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Renato Cesarini - Calciatore E Allenatore
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RENATO CESARINI http://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Cesarini -
LUIS DEL SOL http://it.wikipedia.org/wiki/Luis_del_Sol Nato ad Arcus de Qualon (Spagna) il 6 aprile 1935. Comincia giovanissimo nelle file del Real Betis di Siviglia dove lo preleva il Real Madrid nel 1959. Con la bianca casacca delle merengues vince due volte il titolo spagnolo (1961 e 1962), altrettante Coppe (1960 e 1962) e conclude la stagione 1959-60 aggiudicandosi Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale. Dopo i mondiali cileni del 1962 sembra destinato a raggiungere il Torino che tuttavia, al momento di concludere laffare, lascia cadere lopzione per mancanza di liquidi. La Juventus,che conosce assai bene Del Sol per esserselo trovato di fronte nei quarti di finale della Coppa dei Campioni del 1961-62, ne approfitta ed il piccolo spagnolo, costato 350 milioni, si veste di bianconero. Indomabile, grande lottatore, un maratoneta dei campi di calcio, è lautentico pilastro della Juventus operaia creata da Heriberto Herrera, il mister paraguayano che predica il movimiento, ossia giocatori a tutto campo e che sappiano giocare senza palla. Di Stefano lo definisce il postino del gioco del calcio, in riferimento alle sue singolari attitudini di fondista ed alle sue inesauribili doti di distributore del gioco. Del Sol è un centrocampista che sa tessere trame su trame, coprendo in continuità e per tutto larco della partita, una zona del campo, instancabile ed insuperabile nel ritmo. «Da un lato mi fa piacere essere definito un maratoneta», spiega Luis, «anche perché, con il gioco moderno, chi non corre il pallone non lo vede mai; però non vorrei essere citato soltanto come un emulo di Abele Bikila, perché credo di sapere anche giocare al calcio e di averlo dimostrato». Questo il giudizio di Beppe Furino, che ne prenderà il posto: «Professionista impegnato, un compagno nel senso completo della parola, un motore che divora chilometri senza pause, pronto ad aiutarti in caso di necessità. Quando arriva alla Juventus, io sto giocando nelle giovanili. Lo vedo ed imparo. È un esempio, un punto di riferimento. Oltre alla gran voglia di correre ha voglia di vivere con intensità i giorni che ha davanti. Gli piace mangiare, fumare e divertirsi. In campo non risente di queste concessioni, peraltro legittime». Al suo arrivo il problema più grosso sembra quello della convivenza con Omar Sivori. Sono due fenomeni della pelota con un passato burrascoso ed una lite durante la bella di Coppa Campioni disputata al Parco dei Principi di Parigi nel 1962. La frattura sembra insanabile, ma Omar e Luis dimenticano insulti pregressi, fanno la pace ed in tre stagioni (dal 1962 al 1964) deliziano il popolo bianconero. «Giocherò fino a che mi sento fresco, scattante, nel pieno della forma fisica e morale», spiega ancora il postino, «smetterò, tuttavia, non appena mi accorgerò di non essere più questo Del Sol, il vero. Sarò io il primo a capire quando arriva luomo del martello, quello che mi costringerà ad attaccare gli scarpini al chiodo». Del Sol milita al servizio della squadra bianconera per otto stagioni: 292 partite (228 in campionato, 26 in Coppa Italia e 38 nelle Coppe europee) e 29 goals (20, 6 e 3 rispettivamente) e lega il suo nome alla Coppa Italia 1965 ed allo scudetto 1967 strappato dai bianconeri allInter di Helenio Herrera allultima giornata. Lascia la Juventus nellestate del 1970 ed approda alla Roma dalla quale si separa dopo un paio danni per rientrare in Spagna. Con la Nazionale spagnola partecipa alle avventure mondiali del 1962 in Cile e del 1966 in Inghilterra. Al servizio delle furie rosse disputa 16 partite e realizza 4 goals. Il racconto di Caminiti: «Il pianeta Del Sol, titolò un giornale, forse per la meraviglia di questo podista sempre impegnato a sgobbare, che il dottor Mauro Sgarbi, medico sociale della Juventus, registrò con queste speciose parole: «A che cosa attribuire la sua eccezionale resistenza fisica e la sua lucidità di mente anche in condizioni di lavoro gravoso ??? Indubbiamente, larmonico sviluppo di ogni apparato, la perfetta funzione degli organi del circolo e del respiro e la loro facilità di adattamento alle situazioni più critiche determinate da sforzi notevoli, lelevata soglia del lavoro aerobico e la facilità di recupero nei brevi momenti di riposo sono fattori della massima importanza nel conseguimento di prestazioni atletiche di altissimo livello». Ci si chiedeva in quei giorni come avesse potuto il Real Madrid rinunciare ad un giocatore del valore di Del Sol. In tribuna stampa, diverse erano le correnti di pensiero. Luis Del Sol di Siviglia, rappresentava nel calcio laltra faccia della medaglia. Da una parte i fuoriclasse patentati: Di Stefano e Kopa in testa; dallaltra, quelli che si esprimono faticando: in testa Del Sol; la fatica di chi è meno dotato di genio, di fantasia, di piede e supplisce con il resto. Una tesi di comodo per chi il calcio andava a guardarlo per capire il contributo alla partita, reale e non fittizio, di ciascun giocatore. La tesi di chi eternamente ha confuso stile con classe. In certi momenti della sua recitazione, Del Sol poteva rassomigliare ad un botolo ringhioso; ma guardatelo quando va a matare il suo nemico Suarez in uno struggente pomeriggio di dicembre al Comunale stipatissimo. 22 dicembre 1963, il capolavoro di Del Sol in maglia bianconera, forse, è questo. Juventus-Inter 4 a 1. Si sta parlando dellInter primatista di tutto. Non dimenticherò mai la sua partita disegnata attraverso corse e rincorse belluine, con un dribbling di possesso reiterato, con finte, controfinte, tocchi e lanci misurati; un piede svelto e protervo; una dedizione assoluta; un estro, una fantasia ribaldi. Ricordo che, nella mia prosa su Tuttosport, vedevo piccoli coltelli sivigliani mulinare nella corsa sbalorditiva del podista spagnolo. Luisito Suarez fu affettato per bene. Quella vittoria della Juventus fu il capolavoro di Del Sol. Riassumerne lo stile è facile ed al contempo difficile. Lo scudetto, che la Juventus si meritò sul petto nel campionato 1966-67, fu suo merito nella misura del suo prodigarsi, che era immenso. Lallenatore, convocato da quei dirigenti, per iniziare il dopo Sivori, era un messere stravagante e persecutorio, il paraguaiano Heriberto e si sa come Del Sol ci ebbe qualche volta da ridire. Vicende forse ingrandite dalla fantasia popolare, ma è pur certo che Heriberto arrivava perfino a lamentarsi di un professional così puntiglioso e garantito al mille per mille. Che poi anche Luis amasse il grissino o la sigaretta ogni tanto, è pacifico. Anzolin, Gori, Leoncini; Bercellino, Castano, Salvadore; Favalli, Del Sol, Zigoni, Cinesinho, Menichelli. Fu una Juventus tempestata di rincorse prodigiose, perché linseguimento allInter, tanto più dotata di tecnica e di favori divini, potesse andare a buon fine. Infallibilmente, con gli anni, Del Sol dovette arretrare la linea di demarcazione del suo gioco; per dirigere da dietro la pattuglia; e spariva allinizio dellera Boniperti, dopo aver giocato 292 volte con appena 29 goals, molti di più, in conclusione, di quelli che, nella sua carriera di cursore perfino più proficuo, avrebbe segnato poi il suo allievo migliore, che arrivò in tempo ad ammirarlo negli allenamenti. E mai ne avrebbe scordato linsegnamento, Furino. Il sivigliano silenzioso ed un po torvo, la fronte, come gli occhi, sempre bassa, sul pallone da domare, aveva portato nella Juventus il senso del dovere sul piano tattico e della disciplina comportamentale; che diventa alla domenica basilare nel contributo alla fatica di tutti. E naturalmente per chi non confonde stile con classe, Del Sol aveva anche classe; non portava la valigia a Di Stefano; era stato preminente per fabbricare la grandezza del Real». RACCONTATO DA GIANNI GIACONE, SU HURRÀ JUVENTUS DELLAGOSTO 1974: Cera in Europa una squadra di superassi che vinceva tutto ed esaltava platee immense, rievocando le gesta dei pionieri, ed era il Real Madrid. Di Stefano gran centravanti, e Puskás rifinitore dalla classe cristallina, e Gento estrema guizzante ed imprendibile. La Coppa dei Campioni, gioco nuovo ed affascinante, sembrava fatta apposta per questi tremebondi esponenti del calcio spagnolo. Ma il Real non era soltanto questi tre: se ne accorse, tra le altre, proprio la Juve, che incontrò i madrileni e cedette di misura dopo una drammatica partita di spareggio al Parco dei Principi di Parigi. Il motore, la fonte del gioco, in questa super squadra, era un sivigliano piccoletto, buona tecnica ma niente di trascendentale se confrontata con quella di certi suoi compagni summenzionati. Si chiamava Del Sol, e tutti lo chiamavano Postino per il suo gran correre a consegnare raccomandate goal ai compagni di punta. Quando la Juve riuscì a vincere la concorrenza di altre società italiane accaparrandoselo per il campionato 1962/63, qualcuno obiettò che si trattava di un giocatore presumibilmente sul viale del tramonto, a ventisette anni, e che tutto sommato sarebbe stato meglio acquistare un uomo goal da affiancare a Sivori piuttosto che un centrocampista per di più già sazio di trionfi. Evidentemente, i fatti diedero torto a questi criticoni e ragione a quanti caldeggiarono lacquisto: ma probabilmente neppure questi ultimi si resero conto di quanto sarebbe stato importante Del Sol per quella Juve non più dominatrice della scena calcistica e tenacemente protesa a riconquistare le posizioni perdute. Ci sono calciatori che, pur bravissimi, male si adattano alla realtà del nostro campionato, ed altri che invece sembrano fatti apposta per il clima particolare del calcio italiano. Quel campionato 1962/63 ne propose parecchi, delluna e dellaltra categoria. Del Sol, un mese dopo aver messo piede in Italia, scoprì improvvisamente origini pedatorie tipicamente piemontesi, e più propriamente vercellesi, e nessuno si ricordò più di Siviglia e del Real Madrid. La Juve aveva trovato un faro capace di pilotare la pattuglia di Amaral in porti tranquilli e di ottenere pure consistenti soddisfazioni. Del Sol trova Sivori, uno degli ultimi Sivori di ambizioni bellicose e dunque pimpante, e le cose, a queste condizioni, non possono che andare bene. Ci sono problemi di impostazione, di adattamento agli schemi che il nuovo trainer Pablo Amaral vuole far applicare alla truppa, ma alla fin fine questa Juve, che pure non tiene ambizioni da spaccamontagne essendo reduce da una annata più che balorda, sa farsi rispettare. Del Sol si presenta ai torinesi in un buio pomeriggio di settembre, buio per via delle nuvole ed ancor più per via dellandamento di quel Juve - Atalanta 2-3, che rievoca ai supporter i fantasmi del recentissimo passato infausto. E però la sua prestazione è convincente, ed alla peggio è pur sempre suo il goal più bello, segno che oltre che a correre Luis è pure buono a risolvere questioni in area di rigore. La squadra si ritrova, quasi bruscamente in occasione del successivo incontro casalingo con la capolista Bologna: 3-1, con applausi per Sivori nelle vesti modeste di suggeritore, e per un certo Siciliano, centravanti di belle speranze chiamato provvisoriamente in squadra in attesa dellarrivo dal Brasile di Miranda poi detto Mirandone. E Del Sol che fa? Corre; che diamine, e copre da solo fasce smisurate di campo. Fogli, che dovrebbe incrociare le armi con lui, ad un certo punto, si pianta in mezzo al campo e dice basta, e da quel momento la Juve è padrona del campo. Andiamo oltre, il primo campionato in bianconero di Luis sarebbe tubo da chiosare, tantè nuovo il tipo di professional impersonato da questo spagnolo coriaceo, da questo Filippide che probabilmente, arrivato ad Atene e data la notizia che sapete, sarebbe tornato a Maratona per raccontare le accoglienze ai compagni. La Juve innesta le marce alte e da la scalata alle prime posizioni, dove Inter e Bologna si sono insediate stabilmente: 28 ottobre, Juve batte Toro 1-0, i granata (che erano stati pure loro in lizza per acquistare lo spagnolo dal Real) ammirano un Del Sol scatenato. 18 novembre, qui la cronaca é affiancata dallaneddottica, state a sentire. Si gioca Juve - Milan, ed i bianconeri disputano un secondo tempo da favola, che la TV diffonde in differita, la sera. Telecronista è Nicolò Carosio, più in forma che mai. Sarà la sua voce a consegnare televisivamente alla leggenda, per la prima volta, il Del Sol juventino. «Parte in quarta De Sol» urla a un certo punto il buon Carosio, impressionato dal gran ritmo imposto al gioco da questo centrocampista di ferro. Parte e pare non fermarsi mai, tantè la voglia di giocare. Ma il clou di questa sua grande stagione desordio Luis lo raggiunge in occasione di Bologna - Juventus, 10 febbraio 1963. Una prestazione memorabile, premiata da un goal magistrale, per una Juve che magari non vincerà lo scudetto, ma che certo ha fatto dimenticare le amarezze del torneo precedente. 33 presenze ha assommato Luis allanno primo della sua esperienza juventina. Ancora 33 ne conterà lanno dopo, campionato zeppo di malumori e di controsensi tecnici, in cui finirà invischiata persino la grinta podistica del sivigliano. Il quale, comunque, dimostra di saperci fare anche in zona goal: 6 reti il primo anno, altre 6 il secondo, segno di una costanza encomiabile. La squadra ha sprazzi di grandezza, ed in quelle occasioni Del Sol si esalta sino a distruggere la concorrenza, ancorché illustre. 22 dicembre, esempio classico di come si possano capovolgere situazioni tecniche scontate, di come i pronostici siano destinati a saltare di fronte allimponderabile della classe. La Juve cè e non cè, ma quel giorno, contro lInter campione, decide di esserci, e finisce in trionfo per i bianconeri, trascinati da un Del Sol semplicemente mostruoso. Il suo avversario, nonché compaesano, Suarez, finisce in cottura nel disperato tentativo di arginare sul piano dinamico un Del Sol in giornata di grazia, che corre per tutti e segna pure 2 goal. Il guaio di quella Juve è che di altri cursori non se ne vedono, e che spesso i sacrifici di Del Sol non bastano a tener su la baracca. Ci penserà, presto, il movimiento di Heriberto, a risolvere questo problema. Il 1964/65 propone una Juve diversa, bloccata in difesa e viva a metà campo: non si può pretendere di trovare subito la formula giusta, ma intanto è tuttaltro vedere il gioco juventino. 1965/66, è cominciata bene la stagione, con una Coppa Italia vinta, certo che De Sol ha fatto la sua parte: adesso, a fare coppia con lui, è arrivato Cinesinho, pure lui non più giovanissimo, e si avanzano dubbi sulla tenuta degli interni bianconeri. Dubbi che svaniscono presto, però; il movimiento sopperisce alle carenze di fraseggio e di estro della squadra, che può così competere a certi livelli prendendo le misure dellInter in vista del grande salto di qualità dellanno dopo. 29 presenze per Del Sol, i trentuno anni esistono solo sul passaporto, la realtà è un campione con i piedi ed i polmoni di un ventenne, Del Sol ha ancora molto da dare ai tifosi della Zebra. Il 13° scudetto è tutto riassunto nelle poderose rincorse di questo sivigliano, nella rabbia e nella determinazione di una squadra che fortissimamente vuole primeggiare. Non cè pausa nella rincorsa della Juve allInter come non cè pausa, in partita, per le scorribande di Del Sol. Adesso, lo spagnolo ha fatto progressi anche in acume tattico, e le sue mosse, pur condotte sempre su ritmi impressionanti, rispondono ad un preciso piano di manovra. Si lucrano risultati decisivi anche senza sommergere gli avversari sotto valanghe di goal, ed alla fine i conti tornano: il 13° scudetto è vinto sul traguardo. 28 volte presente, Del Sol ha raggiunto lapogeo della sua carriera juventina. Lo scudetto va diviso tra tutti, cè Bercellino e Castano ed Anzolin pochissimo trafitto e Cinesinho, ma Del Sol merita riguardo sopra gli altri per lincredibile continuità dazione. Ha fatto di tutto, il mediano e lala tornante, ha alternato prestazioni sfavillanti ad altre anche più importanti di oscuro lavoro in fase di interdizione. Si ripeterà su questi livelli anche per buona parte del campionato successivo. Il 1967/68 è ancora anno positivo, cè un 3° posto in campionato e cè soprattutto la prima convincente esperienza in Coppa dei Campioni. Episodio chiave quello di Juve - Eintracht, match di ritorno dei quarti: 0-0 a pochissimo dalla fine, significherebbe eliminazione per la squadra bianconera sconfitta 2-3 in Germania. Del Sol, a questo punto, inventa una delle più pazzesche serpentine, cercando con ostinazione il goal. Oppure il rigore: che diventa inevitabile nel momento in cui gli avversari, che non sanno che pesci pigliare, stroncano con le cattive la sua azione irresistibile. In campionato, si segnala per un eccellente finale, che lo vede più che mai protagonista. Come protagonista era stato allinizio: chi non ricorda la sua prestazione, nel ruolo di libero per forza, dopo un grave infortunio, a San Siro, contro il Milan? Ma il tempo vola, il 1968/69 è estemporaneo come la vena di Zigoni o quella di Haller, non bastano i guizzi di Pietruzzo Anastasi. Molto meglio il 1969/70, canto del cigno per parecchi della vecchia guardia bianconera, e per Del Sol segnatamente. Luis chiude alla grande: mediano, mezzala, persino ala, è 25 volte presente nella squadra che ritrova il gusto del gioco e dei goal. Accanto al vecchio cursore, si affaccia alla ribalta il nuovo podista, e lo stile di Furino detto Furia non si discosta da quello di Del Sol. Dalla tribuna, succede talvolta di confondere i due, lincedere uguale, la grinta pure. Furino impara presto e bene, la Juve che alla fine del torneo, per questioni di età ed anche perché Del Sol rientra nel grande giro che porta in bianconero Capello, Spinosi e Landini, dovrà privarsi del suo grande spagnolo, trova in casa, bellè pronto, il suo erede naturale. II 1969/70 del passaggio di consegne è per Luis anno incora denso di soddisfazioni. Un degno finale per un campione autentico. Le cifre (8 campionati in maglia bianconera, 228 presenze, 20 goal) dicono molto poco di questo spagnolo dal grande talento, che di scudetti ne vince in fondo uno solo, essendo quelli per la Juve anni non esaltanti ancorché positivi. Il ricordo, vivo, del supporter può meglio di ogni altra cosa, dare al campione quanto gli spetta. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/04/luis-del-sol.html#more
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FELICE PLACIDO BOREL http://it.wikipedia.org/wiki/Felice_Placido_Borel È stato sicuramente uno dei più grandi attaccanti del calcio nazionale, probabilmente il più forte centravanti della Juventus di tutti i tempi. Felice, figlio di Ernesto Borel, un pioniere del calcio juventino, pertanto figlio d’arte, esordì, appena sedicenne, con la maglia granata del Torino, nella formazione dei “balon-boys”. I molti osservatori della società granata, sparpagliati per i campi della periferia e negli oratori dei salesiani, avevano sentito certamente parlare di questo autentico talento calcistico. Ma fu un austriaco, Karl Sturmer, responsabile tecnico del Torino nella stagione 1929-30, a completare la formazione calcistica di Felice Borel. Sturmer è stato il più abile preparatore ed insegnante per i giovani calciatori che mai ci sia stato in Italia. Chi ha frequentato i corsi di Sturmer, poteva vantare un corredo tecnico personale di primissimo ordine. Se poi, come nel caso di Borel, il tecnico austriaco aveva la possibilità di lavorare su una base d’eccellenza, ecco che saltava fuori il fuoriclasse. La Juventus, abituata da sempre a scegliere gli acquisti non tra gli elementi promettenti, ma nelle esigue file dei campioni già conosciuti come tali, si mosse. Arrivando quasi di sorpresa sulle gradinate dello stadio “Filadelfia”, il barone Giovanni Mazzonis poté rendersi personalmente conto di quanto fosse abile nel gioco d’attacco quel ragazzino, che altri non era se non il figlio di quell’altro Borel, Ernesto per l’appunto, che con lo stesso Mazzonis aveva giocato nella Juventus nei campionati dal 1906 al 1910. Giovanni Mazzonis convinse Borel a trasferirsi nelle file della Juventus. Felice non assomigliava per niente a suo padre calciatore; quest’ultimo era tozzo e possente, Felice era alto, snello, d’aspetto gentile, sicuramente il più riuscito, calcisticamente parlando, della famiglia. Anche l’altro fratello, Aldo, dopo una fugace apparizione nelle file del Torino (giocò anche una partita in prima quadra nel maggio del 1930 contro la Pro Vercelli), aveva militato a lungo nelle file del Casale, della Fiorentina e del Palermo, con una breve presenza anche nelle file nella stessa Juventus. Era un buon calciatore, ma sicuramente non della levatura del fratello Felice. «Mio nonno», racconta Betty, l’unica figlia di “Farfallino”, «era nato nei pressi di Porta Palazzo ed aveva sposato Gabriella de Matteis, erede della più rinomata fabbrica di pizzi della città. Di carattere assai simile a quello di mio padre, Ernesto aveva tantissime qualità, ma un pessimo senso degli affari: nel 1931 aprì, in piazza Castello, a due passi dal bar di Combi, un negozio di articoli sportivi ed un’agenzia di viaggi che ebbero vita breve. Mio zio Aldo, invece, nato nel 1912, era l’esatto contrario di mio padre, sempre allegro e ridanciano; seppur particolarmente serio, posato ed austero, andava molto d’accordo con papà, anche se nella piena maturità le loro strade si divisero del tutto. Infatti, a metà degli anni sessanta, Aldo si trasferì in Spagna, da dove tornò soltanto qualche mese prima di morire». Fu soprannominato “Farfallino” ed i motivi di questo nomignolo rimangono per certi aspetti misteriosi; forse per ricordare il suo inimitabile modo di correre danzato. Aveva una classe che nessuna scuola calcistica, nemmeno quell’eccelsa di Sturmer, poteva prestare ad alcuno. La velocità, lo scatto con il quale riusciva ad umiliare gli specialisti dell’atletica, l’intelligenza, il dribbling, il tiro: Felice aveva proprio tutto. «Il viso di un ragazzo spensierato», così il giornalista Bruno Roghi terminava il suo entusiastico pistolotto sul nuovo astro nascente del calcio italiano, «ride volentieri con i luminosi occhi neri. Viso da fanciullone, taglia d’atleta. Di alta statura, ben modellato, asciutto, senza essere fragile, Borel ha la classica macchina del centravanti. La sua falcata è ampia, balzante, equilibratissima nel ritmo. Quel Borel ci è proprio sembrato in possessori felicissimo talento calcistico. Egli ha la calma di un veterano del gioco, il tocco di un artista, il senso dell’azione collettiva, lo scatto che brucia il terreno, il tiro a rete che difficilmente sbaglia il bersaglio». Questo spiega perché, appena diciassettenne. poteva già insidiare il posto ad un grande centrattacco com’era a quell’epoca, Vecchina, il padovano che, nei due campionati vinti dai bianconeri nel 1931 e nel 1932, aveva realizzato 32 goals. “Nane” era anche stato in Nazionale, il che testimonia del suo valore, ma aveva un ginocchio in disordine e l’allenatore Carlo Carcano sapeva molto bene che, senza nulla togliere a Vecchina, l’inserimento di Borel in prima quadra avrebbe significato un passo decisivo verso la perfezione che raggiunse quella mitica squadra. Raccontava Borel: «L’inizio del campionato 1932-33 non fu troppo fortunato per la Juventus. Nella gara inaugurale di quella stagione, disputata in settembre, si dovette andare a giocare allo stadio “Moccagatta” di Alessandria. Carcano mandò in campo la nostra migliore formazione, quella con Combi, Rosetta, Caligaris, Varglien I, Monti. Bertolini, Sernagiotto, Cesarini, Vecchina, Ferrari. Orsi. A quei tempi i “grigi” possedevano una squadra di notevoli possibilità, ma nessuno poteva prevedere, come, in effetti, avvenne, che l’Alessandria battesse la Juventus. Due goals li segnò l’ala destra Cattaneo ed uno Scagliotti; per noi andarono in goal Vecchina ed Orsi dal dischetto del rigore. Il 25 settembre, seconda gara di campionato, giocammo sul nostro campo di corso Marsiglia e battemmo il Padova per 3 a 1. Cesarini segnò due reti, l’altra la mise a segno Ferrari; ma Renato si fece male e nella successiva trasferta di Napoli, Carcano mi mandò in campo nel ruolo di mezzala. Non credo di aver giocato una splendida partita, ma fui sicuramente sufficiente. D’altra parte, con la tattica del “metodo”‘, non potevo improvvisarmi nel ruolo d’interno. La Juventus fu battuta da una rete segnata nella ripresa da Attila Sallustro, centrattacco del Napoli; l’undici partenopeo, a quell’epoca, contava su ottimi giocatori, come il portiere Cavanna, i terzini Vincenzi ed Innocenti, il mediano Colombari, la mezzala Mihalic e l’ala sinistra Ferraris II. A Torino contro la Roma tornò in squadra Cesarini che segnò anche l’unico goal della partita. E nemmeno la domenica successiva, a Vercelli, dove non giocò Vecchina, l’allenatore mi ripropose in formazione: fece giocare Imberti. Poi tornò ancora una volta Vecchina, il cui ginocchio faceva le bizze. E finalmente a Torino, contro il Bari, entrai stabilmente in squadra, nel mio ruolo di centrattacco. Particolare curioso: vincemmo per 4 a 0, ma non misi a segno neppure un goal. A scagliare il primo pallone in rete riuscii il 20 novembre, alla nona giornata di campionato, nel corso della partita contro la Lazio. Vincemmo per 4 a 0. Realizzai le prime due reti, facendo molto arrabbiare l’amico Sclavi, passato dalla Juventus a guardia della porta della squadra romana. Gli altri due goals li segnarono Munerati e Cesarini. Con la formazione al gran completo (quella con Munerati all’ala destra al posto di Sernagiotto) affrontammo poi il Torino nel derby: ed anche in quell’occasione il mio unico goal fu decisivo. Una soddisfazione senza pari, che rinsaldò in modo definitivo il mio morale. La domenica successiva, con Sernagiotto al posto di Munerati, liquidammo la Triestina con un punteggio tennistico: 6 a 1. Tre miei goals, uno di Sernagiotto, uno di Ferrari ed uno di Orsi. Va ricordato un particolare importante: la facilità con la quale gente come Orsi, Ferrari, Monti, Bertolini, Cesarini e Munerati creavano un alto numero di occasioni da rete. Dopo l’exploit con la Triestina, segnai mediamente un goal a partita, nel senso che, se stavo una domenica a digiuno, in quella successiva mettevo dentro un paio di palloni. Nella partita contro il Palermo, sapendo che poi a Genova sarebbero andati in campo molti rincalzi, segnai addirittura tre reti. Terminai con 29 reti realizzate in 28 partite. E mi ripetei nella stagione successiva, andando in goal ben 32 volte in 34 partite giocate. Nell’ultimo dei cinque campionati consecutivi vinti dalla Juventus, segnai solo 13 goal, riuscendo tuttavia a raggiungere la ragguardevole cifra di 74 reti in 91 partite disputate nei primi tre campionati con la maglia della Juventus. Mazzonis è stato il primo dirigente di calcio veramente proiettato sul futuro del calcio. È andato lui a cercare Orsi, Monti e Cesarini. Soltanto Novo, parlo prima che arrivasse Boniperti, era stato grande come lui. Era democratico per eccellenza, ma di un’autorità dittatoriale. Era come doveva essere perché la squadra la mandava avanti lui, mica Edoardo che gli lasciava carta bianca su tutto. Si comportò benissimo con Cesarini che era un pazzoide, aveva firmato per tre anni e, nel 1931, voleva ricattare la Juventus. Lui non fece una piega, il barone che poi non era barone. Cesarini voleva essere pagato come Orsi, che prendeva centomila lire, invece continuò a corrispondergli trentasei mila annue. Maglio, l’altro argentino se n’era tornato in America, ma Mazzonis non si piegò. Cesarini restò quattro mesi fuori squadra; rientrando, perse quei quattro mesi. Monateri, che era un grasso industriale, quello che ha creato la “Venchi Unica” e lo stadio di corso Marsiglia, e che adorava Cesarini, dovette arrendersi, non ci furono agevolazioni sentimentali. Mazzonis era uno degli uomini più ricchi di Torino, la sua famiglia veniva per ricchezza dopo quella di Agnelli e Gualino, ma non era nobile, un suo cugino era barone di Pralafera. Vantava anche un contado. Il deficit della Juventus nel 1928 era pagato, un cinquanta per cento da Edoardo Agnelli e l’altro cinquanta per cento da Mazzonis. Nel 1931, il deficit fu diviso in sedici parti che furono divise tre sedicesimi ad Agnelli, tre a Mazzonis, due a Remmert, due al tavolo del poker del Circolo della Juventus di via Bogino, uno a Monateri, uno a Valerio e Gaspare Bona a testa, uno tra Tapparone, Fubini, Nizza, il Conte Ghigo. La squadra incassava per tutto il campionato tra un milione e un milione e centomila lire. Avevamo un gioco pratico, il risultato era la base di tutto, lo spettacolo veniva dopo. Facciamo degli esempi. Rosetta non faceva mai un passo più del necessario, Combi si allenava in modo tutto suo, venti minuti di allenamento con quattro palloni scagliatigli addosso che valevano più di dieci ore di lavoro, non voleva che si scherzasse, bisognava tirargli come in partita, era un grande portiere, per qualche numero migliore di Planicka, però meno completo. Cevenini III, che sapeva mettere la palla dove voleva, pur non avendo potenza, tirando ad effetto e tagliando il tiro, lo faceva ammattire. Caligaris era l’opposto di Rosetta, entusiasta, correva, sprecava, urlava, giocava, ma non era poi tanto coraggioso. Varglien I era l’atleta perfetto, fisicamente ma non tecnicamente. Monti era un giocatore eccezionale, molto grosso ma molto mobile, però non aveva velocità progressiva. Bertolini era idolatrato dagli inglesi, era il calciatore inglese, forte, deciso, generoso, Orsi è stato il giocatore più grande che abbia conosciuto, alto 1.60 pesava sessanta chili e non riusciva a fermarlo nessuno. Monti faceva sparire tutto, rubava tutto quello che gli capitava a tiro, quando spariva qualcosa si andava subito da lui. Una volta nel 1934, per una partita a Parigi contro il Red Star Racing, entriamo in quel grande albergo, c’era un bel veliero sulla mensola, il giorno dopo non c’era più. “Fuori la barca”, scrisse l’albergatore a Mazzonis, “o vi denunzio tutti; oppure ci spedite, per evitare la denuncia, quattromila franchi”. Monti restituì la barca facendo mille smorfie ed il caso fu risolto. E quel pazzoide di Cesarini ??? Sempre nel 1934, a Vienna, il giorno stesso in cui fu trucidato Dolfuss, Caligaris era spaventatissimo dopo il discorso che ci fece Mazzonis di stare tutti uniti e di non aprire bocca con nessuno, perché Mussolini aveva mandato le truppe al Brennero. Al mattino, la partita con l’Admira si giocava all’una e mezzo, vedemmo un negozio con una vetrina meravigliosa, montata tutta con una sola cravatta. Bene. “Cè” fece sparire la cravatta. Perdemmo 3 a 1 quella partita, lo stadio era stipatissimo, mai vista tanta gente in uno stadio. Mazzonis era soprannominato Stalin. Tutti tremavano davanti a Stalin, io no, io gli ho detto e ripetuto cento volte che non credevo nella sua parola d’onore. Infatti, mi manipolò il contratto come voleva, volevo essere lasciato libero alla fine di ogni campionato, ma lui niente, come se parlassi ad un sordo. Ho cominciato a giocare a calcio a sei anni, a sette andavo già alla Juventus in corso Marsiglia. Mi ricordo la prima partita di Combi nel 1923, allora la Juventus andava in campo senza tuta, con quelle giacchette tutte bianche così chic, bordate nero. Al campo non andavano più di duemilacinquecento persone. Anche mio fratello Aldo giocava bene». Nel campionato 1935-36 Felice Borel giocò solamente 8 incontri a causa dei postumi delle ripetute operazioni al ginocchio. «Ho giocato tutta la vita con una gamba sola», amava ricordare a chi gli domandava il motivo del suo spostamento a mezzala a soli 26 anni. La stagione successiva, tuttavia, egli tornò a pieno servizio, disputando, in qualità di interno a fianco di Guglielmo Gabetto, 26 partite e realizzando ben 17 goals, uno in meno dell’amico centrattacco. «Papà», continua la figlia Betty, «era davvero una persona fuori dal comune; assommava in sé le migliori qualità del genitore, del compagno di giochi, dell’amico e del confidente. Io e lui ci siamo sempre capiti al volo, soltanto con uno sguardo. Seppur fosse per certi versi intransigente, mi ha sempre coccolato e viziato con il suo modo di fare garbato ed aperto. Era amato proprio da tutti, in quanto uomo puro e generoso, che dava senza mai chiedere nulla in cambio». Nel 1941 Borel, insieme a Gabetto ed al portiere Bodoira, passò al Torino con la cui maglia disputò, naturalmente alla grande, un solo campionato. Poi, il ritorno alla Juventus con il doppio incarico di giocatore ed allenatore sino a quando, nel 1946, appese le scarpe al chiodo a soli 31 anni. Trascorsa qualche stagione, l’ex “Farfallino” tornò al calcio con grande entusiasmo. «Dopo la tragedia di Superga, papà (che, nel frattempo, insieme al talent scout Voglino aveva scoperto un certo Boniperti) si mise ad allenare prima il Torino, quindi il Napoli ed infine il Catania. Poi, volendosi avvicinare a casa, decise di voltare pagina cimentandosi nell’attività di assicuratore a Pinerolo sino a che, nel 1961, Umberto Agnelli lo nominò general manager dei bianconeri. Più avanti, quando stabilì che la sua vita si sarebbe divisa tra la casa torinese di via Bertola e Finale Ligure, divenne il responsabile di tutti gli osservatori della società». In totale Borel ha disputato con la maglia della Juventus 286 incontri di campionato, mettendo a segno 160 goals; nel 1993, dopo aver convissuto per qualche anno con un male che raramente perdona, “Farfallino” se ne è volato via, sbattendo appena le ali. Era cresciuto nella Juventus, una vera scuola di vita oltre che di calcio; quel calcio di cui non si stancava mai di parlare, raccontando, a chiunque gli desse la possibilità, alcuni dei tanti episodi gloriosi di cui, mezzo secolo prima, era stato un indiscusso protagonista. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/04/felice-placido-borel.html
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BRUNO MORA http://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Mora
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SERGIO CERVATO http://it.wikipedia.org/wiki/Sergio_Cervato
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GIUSEPPE GALDERISI http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Galderisi
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ROBERTO TRICELLA http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Tricella Roberto Tricella
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MATTEO PARO http://it.wikipedia.org/wiki/Matteo_Paro
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Teobaldo Depetrini - Calciatore E Allenatore
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TEOBALDO DEPETRINI http://it.wikipedia.org/wiki/Teobaldo_Depetrini -
GIOVANNI KOETTING http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Koetting
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Virginio Rosetta - Giocatore E Allenatore
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VIRGINIO ROSETTA http://it.wikipedia.org/wiki/Virginio_Rosetta Prima di lui il pallone era inteso solo per assestargli solenni calcioni. C’era chi ci si dilettava con palleggi di sconfinata amorosità, come il terzo dei cinque sciagurati fratelli Cevenini, che si fumava cento sigarette al giorno e tutti i portieri della terra, compreso Combi che faceva impazzire in allenamento. «Noi mordevamo il freno a Vercelli per dover giocare senza prendere una lira», ha raccontato un giorno degli anni Sessanta “Viri” Rosetta, 52 volte azzurro, mille volte campione. Giocava con la testa, nel senso che usava i due piedi in modo perfetto, evitando scrupolosamente di sporcarsi i capelli sempre imbrillantinati. È possibile che non abbia mai colpito il pallone di testa. Nella sua Juventus, a questa incombenza provvedevano in parecchi, soprattutto Monti e Bertolini. «È stato il più grande terzino da me conosciuto», ha detto Giovanni Ferrari, «nel gioco di testa non era un campione, ma il suo senso della posizione gli permetteva di fare a meno di quest’arma. Non si allenava molto e per questo in campo non lo si vedeva mai scorrazzare in lungo ed in largo. Sbarrava la sua zona e basta. Quanto agli accordi con il portiere, lui passava il pallone a Combi ad occhi chiusi o, per lo meno, senza guardare. E novantanove volte su cento Combi era là. La centesima volta, beh, era perdonato, tanto più che in genere un gran balzo di Combi ci metteva ugualmente una pezza». La Juventus aveva preso ad apprezzarlo nella Pro Vercelli. Dal settembre 1923 (da due mesi Edoardo Agnelli era presidente bianconero) dura l’amore juventino. La Pro Vercelli venne a giocare una partita nel primo campo in cemento d’Italia, quello di Corso Marsiglia, ma l’attesa rimase delusa. Rosetta non giocò. Era rimasto a Vercelli come tutti gli altri giocatori della Pro. Avevano chiesto regolari guadagni ed il presidente Bozino aveva risposto con una lettera piena di sdegno: per le gloriose bianche casacche dovevano sentirsi onorati di giocare gratis. “Viri” Rosetta aveva le idee chiare. Venne a Vercelli il dirigente juventino Roberto Peccei, che sarebbe poi divenuto suo cognato, a proporgli di trasferirsi come impiegato alla ditta dei fratelli Ajmone e Marsan; avrebbe fatto il ragioniere per 700 lire al mese. La Juventus, per le sue prestazioni calcistiche, gliene avrebbe date altre trecento, più 40 mila lire di ingaggio. Estate 1923: “Viri” Rosetta diventa torinese juventino e guadagna mille lire al mese. Campionato a tre gironi 1923-24. Rosetta gioca mezzala. La Juventus è lanciatissima, ma il Genoa solleva il caso del suo tesseramento. Bozino parteggia per il Genoa ed il tesseramento di Rosetta viene annullato d’autorità. Il vicepresidente Craveri sfida a duello Baruflini, vicepresidente del Milan, i tempi erano questi. Scoppiò uno scandalo che fece tremare il mondo del calcio. Alla Juventus furono annullate le tre gare in cui aveva schierato Rosetta e, di conseguenza, venne retrocessa di sei punti in classifica. La squadra bianconera perse lo scudetto, ma non rinunciò al giocatore. «Tutto considerato e sommato, venivo a guadagnare mille lire al mese», ebbe a ricordare più volte lo stesso Rosetta, «toccavo il cielo con un dito: all’improvviso venivo a trovarmi ricco e, con me, la povera mamma che insegnava in una scuola elementare e con ansia aspettava il 27, così come mio padre anch’egli impiegato. Insomma, il calcio dava a tutti noi benessere. Mi trasferii a Torino. Intanto la Juventus aveva presentato in Federazione quella lettera che ci aveva spedito la direzione della Pro Vercelli e l’avvocato Bozino, che della Federazione era anche presidente, e che approvava il mio tesseramento per la Juventus. Cominciai a giocare in maglia bianconera impiegato non come terzino, bensì all’attacco, prima come centravanti e poi nel ruolo di mezzala. Era la stagione 1923-24. I gironi che componevano il campionato erano tre. Eravamo in testa al nostro che comprendeva anche il Genoa. Insomma, stavamo correndo, lanciati, verso lo scudetto. Tutto d’un tratto, il Genoa suscitò il caso del mio tesseramento ed i giornali presero a scrivere che “la posizione di Rosetta non è regolare !!!” Il Genoa chiese alla Federazione di indire una assemblea straordinaria per affrontare la questione. Il cuore di Bozino diventò tenero per il Genoa. Venne convocata la richiesta assemblea e la squadra ligure ebbe a suo favore tutte le deleghe delle società della Riviera. Ottenne così l’annullamento del mio trasferimento. Un vero putiferio. Il nostro vicepresidente Craveri sfidò a duello il vice presidente del Milan, Baruffini. La sfida ebbe un’eco clamorosa. Mi sentivo nei panni di responsabile di tutto e me ne stavo chiuso in casa senza più uscire. Nel frattempo la Juventus era stata retrocessa in classifica, penalizzata di sei punti. Non ho mai capito perché sei punti. Fatto sta ed è che quel campionato lo vinse proprio il Genoa». Campionato 1925-26, l’allenatore è un ungherese inquieto e sentimentale, stravede per Verdi e la lirica. Morirà il giorno della cruciale sfida, giocata tre volte, con il Bologna, Jeno Karoly, primo allenatore moderno del campionato; tattica, strategia, sapeva tutto. La Juventus dominò il suo girone, salvo doversela vedere in finale col Bologna. Primo match 11 luglio a Bologna, Bologna 2 Juventus 2; secondo match: 25 luglio a Torino, 0 a 0. La “bella” destinata a Milano per il primo agosto. Il 28, Karoly muore d’infarto, la Juventus lo onora tra le lacrime. Il Bologna è piegato per 2 a 1. Lo scudetto è dedicato all’ungherese sentimentale, Rosetta è il migliore in campo. È stato il primo grande stratega difensivo della storia del nostro calcio. I suoi palloni, lunghi o brevi, erano messaggi. Il suo grandissimo senso della posizione, il suo elucubrato pragmatismo, la sua tecnica nel difendere l’1 a 0 evitando inutili sforzi. Il ragioniere insegnava calcio, ed anche comportamenti di vita, a tavola era facile vederlo evitare il bicchiere di vino. Finito di giocare, fu allenatore sapiente. Quando morì, nel 1975, la sua Juventus era tornata vittoriosa come ai suoi giorni. Il ricordo di Alberto Fasano, su “Hurrà Juventus” del giugno 1975: Primo a morire (20 ottobre 1940) era stato Umberto Caligaris, stroncato da infarto, in tenuta di gioco, mentre partecipava ad un incontro tra “vecchie glorie” sul campo di “Piazza d’Armi”, insieme ai suoi due inseparabili compagni, Rosetta e Combi. Quest’ultimo, il portiere, rimase vittima anche lui di un attacco cardiaco, nei pressi di Imperia, il giorno di Ferragosto del 1956. Rosetta, invecchiato precocemente, aveva tuttavia resistito a lungo agli attacchi del male. Domenica mattina ha chiuso gli occhi per sempre. Aveva 73 anni. Che cosa possiamo dire che già non si sappia di “Viri” Rosetta ??? Che fu il più inglese dei difensori italiani e, senza dubbio, uno dei più grandi terzini del calcio mondiale nell’epoca a cavallo tra le due Guerre Mondiali; ma nemmeno questa è una novità. Più interessante, ci pare, è ricordare che Rosetta fece involontariamente nascere il primo putiferio calcistico, dando praticamente il via al professionismo in Italia. Sono cose che meritano di essere raccontate. “Viri” aveva forse già fatto parlare di sé quando Edoardo Agnelli decise che era fatto su misura per la Juventus. Veramente Sandro Zambelli, con intuito e prontezza, fin dal 1918 si era accorto che quel biondino, visto giocare per caso, nascondeva talento e classe della qualità più genuina. Subito gli aveva messo davanti un cartellino federale, che venne regolarmente firmato nel corso di una cena in una trattoria vercellese. Il cartoncino, impreziosito dall’autografo del giocatore, tornò nelle tasche del dirigente bianconero e, qualche ora dopo, finì in un cassetto della scrivania dello stesso Zambelli, dove rimase parecchi anni. Terminata la guerra, ripresero i campionati e Rosetta, che aveva iniziato la sua carriera nella Pro Vercelli come centravanti, continuò a giocare nella squadra delle bianche casacche, impiegato come terzino, segnalandosi per la sua bravura. “Viri” era figlio di una maestra, era cresciuto con pochi sogni e molta ragionevolezza in un tipico clima provinciale attento al sodo. Sapeva di valere e, precorrendo i tempi, quando un giorno, in termini un po’ avventurosi, la Juventus precisò le sue offerte, ne valutò innanzi tutto il contenuto concreto. Sicuramente non immaginava di dar vita ad un autentico “giallo”. Tutto prese corpo da una lettera che la presidenza della Pro Vercelli aveva inviato ad ogni suo tesserato, nell’estate del 1923, a salvaguardia dello spirito dilettantistico. Qualche giocatore lo aveva messo in discussione: tra questi, sicuramente, Rosetta. La lettera dichiarava in tono perentorio che chiunque lo desiderasse era libero di lasciare la società. Forte di questo documento, “Viri” accettò le proposte avanzate dal dirigente juventino avvocato Peccei e decise di passare alla società torinese, previo benestare dell’avvocato Bozino, presidente della Federazione e (guarda caso) anche massimo dirigente della Pro Vercelli. Così Rosetta firmò un cartellino per la Juventus (dimenticando di averne già firmato un altro davanti a Zambelli). Purtroppo il nullaosta rilasciato con la famosa lettera dai dirigenti vercellesi non aveva alcun valore per le autorità federali: un diabolico pasticciaccio, nel quale si trovarono coinvolti sia Rosetta che la Juventus. Rosetta esordì nella Juventus il 23 novembre 1923, all’ottava domenica di campionato, in qualità di centrattacco. Segnava stupendi goals, segnò anche quello della vittoria contro il Genoa primo in classifica; furono proprio i dirigenti del sodalizio ligure che, allarmati per la crescente serie di vittorie juventine, chiesero alla Federazione di promuovere una assemblea straordinaria per discutere il “caso Rosetta”. L’avvocato Bozino si rimangiò gran parte della recente condiscendenza ed al giocatore venne annullato il secondo tesseramento, ritenendosi valido soltanto il primo che lo teneva legato alla Pro Vercelli. L’atmosfera si arroventò a tal punto che il vicepresidente della Juventus, avvocato Enrico Craveri, sfidò a duello il vice del Milan, Baruffini: solo in extremis la contesa fu scongiurata. L’idea di risolvere le vertenze secondo il codice cavalleresco era molto simpatica; oggi i due dirigenti si sarebbero insolentiti assai più banalmente a viva voce o a mezzo della stampa. Il frastornato Rosetta, colpito da squalifica, non venne più utilizzato in quel campionato e la Juventus venne penalizzata di sei meritatissimi punti, la cui sottrazione consentì al Genoa di vincere lo scudetto. Poi, scontata la squalifica, Rosetta ricominciò a giocare, facendo coppia, come terzino, prima con Gianfardoni, poi con Bruna (non disdegnando frequenti apparizioni come attaccante, nel ruolo di mezzala destra) quindi con Allemandi, con Ferrero ed, infine, con Caligaris. Con la maglia bianconera “Viri” giocò 338 partite, realizzando 29 goals. Con la maglia azzurra ne giocò 52, di cui 26 insieme a Combi ed a Caligaris. Vinse otto scudetti: due con la Pro Vercelli e sei con la Juventus: un autentico record. Quando il terzino venne convocato per la prima partita in azzurro, aveva soltanto diciotto anni: la classe non matura, irrompe. Il suo amico Caligaris giocò in nazionale quando non aveva ancora compiuto ventuno anni. Confessiamo il nostro imbarazzo nel parlare di Rosetta senza coinvolgere nel discorso “Berto” Caligaris, arrivato alla Juventus dal Casale. Erano due tipici prodotti del calcio provinciale, diversi come temperamento, come carattere, come gioco. Rosetta apparve subito come giocatore completo; affinò in seguito il suo gioco con l’esperienza, ma non ne mutò più la base. Elemento calcolatore, freddo, positivo il vercellese; entusiasta, tutto fuoco, irrompente il casalese. Il primo studiava l’avversario, il secondo lo investiva. Questo diverso comportamento in campo traduceva il diverso carattere dei due atleti: di poche parole, riflessivo, osservatore Rosetta; espansivo, tutta cordialità, esuberante Caligaris. Giocarono, come abbiamo detto, per molti anni insieme, completando gioco e caratteri e formando la più bella coppia che mai sia stata vista in tutte le nostre nazionali. Caligaris è stato l’ultimo fiore del giardino casalese, un fiore prodigioso sbocciato su una pianta già rinsecchita; da parte sua Rosetta ha chiuso con un capitolo superbo il romanzo del calcio vercellese, uno dei più belli che il calcio italiano abbia scritto. Si trovarono insieme alla Juventus e furono i capisaldi difensivi della famosa squadra del quinquennio. Il gioco dell’uno completava quello dell’altro. Rosetta schermiva di astuzia con l’avversario, fingeva d’attaccarlo, voleva indurlo in errore; Caligaris non gli lasciava tempo di tirare il fiato; il calcolo di Rosetta integrava lo slancio del compagno. Agivano d’accordo, senza parole e senza cenni, istintivamente collegati in ogni momento dalla comune intelligenza di gioco. D’accordo tra loro e d’accordo con il portiere, il grande Combi. Abbiamo visto una volta Rosetta passare al volo, su calcio d’angolo, la palla a Combi, da due o tre metri: ai tifosi venne la pelle d’oca. Il segreto di Rosetta e Caligaris era di mai distrarsi: quando uno si muoveva, l’altro già sapeva cosa intendesse fare. Giocarono insieme i più begli anni della loro carriera ed insieme la chiusero. Ad Amsterdam, nel torneo Olimpico del 1928, Virginio Rosetta venne apprezzato e considerato come il miglior terzino. Avendo iniziato la carriera in qualità di attaccante, il biondo “Viri” conosceva tutte le malizie degli “avanti” e con l’aiuto di una classe superiore e di mezzi atletici favolosi sapeva neutralizzare qualsiasi insidia portata nel settore di sua pertinenza. II tutto con estrema freddezza, con un comportamento controllato e raziocinante. Era fortissimo incontrista e battitore di assoluta precisione. Longilineo puro, ogni suo gesto era improntato a notevole stile; era educato come vorremmo fossero ancor oggi i nostri giocatori. Quando subiva violenze non smaniava: prendeva atto e puntualmente restituiva. Fu senza dubbio un classico antesignano della fluidificazione difensiva. Chi lo ha visto giocare non lo dimenticherà mai più; chi lo ha conosciuto, non potrà fare a meno di ricordarne le doti di serietà, di grande umanità. Un vero gentiluomo, un autentico campione. La Juventus oggi abbruna le sue bandiere: con “Viri” Rosetta è scomparso uno dei più famosi suoi giocatori di tutti i tempi. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/02/virginio-rosetta.html -
GUGLIELMO GABETTO http://it.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_Gabetto
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GIANLUCA ZAMBROTTA http://it.wikipedia.org/wiki/Gianluca_Zambrotta Dotato di un fisico potente e resistente, cresce nelle giovanili del Como e, nei primi anni della sua carriera, ricopre ruoli prevalentemente offensivi all
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ROBERTO BAGGIO http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Baggio Nato a Caldogno, in provincia di Vicenza, il 18 febbraio del 1967, Roberto Baggio inizia a tirare calci ad un pallone nella squadra del suo paese, per poi trasferirsi al Vicenza in Serie C1, a quindici anni; con la maglia biancorossa dimostra di essere un potenziale fuoriclasse, mettendo a segno, con la squadra Primavera 46 goal in 48 partite. Queste ottime prestazioni gli permettono di debuttare in prima squadra nel 1983; nella stagione 1984/85 mette a segno 12 reti in 29 partite, consentendo così, alla squadra vicentina, di essere promossa in serie B. In una delle ultime giornate di campionato, si rompe il ginocchio destro; la Fiorentina, che lo ha già acquistato, ha la possibilità di recedere dal contratto, ma il presidente viola, Piercesare Baretti, decide di credere nel suo recupero. Dopo due anni di calvario esordisce in serie A il 21 settembre 1986 e realizza il suo primo goal nella massima divisione il 10 maggio 1987, contro il Napoli di Maradona. Proprio contro i partenopei, il 17 settembre 1989, Roberto segna uno dei suoi goal più belli, partendo dalla propria metà campo, saltando tutta la difesa partenopea, compreso il portiere Galli e depositando il pallone in rete. Rimarrà in Toscana fino al 1990, quando si trasferisce alla Juventus, tra le furiose e violente proteste della tifoseria fiorentina, conscia di perdere un grande giocatore, già diventato un idolo. Le grandi giocate di Baggio gli fanno guadagnare la convocazione dal Commissario Tecnico della Nazionale, Azeglio Vicini, e la partecipazione ai mondiali italiani del 1990. Sono le notti magiche di Toto Schillaci; Baggio non parte titolare, ma presto conquista il posto in squadra, rispondendo sempre con grandi prestazioni. Mette a segno un goal memorabile nella sfida contro la Cecoslovacchia ed un ulteriore goal nella finale per il terzo posto contro l'Inghilterra. Terminati i mondiali, Baggio inizia la sua avventura nella Juventus che durerà 5 anni: saranno 200 presente e 115 reti. Sono gli anni della consacrazione del Codino, che vincerà coi colori bianconeri uno scudetto, una Coppa Italia ed una Coppa Uefa. Verrà inoltre premiato con il Pallone d'oro nel 1993 e col premio FIFA World Player nel 1994. Nonostante tutti questi successi, non riesce ad entrare nel cuore dei dirigenti bianconeri (celebre è rimasto lappellativo di Coniglio bagnato, coniato dallAvvocato) e nemmeno in quello dei tifosi, che non gli hanno mai perdonato il gesto di togliersi la sciarpa bianconera alla sua presentazione alla stampa e, soprattutto, quando, il 6 aprile 1991, ritorna per la prima volta a Firenze con la maglia della Juventus. Baggio gioca male e si rifiuta di tirare il rigore che potrebbe dare il pareggio alla squadra bianconera; sostituito dopo unora, uscendo dal campo raccoglie una sciarpa viola lanciata da una ragazza dei distinti. Il boato di gioia della gente di Firenze è pari soltanto alluragano di fischi dei tifosi bianconeri. Nell'estate del 1994 è convocato per i mondiali negli Stai Uniti. Baggio è considerato da molti il calciatore che può far sognare lItalia, ma l'inizio è stentato: gli azzurri passano a fatica la prima fase, ripescati tra le migliori terze dei gironi di qualificazione, ed il rapporto tra Baggio ed il Commissario Tecnico Arrigo Sacchi non sembra essere dei migliori, a causa del gesto di disappunto del Codino dopo la sostituzione nei primi minuti del match contro la Norvegia, in seguito all'espulsione del portiere Gianluca Pagliuca. Le immagini televisive sono chiarissime: «questo è matto, questo è matto!», continua a ripetere Roberto, quando esce dal campo. Gli ottavi di finale vedono l'Italia opposta alla Nigeria: gli azzurri, sotto di un goal e con un uomo in meno a causa dellespulsione di Zola, pareggiano al 88° proprio grazie ad una prodezza di Baggio; nei tempi supplementari, è ancora Baggio, al 102°, stavolta su rigore, a mettere il suggello alla partita. Roberto continua a segnare anche nei turni successivi, contro la Spagna nei quarti di finale e contro la Bulgaria (2 goal) in semifinale. Ma proprio contro i bulgari si infortuna; dovrebbe riposarsi, ma come si può rinunciare alla finalissima contro il Brasile? Si gioca alluna di pomeriggio a Pasadena, sobborgo di Los Angeles, con un caldo torrido; i rigori daranno la vittoria ai sudamericani per 3-2, con ultimo rigore sbagliato proprio da Baggio che tira alto sopra la traversa, dopo gli errori di capitan Baresi e di Massaro. Baggio, che fatica sempre più a trovar posto nella Juventus decisa a puntare sullastro nascente Del Piero, si trasferisce nell'estate del 1995 al Milan, guidato da Fabio Capello, rimanendovi per due anni; nonostante le vittorie della squadra milanese, Baggio non trova spazio diventando una riserva di lusso. Chiaramente, non viene convocato per gli Europei inglesi del 1996; la maglia numero 10 della Nazionale è indossata da Zola e proprio il giocatore sardo fallisce il rigore decisivo contro la Germania e gli azzurri vengono eliminati al primo turno. Arrigo Sacchi viene esonerato e ritorna sulla panchina del Milan, convincendo Roberto ad abbandonare la squadra rossonera, l'estate successiva. Baggio decide di ripartire dal Bologna: sarà la stagione del rilancio e del record personale di marcature, ben 22 reti segnate in 30 partite. Il Commissario Tecnico della Nazionale Cesare Maldini è costretto, a furor di popolo, a convocarlo per il mondiale del 1998 in Francia. La decisione di Maldini non si rivelerà felice ed il mondiale francese vivrà tutto sul dualismo tra Baggio e Del Piero, minando gli equilibri interni della squadra. Baggio segnerà due reti, diventando così l'unico giocatore italiano ad aver segnato in tre mondiali diversi. L'eliminazione arriva ai quarti di finale, per mano della Francia, futura campione del mondo, ancora ai calci di rigore ma, questa volta, Baggio realizza il suo tiro dagli undici metri. Quella stessa estate si trasferisce nuovamente ed approda all'Inter, guidata per quella stagione da Gigi Simoni. È una delle stagioni più controverse della squadra meneghina, con numerosi cambi d'allenatore (Simoni, Lucescu, Hodgson ed infine Castellini) che impediscono a Baggio di esprimersi al meglio. Nella seconda stagione arriva Marcello Lippi, ma anche con lallenatore toscano i rapporti non sono buoni, tanto che, al termine dei due anni di contratto, Baggio si congeda dall'Inter, con una doppietta nello spareggio contro il Parma, che regala ai nerazzurri l'ammissione alla Champions League. Baggio decide di ritornare ad una squadra provinciale, trasferendosi al Brescia, sotto la guida di Carlo Mazzone, con l'obiettivo dichiarato di partecipare ai mondiali del 2002. Obiettivo mancato, anche a causa di un brutto infortunio al ginocchio sinistro che a più riprese ne condiziona la stagione decisiva, dissuadendo il Commissario Tecnico della Nazionale Italiana, Giovanni Trapattoni, dal convocarlo. Il 14 marzo 2004, durante il match contro il Parma, Roberto Baggio mette a segno il suo duecentesimo goal in serie A, traguardo raggiunto solo da quattro altri mostri sacri del campionato italiano: Silvio Piola, Gunnar Nordhal, Giuseppe Meazza e José Altafini. Qualità tecniche superlative, nessuno può metterlo in dubbio, da fuoriclasse assoluto ma che, onestamente, non lo è stato per limiti fisici e caratteriali. La vittoria al Mondiale americano gli avrebbe insegnato a vincere, invece, quel rigore sbagliato lo consacrò definitivamente come Coniglio bagnato. Linfortunio dellanno dopo, che gli fa saltare praticamente tutto il girone dandata, e lesplosione di Del Piero, lo relegano di nuovo al ruolo di ciliegina sulla torta, come accadrà in seguito al Milan. Il palmares è troppo esiguo per includerlo nellOlimpo ed, a ben vedere, in nessuno dei due scudetti fu veramente decisivo, anche se non solo per colpa sua. Pochi, infatti, ricordano che, per lunghi anni, è stato loggetto delle polemiche di chi lo considerava un raccomandato, sullaltare del quale veniva sacrificato Zola. Poi, piano piano, è diventato lidolo del circo televisivo, per assurgere a vittima di Del Piero; la bellezza del nostro sistema giornalistico. Con la Juventus, oggettivamente, ha fatto il massimo; aveva contro un Milan inavvicinabile e, quel poco che ha vinto (tranne lo scudetto), lo ha fatto da protagonista quasi assoluto (la Coppa Uefa la vinse da solo, finale a parte). Unico lo è stato sicuramente per la capacità di dividere lopinione pubblica. Gli ultimi anni era diventato insopportabile per laura di santità che circondava qualsiasi cosa dicesse o facesse. A suo favore, il fatto che lasciato il calcio sia sparito, senza lucrare sulla sua popolarità immensa. Davvero un personaggio controverso che, però, ci ha lasciato almeno una trentina di goal indimenticabili. Roberto Baggio disputa lultima partita della sua lunga carriera il 16 maggio 2004 (Milan - Brescia 4-2, ultima giornata della stagione), non prima tuttavia di essere convocato, il 28 aprile 2004, per unultima volta in Nazionale, in occasione di una partita amichevole contro la Spagna. Al termine della stagione, in suo onore, il Brescia (che con lui in cabina di regia si salva per quattro anni di seguito) ritira la maglia numero 10 da lui indossata per 5 stagioni. IL RACCONTO DI ADALBERTO SCEMMA, SU HURRÀ JUVENTUS DEL FEBBRAIO 1994: «Macché signor Baggio! Chiamatemi Roberto. Non fatemi sentire il peso di un premio che ho vinto per merito mio, ma anche di altri. Perché io sono sempre io, Baggio è rimasto Baggio. E rimarrà così». Eccolo qui, parola per parola, il primo commento di Roby allesito della votazione di France Football. Un inno allumiltà persino eccessivo, in un giocatore che proprio la conquista del Pallone doro ha consegnato, non soltanto alla storia, ma addirittura alla leggenda del calcio. Roberto Baggio non ha perso una virgola della semplicità di un tempo, quella semplicità che è diventata (anche sul piano delle connotazioni calcistiche) unarma supplementare. «Ma sono proprio le cose semplici, che ti permettono di divertirti. Da professionista capisci che il divertimento cè salo quando vinci. Lultima volta che mi sono divertito è stato la scorsa estate, giocando sulla spiaggia». Può darsi, ipotizza qualcuno, che limmagine di calciatore un po fuori dalle righe (il codino, ladesione al buddismo e così via) lo abbia aiutato ad imporsi. Proprio vero? Roberto fila in dribbling saltando i se ed i ma come birilli. «Quando a vincere erano gli altri mi limitavo a pensare: beati loro. Oggi non lo so proprio. Qualcosa di importante lho fatto, se in tanti mi hanno scelto deve esserci una buona ragione. Eppoi un premio non è mai lespressione di un giudizio definitivo su un calciatore: sono i risultati che decidono. Se fossi arrivato secondo in Coppa Uefa, se non avessi realizzato cinque goals tra le semifinali e le finali, non parleremmo di queste cose». Limmagine, insomma, conta ben poco. Roberto Baggio ha il pregio di essere se stesso anche e soprattutto quando porta avanti scelte non tradizionali. I dettami di casa Juve impongono un certo stile di vita ed il rispetto di regole non codificate, e tuttavia quasi mai disattese, anche a proposito del look. Linvito di Boniperti a passare dal barbiere, in passato, veniva accolto alla stregua di un ordine. Di qui quel minimo di difficoltà (soprattutto psicologiche) che Roberto ha già dovuto superare per imporre anche allinterno dellambiente juventino la propria personalità. Ma il codino, più che un vezzo narcisistico, è diventato un emblema. Di serenità, però, non di trasgressione. Che cosa rappresenta, per Roberto Baggio, la conquista del Pallone dOro? Ogni medaglia ha sempre due facce: «Da un lato il Pallone è un meraviglioso compagno di viaggio e di avventura; dallaltro, rappresenta un peso, anche se questa mia valutazione può apparire scontata. Le responsabilità sono aumentate. Ora la gente si aspetta che io giochi sempre al massimo e che dia spettacolo. Il sempre, però, non è possibile. Paura? No di certo. A farmi compagnia cè sempre il gusto della sfida, la voglia di dimostrare a tutti, anche a me stesso, che sono allaltezza». Proprio il gusto della sfida, non a caso, ha scandito la prima fase della carriera di Baggio, quando linfortunio al ginocchio, con la lunghissima assenza dai campi di gioco, aveva lasciato presumere addirittura un addio al calcio. Per riemergere, Roberto si era affidato ad un grande professionista come il professore Carlo Vittori, il maestro di Pietro Mennea, nella fase di rieducazione; eppoi a sé stesso, alla propria straordinaria motivazione. «In effetti sono uscito da un vero e proprio labirinto di dubbi, di confusione, di perplessità. Allenarsi per due anni da solo è unesperienza terribile: una volta superato quel trauma, nulla fa più paura. Nei momenti di sconforto mi ha aiutato questa straordinaria voglia di riprovarci, a costo di qualsiasi sacrificio». È proprio di fronte alle difficoltà che si rafforza il carattere. Roberto è uscito temperato dai sacrifici che ha dovuto affrontare, al punto da affinare anche il proprio bagaglio di calciatore non votato soltanto alla purezza del gesto tecnico. «Molti dicono che cerco maggiormente il contrasto, che lotto con più determinazione rispetto al passato. Forse è soltanto perché mi sento padrone della situazione e rischio cose che una volta neppure mi venivano in mente. Faccio un esempio: mi capita spesso di entrare in scivolata per guadagnare quella frazione di secondo che può essere determinante. Eppure proprio in una situazione di gioco analoga riuscii, da ragazzo, a farmi a pezzi il ginocchio». Qual è stato il momento più difficile, fatta eccezione per gli anni giovanili, della carriera Baggio? Cè stato un momento, due anni fa, in cui tutto sembrava girare dalla parte sbagliata. «Stavo male e durante la settimana non mi allenavo, ma alla domenica ero costretto ad andare in campo, conciato in quel modo. Alla fine del girone dandata avevo collezionato due goal soltanto, entrambi su rigore. Quando ci penso ho limpressione di aver vissuto un incubo. Uscii dal tunnel soltanto grazie al goal segnato in azione contro Malta. Senza quel guizzo, probabilmente non sarei qui a parlare, oggi, del Pallone dOro». Nelle dichiarazioni di Roberto Raggio, prima e dopo il riconoscimento di France Football, cè una costante che innesca la curiosità di approfondire. Ci riferiamo al significato del goal, capace spesso di assumere unimportanza determinante. «I goal sono la chiave del successo, e senza successo nel calcio non sei nessuno. Ci sono giocatori bravissimi, serissimi, fondamentali per leconomia delle loro squadre, che trovano posto, una volta finita la carriera, soltanto in qualche ricordo sbiadito. La gente ti ricorda soprattutto per le reti che hai messo a segno, non per quelle che hai impedito di realizzare, e neppure gli assist, magari stupendi, che sei riuscito a inventare. Io cerco il goal come un fatto naturale. E continuo a pensare che i miei goal in Coppa siano alla base del successo». Sul nome di Roberto Baggio vincitore del Pallone dOro sembravano daccordo i critici sin dallautunno scorso, quando proprio da Parigi cominciavano ad arrivare le prime indiscrezioni sullesito del referendum. E tuttavia Roberto aveva palesato le proprie perplessità. Questione, ovviamente, di scaramanzia. «Anche quando tutti sparavano titoli a nove colonne, io pensavo: Roby, attento, è in arrivo una fregatura. Spesso mi è tornata in mente la notte della finale-bis contro il Borussia Dortmund: pioveva a dirotto, ricordate? Beh, anche in quella circostanza ho temuto che saltasse tutto. Cera una vocina dentro me che non stava mai zitta: per una volta che ti capita di vincere rinviano la partita. Le foto con il Pallone dOro le ho fatte con la speranza che il grande sogno si avverasse. Si è avverato, grazie al cielo». Da un lato la speranza di vedere finalmente riconosciuta una leadership indiscussa a livello europeo; dallaltro la possibilità che la bilancia dei voti si mettesse improvvisamente a pendere dalla parte di altre tre eccellenti B del calcio: Baresi, Bergkamp e Bokic. Quale sarebbe stata la reazione di Roberto Baggio? «Al massimo mi sarebbe scappato un beati loro del tutto sincero. Non ho mai provato invidia nei confronti di nessuno. Eppoi il meccanismo del Pallone dOro è davvero tutto particolare. Questanno ho ricevuto 142 voti, lo scorso anno neppure uno: sono proprio questi eccessi, nel bene o nel male, a farmi accettare con estrema serenità ciò che la vita mi riserva giorno dopo giorno. Linvidia, naturalmente, non la conosco». Senza le prodezze realizzate in azzurro durante le qualificazioni per i Mondiali americani (incontri di Coppa Uefa a parte), difficilmente Baggio sarebbe arrivato a conquistare il Pallone dOro. Anche per questo la riconoscenza nei confronti di Arrigo Sacchi, che gli ha manifestato fiducia in un momento particolarmente delicato della carriera, è esplicita. «Sacchi mi è stato vicino in un periodo nero. Per tre mesi ho giocato con uno stiramento. Non mi riconoscevo più. Poi a Foggia, contro Cipro, cè stata la partita della svolta. Lì sono uscito dal tunnel». Undici anni fa il Pallone dOro di Paolo Rossi, ora quello di Roberto Baggio. Due fuoriclasse accomunati, oltre che dal colore bianconero, anche dal biancorosso della maglia vicentina. Una scuola calcistica che porta buono sia quando si tratta, come nel caso di Baggio, di insegnare i primi rudimenti, sia quando (ecco il caso di Pablito) si presenta la necessità di un riciclaggio. E proprio la storia del Vicenza è del resto infittita di personaggi capaci di vivere qui una seconda od addirittura una terza giovinezza: basterebbe citare Sormani, oltre al leggendario Vinicio. «A Vicenza», ride Baggio, «hanno brevettato una specialità: quella di gonfiare i Palloni dOro. Guai a chi ha il coraggio, comunque, di parlare di me e di Paolo Rossi paragonandoci a due palloni gonfiati!» La milizia nel Vicenza, con il debutto in Serie C a 16 anni appena compiuti, ha permesso a Roberto, che giocava allora senza avvertire il peso delle responsabilità, di esprimersi in punta di fantasia. La stessa fantasia, peraltro, che Roberto ha avuto come compagna nella Fiorentina, durante cinque scoppiettanti stagioni, e che qualcuno sostiene abbia in parte smarrito dopo il passaggio alla Juventus. Ha ragione Sivori, dunque, quando critica la decisione di France Football di assegnare a Baggio il massimo riconoscimento? «A Sivori non rispondo, ma devo ammettere che in parte ha ragione. È vero: quando giocavo nella Fiorentina mi esprimevo con maggiore fantasia, ma va tenuto conto che a Firenze potevo permettermi tutto o quasi tutto, la pressione non era massiccia come a Torino. Nella Juventus ogni partita è decisiva, bisogna giocarla con grande raziocinio. La creatività da sola non basta». Il giudizio maligno di Omar Sivori è stato accolto da Baggio con molta serenità. La giornata di lunedì 27 dicembre, tuttavia, è stata ricca soprattutto di elogi. A chiamare Roberto (la sua casa di Caldogno è stata tempestata di telefonate) hanno provveduto amici, conoscenti ed anche semplici tifosi, entusiasti per lassegnazione di un premio così prestigioso. Tra le tante chiamate («Tutte gratificanti, non è vero che si tratta di un copione banale»), Roberto ha gradito in particolare quella tradizionalmente mattutina dellavvocato Agnelli: «Non ci siamo detti nulla di particolare e soprattutto non ci sono stati confronti con Platini. Si è trattato di un dialogo tra due appassionati di calcio. Felici, naturalmente». Da quando Andreina e Roberto (in attesa del secondogenito) hanno trasferito la base familiare nella villetta di Caldogno appena restaurata, le visite ai parenti ed ai vecchi amici si sono natural-mente infittite. In paese non cè proprio bisogno di dire chiamatemi Roberto. Quel nome è familiare, quasi che il Baggio fosse uninutile appendice. Cè il senso delle radici più profonde ma anche, e soprattutto, di una naturalezza nei rapporti umani che Roberto si è poi ritrovato in dote anche nel momento più alto, e più difficile, della carriera. «Sono contenta per lui», ha detto Andreina, «perché il Pallone dOro ha dato un senso a tanti sacrifici. Ma la cosa che maggiormente ho apprezzato è stata la serenità che Roberto è riuscito a trasmettere un po a tutti. E rimasto, insomma, con i piedi per terra. Come era giusto che fosse». Anche il papà e la mamma di Roberto hanno gioito, ma senza esagerare. A Caldogno è di casa il realismo. «Gioie e dolori», questo è il commento, «vanno vissute in punta di piedi». Ed è un modo molto veneto di filosofar di vita. «In paese», dice mamma Matilde, «ricordano Roberto proprio perché aveva sempre il pallone tra i piedi. Correva come un matto. Il calcio per lui è sempre stato come una malattia. Sarebbe stato disposto a sacrificare qualsiasi cosa. Seguiva suo fratello Walter, quando andava al campo ad allenarsi, e non lo mollava più. Il premio che ha vinto ha fatto piacere a tutti anche perché tutti, credo, hanno partecipato, tanti anni fa, alla formazione di quello che oggi viene considerato un campione». Diego Ceola, uno degli amici più cari di Roberto, ha vissuto con lui, sui banchi di scuola e sui campi di calcio, tutta linfanzia e ladolescenza. «Lunico rammarico», dice, «è che la gloria sportiva ha privato Roberto di tutte le gioie che vivono i ragazzi normali. A quindici anni era già famoso, non ha più potuto evitare i riflettori. Per questo avrei preferito che il Pallone dOro fosse andato a Maldini. La difficoltà per Roberto, oggi come oggi, è quella di inventarsi nuovi stimoli». Sotto questo profilo, invece, ha ben pochi dubbi Giulio Savoini, il responsabile del settore giovanile del Vicenza, una leggenda del calcio biancorosso dopo essere stato per numerose stagioni protagonista sia in attacco che in difesa, come terzino fluidificante. «Il segreto di Roberto è soprattutto quello di amare il calcio. Una volta finiti gli allenamenti, invece di prendere la corriera e di tornare a casa, rimaneva sul campo a guardare i più grandi. Era sempre lultimo ad andare via. Ha una passione straordinaria». COSÌ LO RACCONTA DA VLADIMIRO CAMINITI, NEL 1991: La vita è alimentata anche da pregiudizi, che guastano la natura degli uomini. In Italia a qualsiasi livello di occupazione e di ruolo, essi si materializzano in etichette, il calcio non può fare eccezione, pochi campioni sfuggono a catalogazioni preconcette. Che si diceva di Roberto Baggio di Caldogno in quel di Vicenza, prima che si trasferisse definitivamente a Torino? Si diceva per lappunto che era il classico mezzo fuoriclasse, il giocatore virtuoso del pezzo dautore, breviter il campione degli scampoli. Detto più crudamente: la ciliegina sulla torta. Ci vuole la squadra, poi cè lui. Io penso che questa etichetta ha rappresentato tutto il Baggio fiorentino, delizia impareggiabile di quei tifosi. I cinque anni viola non ne mutarono il destino. Baggio non vinse nulla, ma fece scrivere di tutto. Ed incantò puntualmente la Juventus, e lAvvocato, nei confronti diretti. Salvo lui per primo negare anche la più remota possibilità a potersi trasferire un giorno nella società bianconera. Non dire mai nel calcio che cosa è impossibile. Niente è vietato alla Juventus. Nellestate 1990, il trasferimento choc fu realtà. La Juventus andò in campionato a miracol mostrare col suo fiore allocchiello. I ricordi sono nitidi, la stagione non fu esemplare, anche per il giocatore. Nel campionato di Maifredi bianconero, la Juventus finì ingloriosamente settima, furono sorbole, furono polemiche, furono lacrime amare. E Baggio? Non aveva colpe specifiche, aveva come sempre fatto il dover suo, 14 goal alla pari con quel certo centravanti tutto istinto di Klinsmann, la dicono lunga. Poi il recupero delle entità irrinunciabili, il ritorno di Boniperti e Trapattoni, e per Baggio linizio di una nuova storia. Anzi linizio della storia, la Juventus della normalità seconda in campionato cioè di nuovo degna della sua tradizione, superata soltanto dal Milan delle sinergie televisive, e Baggio rapace nel goal (ben 18) e soprattutto in grado di smentire certe affermazioni gratuite e per niente simpatiche: altro che ciliegina sulla torta! Questo si deve scrivere, dopo avergli visto giocare alcune inobliabili partite per la Signora con un impegno smeraldino, non più solamente il rifinitore impeccabile, il finalizzatore strabiliante, anche il giocatore al servizio degli schemi, rapace nel goal ma anche capace di una spola virtuosa, luomo chiave della manovra, il punto di riferimento. Baggio è cresciuto con la Juventus, e Trapattoni detto Trap ha avuto ben ragione di esultare. Rivedo la sua magica prestazione del Meazza contro lInter, sublimata da un goal dautore che ha consentito ai soliti di vestire le piume del pavone. lavevano detto o no che soltanto Meazza si poteva comparare allasso di Caldogno? Baggio si inserisce tra i più grandi della storia juventina col diritto della classe. Vi sono campioni che superano le mode. che valicano gli oceani. che caratterizzano unepoca ed al contempo sono la naturale e perenne espressione di un gioco, di uno sport, di unarte. È il caso di Baggio. La sua finezza interpretativa, il tocco davvero araldico sui calci piazzati che lo accosta a Maradona, il suo dribbling di possesso irresistibile e la sua capacità di goleare da vicino e da lontano con inflessibile lucidità e freddezza, lo pongono allo stesso livello degli assi più straordinari di ogni tempo. Cera da affezionarsi alla maglia bianconera, bisognava che la magia del gioco di Baggio creasse nuovi incantesimi. La cosa è puntualmente avvenuta. Ora Baggio si collega a Vialli perché la favola prosegua verso nuovi irrinunciabili traguardi. Un asso irripetibile adorna il diadema di nostra signora di Torino, che è la signora di tutti gli sportivi italiani dai cinque ai novanta anni, la squadra che coi suoi assi, da Giacone a Peruzzi, da Goccione a Kohler, da Hirzer a Baggio, unisce gli italiani dal mare alle Alpi. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/02/roberto-baggio.html
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VALERIJ BOJINOV http://it.wikipedia.org/wiki/Bojinov Nato a Gorna Oryahovitsa, in Bulgaria, il 15 febbraio 1986, arriva in Italia la sera del 16 ottobre 1999 grazie ad una felice intuizione di Pantaleo Corvino; l
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LUCIANO BODINI http://it.wikipedia.org/wiki/Luciano_Bodini Bodini nasce a Leno, provincia di Brescia, il 12 febbraio 1954. Cresciuto nell
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VINCENZO MARESCA http://it.wikipedia.org/wiki/Enzo_Maresca
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BRUNO GARZENA http://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Garzena
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SILVINO BERCELLINO http://it.wikipedia.org/wiki/Silvino_Bercellino Nato a Gattinara, in provincia di Vercelli, il 31 gennaio 1946, Silvino Bercellino muove i primi passi nel settore giovanile bianconero, ripercorrendo fedelmente le orme del pi
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ROBERTO TANCREDI http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Tancredi Nato a Montecatini Val di Cecina (Pisa) il 30 gennaio 1944. Nella Juventus fa tutta la trafila com portiere, disputando i campionati
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ERMINIO FAVALLI