoio nel magazzino dello spogliatoio e si radeva dopo l’incontro. L’hobby era quello del violino. Lo suonava con molta abilità nei momenti di relax. Il suo cavallo di battaglia era suonare il celeberrimo tango, “La Cumparsita”. Chi scrive ricorda che nei primi tempi dopo il suo arrivo a Torino “Mumo” lo invitò a casa sua appunto per offrire un’audizione quale violinista. Conosceva e suonava bene lo strumento ma, francamente, era preferibile quale ala sinistra. A un certo momento, anzi, di tale audizione, “Mumo” mise, il disco de “La Cumparsita” sul grammofono e seguitò ad accompagnare l’orchestra che lo aveva registrato, che era quella di Edoardo Bianco. E l’effetto appariva decisamente migliore. Dopo il quinto campionato vinto con la sua “Giuventus” (come lui la chiamava) “Mumo” cominciò ad essere preoccupato ed a manifestare intenzioni di tornarsene a Buenos Aires. Erano i tempi in cui si preparava la guerra di Abissinia e lui ne temeva le conseguenze, senza nasconderlo agli amici. Era quasi ossessionato dall’idea di essere richiamato alle armi, anche se nei suoi documenti era ben scritto che aveva prestato servizio militare vagamente approssimativo presso un ufficio dell’Arsenale di Buenos Aires. E nel 1935 se ne ripartì. “Mumo” era specialista nel battere i calci d’angolo che spesso riusciva a mandare direttamente in rete con traiettorie curve studiatissime. Era impeccabile anche nei calci di rigore. Nell’ultima seduta di allenamento cui partecipò allo “Stadio Comunale” scommise, come sovente faceva, con il compianto Giampiero Combi, che gli avrebbe segnato dieci rigori facendogli passare la palla a mezz’altezza sull’angolo destro. Ne realizzò sette, due Combi li deviò ed uno colpì il montante finendo fuori. Ripartì in piroscafo, come era arrivato. E la sua partenza dispiacque a tutti. Sicuramente molto anche a lui. Ma Raimundo Bibiano Orsi era ormai diventato juventino nell’animo. Lo può dimostrare il toccante episodio che siamo in grado di riferire. In un caffè una sera del febbraio 1948 a Santiago del Cile, il signor Tommaso Piovano, un giovane industriale di Chieri, appassionato juventino, che da circa un anno si trovava nel Cile per affari presso un fratello, venne avvicinato da un signore di mezza età, un po’ grassottello. Il signor Piovano aveva all’occhiello il distintivo bianconero della società e fu appunto tale vista che indusse quel signore dai capelli brizzolati per il momento sconosciuto a trasalire e subito avvicinarsi. Si trattava niente altri che di “Mumo” Orsi che si era commosso alla vista di quel distintivo che gli riaccendeva tanti cari ricordi. Piovano lì per lì non aveva riconosciuto l’ex-campione, per il quale aveva in altri tempi tifato in abbondanza. E per qualche tempo Orsi ebbe a parlare della sua “Giuventus” e dei vecchi tempi trascorsi a Torino. Dopo aver tentato la carriera di allenatore in Argentina e poi anche nel Messico e nel Cile, a Villa del Mar, l’ex “Stella di Amsterdam” si era ricordato di saper trattare discretamente il violino e aveva tentato di cavarsela mettendo su un quartetto con il quale girava per i diversi paesi dell’America Latina. Ma il calciatore era stato ben più famoso e brillante di quanto ormai non fosse l’allenatore ed il violinista direttore di quartetto. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/12/raimundo-orsi.html
  18. SALVATORE SCHILLACI http://it.wikipedia.org/wiki/Salvatore_Schillaci
  19. SANDRO SALVADORE http://it.wikipedia.org/wiki/Sandro_Salvadore Sandro Salvadore, detto Old Billy fece parte del poker dei magnifici classe 1939 della Juventus, quattro giocatori che rimarranno sempre nella storia bianconera, per come si sono battuti, per quanto hanno vinto: Castano, Leoncini, Haller ed appunto Old Billy. Questo soprannome proviene dalla grande ammirazione per Billy Wright, mitico centromediano dellInghilterra che sconfisse 4 a 0 lItalia di Valentino Mazzola allo Stadio Comunale di Torino, il 16 maggio 1948. Billy Wright fu adottato come nome di battaglia da Salvadore. «Potenza del nome, suonava bene, e poi apparteneva ad un gran regista difensivo, un pilastro dellInghilterra dei maestri». Nato a Niguarda, scoprì il pallone alloratorio della sua parrocchia, come tutti i bambini dellepoca. Poi fu scoperto dai tecnici delle giovanili del Milan ed in maglia rossonera bruciò tutte le tappe: vinse due Viareggio ed a diciotto anni debuttò in serie A, laureandosi campione dItalia nel 1959; nel 1960 disputò le Olimpiadi a Roma con la Nazionale e, due anni dopo, centrò il suo secondo scudetto, sempre con i rossoneri. La coppia centrale di quel Milan era formata da Salvadore e da Maldini ed i due si somigliavano parecchio, come stile e modo di giocare; allenatore del Milan era il mitico Gipo Viani, che privilegiò lesperto Cesare Maldini come libero. Salvadore si ritrovò a fare il marcatore e con le sue qualità fisiche e con i suoi fondamentali, si sentiva sprecato in quel ruolo ed ebbe dunque un concorrente agguerrito in Maldini. Questo dualismo fu risolto cedendo Salvadore, insieme ad un altro terzino, Noletti, in prestito) alla Juventus in cambio di Bruno Mora, unala molto talentuosa. Viani, inventore di uno dei primi sistemi difensivi fondato sul libero, era un personaggio di spicco nel panorama del calcio italiano; per giustificare la cessione di Salvadore disse: «Avevamo due paia di pantaloni, Salvadore e Maldini, ne abbiamo dato via uno in cambio di una giacca, Mora. Adesso disponiamo di un vestito completo». Letto larticolo, Salvadore gli rispose: «Il ragionamento funzionerebbe, se non fosse che si è tenuto i pantaloni vecchi. Poteva tenersi quelli nuovi da abbinare alla giacca nuova, così avrebbe avuto un vestito veramente bello». Salvadore era uno dei pochissimi difensori, se non lunico, che teneva i calzettoni arrotolati sulle caviglie, come Omar Sivori. Allepoca non era obbligatorio portare i parastinchi, a lui davano fastidio e li metteva solo in casi eccezionali. Mostrava gli stinchi nudi agli avversari, senza timore. A volte sembrava brusco, quasi burbero, ma capace di ridere e scherzare su tutto, se cera da dire qualcosa in faccia a qualcuno, Salvadore non si tirava indietro. Non erano anni facili alla Juventus, anche se cerano grandi giocatori, come il fenomenale Omar Sivori, ancora capace di fare la differenza, ed un cursore infaticabile come Del Sol. Lallenatore era Paulo Lima Amaral, già preparatore atletico del Brasile che nel 1958 e 1962 aveva vinto due mondiali, giocava a zona ed applicava il rischiosissimo 4-2-4, che si trasformava in 4-3-3 in fase difensiva. La coppia centrale della difesa era composta da Castano e Salvadore, che giocavano in linea. Amaral non durò a lungo e, nelle prime giornate del torneo successivo, fu esonerato e sostituito da Eraldo Monzeglio, ex campione del mondo 1938. Dopo Monzeglio arrivò Heriberto Herrera, con il quale Salvadore ebbe un rapporto difficile. Il ginnasiarca volle utilizzarlo sulluomo, con Castano battitore, ma Salvadore si ribellò e linflessibile Herrera lo mise fuori squadra. Riserva nella Juventus e titolare, come libero, nella Nazionale di Edmondo Fabbri, che lo riteneva un elemento importantissimo. Una situazione veramente comica. Sandro assicurava che, se avesse potuto tornare indietro, non contesterebbe più Heriberto, linventore del movimiento, accettando il ruolo. «È un po anacronistico dirlo in tempi in cui tutti contestano e, come vanno in panchina, fanno intervenire il procuratore e, magari anche lavvocato. Comunque, il tempo mi diede ragione». A fine maggio 1967, Salvadore vinse il suo terzo scudetto, il primo con la Juventus. Fu quello del clamoroso sorpasso sullInter, allultima giornata. Il ciclo di HH2 toccò il culmine con la semifinale di Coppa dei Campioni persa con il Benfica di Eusebio, la perla del Mozambico. Sullo slancio, Salvadore ottenne la soddisfazione più bella della carriera, vincendo il campionato dEuropa per Nazioni, a Roma nel 1968. Escluso dalla prima finale con la Jugoslavia, finita 1 a 1 dopo i tempi supplementari, fu ripescato da Valcareggi per la ripetizione. «Il C.T. capì di aver sbagliato qualcosa e corresse la formazione, azzeccando le mosse giuste, dal sottoscritto in difesa, al tandem Riva-Anastasi in attacco. I goals di Gigi e Pietruzzu ci diedero il trionfo. Una notte magica, indimenticabile, con lo Stadio Olimpico e lItalia in delirio». Nel 1969-70, a causa del declino di Castano, Old Billy divenne capitano e tornò, stabilmente, a giocare da libero. Ebbe piena fiducia da Carniglia e poi da Rabitti, che subentrò al tecnico argentino, dopo un avvio di campionato quasi disastroso. Salvadore ripagò la fiducia con gli interessi, pilotando la Juventus ad una serie di 16 risultati utili consecutivi che misero paura al Cagliari di Gigi Riva lanciato alla conquista del primo storico ed unico scudetto. Un dubbio rigore concesso da Lo Bello, il principe del fischietto, per un fallo su Riva, trattenuto per la maglia proprio da Salvadore in mischia sotto porta, dopo un corner per i sardi, fissò il risultato sul 2 a 2 e permise al Cagliari di tenere la Juventus a meno due punti. Da quella partita il Cagliari del suo condottiero Rombo di Tuono prese la spinta decisiva per volare verso il tricolore. Quella fu anche la stagione che costò a Salvadore il posto in azzurro, proprio alla vigilia del Mondiale messicano. Aveva già disputato due mondiali ed erano stati fallimentari; è il suo più grosso rimpianto. «In Cile, nel 1962, avevamo uno squadrone fortissimo, in grado di strappare il titolo al Brasile. Sivori, Altafini, Rivera, Maldini, Mora, Trapattoni, Maschio, Pascutti, Robotti ed altri nomi importanti. Eppure, fummo eliminati nel primo turno. A parte larbitraggio scandaloso dellinglese Aston fu una cattiva gestione la causa delleliminazione. Come in Inghilterra, quattro anni dopo. Albertosi, Facchetti, Bulgarelli, Rivera, Mazzola, Rosato, Meroni, in una rosa ricca di campioni. Eppure, fummo incredibilmente battuti dalla Corea del Nord, a Middlesbrough, con un goal di un certo Pak Doo Ik. Valcareggi, visionandoli li aveva definiti dei Ridolini. Loro risero e noi piangemmo amare lacrime. Ero in tribuna, quel giorno, ma anchio divenni un coreano. Peccato». Due sfortunatissime autoreti al Santiago Bernabeu di Madrid nellamichevole con la Spagna, la sera del 21 febbraio 1970, vanificarono i goals di Anastasi e Riva ed indussero il C.T. Valcareggi, che come Napoleone voleva i suoi generali fortunati, a non convocarlo per il Mondiale messicano. «Il giorno più brutto della mia carriera; In realtà, feci solo un autogoal, sullaltro non toccai il pallone, ma me lo attribuirono lo stesso». Fu la 36sima ed ultima presenza dello juventino in Nazionale. La Juventus divenne la sua Nazionale. Non saltò mai una partita. «Avessero dovuto pagarmi a gettone, sarei costato un patrimonio alla società». Non gli è mai piaciuto perdere: come quella volta che andò a segnare il gol del pareggio, al ritorno di Juventus-Milan, decisiva per la testa del campionato, poi vinto. «Aveva segnato Bigon per loro, ma noi non potevamo perdere; continuavo ad andare in attacco, anche per far capire agli altri che non bisognava mollare la presa, finché non è arrivata la palla giusta. No, non si poteva perdere e non abbiamo perso». Con la maglia bianconera ha disputato ben 449 partite vincendo altri due scudetti nel 1971-72 e nel 1972-73 e giocando anche la finalissima dei Coppa dei Campioni a Belgrado, persa 1 a 0 contro lAjax. Nel 1974, per dare spazio a Scirea, la Juventus gli concede la lista gratuita. Cominciò lattività di allenatore, nel settore giovanile della Juventus. Ebbe anche due parentesi con i semiprofessionisti a Casale ed Ivrea, ma la sua passione era allenare i giovani. Qualche anno dopo prese la solenne decisione di trasferirsi, con moglie e tre figlie, in una cascina a Costigliole dAsti. Sentiva il bisogno di stare allaria aperta, di vivere nel verde, diventando così un ricco pensionato che ama vivere nel verde e guidare i trattori. Con, nel sangue, la mai sopita passione per il calcio. Ci lascia nel 2007, in una fredda mattina di gennaio, mentre la sua amata Juventus gioca un insensato, immeritato ed immotivato campionato di serie B. Ma noi lo ricordiamo fiero e senza timore, senza parastinchi e con i calzettoni giù fino alle caviglie, uscire dallarea palla al piede e scendere nella metà campo avversaria per cercare lassalto decisivo. INTERVISTATO DA HURRÀ JUVENTUS NELLAPRILE 1979: Lo chiamavano Billy il grande. I colleghi in bianconero, specie i più giovani, erano ammirati ed orgogliosi di lui. Al suo fianco si sentivano tranquilli, protetti e lindomabile Sandro Salvadore, è di lui che parlo, maniche rimboccate sino al gomito, alto, dinoccolato, dal duro cipiglio, ad offrire costantemente il proprio alto contributo di forza e di esperienza a favore della squadra. Quasi un eroe da film western, un cowboy alla John Wayne, per intenderci, e questo gli valse appunto quellaffettuoso appellativo di Billy. Sandro Salvadore, è storia ancora abbastanza recente, ha lasciato con lattività agonistica cinque anni or sono, cioè al termine della stagione 1973/74 che vide la Juventus seconda alle spalle della Lazio, per cedere il posto al giovane Scirea. Aveva 35 anni, il fisico integro, malgrado la lunga carriera percorsa, una carriera condensata di allori, i due scudetti nel Milan dapprima, poi i tre in bianconero a cominciare da quello storico nel 1966/67 con Heriberto, il tredicesimo della serie juventina che coincise col settantennio della società torinese. Era giunto anche per lui il momento di chiudere e di pensare al domani. «Quel collettivo», mi ricorda Sandro, «è stato ripreso un poco da tutti. Certo, Heriberto aveva le idee avanzate, moderne, anche se era un tipo poco aperto. Il libero con lui già si inseriva, partecipava alla manovra. Era insomma un tecnico di valore come serietà nella preparazione, nellallenamento. Adesso in un certo senso il compito per i nostri allenatori è più facile. Il Supercorso che seguo a Coverciano, ad esempio, ci informa di tutto quanto di meglio cè nel mondo in fatto di teoria e di pratica calcistica». Già, il Supercorso di Coverciano che vede Sandro a scuola con altri illustri ex colleghi, Angelo Cereser, Agroppi, Puja, col quale formò un forte tandem in Nazionale, Tumburus, Cella, Fogli ed altri ancora. «Finiremo a maggio ed avrò il brevetto di allenatore del Settore giovanile. È un corso molto impegnativo, otto ore di lezione al giorno dal lunedì al venerdì; numerosi i preparatori, gli insegnanti; le esperienze dallestero, anche con selezioni di filmati, completano poi il nostro bagaglio tecnico personale e di cultura con nozioni di medicina, anatomia, biochimica». Salvadore da parte sua ha comunque già una certa esperienza nel settore giovanile, considerando che è al suo terzo anno alla Juventus quale istruttore seguendo la Primavera. Parlando dei ragazzi doggi viene quindi facile con lui ritornare indietro nel tempo, allesordio in rossonero. «Al Milan si guardava molto ai giovani a cominciare dal Direttore Tecnico Viani. Allora lallenatore della prima squadra ci seguiva assiduamente. La presenza di Viani, anche se critica, era utile. Noi eravamo una signora squadra con i vari Danova, Trebbi, Ferrario, Radice, Trapattoni ed il sottoscritto. Andammo alle Olimpiadi romane e tenemmo testa alle selezioni dellEst che pure erano le Nazionali A. Adesso per i giovani si impiegano dei capitali allora cosa costavano alle società? Ci davano da mangiare e ci pagavano le spese, tutto qui». Abbiamo ricordato Gipo Viani, ma quale peso ha avuto Nereo Rocco nella riuscita della sua carriera? «Rocco era tutto il contrario di quello che impariamo a Coverciano; era un autodidatta, poco democratico, ma aveva quel qualcosa che gli faceva sempre capire gli altri, in particolare i propri giocatori, tenerli carichi psicologicamente». Da un radicale rinnovamento prese proprio lavvio il meraviglioso settennio bianconero. «È stato così infatti, con Haller,ed il sottoscritto, a fare da riferimento». Si diceva che lei sentisse particolarmente il fascino della maglia azzurra. «Effettivamente la Nazionale è qualcosa di più del campionato a patto però che il risultato sia legato ad un traguardo. Le amichevoli, insomma, non mi andavano. Io raggiunsi il massimo del rendimento proprio quando i responsabili della nazionale si dimenticarono di me. Comunque sono già orgoglioso delle mie 36 presenze in azzurro, del mio campionato Europeo del 1968». La sua è stata una carriera ricca di allori; ci saranno però stati pure dei momenti di delusione come daltronde capita in tutte le attività. Qualche rammarico? «Sì, principalmente uno, quello dì non aver conquistato la Coppa dei Campioni a Belgrado nella famosa finale con lAjax del 1973. Eravamo arrivati vicinissimi ormai a quella Coppa, troppo vicini. Potevamo fare di più ma purtroppo proprio in quella grande occasione la sorte ci voltò le spalle». IL RITRATTO DI ALBERTO FASANO, SU HURRÀ JUVENTUS DEL SETTEMBRE 1985: Era un tipo smilzo, lungo lungo, magrolino, anche se di costituzione robustissima. Giocava nel grande Milan di quei tempi, insieme a Maldini, Radice, Dino Sani, Altafini, Rivera e Trapattoni: e proprio insieme allamico Trapattoni, il grande Sandro esordì con la maglia azzurra il 10 dicembre 1960, allo stadio San Paolo di Napoli, in occasione di una amichevole con lAustria. Fu lindimenticabile Gioanin Ferrari, allora Commissario Tecnico, a convocarlo ed a gettarlo nella mischia internazionale, perfettamente convinto delle qualità tecniche e fisiche del ragazzo. Purtroppo la prima gara coincise con una sconfitta: gli austriaci, capitanati dal grande Hannapi, riuscirono a battere (2-1) lItalia scesa in campo nella seguente formazione: Buffon; Losi e Castelletti; Guarnacci, Salvadore e Trapattoni; Mora, Boniperti, Brighenti, Angelillo e Petris. Dopo soli 7 di gioco lAustria andò in vantaggio con linterno Hof, poi, dopo venti minuti di ruggente arrembaggio, gli azzurri agguantarono il pareggio per merito di Boniperti; ma allinizio della ripresa il centravanti Kaltenbrunner siglò la rete che diede il successo agli austriaci. Sia Salvadore che Trapattoni, i due giovanissimi esordienti, si comportarono in modo eccellente, tanto è vero che entrambi vennero riconfermati da Ferrari per la successiva amichevole del 25 aprile 1961 a Bologna contro lIrlanda del Nord. In quellincontro le cose andarono meglio, almeno per quanto riguarda il risultato: gli azzurri vinsero per 3-2, dopo unaltalena di emozionanti fasi di gioco. Al 30 ed al 55 il bianconero Stacchini segnò per lItalia, ma prima Dougan eppoi McAdams rimisero in equilibrio le sorti della gara. Ci pensò poi Sivori a mettere a segno il goal vincente quando mancavano dodici minuti al fischio finale. Salvadore continuò ancora a giocare altre partite in Nazionale, con provenienza milanista, prima di approdare alla Juventus, evento che si verificò allinizio della stagione 1962/63. E fu Mondino Fabbri a riproporlo in azzurro dopo un certo periodo di assenza. Loccasione arrivò quando la nazionale italiana dovette trasferirsi a Istanbul (27 marzo 1963) per giocare la seconda partita valevole per la Coppa Europa delle Nazioni. Fabbri mandò in campo una formazione mosaico: Vieri (Torino); Maldini (Milan) e Facchetti (Inter); Tumburus (Bologna), Salvadore (Juventus) e Trapattoni (Milan); Orlando (Roma), Puja (Vicenza), Sormani (Mantova), Corso (Inter) e Menichelli (Roma). LItalia vinse per 1-0. Grande esibizione della coppia Salvadore/Trapattoni il 12 maggio 1963 allo stadio di San Siro, dove venne giocata la famosa supersfida Italia-Brasile. Tutti ricorderanno come Trapattoni annullò il grande Pelè, ma non tutti sanno che Sandro Salvadore letteralmente cancellò dal terreno di gioco il temibile Coutinho, meritandosi i sinceri complimenti di Feola, il rubicondo Commissario Tecnico della compagine brasiliana. A Torino, acquistato dalla Juventus, il taciturno Salvadore trovò lambiente ideale, sia come calciatore che come uomo, e come marito della sua giovanissima sposa Anna. Torino parve immediatamente la città che faceva per lui e Sandro ci si trovò come se ci fosse addirittura nato. Lui composto, lineare, riservato, Torino composta, lineare, riservata. Sandro ed Anna scelsero un appartamentino sulle prime propaggini della collina, sulla rampa che porta ai Cappuccini; le finestre si aprivano sulla collinetta dove sorge labbazia, dal soggiorno si spaziava sui viali del Lungo Po, attorno calma e silenzio, davanti a casa un boschetto delle gaggie, dietro la verde collina. Sono sicuro che Sandro Salvadore ricorda ancora con nostalgia quei tempi e quella casa, la casa di due freschi sposi, una casa dove lui ci stava tanto e volentieri. Molti credevano che il libero della Juventus fosse un incallito introverso od un tenace solitario; ma lui si ribellava a quella etichetta. Diceva: «Vivo così perché mi piace e per nessun altro motivo». Era infatti, tutto sommato, un tipo socievole, in certa misura. Mi spiego: con i compagni viveva volentieri, scherzava e rideva, stava alle battute spiritose. Ma per la partita a carte o per il film visto collegialmente dopo lallenamento, Sandro era un elemento perso. Preferiva tornarsene a casa, gli piaceva la poltrona comoda, il the bevuto con Anna, le quattro chiacchiere semplici che si possono fare leggendo il giornale o guardando la televisione. Ricordo le sue abitudini, specialmente quelle del lunedì. Era il giorno della completa evasione. Se la domenica non prendeva botte, allora il lunedì mattina saltava in macchina con la moglie ed andava fuori Torino. Se si era in stagione invernale, saliva sempre a Sestriere: unora di sci, unora di sole, riposo e distensione. Non dimenticando la lettura dei giornali, al lunedì sera, quando, tornato a casa, si metteva in pantofole e si accucciava in poltrona. Questo ritratto di Sandro Salvadore non assomiglia per niente a quello che si deve fare se lo si esamina dal punto di vista atletico, sul terreno di gioco. Allora la trasformazione era completa: Salvadore era un autentico guerriero, un magnifico atleta, un giocatore che faceva sempre sentire allavversario il peso della sua massiccia muscolatura. Colpiva di testa con incredibile precisione, con forza paurosa, una specie di ariete. Con i piedi era di una abilità brasiliana. Ricordo che due altri giocatori juventini palleggiavano volentieri con Sandro: i due si chiamavano Sivori e Haller, due campioni inarrivabili, che con la sfera di cuoio facevano tutto quanto volevano. E Sandro Salvadore; sia ben chiaro, non era inferiore ai due. Poteva occupare qualsiasi ruolo della difesa, da terzino, a stopper, a libero. La classe (e più tardi lesperienza) gli ha sempre consentito di esibirsi su qualsiasi platea, nazionale od internazionale, fornendo ovunque strepitosi saggi di calcio atletico e di calcio raffinato. Diventò capitano della nazionale il 10 maggio 1963, giorno in cui lItalia incontrò la forte rappresentativa dellUrss allo stadio Olimpico di Roma. Lincontro finì in pareggio (1-1), ma gli azzurri diedero prova di grande carattere e di consumata maestria, anche se la rete del pareggio venne realizzata da Rivera ad un solo minuto dal fischio finale. Dal giorno in cui ebbe i gradi, Salvadore si comportò sempre da grande campione, collezionando indimenticabili successi nella sua lunga carriera. Dopo aver portato per 17 volte la fascia di capitano, dovette cederla a Facchetti. La carriera azzurra di Salvadore venne bruscamente troncata dal Commissario Tecnico Ferruccio Valcareggi che credette di individuare in due sfortunate autoreti del libero azzurro (partita di Madrid, 21 febbraio 1970, pareggio per 2-2) la causa di una mancata vittoria sugli iberici. Gli azzurri erano andati in vantaggio con Anastasi all11 ed avevano raddoppiato con Riva al 18; poi, nel giro di due disgraziatissimi minuti, dal 23 al 25, ecco gli autogol di Salvadore. E la fine, brusca e immeritata, di una magnifica carriera con la maglia azzurra! http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/11/sandro-salvadore.html
  20. LIONELLO MANFREDONIA http://it.wikipedia.org/wiki/Lionello_Manfredonia
  21. GIANFRANCO ZIGONI http://it.wikipedia.org/wiki/Gianfranco_Zigoni Nato a Oderzo (Treviso) il 25 novembre 1944. Cresciuto nella societá, nel 1961, poco piú che diciassettenne, debutta in bianconero ed in serie A. Dopo un triennio caratterizzato da sporadiche apparizioni la Juventus lo cede in prestito al Genoa. Due stagioni con i rossoblu e nell'estate del 1966 rientra a Torino dove conquista la maglia di titolare. Attaccante di ottimo talento, eccede in personalismi ed un autentico limite é il suo carattere ribelle che in molte occasioni gli costa espulsioni e squalifiche. "Zigo" ha la fama da sciupafemmine ma, si rende protagonista di vere e proprie bravate da bullo di periferia. Come quando, per cercare di sconfiggere la noia dei ritiri, si diverte a sparare ai lampioni con la sua "Colt 45". Ma Zigoni, per fortuna, non é solo questo. É soprattutto un calciatore, anzi, un fuoriclasse. "Quello é un musso, é un "figlio de puta" e poi ha troppe donne che lo sfiniscono, ma quando vuole é un purosangue". Queste parole, pronunciate da Saverio Garonzi, presidente di Zigoni nei suoi anni a Verona, riassumono perfettamente la personalitá ed il carattere del nostro. Pare di vederlo ancora, "Zigo", che si toglie pelliccia e cappello, il suo abbigliamento da panchina, saluta il suo pubblico e, se gli gira bene, porta a casa la partita con un paio di prodezze. Racconta: "Detestavo gli arbitri, tiranni al servizio delle squadre piú potenti e fregarli non era solo un piacere, ma un dovere per chi giocava in una squadra di provincia. Sognavo di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso. Mi immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non piú "Bentegodi", ma Gianfranco Zigoni. Ho accumulato piú giorni di squalifica che goal, perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili ed ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica e trenta milioni di multa perché dissi ad un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio lí. Trenta milioni negli anni settanta: all'epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertá di opinione. Ho un unico rimpianto, essermi tagliato i capelli alla Juventus, ma ero troppo giovane, non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli. Avevo una grande opinione di me stesso, pensavo di essere il piú forte calciatore sulla terra. In campo odiavo l'avversario e lo colpivo col mio pugno, che era micidiale, fuori gli volevo bene e lo invitavo a bere un whisky. Un giorno, alla Roma, capita di incontrare il Santos di Pelé, in amichevole, allo stadio Olimpico. Mi dico: "Oh, giustizia sará fatta, oggi il mondo capirá che Zigo-goal é piú forte di Pelé". Lo aveva giá detto Trapattoni dopo un Genoa-Milan 3-1 degli anni Sessanta, tripletta mia. "Ragazzi", dichiaró il Trap quel giorno, "Zigoni é meglio di Pelé". Lo aveva ammesso Santamaria, gran difensore, dopo una sfida Juventus-Real Madrid: io avevo fatto impazzire il Santa, finte e tunnel, e quello a fine partita si rivolse cosí a Sivori: "Sto chico é migliore del negro". Ero convinto della cosa, mi sentivo piú bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi. Poi arriva l'amichevole col Santos, vedo Pelé dal vivo e mi prende un colpo. Madonna, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annunceró in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparo la dichiarazione in terza persona: "Zigoni lascia l'attivitá, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno piú forte di lui". Ad un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelé va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora é umano, penso, e cosí resto giocatore". Girava in pelliccia, mangiava coniglio e polenta prima di un allenamento, erano piú le volte in cui usciva dal campo con la maglietta ancora asciutta, ma sapeva come far innamorare i tifosi. Calzettoni perennemente abbassati, una stempiatura evidenziatasi ben presto nonostante sulla nuca i capelli fossero sempre lunghi, Gianfranco Zigoni dall'inizio degli anni sessanta alla fine dei settanta é stato uno dei calciatori piú spettacolari. Faceva impazzire gli allenatori, ma li ripagava sul campo. "Piú forte di me? C'é stato solo Pelé, io ero il corrispettivo in bianco. Solo che per avere continuitá avrei anche dovuto allenarmi, qualche volta". Il vocabolo estroso sarebbe fin troppo riduttivo per inquadrare Zigo-goal. Lui era la mosca bianca, quello che usciva dagli schemi, che non si faceva ingabbiare, convinto che il suo enorme talento sarebbe comunque emerso. Juventus, Genoa, Roma, Verona, Brescia. "In bianconero vinsi anche uno scudetto con Heriberto Herrera: mi faceva impazzire chiedendomi di andare a coprire a centrocampo. Quello era uno Zigoni vincente, ma triste". Il meglio é convinto di averlo dato a Verona (sei campionati, uno in serie B) e nelle ultime due stagioni con il Brescia. "A Verona ero e sono tuttora un idolo. I bambini incidevano sui banchi delle chiese il mio nome ed i preti si arrabbiavano con me. Ci vorranno almeno altri trent'anni prima che a Verona mi dimentichino. Quando giocavo penso di aver distribuito almeno 5.000 fotografie autografate ed ancor oggi i tifosi mi chiamano nei club". Arriva a Brescia l'11 ottobre 1978, al mercatino di riparazione, lo pagarono 60 milioni. Ha giá 34 anni, si teme che sarebbe venuto a tirare indietro il piedino, ma serve una quarta punta dietro il trio Mutti-Grop-Mariani. "La squadra era in B e navigava in brutte acque. Mi chiamó il mio amico Gigi Simoni, con il quale avevo giocato nella Juventus. Giocai 21 partite e segnai 4 goals, ci risollevammo in fretta per una salvezza dignitosa". L'anno successivo é quello della promozione. "Rimasi, ben sapendo che il mio compito sarebbe stato quello di uomo spogliatoio". Lo ricordiamo con il numero 14 sulle spalle (al tempo in panchina andavano tre giocatori), in quei riscaldamenti sotto la tribuna del "Rigamonti". "Entravo sempre, io dicevo al mister di far giocare i giovani, ma lui aveva bisogno della mia esperienza". Quando la gara non si sblocca, dalle scalette del "Rigamonti" s'alza il coro: "Zigo, Zigo, Zigo" e Simoni, puntualmente, opera il cambio. Capita peró che vada a prendere posto in panchina a partita giá ampiamente iniziata. Capita proprio in un Brescia-Verona del 6 gennaio 1980: "Ad una certa etá il freddo pungente fa male", commenta a fine gara, mentre Simoni lo guarda sorridendo. "L'anno della promozione non feci goal, ma dopo un pessimo inizio della squadra giocai 4 partite consecutive e facemmo sette punti. Ci diedero la spinta decisiva". Ma Zigoni in che ruolo giocava? "Lerici, l'allenatore che ebbi al Genoa, diceva prima della partita: date la palla a lui. Ero un numero undici, che aveva bisogno di giocare a briglie sciolte, oggi mi farebbero stare, forse, nei Dilettanti, eppure ero il piú forte. Per fare un'altra carriera avrei dovuto rinunciare a parecchie bicchierate con gli amici, e vedere qualche alba in meno, ma non ne valeva la pena". Fare il calciatore per Zigoni, che oggi allena i ragazzini nel paese natale di Oderzo, é stato un gioco. Il bello é che gli é venuto anche bene. Nonché un aneddoto ulteriore, con parole sue: "Prima della gara Valcareggi mi dice: "Zigo, oggi non giochi". Non c'era nulla da fare, dovevo andare in panchina, e visto che era una giornata molto fredda decisi di andare in campo con la pelliccia ed il cappello. Entrai in campo e ci fu un boato". Nelle sette stagioni al servizio della maglia bianconera totalizza 118 presenze ed un bottino di 33 goal. Con la Juventus si laurea campione d'Italia nel 1967. Nell'estate del 1970 lascia Torino e si accasa alla Roma, dopo un biennio nella capitale raggiunge il Verona dal quale si separa al termine della stagione 1977/78 per indossare la maglia del Brescia e con le "Rondinelle", a trentasei anni suonati, conclude l'attivitá a livello professionistico. Zigoni, il 25 giugno 1967, debutta in Nazionale A lanciato a Bucarest contro la Romania da Valcareggi e rimane quella la sua unica esperienza azzurra. da "Hurrá Juventus" del marzo 1996: Siamo a cavallo del 1968, l'anno in cui in gran parte dell�Europa occidentale esplode la contestazione studentesca. Il calcio italiano, generalmente impermeabile ai fermenti politici e sociali, va avanti per la sua strada come se nulla stesse accadendo. Sui rettangoli di gioco al massimo fa la sua timida apparizione qualche calciatore dai capelli lunghi ed i modi un po� originali che viene immediatamente bollato come rivoluzionario. Nello sport attuale, il look non scandalizza pi� nessuno. Ma all�epoca per i vari Meroni, Mondonico, Sollier e Zigoni si gridava quasi allo scandalo. In quel mondo un po� bacchettone ed omologato dove i presidenti dei club, da qualcuno definiti i ricchi scemi, erano di fatto i padri padroni del sistema calcio, chi cantava fuori dal coro stonava e steccava davvero. Anche se la politica c�entrava proprio marginalmente. Tutto questo lungo preambolo per presentare Gianfranco Zigoni, barbuto e capellone attaccante un po� bohemienne di un calcio in cui gli attori cominciavano timidamente a prendere coscienza dei loro diritti. �Sin da piccolo avevo l�abitudine di portare i capelli lunghi�, racconta Zigoni, �per cui da calciatore il mio aspetto era assolutamente in linea con il mio carattere e non aveva nulla a che vedere con le idee politiche. Certamente anch�io, come tanti miei coetanei dell�epoca, nutrivo simpatia per Che Guevara: ma ero affascinato pi� dal personaggio che da quello che faceva�. Gianfranco nasce a Oderzo, in provincia di Treviso, nel novembre del 1944, e da i primi calci nel Settore Giovanile dell�Opitergina. A sedici anni e mezzo lo acquista la Juventus, che lo fa esordire in Serie A pochi mesi pi� tardi. Per altre due stagioni rimane in bianconero a mezzo servizio tra prima squadra e �De Martino�, quindi viene spedito al Genoa per fare esperienza. Le sedici reti realizzate sotto la Lanterna sono il migliore biglietto da visita per il rientro a Torino. Siamo nell�estate del 1966: ha inizio la seconda avventura juventina della punta veneta che, in quattro stagioni, mette complessivamente a segno 32 goal in 117 incontri ufficiali. Molti dei quali entrando in campo con il numero tredici. �Accadde con una certa regolarit� nel corso della mia ultima stagione in riva al Po, che non fu proprio felice. l metodi d�allenamento ed i rapporti con Heriberto Herrera mi avevano distrutto fisicamente e psicologicamente. Ero arrivato quasi sull�orlo dell�esaurimento. Dopo il triennio con il trainer uruguagio arriv� Carniglia, il quale vide giusto. Ed io ripagai la sua fiducia a suon di goal dalla panchina�. Nel 1969 la separazione definitiva. Ma per il capelluto attaccante la carriera conserver� ancora corpose e durature soddisfazioni, raccolte tra Roma, Verona e Brescia: nel complesso altri dieci campionati da protagonista che porteranno il suo score definitivo, tra A e B, a toccare le quasi cento marcature in circa quattrocento incontri. Ma quali erano le migliori caratteristiche di gioco di Gianfranco? �Nei primi anni della carriera ero un attaccante puro e mi muovevo da prima punta. Avrei potuto esordire, in A, a sedici anni, ma una squalifica rimediata con la �De Martino� rimand� l�esordio. Ricordo ancora come fosse adesso il mio enorme disappunto e la voce di Stivanello che mi gridava: �Ehi fu bambino, ne avrai tempo per giocare�. Dopo la massacrante esperienza con Heriberto mi convertii nel ruolo di seconda punta: non pi� sfondatore, ma uomo assist che si divertiva un mondo a far segnare i compagni. Ero un tutto mancino con un discreto colpo di testa ed un destro deboluccio, con il quale ho realizzato qualche goal per caso�. Domanda indiscreta: il calcio di 15-20 anni fa ti ha arricchito? �Credo che soltanto i Rivera ed i Mazzola abbiano fatto fortuna. Ma io ancor ora posso definirmi benestante e non potrei mai lamentarmi della vita che ho fatto: se penso a mio padre che ha lavorato tutta la vita in fabbrica. Della mia carriera ho solo un rammarico: non aver dato alla Juve tutto ci� che era nelle mie possibilit�. Approdai a Torino con la nomea del fenomeno, tant�� che �Gipo� Viani mi defin� �La perla nel fango�. Dopo essere arrivato in Nazionale a venti anni con il Genoa, vissi male, forse anche per colpa mia, i sistemi di allenamento che trovai al mio ritorno in bianconero. Di certo non ho alcun rimpianto di tipo economico: per il mio modo di vedere la vita i soldi non rappresentano la vera fortuna per un uomo. Anzi, se ce ne sono troppi, spesso si rovina qualcosa dentro. Oggi, cinquantenne, vivo a Oderzo, dove mi trovo da re con la mia famiglia. Ho un maschietto di soli quattro anni che mi fa letteralmente impazzire, alleno i giovani della Opitergina e dirigo una scuola calcio collegata con la Juventus, alla quale ho segnalato alcuni ragazzini promettenti come un certo Zigoni�. Per chiudere, chiediamo a Zigoni di svelarci qualche episodio divertente. �Ottobre 1969, Furino disputa il primo dei suoi tantissimi derby, nei minuti iniziali realizzo il goal del nostro vantaggio e quindi si va negli spogliatoi per l�intervallo. L� Herrera mi dice �Gianfranco, ti vedo stanco, vai sotto la doccia�. Io non fiato, ma ci rimango di sasso, anche perch� stavo andando alla grande. Morale: nella ripresa il Torino pu� riversarsi in massa nella nostra met� campo, e vince per 2-1�. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/11/gianfranco-zigoni.html
  22. RUI BARROS http://it.wikipedia.org/wiki/Rui_Barros
  23. MARCELLO MONTANARI https://it.wikipedia.org/wiki/Marcello_Montanari Nazione: Italia Luogo di nascita: Portoferraio (Livorno) Data di nascita: 25.09.1965 Ruolo: Difensore Altezza: 183 cm Peso: 77 kg Soprannome: - Alla Juventus dal 1995 al 1996 Esordio: 27.05.1996 - Amichevole - Corea del Sud-Juventus 4-0 0 presenze - 0 reti Marcello Montanari (Portoferraio, 25 settembre 1965) è un allenatore di calcio ed ex calciatore italiano, di ruolo difensore. Marcello Montanari Montanari al Bari nel 1994 Nazionalità Italia Altezza 183 cm Peso 77 kg Calcio Ruolo Allenatore (ex difensore) Termine carriera 2003 - giocatore Carriera Giovanili 1980-1983 Reggiana Squadre di club 1983-1984 Reggiana 7 (0) 1984-1985 Livorno 1 (0) 1985-1987 Venezia 40 (0) 1987-1989 Carrarese 54 (2) 1989-1991 Lucchese 62 (1) 1991-1992 Inter 12 (0) 1992-1997 Bari 130 (1) 1997-2001 Lucchese 83 (3) 2001-2003 Massese 30 (1) Carriera da allenatore 2008-2010 Reggiana Vice 2010-2011 Reggiana Allievi Naz. 2014 Reggiana 2015 Pro Patria 2018-2020 Ravenna Vice 2021 Carpi Vice Caratteristiche tecniche Giocatore Era un marcatore roccioso e scattante, non particolarmente avvezzo alla costruzione della manovra. Carriera Giocatore Cresce nella Reggiana dove percorre la trafila giovanile fino a quando esordisce nella stagione 1983-1984 in Serie C1 collezionando 7 presenze. L'anno successivo si avvicina a casa approdando al Livorno neopromosso in Serie C1, dove scende in campo in una sola occasione. Dal 1985 al 1987 indossa la maglia del Venezia in Serie C2 disputando 40 incontri in campionato. Nel biennio successivo gioca per la Carrarese conquistando nella stagione 1987-1988 una promozione in Serie C1. Nel 1989 cambia squadra rimanendo in Toscana: con la maglia della Lucchese conquista prima la promozione in Serie B, e poi si conferma titolare in serie cadetta l'anno successivo. Insieme al tecnico Orrico passa all'Inter per 6,3 miliardi di lire e viene schierato titolare all'inizio della stagione successiva, dove conclude l'annata in panchina. Nel novembre 1992, dopo 12 presenze con la squadra milanese, passa al Bari, squadra nella quale militerà per quasi cinque stagioni, seguendo l'altalenante andamento della compagine pugliese: promozione in Serie A alla seconda stagione, cui seguono una salvezza, una retrocessione in serie cadetta e una nuova promozione in massima categoria. Nel 1997 fa ritorno nella regione natìa, alla Lucchese dove gioca le prime due stagioni in Serie B e le successive due in Serie C1. Nel 2001 colleziona presenze in un'ulteriore squadra toscana, la Massese, che all'epoca militava in Eccellenza. Qui, al primo anno, contribuisce alla vittoria del campionato di Eccellenza Toscana Girone A, segnando il rigore decisivo alla penultima giornata. Nel 2002-2003 partecipa quindi alla Serie D, chiudendo qui la sua carriera. Allenatore Ricopre il ruolo di allenatore in seconda della Reggiana nelle stagioni 2008-2009 e 2009-2010 quando alla guida della squadra ci sono rispettivamente Alessandro Pane e Loris Dominissini. Con l'arrivo di Amedeo Mangone il ruolo di vice è ricoperto da Fabio Sobhy mentre Montanari viene posto alla guida degli Allievi Nazionali. Dalla stagione 2011-2012 ricopre il ruolo di collaboratore tecnico della prima squadra e del settore giovanile. Il 12 febbraio 2014, in seguito all'esonero del mister Pier Francesco Battistini, viene designato come nuovo allenatore della prima squadra fino al termine della stagione con Mathew Olorunleke allenatore in seconda. Il 31 gennaio 2015 viene chiamato sulla panchina della Pro Patria al posto dell'esonerato Marco Tosi. Dal 2018 al 2020 è il vice di Luciano Foschi al Ravenna. Il 21 gennaio 2021 segue il mister al Carpi. Palmarès Giocatore Competizioni nazionali Campionato italiano Serie C2: 1 - Carrarese: 1987-1988 (girone A) Coppa Italia Serie C: 1 - Lucchese: 1989-1990 Competizioni regionali Eccellenza: 1 - Massese: 2001-2002 (girone A)
  24. GIANPIERO COMBI http://it.wikipedia.org/wiki/Gianpiero_Combi
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