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  1. CIRO FERRARA http://it.wikipedia.org/wiki/Ciro_Ferrara “Ciro Ferrara, c’è solo un Ciro Ferrara” cantavano i tifosi della Juventus. Personaggio straordinario, dotato di una notevole simpatia e di un’umanità fuori dal normale. Sicuramente, uno dei più forti difensori italiani di ogni epoca. Nato a Napoli l’11 febbraio 1967, a quattordici anni è costretto momentaneamente in carrozzella dalla “Sindrome di Osgood-Schlatter”, ma si riprende prontamente ed esordisce in serie A, con la maglia azzurra del Napoli, il 5 maggio 1985, al “San Paolo”, proprio contro la Juventus. Nella città partenopea, Ferrara gioca durante tutta l’era di Maradona: vince il primo scudetto e la Coppa Italia nella stagione 1986/87, poi due secondi posti consecutivi in Serie A ed ancora uno scudetto, nel 1989/90. Nella stagione 1988/89 il Napoli vince anche il suo primo trofeo europeo, la Coppa Uefa, battendo in finale lo Stoccarda grazie anche ad un goal di destro al volo di Ferrara, servito da Maradona con uno spettacolare assist, sempre di testa. Nei ricordi dei tifosi napoletani, rimangono le immagini di Maradona che, abbracciando un Ciro Ferrara in lacrime per la commozione, ne sottolinea i grandi meriti della vittoria. «Sicuramente, uno dei ricordi più belli è legato alla finale di ritorno della Coppa Uefa 1988/89. Giocavamo», ricorda Ciro, «a Stoccarda, in casa di una squadra fortissima e davanti a tanti emigrati. Pareggiammo 3-3 ed io segnai anche un goal; vincemmo la Coppa e regalammo una grande gioia ai nostri connazionali. Ma non posso dimenticare lo scudetto vinto con il Napoli nel 1987, un’emozione forse irripetibile, perché è stato il primo e perché l’ho conquistato nella mia città». In dieci stagioni totalizza duecentoquarantasette presenze in serie A segnando dodici goals, cinque in Coppa dei Campioni, venti in Coppa Uefa segnando un goal. Nel 1994 il suo allenatore, Marcello Lippi, lascia Napoli per trasferirsi alla Juventus e Ferrara lo segue; inizia così una nuova vita per Ciro. Il primo anno è subito scudetto, accompagnato da una Coppa Italia. Sarà solo l’antipasto. Nel 1995/96, la Juventus conquista la Coppa dei Campioni, contro l’Ajax; è di Ciro uno dei rigori realizzati dalla squadra bianconera. «In verità, non avrei mai immaginato di andare via da Napoli e di giocare con una squadra come la Juventus. A Napoli ero il capitano, apprezzato e coccolato da tutti. Aggiungo che la nuova esperienza a Torino, mi ha gratificato. È stata una sfida importante anche con me stesso. Ha creato in me nuovi stimoli ed oggi posso tracciare un bilancio incredibile. Si, sono enormemente soddisfatto. Devo qualcosa a me stesso, al mio carattere. Non potevo fallire ed ho affrontato l’impegno in maglia bianconera con il massimo entusiasmo ed in maniera molto professionale. Si, è vero, nei primi sei mesi trascorsi a Torino, mi sentivo un po’ strano, ma era soltanto una questione di ambientamento. D’altra parte era cambiata la mia vita». La stagione successiva, viene affiancato da Paolo Montero; per tanti anni, il napoletano e l’uruguagio comporranno la coppia di difensori più forti del campionato italiano e, probabilmente, non solo. Nuovo scudetto, così come nel campionato successivo, caratterizzato, però, da un grave infortunio, Infatti, in uno sconto con il leccese Conticchio, Ferrara si rompe una gamba; fine della stagione e, soprattutto, addio alla maglia azzurra ed alla possibilità di disputare il Mondiale francese. Ciro, il guerriero, ritorna dall’infortunio più forte che mai; la Juventus non ingrana, Lippi deve dare le dimissioni, ma Ferrara è sempre un baluardo fondamentale della difesa bianconera. Arriva Ancelotti, ma la musica non cambia; la Juventus non è più capace di vincere, ma Ciro rimane un giocatore insostituibile. Nell’estate del 2001, ritorna Lippi a guidare la truppa bianconera ed è nuovamente scudetto; Ferrara è uno dei protagonisti indiscussi, c’è chi lo vorrebbe titolare nella Nazionale che sta per affrontare i Mondiali coreani. Trapattoni non è d’accordo, per lui Ferrara è troppo vecchio; tutti sanno come va a finire, la Nazionale gioca male e viene eliminata dai padroni di casa. Ancora uno scudetto con Lippi, uno con Capello e fanno otto; Ciro eguaglia il record di Giovanni Ferrari e Giuseppe Furino. Nella stagione 2004/05, contro il Parma nel finale di campionato, gioca la sua cinquecentesima partita in serie A e decide di appendere gli scarpini al chiodo, dopo ventuno stagioni consecutive; è il decimo giocatore italiano di tutti i tempi per presenze. Con la maglia bianconera gioca 358 partite e segna 20 goal. A Torino vince sei scudetti, la Champions League 1996, una Supercoppa Europea, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Italia e quattro Supercoppe Italiane. Ferrara esordisce in nazionale in Italia - Argentina 3-1 del 10 giugno 1987. In azzurro gioca quarantanove partite, facendo parte anche della squadra che ha partecipato alla XXIV° Olimpiade nel 1988 classificandosi al quarto posto, dopo essere stata sconfitta per ben 4-0 dall’esordiente Zambia. Su espressa richiesta di Lippi, fa parte dello staff della Nazionale italiana di calcio campione del mondo come vice dello stesso Lippi, durante il Mondiale tedesco del 2006; ancora una volta, sarà un nuovo trionfo e la Coppa del Mondo passa anche fra le sue mani. Dopo l’esperienza con la Nazionale, ritorna alla Juventus, come responsabile del settore giovanile; nel maggio del 2009, si siede sulla panchina della prima squadra, causa l’esonero di Ranieri. Guida la Juventus nelle ultime due giornate di campionato, conquistando due vittorie nette ed il secondo posto in classifica; grazie a questi risultati, ottiene la conferma anche per l’anno successivo. Ma la stagione 2009/10, nonostante un buon inizio, si rivela presto disastrosa per il sodalizio bianconero. Eliminata al primo turno nella Champions League, nonostante un girone per niente impossibile (Bayern Monaco, Bordeaux e Maccabi Haifa le avversarie), la Juventus viene presto staccata dalla capolista Inter, nonostante la vittoria nello scontro diretto. A cavallo fra la fine e l’inizio dell’anno, a causa di una interminabile serie di sconfitte (fra la quali Catania, Milan e Roma fra le mure amiche), la Juventus precipita al sesto posto della classifica, a ben 16 punti dall’Inter. Il 28 gennaio 2010, la squadra bianconera è eliminata in Coppa Italia dalla stessa compagine nerazzurra e la società decide di esonerare Ciro, sostituendolo con Alberto Zaccheroni. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2008/02/ciro-ferrara.html
  2. http://shop.sportsworldcards.com/ekmps/shops/sportsworld/images/juventus-daniele-fortunato-top-micro-card-italian-league-1989-football-trading-card-27034-p.jpg
  3. CARLO PAROLA http://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Parola La prima passione di Carlo Parola fu la bicicletta; suo padre (scomparso prematuramente per una crisi cardiaca) ne costruì una per il figliolo, un autentico gioiello di tecnica e leggerezza. Parola abitava vicino al Motovelodromo ed imparò a solo otto anni a tenersi in equilibrio sulle curve in cemento ed a provare qualche sprint. Nell’intervallo tra una prova di velocità ed una di mezzofondo, Carletto inforcava la sua bicicletta ed inanellava tre o quattro giri in piena velocità, tra gli applausi della folla divertita e stupita. Dalla pista alla strada il passo fu breve ed in una corsa Torino-Bardonecchia e ritorno, in due tappe, fece cose strepitose, classificandosi primo nella tappa con arrivo a Bardonecchia, terzo in quella con arrivo a Torino, e secondo in classifica generale.Racconta: «Andavo veramente forte in salita, peccato che non fossi altrettanto bravo in discesa. Ma a rendermi prudente era stata una brutta caduta, piombando a valle da Pino Torinese, con serie conseguenze, la frattura di un braccio. Fu il calcio che spuntò nei miei orizzonti qualche anno dopo la morte di mio padre. Abitavo a Cuneo, dove non c’era il Velodromo, ma dove esisteva il campo sportivo: e fu là che presi confidenza con la sfera di cuoio e mi convertii a quello che giudico ancora oggi il più bel gioco del mondo. Quando tornai a Torino, insieme ad alcuni amici appassionati, fondai una squadretta che, dal nome del corso adiacente al prato sul quale si giocava, venne chiamata Brianza. Avevo appena dieci anni, ma ricordo che in quella compagine feci di tutto, dal difensore al centravanti, dal mediano all’ala e persino il portiere. La nostra squadretta non tardò a farsi un proprio nome ed ebbe anche i suoi tifosi che, domenicalmente, la seguivano, spingendosi in audaci trasferte magari fino a “Porta Susa”».La prima vera squadra in cui giocò Carlo Parola fu il Vanchiglia, nel 1935; Parola aveva notevoli qualità e non poteva non essere notato anche dai numerosi osservatori dei grandi club, fra i quali la Juventus. Carletto si trasferì alla squadra del Dopolavoro Fiat e di qui alla Juventus, dopo che Umberto Caligaris aveva portato ai dirigenti juventini referenze molto positive sul conto del giovane centromediano. Caligaris era l’allenatore della Juventus ed uno dei problemi più grossi era la sostituzione di Luisito Monti, che aveva lasciato il club bianconero. Berto provò Varglien II, un talento calcistico molto adattabile a qualsiasi ruolo, ma la soluzione non soddisfò molto l’allenatore, anche se la Juventus concluse il campionato 1939/40 al terzo posto, dietro al Bologna ed all’Ambrosiana campione.Carletto Parola, per interessamento di Sandro Zambelli, venne trasferito dal Fiat alla Juventus; quello che sarebbe diventato uno dei più grandi terzini centrali sistemisti del mondo, un classico nel suo ruolo, giocava mezzala, se non addirittura centravanti. Poi le necessità di squadra lo arretrarono in seconda linea, ruolo nel quale esordì in campionato, il 3 dicembre 1939. Quella domenica la Juventus ospitava il Novara e Caligaris decise di far debuttare Carletto, diventato ormai il suo pupillo. Parola giocò una buona partita, scatenando gli applausi a scena aperta dei tifosi bianconeri e l’entusiasmo dei propri tifosi personali, la cosiddetta “Banda della Brianza”, che tentò addirittura di invadere il campo per festeggiare il giocatore.Il triste giorno della morte di Caligaris, Parola provò un dolore incredibile; non aveva perso solo l’allenatore, ma un secondo padre. Viri Rosetta non se la sentì di raccogliere l’eredità del suo grande amico scomparso ed allenatore diventò Felice Borel, l’ineguagliabile centrattacco della Juventus del quinquennio. I rapporti tra Farfallino e Parola non furono perfetti, perlomeno all’inizio; il primo era un assertore convinto del sistema, il difensore, invece, era fedele al metodo e le differenze tattiche tra i due moduli di gioco erano fondamentali per il ruolo del centromediano. Carletto, da persona intelligente quale era, non ci mise molto tempo a capire i concetti basilari del sistema, adattandosi al nuovo modo di giocare.Carlo Parola va considerato come uno dei più grandi stopper del calcio europeo moderno; la classe e l’intelligenza del giocatore non potevano di certo sfuggire a Vittorio Pozzo che schierò il bianconero nella Nazionale giovanile, contro l’Ungheria. Lo stopper titolare di quella formazione era Todeschini, ma Pozzo convocò ugualmente Parola e gli affidò la maglia numero quattro. La partita venne giocata a Torino il 6 aprile 1942 e furono gli azzurrini ad imporsi con il risultato di 3-0. Il 6 gennaio 1943, in occasione di un successivo incontro con la Nazionale giovanile croata, Pozzo schierò Parola nel suo ruolo naturale.Il salto nella Nazionale maggiore avvenne a Zurigo, la prima gara dopo la fine della guerra, contro la Nazionale elvetica. Pozzo scelse il blocco del Torino, ad eccezione di Sentimenti IV° in porta, Parola stopper, Biavati all’ala destra e Piola centravanti. La partita terminò con l’inconsueto risultato di 4-4.La sua fama internazionale di Parola aumentò notevolmente qualche anno dopo quando si volle organizzare il match del secolo, il 10 maggio 1947 a Glasgow tra la Gran Bretagna e la rappresentativa d’Europa. A rappresentare il calcio europeo vennero mandati in campo: Da Rui (Francia), Peterson (Danimarca), Steffen (Svizzera), Carey (Eire), Parola (Italia), Ludl (Cecoslovacchia), Lambrechts (Belgio), Gren (Svezia), Nordhal (Svezia), Wilkes (Olanda), Præst (Danimarca). Il “Resto d’Europa” fu sconfitto per 4-1, ma i giudizi dei critici di tutto il mondo furono unanimi nel complimentarsi con Parola per l’ottima partita. Dal giorno, Carletto, si meritò l’appellativo di “Carletto l’Europeo”.«Per me fu un grande onore e cosi penso, per il calcio italiano. Le altre nazioni europee indugiavano nel riprendere i contatti con noi: la guerra aveva lasciato il segno anche nello sport. I selezionatori mi videro all’opera a San Siro nella mia seconda prova in azzurro. L’11 novembre 1945 a Zurigo avevo esordito contro la Svizzera: il 1° dicembre dell’anno successivo Pozzo mi confermò contro l’Austria che battemmo per 3-2 (con la Svizzera avevamo fatto 4-4). Io giocai abbastanza bene, feci una delle mie rovesciate, ma in quell’occasione ci fu una grandissima partita da parte di Maroso che avrebbe meritato di giocare nella selezione europea. Scelsero soltanto me cosi partii tutto solo per la Olanda. Ci allenammo a Rotterdam, dove conobbi Wilkes, asso del calcio locale, eppoi Nordhal, Præst e così via dicendo. Il 7 maggio giocammo a Glasgow in uno scenario indimenticabile. Gli stadi sudamericani dovevamo ancora scoprirli e quelli italiani erano piuttosto piccoli: Glasgow, invece, conteneva 150.000 spettatori, una cosa impressionante, cosi come restò indimenticabile quella partita contro i campioni britannici. Ricordo che nello stesso anno, la Juventus andò a giocare in Svezia contro una squadra di cui non ricordo il nome. Ricordo bene, invece, il nome di un’ala sinistra che ci fece impazzire: si chiamava Liedholm, era giovanissimo, due anni dopo sarebbe venuto in Italia assieme ad altri fuoriclasse del suo paese. “Però”, commentammo alla fine dell’incontro “quell’ala non stonerebbe in Italia”. Più avanti ci fu l’invasione straniera, arrivarono in tanti, anche per la Juventus. Nordahl fu ingaggiato dalla Juventus, se non che venne poi smistato al Milan in cambio di Ploeger. Peccato, perché i nostri due scudetti potevano essere con lui almeno cinque. Perché fu Nordhal successivamente ad indicare alla sua società i nomi di Liedholm e di Gren ed a farli venire in Italia dopo avere constatato di persona che nel nostro paese si stava bene. Pensate se quei tre fossero finiti alla Juventus: un attacco composto da Boniperti, Gren, Nordhal, Liedholm e Præst avrebbe fatto almeno 150 goal!»In Italia, invece, gli fu affibbiato il soprannome di Nuccio Gauloises riferito alla marca di sigarette che solitamente fumava, ma la consacrazione definitiva avvenne quando la famiglia Panini decise di utilizzare una fotografia di Carletto che effettua in perfetto stile una rovesciata, come simbolo del proprio album di figurine. Per tutti i bambini italiani, Parola diventò “quello della rovesciata”.Appesi gli scarpini al chiodo, un uomo tanto competente e tanto esperto di calcio decise continuare il suo rapporto con la Juventus, in qualità di tecnico. Parola diventò per la prima volta allenatore (con Cesarini direttore tecnico) nel campionato 1959/60 e venne riconfermato per due stagioni successive (1960/61 e 1961/62) prima con Gren e poi da solo. Carlo tornò poi alla Juventus all’inizio del campionato 1974/75 conquistando lo scudetto e concludendo al secondo posto la stagione successiva.INTERVISTATO NEL FEBBRAIO 1972Quali sono i tre migliori ricordi della mia lunga stagione bianconera? Il mio esordio nella Juventus, il mio primo scudetto, la mia partita nella selezione del Continente. Era il 1939, a quei tempi ero iscritto alla scuola allievi Fiat. Lavoravo, studiavo e giocavo a calcio, naturalmente, nella squadra ragazzi del Fiat: ero centravanti, segnavo moltissimi goal. Gli osservatori della Juventus mi seguivano con interesse e quell’anno su indicazione di Zambelli finii nelle file del club che sognavo giorno e notte. Portavo a casa 18 Lire al mese: pensate quando andarono da mia madre e le chiesero se mi avrebbe lasciato giocare per 750 Lire al mese! Mi guardò e mi chiese: «Ma è proprio vero?»Seppi più tardi che ero costato alla Juventus qualcosa come 60.000 lire una bella cifra indubbiamente. Mi misi al lavoro con tutto l’entusiasmo possibile, avevo diciotto anni ed una gran voglia di sfondare. Mi cambiarono subito di ruolo: da centravanti passai dalla parte opposta, cioè nel ruolo di chi controllava i goleador. Forse fu anche per questo che affrontai sempre gli ex colleghi con una certa attenzione. Tremavo al pensiero che un giorno avrei potuto sostituire un certo Monti, io che avevo diciotto anni e che davo del “voi” ai Foni, ai Rava ed ai Gabetto. Un giorno accadde: esordii nella Juventus, in serie A. Proprio contro la mia attuale squadra, il Novara; vincemmo per 1-0 e fu una giornata bellissima, indimenticabile, io, ragazzino, in mezzo a tanti campioni! Come stopper metodista, mi difesi abbastanza bene ed in seguito presi sempre più confidenza con il mio ruolo fino ad impormi come titolare.Passare dai ragazzi Fiat alla grande Juventus fu una cosa meravigliosa: penso che per ogni giocatore sia la stessa cosa, anche se sovente l’esordio è talmente infarcito di emozioni che si finisce con il perdere il senso della realtà. Fu dieci anni dopo che vincemmo lo scudetto, subito dopo la scomparsa del “Grande Torino”. Noi continuammo la tradizione che voleva il titolo appannaggio dei club torinesi. Fu una stagione meravigliosa: pensate che segnammo la bellezza di cento goal. Il presidentissimo Agnelli aveva acquistato Martino, Hansen, Præst ed altri campioni, avevamo Carver come allenatore. Il suo italiano era ancora incomprensibile per cui la tattica nasceva in campo a seconda delle necessità.Fu allora che inventammo il libero anche se pochi se ne accorsero. Alcuni mesi fa parlando in proposito con Gianni Brera gli chiesi: «Ma non ti ricordi in che posizione giocavo io?»E lui, ripensandoci, mi diede ragione. In effetti. senza che lo stesso Carver se ne accorgesse, Karl Hansen fungeva da mediano, Mari si piazzava sul centravanti avversario ed io stavo in ultima battuta alle sue spalle, proprio come succede al giorno d’oggi. Allora però non si parlava tanto di tattiche: si giocava, si pensava a segnare il maggior numero possibile di goals ed a subirne il meno possibile. Con questo non è che rinunciassimo ad attaccare anzi lo facevamo con quattro punte. Era il nostro gioco elastico a centrocampo a permetterci queste possibilità, tattica alla quale si richiamano anche oggi molte società. Avevamo grandi avversari. come il Milan del trio Gre-No-Li, eppure vincemmo in bellezza. Parlando di quella formazione con Boniperti, concordammo in una giornata dedicata ai ricordi, che quella forse fu la formazione più completa del dopoguerra.Vincemmo il campionato con diversi punti di vantaggio. Era la mia decima stagione nella Juventus (complessivamente ho giocato in bianconero 15 campionati) la più bella, indubbiamente; anche lo scudetto successivo non fu cosi ricco di soddisfazioni.VLADIMIRO CAMINITINon esiste un altro, nella storia del calcio nostro, che emuli Parola nel suo modo di essere campione. È vero, c’era stato Rosetta, ma con Parola l’esercizio virtuoso diventa stile. Con Parola, il calcio parla al mondo, quel mondo di un’Italia ancora sbigottita se non disfatta che sgrana gli occhi su tutto, non ci sono più ideali, ogni valore è stato frantumato in un mare di sangue, ma si riaprono gli stadi e Parola esegue la sua rovesciata per tutti gli umili e diseredati, disegna l’illusione con la sua acrobazia meditata; la sua rovesciata, in Italia, contende alla pizza napoletana il primato della popolarità.Parola nasce in una famiglia che è un grumo di ristrettezze. Torino non è solo piazza San Carlo, ed i Savoia sono da tre anni in esilio, nel 1949, quando Parola è celebre. L’Italia è una Repubblica, Parola è l’alfiere di una Juventus che gioca un calcio stellare, non troppo istintivo. con un ragazzo biondo che abbaglia per i suoi goal freddi e poetici (Boniperti). Il papà di Carlo, detto Nuccio, è morto precocemente, vittima di un suo stesso vizio: si era accoppato ingurgitando tabacco pur di non andare soldato.Il ragazzo si trovò presto a sostentare una famiglia. Al dopolavoro Fiat, sgobbava come garzone e nel tempo libero giocava a calcio, senza sapere che un singolare tipo di osservatore da qualche tempo, Parola aveva già diciassette anni, veniva a osservarlo; l’orecchiuto compare Sandro Zambelli, detto Zambo, il cantore dell’altra Juventus, quello delle dame patronesse e dei signori in frac. Ora la Juventus, è il 1939, aspetta di ridarsi una verginità. Dopo la morte di Edoardo, gli Agnelli si sono messi da parte. Gianni è ragazzo. La presidenza viene affidata al conte dottor Emilio De La Forest de Divonne. Non si saprà mai nulla di questo patrizio. La storia dice che c’è la sua firma sul primo contratto di calciatore di Carlo Parola.Parola nel campionato 1939/40 entra nei ranghi, è utilizzato in vari ruoli. Ha piedi morbidi ed il suo calcio detta legge. Tanto è giovane, tanto è bravo. La guerra frenerà anche il suo cammino, ma è ancora in tempo per farsi amare. L’esordio è avvenuto contro il Novara, il 3 dicembre 1939, poi è tutta una scalata. Finisce la guerra, la ripresa è ilare e tormentata, a Zurigo l’11 novembre 1945 Parola è in campo contro la Svizzera, 4-4, non è un falco sul vecchio Amadò che segna 3 goal, non è proprio la sua giornata. Certi critici, secondo me maldestri, opinano che Parola non sia mai stato un combattente. Non è esattamente così.Nelle sue tante partite in bianconero, nelle sue 10 presenze azzurre, Parola è sempre Parola, parla il calcio, vuole essere mai restrittivo. sempre evocativo di libertà. È il simbolo della libertà recuperata, non concepisce le strettezze di una marcatura assillante, in cui sono più bravi Rigamonti e Tognon. Ma nessuno lo vale per il gesto stilistico, per la capacità di giungere primo sulla traiettoria, annichilendo nei giorni di vena anche bisonte Nordahl sull’anticipo. Gioca nella Juventus fino al 1954, quando con John Hansen emigra nella Lazio.E forse l’allenatore non è stato pari al giocatore, ma il mondo va così, e salendo sull’erta che ricorda quell’ameno sito che è Ceriale, col suo mare strabiliante, Parola mi dava questa spiegazione del suo quasi fallimento come tecnico: «Sono stato un giocatore troppo grande per essere anche un allenatore troppo grande».
  4. CHRISTIAN VIERI http://it.wikipedia.org/wiki/Christian_Vieri Figlio d
  5. GIANLUCA VIALLI http://it.wikipedia.org/wiki/Gianluca_Vialli Gianluca Vialli nasce a Cremona il 9 luglio 1964 e proprio nella squadra della sua città natale inizia la carriera, arrivando a disputare 4 campionati in prima squadra, contrassegnati da due promozioni: dalla C1 alla B nel 1980-81 e dalla B alla A nel 1983-84. La villa dei Vialli, a Cremona, che tutti chiamano ancora Castello. Perché sono ricchi, i Vialli. Vecchia storia. «Quello è il figlio di un miliardario», dicevano. Allora, Gianluca si infastidiva e la madre Maria Teresa smentiva: «Borghesi, ecco che cosa siamo. Diciamo che stiamo bene, non ci lamentiamo di certo. Mio marito lavora ed ha cinque figli grandi: come potrebbe essere ricco ??? Gianluca ha un modo di fare elegante che non dipende dai soldi, ma dalla tradizione di una famiglia della quale fanno parte ingegneri, professionisti ed anche un rettore universitario». Nell’estate 1984 passa alla Sampdoria, con la quale esordisce in serie A il 16 settembre, proprio contro i grigiorossi: la partita si gioca a Genova e finisce 1-0 per i padroni di casa. Il suo arrivo coincide col periodo d’oro della società blucerchiata, ancora a secco di vittorie a livello nazionale ed internazionale: negli otto anni di permanenza conquista 3 Coppe Italia (1984-85, 1987-88 e 1988-89), una Coppa delle Coppe (1989-90), uno scudetto (1990-91) ed una Supercoppa di Lega (1991). Si permette il lusso di dire “no” al Milan; tantissimi soldi alla Sampdoria ed un ingaggio da re. «Ringrazio il presidente Berlusconi, ma voglio restare a Genova. Ho bisogno di un ambiente come questo della Sampdoria. E poi adesso è una grande squadra, hanno smesso di considerarci dei piccoli viziati perennemente con la testa fra le nuvole. Voglio vincere qua, poi ci penserò». La delusione più grande arriva proprio il giorno della sua ultima partita nella Sampdoria, la finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona persa 1-0 ai tempi supplementari, pochi minuti dopo la sua uscita dal campo. Si rifarà quattro anni più tardi con la Juventus, vincendo il trofeo ai danni dell’Ajax, ed anche in quell’occasione si tratta del passo d’addio: è il coronamento a quattro stagioni indimenticabili in maglia bianconera, iniziate nel 1992-93 con la Coppa Uefa e proseguite con scudetto e Coppa Italia (1994-95) ed, appunto, Coppa dei Campioni (1995-96). Vialli, all’inizio, vive Torino sognando Genova. Il mare di Nervi è tutta un’altra cosa rispetto al Po e la Juventus è molto lontana dal “pianeta-Samp”, dove Boskov lasciava vivere tranquillamente i giocatori. Nella sua seconda stagione in bianconero, soffre meno la mancanza del mare, ma subisce una serie incredibile di infortuni, tanto da mettere in discussione il prosieguo della carriera. In società parla di lui come di un “ex”, Trapattoni, quando emigra in Germania, è convinto che Gianluca sia un giocatore sul viale del tramonto. Lo stesso Vialli racconta la sua metamorfosi da bomber declinante in leader vincente: «Nei primi due anni di Juventus ero “Brancaleone alle crociate” e non capivo. Ma come? Investi miliardi e poi mi fai allenare su un campo di patate, con poca assistenza e mi lasci da solo a preoccuparmi di tutto. Io ho bisogno di un profeta: se penso troppo mi faccio male, sono ossessivo, troppo perfezionista. E mi disperdo, mi deprimo. Io ho bisogno di pensare a giocare e basta. Ora lo faccio, ho attorno uno staff competente che decide per me. Il mio profeta è la Juventus e Lippi è l’uomo chiave». Lippi e la “cura” Ventrone lo rimettono in perfetta linea con le esigenze di un calcio atletico e tecnico al tempo stesso. Vedendolo tirato a lucido nel ritiro di “Villar Perosa”, l’Avvocato Giovanni Agnelli, rivolto a Lippi disse: «Scusi, ma questo Vialli quando è arrivato alla Juventus era grasso come un tacchino, adesso è magro, bello, corre e segna. Cosa gli avete fatto?» Lippi conosce la cura adatta a guarire tutti i mali di Vialli. Il tecnico gli dichiara la propria stima e lo ripulisce da un aspetto fisico non certo consono ad un grande campione come lui. Vialli ritrova lo scatto e quell’elasticità atletica che a Genova gli avevano permesso goals impossibili in acrobazia. A 31 anni vola prima sullo scudetto e poi sulla tanto agognata Coppa dei Campioni. Gianni Agnelli ora è entusiasta e non esita a paragonarlo a “Gigi” Riva. Grande combattente e trascinatore, le tifoserie per le quali ha giocato hanno sempre riconosciuto in lui un esempio da additare agli altri e lo hanno perdonato nei periodi di cali di forma; uno degli ultimi modelli di “bandiera” di una squadra, di giocatore capace di trascinare undici giocatori con la stessa maglia alla ricerca di un unico obbiettivo: la vittoria. «Fare il capitano della Juventus è una grandissima soddisfazione, ma anche una grande responsabilità; ci sono molti oneri, ma anche molti onori. Credo che questo ruolo dia una carica psicologica notevole, perché ti senti in dovere di dare tutto quello che hai dentro; la fascia di capitano ti impone di cercare di non essere criticabile, negli atteggiamenti e nel rendimento. Poi, siccome nessuno è perfetto, è difficile poter svolgere questo ruolo nel migliore dei modi, però l’importante è cercare sempre di farcela». A Genova era più di Mancini. Vialli era il culmine di un progetto, di una squadra irriverente e meravigliosa. Con Pagliuca, Mannini, Pari, Vierchowod, Lombardo, Dossena, Cerezo. Quella di Boskov e di Paolo Mantovani. Luca è stato l’anima più di “Mancio” per i goals e perché Roberto c’era stato prima di lui e ci sarebbe stato oltre lui. Vialli no; fu quella Sampdoria, quella, dello scudetto, della Coppa delle Coppe, della finale di Coppa Campioni persa contro il Barcellona a “Wembley”. Destro, sinistro, dribbling, testa, rovesciata. Luca segnava in ogni modo. È stato uno di quelli che ha cambiato il modo di giocare degli attaccanti italiani; la congiunzione tra la generazione dei Paolo Rossi e quella dei Totti. Alla Juventus non ha cambiato solo la muscolatura che Zeman ha sempre giudicato sospetta. A Torino, Vialli ha creato un modello per sé stesso e poi per tutti gli altri. A trenta anni, campione strapagato e celebre, tornava a coprire a centrocampo come uno che doveva prendersi il posto in prima squadra. Così come si è preso il diploma; da ragazzo aveva abbandonato gli studi al penultimo anno da geometra, a Cremona. Si presentò all’esame nel 1993; 42/60. Per la mamma che ci teneva, per sé stesso che, forse, l’aveva preso come un insulto alla sua intelligenza. Gianluca ha sempre avuto un rapporto contraddittorio con la maglia della Nazionale: i vari C.T. che hanno allenato l’Italia non hanno mai potuto prescindere dalle sue grandi doti dinamiche ed esplose ma, alcune volte, è stato confinato in panchina, come ad esempio nei mondiali casalinghi del 1990, quello che dovevano rappresentare la sua consacrazione a livello mondiale, quando fu costretto a farsi da parte per lasciare spazio al momento magico di Schillaci; le sue caratteristiche naturali di grande leader in campo hanno sempre fatto di lui un personaggio scomodo per le squadre nelle quali ha militato, soprattutto in relazione agli allenatori: da ricordare a tal proposito il conflittuale rapporto con Arrigo Sacchi, alla guida della Nazionale dopo la gestione di Vicini. Dentro il suo armadietto negli spogliatoi dello stadio “Comunale”, Vialli teneva una piccola fotografia di Arrigo Sacchi, come stimolo a dimostrare all’allora C.T., che aver escluso Vialli dalla Nazionale era stato un clamoroso errore. E tale si rivelò alla luce del tormentato Mondiale di Usa 1994, con il drammatico epilogo ai calci di rigore, e del successivo Europeo, due anni dopo in Inghilterra, culminato con l’eliminazione nella prima fase. Per spiegare il suo divorzio da Sacchi, Vialli dice: «Forse eravamo due galli nello stesso pollaio». E si tolse la soddisfazione di far capire a Sacchi, intenzionato a richiamarlo in azzurro a patto che il resto della squadra lo accettasse, che ne avrebbe volentieri fatto a meno. Gullit, diventato allenatore/giocatore del Chelsea, chiede al club di ingaggiare Vialli, all’indomani del trionfo della Juventus in Champions League. Il feeling fra i due dura poco, tanto che Vialli viene escluso dalla formazione titolare. Umiliato ma non domo, Gianluca prepara, in silenzio, la sua rivincita, come aveva fatto l’anno in cui vinse lo scudetto con la Sampdoria, all’indomani dei deludenti Mondiali italiani. Con pazienza, aspetta il suo momento, che non tarda ad arrivare. La squadra londinese non gira e Gullit viene licenziato dal Chelsea, che, nel febbraio del 1998, rilancia Vialli. Nella doppia veste di giocatore/allenatore, guida il Chelsea alla conquista della seconda Coppa delle Coppe, dopo aver eliminato in semifinale il Vicenza dei miracoli di Guidolin. Nello stesso anno vince la Coppa di Lega inglese ed una Supercoppa Europea. Il tutto si aggiunge ad una Coppa d’Inghilterra cui aveva contribuito nel 1997 come centravanti. Vialli sfiora anche la finalissima di Champions League, dopo aver fatto fuori la Lazio nei quarti, quasi fosse un’altra vendetta da consumare nei confronti delle squadre italiane. E torna persino ad indossare i panni del calciatore, sia pure come saltuariamente, per il suo derby personale con il suo grande amico Roberto Mancini, approdato anche lui nella terra di Albione. Vialli non ha mai cercato vendette ma solo di fare bene il suo lavoro in un Chelsea che è una multinazionale, dove gli inglesi che fanno i titolari sono pochissimi. Ha dichiarato a “La Stampa”: «Beh, se elimino squadre italiane dimostro che, quando me ne andai dalla Juventus, non lo feci per un posto comodo in calcio di serie B, come qualcuno vedeva il football inglese». All’Inghilterra ha sempre detto grazie, per avergli dato la possibilità di entrare, da allenatore del Chelsea, in un supermercato ed esserci rimasto tre ore da uomo qualunque senza che nessuno gli rompesse le scatole eppure perché poteva andare a prendersi i biglietti del cinema e tornare a casa col taxi pubblico. Il Watford di Elton John ha messo in discussione tutto. Ha scelto la serie B, perché ci doveva essere un progetto, un’idea, un futuro, ma c’era solo un nome vuoto. Luca ha smesso di allenare lì, alla periferia della metropoli che adora. Ha cercato una squadra senza candidarsi davvero; desiderava che qualcuno dall’Italia lo chiamasse. L’hanno fatto, ma non quelle che avrebbe desiderato lui. Ha sperato nella Nazionale del dopo Lippi e nella Juventus del dopo Moggi. Non è andata, forse perché non è un tipo facile per una società, per un presidente e per un direttore sportivo, perché è popolare ed allora scomodo, perché dice di non aver avuto mai un padrone e, probabilmente, è vero. http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/07/gianluca-vialli.html
  6. GIUSEPPE FURINO http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Furino Palermo e Torino, Torino e Palermo. Questa, salvo una breve parentesi a Savona, è la storia calcistica di Beppe Furino. Nasce, nel capoluogo siciliano, il 5 luglio del 1946: «Mio padre, maresciallo di finanza, era stato trasferito da Palermo ad Avellino quando avevo appena sei mesi, nella città irpina ho vissuto fino a tre anni. Poi la minacciosa diffusione di un’epidemia indusse mia madre, che era nata a Ustica e apparteneva a una famiglia fortemente radicata sull’isola, a mandarmi per qualche tempo dai suoi genitori. Nonno Peppino era stato sindaco di Ustica negli anni cinquanta e, con nonna Silvia, gestiva uno di quei negozi in cui si vende di tutto e che rappresentano il punto di riferimento dell’intera comunità. Zio Domenico invece, genio e sregolatezza della famiglia, faceva il medico fra Palermo e Ustica. La famiglia di mio nonno era molto amata dalla gente anche perché, durante la guerra, non aveva lesinato aiuti a chi si trovava in difficoltà. L’ambiente per me, oltre che sano, era affettivamente ideale anche fuori dall’ambito familiare. E così, prima che l’italiano o il napoletano, ho imparato il dialetto siciliano, che ancora oggi esercita su di me un fascino straordinario. Dopo appena un anno sono tornato ad Avellino. A otto anni mi sono trasferito a Napoli e a quindici definitivamente a Torino».Furino, cresce calcisticamente nella Juventus, nei NAGC, la scuola calcio bianconera; il primo prestito è al Savona, dove si disimpegna come ala sinistra. Tornato a Torino, è trasferito nella sua città natale, dove disputa il campionato 1968-69: «Ero cresciuto nel settore giovanile della Juventus e venivo da un paio di campionati a Savona fra B e C; la società bianconera voleva prendere il rosanero Benetti ed io fui girato in prestito al Palermo, che era appena approdato in serie A. C’era un grande entusiasmo, il Palermo tornava nel massimo campionato dopo cinque anni. Le prime due giornate giocammo in trasferta: all’esordio a Cagliari e perdemmo 3-0, due goal di Riva e uno di Boninsegna; poi a Torino contro la Juventus portammo a casa un bel pareggio. Finalmente, arrivò il debutto allo stadio Favorita, ospitavamo l’Inter di Mazzola, Corso, Suarez e Jair. Lo stadio poteva tenere 40.000 spettatori ma, secondo me, non erano meno di 60.000. C’era un tale frastuono che non riuscivo a sentire nulla di quello che si diceva sul campo. Riuscimmo a fare 0-0, come la settimana precedente. La seconda emozione la provai entrando a San Siro, dove quell’anno pareggiammo sia contro l’Inter che contro il Milan. A fine campionato ritornai alla Juventus, dove sono rimasto tutta la carriera».In quella stagione palermitana, Beppe disputa ventisette partite e realizza un goal; torna a Torino nell’estate del 1969 e trova una Juventus completamente rivoluzionata, dopo la ferrea gestione di Heriberto Herrera e del suo “movimiento”. L’allenatore è Don Luis Carniglia, che non farà tanta strada, tanto è vero che sarà presto sostituito da Ercole Rabitti.Per uno scherzo del destino, nella prima di campionato la Juventus deve affrontare al Comunale il Palermo; è il 14 settembre 1969 e le due squadre, agli ordini dell’arbitro Gussoni, si schierano così. Juventus: Tancredi; Salvadore e Leoncini; Morini, Castano e Furino; Favalli, Haller, Anastasi, Bob Vieri e Leonardi. Palermo: Ferretti; Bertuolo e Pasetti; Lancini, Giubertoni e Landri; Pellizzaro, Reja, Troja, Bercellino Silvino e Ferrari. La partita non ha storia; i rosanero passano in vantaggio con Troja dopo soli quattro minuti, ma la reazione bianconera è furiosa. Una doppietta di Helmuttone Haller e un goal di Leonardi mettono le cose a posto. A dieci minuti dalla fine, ci pensa proprio lui, Beppe Furino a siglare la rete del definitivo 4-1 cominciando, nel migliore dei modi, la sua lunga e splendente carriera in bianconero.Ci sono sempre state due correnti di pensiero su Beppe Furino. Boniperti e in generale tutti gli allenatori bianconeri, lo hanno sempre considerato un giocatore fondamentale per le proprie squadre, un capo carismatico, un tipo coriaceo, grintoso, portabandiera dei cosiddetti giocatori umili che sono però insostituibili in una squadra che vuole vincere. 528 presenze con la maglia bianconera, diciannove goal, otto scudetti, tantissime partite con la fascia di capitano al braccio, testimoniano quanto Furino sia stato uno degli artefici delle vittorie della Juventus targata Boniperti.Il rovescio della medaglia è rappresentato dalla Nazionale. Prima Valcareggi, poi Bernardini e infine Bearzot, hanno sempre ignorato questo siciliano tosto, al punto di definirlo un giocatore mediocre; solamente tre presenze, una vera ingiustizia.Con lui, il calciatore povero è riuscito a emergere, fino ad arrivare nella stanza dei potenti; con lui, il mediano faticatore è importante come il fuoriclasse; con lui, il calciatore è divenuto dignitoso, anche se le sue giocate sono meno belle di quelle dei cosiddetti assi. È un campione chi si sacrifica costantemente per la squadra; la classe non è solo stile, ma anche rendimento. Non gli è mai piaciuto essere definito la bandiera della Juventus: «Perché la bandiera sta alta sul pennone ed io non sono certo il tipo da piedistallo. Tutt’altro, preferisco star giù a lavorare con gli altri, soprattutto con i giovani, con i quali mi trovo benissimo, perché parlo come loro e sento come loro».La parola stanchezza non esiste nel suo vocabolario: «Una volta sola ho avuto un po’ di paura. È stato in occasione di una partita di Coppa Italia, giocata contro il Catanzaro. Non so dire con precisione che cosa sia stato, perché è durato poco. Ma ho provato un po’ di timore, difficile da spiegare; per fortuna non si è più ripetuto».Non ha mai amato i giornalisti e non è mai stato tenero nei loro confronti; ha avuto tantissime difficoltà a rapportarsi con loro, fino addirittura a snobbarli, in quanto erano i giornalisti stessi a ignorare Furino. Caminiti gli affibbiò il soprannome di Furia dopo le prime partite nella Juventus, un volta tornato dal prestito da Palermo ma Furino è palermitano solo in apparenza, essendo taciturno, come la maggior parte dei siciliani. È, invece, un torinese di adozione, in quanto gran lavoratore sparato e spedito.Lo stesso Caminiti lo descriveva in questo modo: «Mi colpiva, in quei giorni, il suo rapporto con la madre, piccola e stortarella come lui, ma verissima donna, maniacale nell’amore per i figli, per l’esempio costante di dovere, come le madri di una volta, che forse non esistono più. E mi era sembrato il giocatore emanazione di questa madre, la sua grandezza la facevo tutta morale, in campo lo vedevo crescere da nano (è alto 1,69) a gigante, in virtù di questa sua primigenia ricchezza, la ricchezza dell’isola bedda».Il primo a intuire le grandi qualità di Furino, è Boniperti, ma è Cesto Vycpálek, succeduto a Rabitti, scopritore del ragazzo, e al povero Armando Picchi, a valorizzarlo in pieno nei fatti, enfatizzandone le qualità, perché Furia ha bisogno di fiducia per scatenarsi e rendere al massimo. Diventa in poco tempo il propulsore e il trascinatore; nasce il mediano considerato il più cattivo d’Italia, in quanto è spietato nel contrasto, non si tira mai indietro, in ogni mischia che si rispetti, lui è presente.Quando è necessario, è pronto a litigare, in quanto non ha paura di niente e di nessuno. La Juventus ha giocatori molto celebrati e importanti, come Bettega, Zoff, Causio, lo stesso Anastasi, che Furia cordialmente odia, ma lui è fondamentale in squadra. Boniperti lo sa benissimo e non manca mai di elogiarlo: «Tutti dovreste giocare con il cuore che ci mette lui».Quando l’Ajax batte la Juventus, nella finale della Coppa dei Campioni a Belgrado, Boniperti in testa è il più emozionato di tutti, e Furia fallisce pure lui, come tutta la squadra. Nasce così l’impressione che sia un giocatore provinciale, tutt’altro che indispensabile. Valcareggi, tecnico degli azzurri, non lo apprezza più di tanto, anche se lo convoca per i Mondiali messicani. Anche Bernardini, fautore dei giocatori dai piedi buoni, quando lo manda in campo, a Genova contro la Bulgaria, il 29 dicembre 1974, lo fa più per accontentare l’opinione pubblica, che per convinzione personale.Ma Furia si esprime al meglio in campionato, con la maglia bianconera. Sui rettangoli nostrani si decide tutto e qui Furino è un grandissimo. È il giocatore più stringente che si sia mai visto nella zona mediana, una catapulta. Con la sua determinazione, carica i compagni, li obbliga a impegnarsi all’estremo delle forze, li esalta con il suo esempio. Non si tira mai indietro, è sempre lì che morde i calcagni degli avversari, dove c’è pericolo, accorre lui, brutto, sghembo ma bellissimo nell’ardore. Ma non è solo questo, tatticamente è un giocatore molto intelligente; è lui, infatti, che si schiera da libero durante le frequenti avanzate di Scirea ed è sempre lui a coprire le sgroppate di Tardelli.Il suo modo di giocare lo porta a realizzare pochissime reti. Una in particolare, però, si rivelerà d’importanza enorme: quart’ultima giornata del campionato 1976-77. Sabato 30 aprile al Comunale di Torino va in scena l’anticipo di campionato contro il Napoli. La Juventus, che sta lottando con il Torino per lo scudetto, è reduce dal pareggio di Perugia ed è obbligata a vincere; segna Bettega, pareggia nella ripresa Massa. La squadra bianconera è in difficoltà, il Napoli la mette sotto mentre un autentico nubifragio si abbatte sul campo. A quattro minuti dal termine, quando lo spettro del sorpasso granata si sta oramai materializzando, ecco che, tra grandine e fango, spunta la zampata vincente del capitano che ridarà morale e fiducia alla squadra.La sua carriera termina, praticamente, con l’arrivo di Platini; famosa è la frase dell’Avvocato: «È inutile avere Platini, se il gioco passa attraverso i piedi di Furino». Il Trap obbedisce e Furia è sostituito da Bonini. Trapattoni non si dimentica, però, di Furino e lo schiera nel campionato successivo, per permettergli di vincere il suo ottavo scudetto.Ci sono stati tanti mediani fortissimi nella storia bianconera: Bigatto o Bertolini, Depetrini o Del Sol, ma nessuno è stato come lui. Il suo sacrificio, la sua presa diretta nel gioco, là dove nasce il pericolo, là dove si rischia, non manca mai. Un grande campione povero, forse il più grande di tutti. E non importa se nel mondo del calcio, soprattutto in Italia, sono considerati molto di più i giocatori virtuosi di quelli che sudano, che lottano, che sbagliano un passaggio. Furino ha aperto gli occhi a tanti; si può essere campioni anche non essendo belli.Diceva alla fine del 1979: «Tutte le vittorie sono uno stimolo a proseguire con lo stesso spirito, per questo mi sento ancora al debutto. Perché mi sono realizzato in una Juventus vincente, una Juventus che mi ha insegnato che, per andare avanti, bisogna darci dentro, per ottenere il risultato attraverso il gioco e la lotta. La durezza delle stagioni e la media positiva dei miei anni calcistici, durante i quali ho ricoperto tantissimi ruoli, da difensore puro ad ala tornante, da centrocampista a jolly, mi hanno fatto maturare una mentalità elastica, ma sempre proiettata in avanti. Mi rendo conto che posso farcela ancora e bene; non vedo il motivo per sentirmi dire che sono, non dico vecchio ma anziano. Sarò un vecchio capitano, questo sì, perché porto la fascia da sei stagioni, ma, nel ruolo, mi sento proprio com’ero agli inizi e questo mi carica. Una cosa sola voglio: andare avanti con lo stesso spirito».“GUERIN SPORTIVO” SETTEMBRE 2009I numeri fissi si vedevano solo ai Campionati del Mondo e agli Europei. Ma il quattro bianco sul quadratone nero ha avuto un unico padrone nella Juventus degli anni settanta: Beppe Furino. Quella era la sua targa, il suo marchio, il suo codice a barre. Per oltre 500 partite (361 solo in campionato) spalmate in quattordici anni di ininterrotta permanenza in bianconero.Otto scudetti, un record, e una manciata di coppe. Tutte alzate per primo da lui, il capitano. Onore che gli è toccato fin dal 1976, quando andò via Anastasi. Fascia blu sul braccio sinistro, bianca nella divisa da trasferta. Di lui Giampiero Boniperti, il suo presidente, diceva che aveva due cuori, uno a destra, l’altro a sinistra per rimarcarne la generosità, la dedizione alla causa, l’attaccamento alla maglia.Una vita in trincea la sua. Con il quattro sulla schiena, in un’epoca in cui a quel numero era associato solo e soltanto un ruolo: il mediano. Quello che corre, lotta, combatte, si appiccica al dieci avversario per duelli condotti, talvolta, sul filo di un regolamento che qualche concessione in più in quegli anni faceva al meno dotato tecnicamente. Chilometri e sudore, sguardi severi e concentrazione spinta al massimo: qui dentro sta Giuseppe Furino, una vita per la Juventus che domenica sera, nella gara che chiude la settima giornata, sbarca in Sicilia per sfidare il Palermo di Zenga. Una partita dal sapore particolare per lui che in rosanero ha debuttato in serie A, prima di diventare una colonna bianconera.Quali sono le sue sensazioni? «Con il Palermo ho compiuto l’ultimo passo verso il ritorno alla Juventus, una tappa fondamentale per la mia formazione professionale. Venivo da due stagioni al Savona. Ero arrivato a Palermo per caso, nel giro dei prestiti, credo legato all’operazione che portò Benetti alla Juventus. Un solo campionato, quello della stagione 1968-69, giocato bene, in crescendo, con una salvezza conquistata meritatamente».La sua pagella come fu? «Bei voti. I tifosi mi elessero calciatore dell’anno. Il pubblico palermitano è stupendo. Alla prima partita che giocammo in casa la Favorita scoppiava dalla gente che c’era. Ricordo il mio primo goal in A contro la Sampdoria, ma anche una domenica da incubo a rincorrere quel pennellone di Menti, l’ala destra del Vicenza».Perché lei all’epoca giocava terzino sinistro? «Quell’anno sì. E anche nei primi periodi alla Juve. Ma il mio ruolo vero era a centrocampo. Da piccolo presi una cotta incredibile per Sivori. Anch’io portavo i calzettoni abbassati. Poi un giorno, durante un allenamento, vidi Del Sol. Rimasi incantato dal suo modo di giocare. Sentivo che il mio posto era in mezzo al campo e lì prima o poi sarei tornato. Com’è successo, anche se non è stato automatico».Mi par di capire che i primi periodi alla Juventus non siano stati semplici: «È così. Non credo che rientrassi nei piani societari. Su di me probabilmente non c’era il pieno consenso, forse volevano inserirmi in qualche giro di mercato, non so. Alla fine comunque sono rimasto».Quando c’è stata la svolta? «Con l’esonero di Carniglia e l’arrivo di Rabitti alla settima giornata. Quello fu il primo passo, completato con l’ingresso di Boniperti in società. Devo dire, comunque, che con Carniglia ero riuscito a giocare quasi sempre da titolare, magari cambiando spesso ruolo e posizione. Avevo addirittura segnato un goal alla mia prima partita in bianconero. Guarda caso proprio contro il Palermo».Palermo e Juventus, la sfida continua: che clima c’è in casa Furino? «È una partita particolare. A Palermo ci sono nato, anche se dopo pochi mesi mio padre, maresciallo della finanza, fu trasferito ad Avellino. Nonostante questo, sono legatissimo alla mia terra d’origine. In particolar modo a Ustica: lì abitava mia nonna materna. Sull’isola per anni ho trascorso le mie vacanze, anche quando ero oramai un giocatore affermato».Meglio Zenga o Ferrara? «Zenga mi piace molto. Il Palermo con Ballardini aveva perso un ottimo allenatore, ma ne ha trovato uno altrettanto bravo. A Catania ha lavorato bene. Ferrara mi convince, la sua scelta rispetta la tradizione juventina di affidarsi ad allenatori giovani e non ancora affermati».Si riferisce a Picchi e Trapattoni? «Senza dubbio. Armando Picchi non ha avuto la fortuna di vedere i risultati del suo lavoro, che ci sono stati. Era molto vicino come mentalità a noi calciatori, in fondo aveva smesso da poco. Un gran dolore la sua perdita, noi giocatori sapevamo qualcosa, ma non più di tanto all’inizio».E Trapattoni? «Diversi di noi ci avevano giocato contro, qualcuno insieme. Benetti e Boninsegna gli davano del tu, io no. Anche Zoff gli dava del lei nonostante fossero quasi coetanei. Fu una bella ventata di freschezza e novità. Il Trap fu una gran bella intuizione di Boniperti».Così la formazione la faceva lui, no? (ride). «Trapattoni non aveva certo bisogno di tutori. Semmai si consultava con noi giocatori, quello sì. Il sabato prima della partita faceva il giro delle camere. Tastava il polso alla squadra, coglieva sensazioni, magari da qualcuno ricavava qualche buon suggerimento. Il Trap era giovane, ma aveva le idee chiare. E moderne, come quella di giocare senza un regista di ruolo».Per questo motivo Capello fu ceduto? «Sì».Sicuro che non ci sia stato anche il suo zampino? «Capello rilasciò un’intervista dai toni accesi. Era in America con la Nazionale per il torneo del Bicentenario. La Juve aveva perso lo scudetto in malo modo, regalandolo al Torino. Fu uno sfogo, il suo: un po’ voluto, un po’ provocato».Nel merito cosa disse? «Criticò la Juve, il gioco, i compagni. Tirò dentro anche me, per giustificare il suo calo di rendimento e le difficoltà di gioco della Juve. Da lì è partito tutto, con qualcuno che pensò addirittura a una mia vendetta. Non è vero nulla, io non c’entravo niente e poi non ho mai avuto il potere di cacciare nessuno».A parte qualche tifoso ingrato, così mi risulta: «Questo è vero. Successe all’aeroporto di Caselle, dopo aver vinto la Coppa Uefa contro l’Athletic Bilbao. Tornammo a Torino su un aereo privato della Fiat, io scesi per primo con la Coppa in mano. Misi piede a terra e vidi davanti a me un tifoso che l’anno prima era stato tra i più accaniti nelle critiche e nelle offese. Gli dissi: “Brutto bastardo, levati subito di lì sennò la Coppa te la spacco in testa”».Come, la Coppa appena vinta dopo un eterno digiuno? «Per carità, non l’avrei mai fatto. Conquistare la Coppa Uefa è stato uno dei momenti più belli della mia carriera. Il primo trofeo internazionale, dopo una vera e propria battaglia a Bilbao. Senza contare che quattro giorni dopo avremmo battuto la Sampdoria e vinto anche lo scudetto dei record. Una stagione trionfale e con una squadra tutta italiana».E senza regista: alla fine ebbe ragione lei: «Ancora con questa storia (sorride). A parte il fatto che avevamo un certo Causio là davanti che svolgeva alla grande i compiti di regista avanzato, le dico questo: non c’è calciatore che giochi male per colpa di un altro. Se accade, le responsabilità sono soltanto del diretto interessato. Questa è la semplice regola».Vale anche per i grandissimi? «Sì».Compreso Platini? «Altra storia buffa. Qualcuno ha voluto metterci l’uno contro l’altro. Dicevano che non volevo passargli il pallone. Che fesseria! La verità è che quando Platini arrivò alla Juve non era in forma. Ha impiegato mesi per ambientarsi, forse un tempo eccessivo. Ma se non giocava bene, non era certo per colpa mia».I rapporti con l’attuale presidente dell’UEFA come sono? «Cordiali, ci mancherebbe altro. D’altronde oggi sono buoni anche i rapporti con quelli del Toro» (risata).Il derby era lo spauracchio di Boniperti, vero? «Ci spaccava le palle fin dal lunedì. Era la settimana più lunga dell’anno e la partita più sentita, specie da chi come me veniva dal settore giovanile e di sfide con il Torino ne aveva già vissute tante».Ricordi speciali? «Andavo nello spogliatoio due ore prima: giocavo un’altra partita, tutta mia, prima di quella vera. La tensione era veramente altissima e in campo si vedeva. Noi giocavamo, loro facevano i goal. Le offese e le provocazioni erano all’ordine del giorno».Per esempio? «Le racconto solo questo episodio. Per stemperare il clima teso, a gioco fermo, corre verso di me un avversario con il braccio teso: vuole stringermi la mano per riportare la calma. Mentre si avvicina, me ne dice di tutti i colori. Io, allora ritraggo la mano, come a dire: sei impazzito? Il guaio è che agli occhi della gente è rimasta l’immagine del mio rifiuto, ma nessuno sa il vero motivo».Vabbeh, non vorrà mica passare da verginella? «No, figuriamoci. Qualcuna l’ho fatta anch’io».A chi ha dovuto fare qualche bella risciacquata durante la settimana? «Qualcuno ogni tanto andava stimolato. Marocchino, per esempio, aveva delle qualità enormi, ma era pigro. Di Tacconi, poi, non ne parliamo. In allenamento era una rovina. Nelle partitelle sceglievo sempre Bodini, uno di quelli come me, che non mollava mai».E in campo, c’è stato qualche episodio da raccontare? «Credo che su tutti ci sia quello di Firenze con Prandelli. Punizione decentrata per la Fiorentina. Zoff chiede due uomini in barriera. Andiamo io e Cesare. Io mi allineo con il palo e cerco di portare a me Prandelli. Lui, invece, tergiversa, spostandosi verso il centro. Allora lo riprendo bruscamente, un po’ troppo, ma la foga agonistica a volte ti fa fare anche cose che non vuoi».Vi siete chiariti dopo? «Certamente. Gli ho chiesto scusa, oltretutto Prandelli è sempre stato un bravo ragazzo, serio, disciplinato. Le dirò di più. Quando ero alla Juve come responsabile del settore giovanile, ho fatto di tutto per portarlo da noi. Ma lui si era oramai impegnato con l’Atalanta ed è rimasto là».NICOLA CALZARETTA, “GS” AGOSTO 2013Vladimiro Caminiti, sommo cantore delle gesta bianconere, lo aveva soprannominato “Furiafurinfinetto”. Una pennellata d’autore. D’altronde, il grande Camin ha sempre avuto un debole per il conterraneo Giuseppe Furino, nato a Palermo il 5 luglio 1946 ma cresciuto a Torino e, soprattutto, nella Juventus. A quattordici anni nel Settore Giovanile, poi mediano, capitano, bandiera e recordman con otto scudetti vinti, al pari di Giovanni Ferrari, mito degli anni Trenta che però li ha conquistati con tre squadre diverse.«Non credo di esagerare», scriveva Caminiti, «dicendo che il primato di Furino è qualcosa di disumano. Nella sua storia leggendaria la Juve ha avuto eccelsi gregari. Ma nessuno all’altezza di questo nano portentoso, incontrista e cursore, immenso agonista, indomabile nella fatica, i piedi come uncini dolorosi in certe circostanze».Non esagerava, il poeta panormita. Lo confermano le 528 partite di Forino con la maglia della Juve, i diciannove goal fatti, i trofei conquistati, tra cui la prima Coppa Uefa nel 1977. Lo conferma la lunghissima permanenza in bianconero, dal 1969 al 1984, presenza costante del più lungo ciclo vincente della storia del calcio italiano. Sempre li, sul pezzo. Ora come allora, magari con una mazza da golf e la pallina bianca al posto della maglia numero quattro e del pallone di cuoio.Golf Club di Moncalieri, ora di pranzo, seduti a un tavolino. Tra fiori di zucca fritti e una tagliata con friggitelli, Furino si racconta. E parte proprio da un ricordo di Vladimiro Caminiti, scomparso il 5 settembre 1993: «Un amico, siciliano e palermitano, il che non guasta. Un personaggio fantastico, uno scrittore geniale, con uno stile inarrivabile e intuizioni brillanti. Ha saputo, meglio di tutti, parlare della Juventus e della juventinità, avendo colto fin dall’inizio la portata innovativa e vincente dell’avvento di Giampiero Boniperti alla presidenza della società».Ne vogliamo parlare più nel dettaglio? «Io sono tornato alla Juve nel 1969. Le squadre che dominavano erano l’Inter e il Milan, poi c’erano anche la Fiorentina e il Cagliari. La Juve era staccata. Nel giro di tre stagioni abbiamo ribaltato la situazione. Li abbiamo tenuti tutti sotto per quindici anni».Tutti i suoi alla Juve, è un caso? (ride) «Io c’ero. All’inizio come Junior voglioso di apprendere. Poi come Senior che doveva dare l’esempio con i fatti. E questa era una delle peculiarità di quella Juventus: il mix di giovani e anziani che garantiva forza, freschezza, valori e rispetto della tradizione. I nuovi arrivati potevano crescere a immagine e somiglianza dei più esperti, con Boniperti perfetto braccio operativo della famiglia Agnelli a pilotare la nave con le giuste dritte».Il Presidente ha sempre parlato bene di lei: diceva che aveva due cuori, una a destra e l’altro a sinistra: «Il rapporto tra noi è sempre stato ottimo, d’altronde avevamo lo stesso obiettivo: vincere. Boniperti era il garante della juventinità. Il suo passato da calciatore gli è servito, anche se con noi calciatori non ha mai espresso concetti tecnici. Lui aveva una grandissima dote: vedeva tutto. E, dunque, non gli sfuggiva niente. Alla base della strategia vincente che ha visto la Juventus dominare per tanti anni ci sono le sue intuizioni. Costruire per mantenere nel tempo: questo il suo slogan».Quando è stato compiuto il primo passo? «Nel 1970, quando fu rivoluzionata la rosa con la cessione di molti della vecchia guardia e l’inserimento di tanti ventenni. Poi, ogni anno, c’è stato almeno un innesto in prospettiva: Gentile, Scirea, Tardelli, Cabrini, Fanna. Tutta gente di valore, non solo in campo».In ossequio allo stile Juve: «Certamente: chi indossava la maglia bianconera doveva avere grandi doti morali: la serietà, la disciplina, la disponibilità al sacrificio, il rispetto dei compagni, della società, dei tifosi. E come base, un’enorme sete di vittorie. Perché alla Juve vincere è la sola cosa che conta».Quando è tornato in bianconero aveva già tutto chiaro? «Io sì, ma all’inizio alla Juve c’era ancora un po’ di confusione, sia a livello societario che tecnico. Boniperti era all’esordio come Amministratore Delegato. Su di me avvertivo un’aria pesante, credo che volessero inserirmi in qualche trattativa di mercato. La svolta c’è stata con l’esonero di Carniglia e l’arrivo di Rabitti, il quale veniva dal Settore Giovanile e mi conosceva benissimo».Che ricordi conserva degli anni del vivaio bianconero? «Splendidi. Anni di formazione, sotto tutti i punti di vista. In quel periodo ho avuto la fortuna di incontrare il dottor La Neve, che poi ho ritrovato come medico sociale della prima squadra. Una persona dolcissima, molto legato a Boniperti, era il suo occhio brago. Talvolta succedeva che il presidente riprendesse qualcuno di noi. E noi: “Dottore, chissà come mai il presidente sa queste cose”. E lui giù a ridere».Dei consigli del mitico Renato Cesarini ne vogliamo parlare? «Cesarini, che personaggio. Stravedeva per me. Veniva in Piazza d’Armi per vedermi giocare. Una volta me lo riconto a bordo campo durante una sfida contro la prima squadra. Tra parentesi fu in quell’occasione che ebbi la mia prima infatuazione per Omar Sivori. Per fare come lui, giocavo anch’io con i calzettoni abbassati. Giusto quello, però!»Va bene, torniamo però a Cesarini: «Lui si metteva a bordo campo, mi incitava e mi suggeriva come giocare. Il guaio è che i suoi consigli erano del tutto contrari a ciò che mi veniva detto dagli allenatori. Ne veniva fuori un gran casino. Ma mi divertivo da morire ed ero orgoglioso di essere il suo pupillo».Una cosa non ho capito: ma lei in che ruolo giocava? «Bella domanda. Anche perché all’inizio ho cambiato molte maglie, sia a Savona che a Palermo. Ho fatto il terzino sinistro, l’interno, il marcatore, l’ala sinistra. Il vagabondaggio è continuato a Torino: nei primi due anni alla Juve, credo che mi sia mancato solo il nove, oltre all’uno del portiere».Quando è finito il tour de force? «Con Vycpálek, nella seconda parte della stagione 1970-71. Lui mi fece giocare stabilmente mediano, quello che io ho sempre sentito come il mio molo naturale».E Sivori? «Innamoramento giovanile. L’amore vero è nato quando ho visto all’opera Luis Del Sol, rimanendo incantato dal suo modo di stare in campo: grinta, temperamento, corsa, intelligenza tattica. E la maglia numero quattro è diventata la mia».A proposito di maglie, lei era uno dei pochi che giocava con il colletto abbottonato. C’è un perché? «Francamente no, magari lo tenevo così quando era più freddo. Quello che ricordo è che, specie nei primi anni, avevamo due sole maglie per tutta la stagione. Una con le maniche lunghe, l’altra con quelle corte. E, spesso, dovevano intervenire le nostre sarte con ago e filo. Altri tempi».Tempi in cui il quattro marca a uomo il centrocampista più pericoloso. Che ricordi ha dei tanti avversari diretti marcati? «Ricordo Giacomo Bulgarelli, il duello con lui mi entusiasmava. Poi c’era Rivera, il più pericoloso di tutti. Quindi Mazzola, che da mezzapunta era fantastico e difficilmente arginabile. Ma quello che mi ha messo in difficoltà veramente è stato Luigi Menti del Lanerossi Vicenza, un lungagnone il doppio di me che mi passava da ogni parte. Un incubo».E in campo internazionale? «Con Bremner del Leeds, uno alto più o meno come me. Ci siamo incontrati nella doppia finale di Coppa delle Fiere, anno 1971. Gli entravo duro, lui cadeva, sbatteva due o tre volte il piede per terra e ripartiva. Ed io dicevo: “Porca miseria, questo è uno tosto”. Poi una volta mi ha centrato in pieno. Mi ha fatto malissimo, ma io, pur di non dargli soddisfazione, dopo un secondo mi sono rialzato come se niente fosse. E la giostra dell’autoscontro è ripartita».Sincero: ne ha date o prese di più? «Il registro della contabilità l’ho perso (ride), comunque se oggi facessi una visita per il riconoscimento dell’invalidità permanente, qualche punto lo prenderei. Posso dire di averne prese tante e di averle date. L’importante è sapere aspettare. Basta aver pazienza».C’è stato un episodio che ancora oggi le fa salire la pressione? «Con Perico dell’Ascoli. Una scena da film horror. Entrata durissima dell’ascolano e buco netto nello stinco, io giocavo sempre senza protezioni, all’epoca non erano obbligatorie. Resto fuori campo qualche minuto, un dolore tremendo. Mentre il dottore mi sistema la ferita, non faccio altro che puntare Perico che gioca dalla parte opposta a dove sono io, schiumando rabbia. Mi rimettono in piedi e parto dritto per andare a restituire la cortesia al mio avversario. Attraverso tutto il campo di corsa, tempo dieci secondi e lo centro in pieno, lasciandolo a terra».E l’arbitro? «Non prese provvedimenti, ma quella volta avrei meritato il rosso diretto senza dubbio».Ha mai simulato? «Una volta sola, nella finale di ritorno della Coppa Uefa a Bilbao. Finsi di aver ricevuto una spinta. Ma lì c’era bisogno di rifiatare e di spezzare il ritmo dei baschi. L’arbitro abboccò, per fortuna».Rifacciamo un passo indietro e torniamo al campionato 1970-71. Juve tutta nuova affidata a un tecnico giovanissimo: Armando Picchi: «Uomo per bene, grande passione, tanto entusiasmo, vedeva lontano. Non era facile il suo compito e all’inizio ci furono difficoltà. Ma i semi gettati erano buoni, difatti dettero frutti già l’anno dopo. Poi, purtroppo, arrivò la malattia e spezzò ogni trama».Come lo avete saputo voi giocatori? «Ricordo che dopo la sconfitta con il Bologna, il 7 febbraio 1971, ci fu un po’ di maretta. Quando non arrivano i risultati, il clima è sempre pesante. Durante il viaggio in treno lui non riusciva a stare seduto, aveva dolori alla schiena. Poi, il giorno prima della partenza per l’Olanda per affrontare il Twente in Coppa delle Fiere, venne al Comunale e ci disse che non sarebbe venuto per effettuare delle visite. Era metà febbraio. Non lo abbiamo più rivisto».E così Boniperti, per sostituire Picchi, pensò al suo ex compagno Vycpálek: «Guardi che Cesto era un ottimo allenatore. Godeva della protezione morale di Boniperti, questo sì. Ma in tre anni ha vinto due campionati e nel 1973 ha portato la Juve in finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax e in Coppa Italia contro il Milan».Partiamo dagli scudetti: che sapore ha per lei la prima doppietta tricolore? «Un sapore dolcissimo. Il successo in campionato nel 1971-72 forse è quello a cui sono più affezionato. È stato il primo trionfo in assoluto, da titolare, nel mio molo di mediano. È stata la prima vittoria, quella che ha aperto il lunghissimo periodo di dominio bianconero. L’anno dopo, con Zoff e Altafini, lo scudetto arrivò all’ultimo minuto. Una gioia doppia, perché inaspettata, visto che il Milan pareva già trionfante. Peccato per la Coppa dei Campioni sfuggita in finale contro l’Ajax di Cruijff».A proposito di Belgrado 1973: che analogie e che differenze ci sono con Atene 1983? «L’unica analogia è che pendemmo con lo stesso risultato (1-0, ndr), subendo il goal nei primi minuti della gara. Per il resto, grandi differenze. Gli olandesi erano molto più forti dell’Amburgo e a Belgrado erano i favoriti. Avevano maggiore esperienza internazionale e giocavano un calcio più evoluto. Ricordo la tattica del fuorigioco che ci mise in grave difficoltà».Chi ha sbagliato ad Atene? «Trapattoni (sorride)».Perché non l’ha fatta giocare? «Proprio così (pausa). Ma non avrei potuto far niente nemmeno io. È stata una partita maledetta. Eravamo i favoriti, sicuramente superiori. Ci siamo afflosciati dopo il goal di Magath. Non c’è stata reazione, è mancata la personalità. Tutti più o meno ad attendere il guizzo decisivo di Platini, che era anche lui sottotono».Più rabbia o delusione? «Delusione e rabbia. Perché per me era l’ultima occasione e in panchina ti senti del tutto inutile».Torniamo a metà anni Settanta. Vycpálek esaurisce il suo ciclo ed ecco Carlo Parola: «Altro juventino doc, con maggiore esperienza rispetto a Cesto, ma sempre sotto l’ala protettiva di Boniperti».Il che vuoi dire che la formazione: «Il che vuol dire che la società era dichiaratamente schierata con il tecnico e, in caso di eventuali contrasti tra allenatore e giocatore, la ragione era sempre del primo. Principio sacrosanto e forza assoluta della Juve: mai un allenatore è stato abbandonato a se stesso».Con Parola, la Juve vince lo scudetto nel 1974-75, ma perde quello dell’anno successivo: e la notizia è più la seconda della prima: «Non so ancora come facemmo. Il Torino era a cinque punti. Perdemmo tutto nelle ultime giornate. La partita chiave fu a Cesena: 2-1 per loro e sul finale Bettega respinge involontariamente un tiro a botta sicura di Causio. Sarebbe stato almeno il pareggio».Lo scudetto perso in malo modo spinge Boniperti a girare pagina: panchina al trentasettenne Trapattoni: «Il suo arrivo fece bene a tutti. La sua fu una bella ventata di novità. Era evoluto, moderno, voleva una squadra tosta e veloce. Puntò su un centrocampo duttile e affidò a Causio la regia offensiva della manovra».Anche perché Capello era stato ceduto al Milan in cambio di Benetti, uno scambio che fece rumore: «Trapattoni aveva in mente un progetto tattico innovativo e per lui era molto più funzionale Benetti».Era il leader della squadra, questo si può dire: «Non è esatto. Ero uno dei leader, perché c’erano anche Zoff, Bettega, Boninsegna, tanto per fare alcuni nomi. Tutta gente di grandissima personalità. Quella Juve lì era composta da campioni in ogni ruolo. Non c’era posto per un solo leader».Si lavorava parecchio con il Trap? «Si stava molto sul campo, quella era la nostra palestra, in tutti i sensi. Il Trap era un martello, non mollava mai. E poi si viveva molto lo spogliatoio. Il lettino dei massaggi era il nostro ombelico del mondo».Perché, che succedeva li? «Quello era il luogo e il momento delle confidenze, delle chiacchiere. Un po’ si dialogava con il massaggiatore De Maria, che è stato alla Juve tanti anni, un po’ ci si confrontava sul gioco, sui risultati, sui compagni. Ma c’era spazio anche per l’extra calcio, comprese le balle e le s********e di ogni tipo. Devo dire che un po’ mi manca, compreso l’odore dell’olio canforato».Nascevano anche così le vittorie? «Senza dubbio. Erano tanti momenti della verità. Ma alla base c’è sempre stata una squadra fortissima. Di testa e di gambe».Cosa deve avere necessariamente una squadra vincente? «Deve sapere gestire bene il pallone e, quando non ce l’ha, lo deve recuperare il prima possibile».Nelle sue tante Juventus chi erano i big della prima fase e chi quelli della seconda? «Nel primo gruppo ci stanno Capello, Haller, Causio, ma anche Scirea, un grande organizzatore di gioco. Nel secondo il top era Del Sol, quindi Leoncini, Tardelli, Benetti e il sottoscritto».Invece chi sono, a suo avviso, quei giocatori che avrebbero potuto dare di più alla Juve? «Il primo è Marocchino. Qualità incredibili ma disordinato. Per sfondare devi condurre una vita da atleta. Io non mi sono fatto mancare nulla, ma a piccole dosi. Dopo Marocchino metto Fanna, un talento eccezionale, ma dovevi stare sempre lì a pungolarlo. Un altro è Tavola, dotatissimo, ma con scarsa determinazione, si spegneva come una candela, da solo. Da ultimo, anche se un po’ a malincuore, dico Anastasi».Anastasi? «Chiarisco: ha fatto tantissimo, era juventino dentro, e lo è tutt’ora. Ma con le doti e le qualità e che aveva, avrebbe potuto e dovuto fare di più. A un certo punto si è ingarbugliato su se stesso, sono nate incomprensioni. Quando si è giovani si è puntuti, si rischia di smarrirsi».La lingua batte dove il dente duole, lo scudetto perso nel 1976: «Lo ammetto, mi fa ancora arrabbiare quella storia. E poi proprio al Torino dovevamo fare quel regalo?».Vi siete rifatti, con gli interessi, l’anno dopo, però: «È vero, ma in quegli anni il Toro ci rendeva la vita difficile. Con noi facevano i fenomeni. La settimana del derby era la più lunga dell’anno. Un incubo. Specie per chi come me veniva dal settore giovanile. La tensione era altissima e in campo si vedeva. La Juve giocava, i granata facevano i goal».Il dato oggettivo è che alla fine della stagione 1976-77 siete di nuovo Campioni d’Italia: «Quella per me è stata l’annata magica, la più bella vissuta alla Juventus. Lo scudetto, il record di punti, il mio goal decisivo al Napoli al minuto ottantasei a tre giornate dalla fine. E l’anno seguente, ecco il bis per la mia seconda doppietta personale. Che goduria».Siamo nel maggio 1978. A questo punto manca solo una cosa: la Nazionale: «E invece niente. In Argentina andarono nove juventini, ma io rimasi a casa. Che dire? Non ci siamo mai amati, e non so il perché. Bearzot mi disse che avrebbe puntato su un gruppo giovane e che per me non c’era posto. Ma è stato l’unico a darmi una motivazione».Gli altri? «La sola cosa che posso raccontare è che Valcareggi, dopo Italia-Turchia del 25 febbraio 1973 vinta per 1-0, dichiarò ai giornalisti nello spogliatoio: “Ho trovato finalmente il mediano per questa Nazionale”. Ricordo che avevo a fianco Mazzola che mi disse “Non gli credere”. Ebbe ragione lui. Non mi convocò più».Non c’è male! «Lasciamo perdere. La maglia azzurra l’ho indossata tutte le volte che ho giocato con la divisa di riserva della Juve, come nella meravigliosa notte di Bilbao. Conquista della Coppa Uefa, finalmente il primo trofeo internazionale. E con una squadra tutta italiana».Arriviamo agli anni Ottanta e alla sua terza accoppiata tricolore. Partiamo dal 1980-81: «Campionato molto equilibrato, giocato a tre con Juve, Roma e Napoli. C’era la grande novità degli stranieri. Da noi arrivò Brady, un ragazzo straordinario, oltre che un regista dall’ottima visione di gioco».Lo scudetto 1980-81 è legato alla partita contro la Roma, quella del goal annullato a Turone e della sua espulsione: «Giocai con la rabbia negli occhi. Mancavano poche giornate dalla fine e quello era uno scontro diretto per lo scudetto. Ci mancava mezza squadra. Tardelli e Bettega erano stati squalificati, Allora dissi al Trap: se la mettiamo sul piano del gioco, ci fanno neri. Buttiamola sull’agonismo. Giocai al limite del regolamento».Ma andò oltre: Bergamo tirò fuori il rosso: «Fu una stupidaggine con Maggiora, tra l’altro mio vecchio compagno juventino. Ma alla fine fu 0-0 e punto decisivo. Quello era il mio modo di giocare. Correre, lottare, incitare i compagni, talvolta scuoterli».E degli altri compagni stranieri della Juve? «Di Del Sol abbiamo detto. Di Altafini, che venne da noi a trentaquattro anni, mi impressionavano velocità e voglia di giocare. Quanto a Platini, a qualcuno ha fatto piacere metterci l’uno contro l’altro. Dicevano che non volevo passargli il pallone. Balle! Il nostro rapporto era buono, era cliente della mia assicurazione. Rimane Boniek: simpaticissimo. Imparò subito la nostra lingua. Diceva che in confronto al polacco, l’italiano era facile facile».Mi sembra che manchi un certo Haller: «Helmut! Che mattacchione. L’unica multa presa alla Juve la devo a lui. Una sera mi convinse ad accompagnarlo a Saint Vincent, al casinò. Perse un sacco di soldi e per smaltire la delusione andammo prima al ristorante e poi al night. Alle nove di mattina non eravamo ancora tornati a casa. Risultato: ricca multa. L’unica».Torniamo ancora al 1982. A trentasei anni lei gioca uno dei migliori campionati: «Al punto che ricevo un’offerta per andare altrove».Dove? «A Napoli. Venne a casa mia Antonio Juliano, che all’epoca era uno dei dirigenti della squadra partenopea. Fui sorpreso e lusingato, anche perché la proposta era molto interessante».Boniperti sapeva? «No, non lo ha mai saputo. Fino a questa intervista. Io comunque dissi di no, anche perché dovevo star dietro all’agenzia di assicurazioni che avevo rilevato già dal 1979. Devo dire che rinunciai a malincuore».Avrebbe dunque lasciato la Juventus? «Le strade tra calciatore e società prima o poi si dividono. La società ha i suoi programmi, che a un certo punto non coincidono più con i tuoi. Io ci stavo pensando già da qualche anno. Vedevo che venivano inseriti nella rosa dei probabili successori: prima Marchetti, poi Tavola, Verza, lo stesso Prandelli. Io ho giocato sempre le mie carte, poi però la corsa è stata “truccata” e allora ho capito che era meglio dire basta».Si riferisce a una situazione in particolare? «Mi riferisco alla seconda parte della stagione 1982-83. Niente contro Bonini, ma era già stabilito che dovesse giocare lui».Perché è rimasto anche la stagione successiva? «Avevo deciso che quello sarebbe stato il mio ultimo campionato. La fortuna ha voluto che arrivasse l’ennesimo scudetto e per una manciata di minuti ho eguagliato Giovanni Ferrari. Ma stare in panchina non era per me. Quella volta contro l’Avellino sono entrato, perché era giusto. Ma altre volte ho detto di no al Trap: “Fai entrare Prandelli”. Eppure alla fine di quell’anno avrei avuto una clamorosa occasione di rivincita».Cioè? «Venne a cercarmi un amico, Sergio Rossi, che nel frattempo era diventato il presidente del Torino, per offrirmi un anno di contratto».Furino in maglia granata? «No, non sia mai. Sarebbe stato un atto contro natura. Io sono juventino da sempre e lo sarò per sempre. Specie adesso che è arrivato Ludovico, il primo nipotino al quale devo trasmettere le tradizioni di famiglia».Tra le quali mi risulta ci sia anche la musica: «Proprio così. Mio padre ha sempre avuto una grande passione per la musica ed io ho un piccolo sogno nel cassetto: imparare a suonare il mandolino».
  7. LUCIDIO SENTIMENTI IV http://it.wikipedia.org/wiki/Lucidio_Sentimenti Lucidio Sentimenti, detto “Cochi”, nasce nell’estate del 1920 a Bomporto, in provincia di Modena, in una famiglia che eguagliava i fasti calcistici di un’altra mitica dinastia, quella dei Cevenini. Tutto cominciò, si dice, con una lettera: «Ho quasi quindici anni, faccio il garzone calzolaio a 15 lire la settimana, vorrei giocare. Va bene qualsiasi ruolo. Anche portiere». Lucidio è tifoso della Juventus e grande ammiratore di Combi; vanta qualità atletiche per riuscire bene in qualsiasi ruolo, un bel tiro anche se la statura non è eccezionale ma, a quei tempi, nessuno ci faceva troppo caso. Così si trova nel Modena, in serie B, a solo sedici anni, senza un ruolo ben definito, a volte portiere altre attaccante. Sbalordisce tutti: in due stagioni segna 22 goals, risultando uno dei migliori cannonieri della squadra. La Juventus è alla ricerca di un portiere affidabile; nell’ultimo campionato, quello del 1941, si sono alternati in cinque, un vero record, Goffi e Peruchetti, Ceresoli e Micheloni e, per una sola domenica, un certo Bulgheri, mai più visto né sentito. “Cochi” aveva già disputato circa cinquanta partite in serie A quando debuttò nella Juventus, a Venezia: i terzini sono Foni e Varglien II, gioca anche suo fratello, Vittorio, ovvero Sentimenti III, arrivato alla Juventus un anno prima. Dopo aver subito cinque goals in un derby, viene messo da parte, ma qualche domenica dopo viene ripresentato in mezzo ai pali che non lascia più per altre quattro stagioni. Conquista anche la maglia azzurra e, nel maggio 1947, contro l’Ungheria è l’unico giocatore “straniero” in un formazione composta da dieci giocatori del “Grande Torino”. Gianni Brera lo descrive «freddissimo determinista, dotato di una astuzia luciferina». Il suo gesto atletico più famoso è rimasto l’uscita, a piedi uniti, un intervento che sembra disperato ed invece è calcolato al millesimo e, secondo alcuni, al limite del lecito. Molto abile anche sulle palle alte: stupisce vederlo arrivare lassù, con tanta sicurezza, a bloccare o spingere lontano il pallone con pugni decisi, nonostante la bassa statura. Tra i pali è agile e dotato di presa ferrea, non ha bisogno di volare, ha un grande senso della posizione ed un notevole colpo d’occhio. Qualche volta se ne fidava troppo e magari prendeva goal balordi su tiri da lontano. “Cochi” Sentimenti IV difende la rete juventina durante quei campionati resi proibitivi dal dominio del “Grande Torino”. Nel 1949, a ventinove anni, viene ceduto alla Lazio, dove ritrova una seconda giovinezza. Riconquista anche il posto in Nazionale ed ha l’onore di disputare la sua ultima partita nel 1953, contro la “grande Ungheria”; si mise perfino a parare rigori, cosa che prima non gli riusciva mai, come se una legge non scritta lo volesse punire per la sicurezza che aveva nel tirarli. Diventa uno specialista, quasi al pari del mitico Bepi Moro e, nel febbraio 1954 proprio su un rigore ottiene una piccola rivincita nei confronti della Juventus: a Torino, infatti, para un tiro di Boniperti dal dischetto, facendo finire la partita 0 a 0. La Juventus perde proprio per un punto quel campionato, a favore dell’Inter. Gioca fino a 39 anni, chiudendo la carriera con il Vicenza, senza vincere mai niente: nonostante avesse già appeso gli scarpini al chiodo, torna in campo per difendere la rete del Torino che, in piena zona retrocessione, si trova di colpo senza portieri. Un giorno gli chiesero quale fosse stato il goal che gli avesse provocato più dolore: disse che molti anni prima, quando era ancora al Modena in serie A, gli era capitato di tirare un rigore contro suo fratello più grande, Arnaldo Sentimenti II, portiere del Napoli, realizzandolo. Ecco, quello era stato il goal che gli aveva fatto più dispiacere. Racconta: «Ecco un bel ricordo. 1946, a Torino: Juventus-Bologna. Ha vinto la Juventus per 1 a 0. Ad un certo momento Gritti, del Bologna, in posizione di ala sinistra, mi fa un tiro violentissimo, io sono piazzato sul palo giusto, ma Parola interviene e mi fa la carambola con la coscia, poveraccio lui ha fatto il possibile per salvarmi. Così io mi trovo improvvisamente sul palo sbagliato, un po’ fuori porta, con la palla che mi va dentro nel “sette” più lontano, alle spalle. Balzo indietro stringendo i denti e chiudendo gli occhi, mi distendo quanto sono lungo, do la manata e, quando credo d”esser fregato, incontro qualcosa. Dico: sarà un giocatore. Cado a terra, sento un urlo, apro gli occhi e vedo il pallone che è andato in corner: io l’avevo portato via dal “sette”, l’urlo l’avevano fatto per questo. Hanno fatto anche una bella fotografia, che conservo. Eh sì; mi sentivo forte, mi sentivo come un leone, ero padrone dei miei pali e della mia area, avevo un rinvio lungo e preciso e non avevo paura di uscire. Mi buttavo giù con i piedi, mai di faccia o di braccia, perché con i piedi si arriva prima e difatti precedevo un sacco di attaccanti proprio per questo. E non ho mai avuto incidenti anche per questo». Il portiere che tirava i rigori: era il primo, forse, e tutti si meravigliavano. In seguito avrebbe avuto ottimi imitatori, ma nessuno è riuscito a giocare in modo non saltuario ed in una vera partita di campionato, con la maglia di attaccante. Intervistato da Maurizio Ternavaso, su “Hurrà Juventus” dell’agosto 1988: Era dal 1975 che non lo incontravo. Esattamente da quel giorno di giugno in cui terminò la mia carriera di pulcino bianconero della squadra riserve, con grande rimpianto di diverse zolle d’erba del “Combi” alle quali talvolta non pareva vero di potersi staccare dal loro habitat naturale per volteggiare in aria colpite da qualche calcio maldestro del sottoscritto. In quel triste giorno terminarono di colpo i miei rapporti bisettimanali con il mio allenatore Lucidio Sentimenti, meglio noto come Sentimenti IV; e ad ulteriore dimostrazione della labile impronta che lasciai quale giovane calciatore sta il fatto che, ripresentatomi a lui per l’intervista, sono stato riconosciuto con fatica. E mentre io da allora sono sicuramente cambiato (qualche pelo di barba e mezzo metro in più), il personaggio di questo mese è rimasto quasi del tutto immutato nel fisico e nell’aspetto, dal momento che lo ricordavo completamente canuto fin dai tempi in cui lo vidi corricchiare in tuta nel glorioso campo “Combi”. - Signor Sentimenti, sono quasi sicuro che ancor oggi le capita spesso di infilarsi una tenuta sportiva per insegnare qualche prezioso rudimento ai giovani calciatori: è proprio così? «Certo, ci mancherebbe altro! Attualmente curo i ragazzini della “Sisport”, l’organizzazione sportiva gestita dalla Fiat, ma soltanto fino ad un paio di anni fa lavoravo per la Juventus, fino a quando non è purtroppo giunta l’età della pensione». - Quali sono state le tappe della sua attività di allenatore? «La tappa è stata unica, ma molto felice: una volta conseguito infatti il patentino di allenatore di prima categoria, entrai nel settore giovanile della Juventus dove lavorai quasi trenta anni, con lunghe parentesi come allenatore dei portieri della prima squadra e come allenatore in seconda quando titolari della panchina erano Rabitti prima e Vycpalek poi. E giuro di non aver mai provato alcun rimpianto per non aver arricchito la mia esperienza altrove». - Come si è svolta invece la sua carriera agonistica? «Iniziai nella stagione 1937-38 in serie A con il Modena, la squadra della mia città natale, e dopo altre due stagioni con la stessa maglia approdai nel 1940 alla Juventus ove ho disputato nove campionati; dal 1949 al 1954 giocai nella Lazio, poi fu la volta di Vicenza, dove nel 1957 terminai l’attività. In totale 443 presenze nella massima serie e 68 gettoni in serie B; al mio attivo anche nove maglie azzurre, con la partecipazione ai Campionati Mondiali nel 1950 in Brasile». - Il fatto che lei sia conosciuto come Sentimenti IV implica ovviamente che non sia stato l’unico della sue dinastia a calcare i palcoscenici calcistici: mi racconterebbe la storia agonistica della sua famiglia? «I miei genitori misero al mondo nove figli, di cui cinque maschi. Il primo, Ennio, arrivò a giocare in serie C; il secondo era Arnaldo, classe 1914, il quale disputò come portiere ben sedici campionati di A con il Napoli; fu quindi la volta di “Ciccio” che giocò fino al 1949 come mezzala nella Juventus; l’ultimo fu Sentimenti V, il fratello più giovane che militò nel Modena, nel Bari, Lazio, Udinese e Parma». - Come spiega il fatto che cinque fratelli su cinque abbiano giocato a calcio a certi livelli? Ed i rispettivi figli hanno continuato a seguire le orme dei padri? «La risposta alla prima domanda non è per nulla agevole, e posso soltanto dire che siamo stati aiutati da una grande, enorme passione per il gioco del calcio; per quanto riguarda invece il suo secondo quesito, le sembrerà incredibile, ma soltanto mio figlio ha giocato qualche anno, arrivando al massimo alla serie C, mentre tutti gli altri miei nipoti non si sono praticamente neppure cimentati in questo meraviglioso sport». - Se non sbaglio lei fu il primo portiere rigorista, e si rivelò un cecchino infallibile: qual è il motivo per cui questa tendenza da lei lanciata non è stata proseguita con una certa continuità? Io credo che il numero uno di una squadra sia colui il quale meglio conosce la tecnica del rigorista, e perciò potrebbe sfruttare al meglio la sua esperienza diciamo così passiva per proporsi come soggetto attivo del calcio di rigore. «Quanto lei dice è vero: io infatti, oltre a segnare in campionato quattro massime punizioni, ne parai parecchie senza mai muovermi prima del tiro. E se al giorno d’oggi è così raro vedere un portiere calciare un rigore, ritengo che ciò sia dovuto al fatto che non tutti i numeri uno hanno i piedi buoni e sono avvezzi ad affrontare un momento così delicato quale è in fondo quello in cui ci si appresta a calciare dagli undici metri; per di più vi è il timore diffuso di affrontare con la porta sguarnita il contropiede degli avversari nel caso in cui il tentativo si rivelasse maldestro». - Tutti sanno che ai suoi tempi il modulo di gioco non prevedeva l’esistenza del libero: ciò rendeva più difficile o quanto meno delicato il ruolo del portiere rispetto a quanto accade invece ora? «Indubbiamente allora toccava a me fungere da libero, dal momento che almeno dieci volte ad incontro dovevo uscire di piede dai pali, e talvolta mi spingevo persino fuori area per bloccare le punte avversarie che si erano liberate del loro marcatore; da tutto ciò ne derivava che quando la mia squadra attaccava, la posizione del portiere era quella di attesa al limite dell’area, sempre pronto ad intervenire. In definitiva il ruolo era forse più impegnativo, soprattutto perché in un modo o nell’altro si toccavano molti più palloni». - Adesso sia così gentile da raccontarmi qualche episodio che abbia fatto cronaca quando lei era protagonista in campo e che io, per motivi di età, non posso conoscere. «Gliene racconterò un paio, in quanto mi sembrano entrambi meritevoli di essere rivisitati. Il primo: primissimi anni Cinquanta, incontro Lazio-Milan, terminato 1 a 1. Passò in vantaggio il Milan grazie ad un autogol di mio fratello nonché compagno di squadra Sentimenti III, quindi su rigore pareggiò Sentimenti V (anch’egli giocava al mio fianco) ed a pochi minuti dalla fine il sottoscritto parò un rigore dei rossoneri: ed il giorno dopo quasi tutti i giornali portavano un titolo del tipo “Lazio-Milan: tutto fatto in famiglia”. Il secondo: lei forse non sa che io vanto un record piuttosto curioso, essendo l’unico portiere d’Italia che abbia giocato in due incontri di campionato fuori dalla porta, e più precisamente come ala destra: e nel primo (stagione 1947-48, Juventus-Atalanta 2 a 0) segnai addirittura una rete!» - E che sensazioni provava quando negli incontri immediatamente successivi era costretto a tornare tra i pali? Delusione, rammarico oppure gioia? «Senza dubbio mi divertivo di più in porta, sicché ero ben contento di riprendere il mio posto d’origine; e ciò nonostante alcuni tecnici mi vedessero meglio nel ruolo di attaccante». http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/06/lucidio-sentimenti.html
  8. GIAMPAOLO MENICHELLI http://it.wikipedia.org/wiki/Giampaolo_Menichelli
  9. FABIO CAPELLO http://it.wikipedia.org/wiki/Fabio_Capello Oscar Massei, un interno argentino di buona classe arrivato alla Spal, dopo l’esordio italiano con la maglia dell’Inter, era l’idolo di Fabio Capello. Il grande Giuseppe Meazza, osservatore della società neroazzurra lo aveva bocciato: «Bravo ma lento, ottima tecnica ma poca verve». E così Massei era approdato a Ferrara, dove aveva trovato l’ambiente adatto. Nella Spal dei giovani si stava mettendo in evidenza un goriziano forte e intelligente, che giocava a centrocampo. «Per me Massei era un fuoriclasse, uno che giocava come intendo io; mi ha insegnato tutto del calcio. Era in allenamento che guardavo, scrutavo, imparavo. Ricordo che anche mio padre ne aveva grande considerazione. Mi diceva: “Quello sì che è un giocatore”, facendomi intendere che avrebbe voluto diventassi come lui. Ed io, dentro di me, ero sicuro che sarebbe accaduto. Forse era orgoglio un po’ eccessivo, ma io ho sempre avuto orgoglio», racconta.Una volta imparata la lezione, Fabio era stato ceduto alla Roma e dal giallorosso era passato al bianconero, assieme a Spinosi e Fausto Landini, un giovane attaccante, che non avrebbe avuto una lunga carriera. L’avventura romana ha trasformato Capello in un regista di qualità tecniche di grande respiro, uno di quei pensatori che illuminano il gioco con intuizioni improvvise.L’esplosione definitiva di Fabio avviene con la maglia bianconera, che era stata, fra gli altri, di Giovanni Ferrari al quale lo paragonano. Gli è affibbiato il nomignolo di Geometra, perché la visione di gioco è completa, il campo è tenuto sotto controllo e dominato, quasi come se Fabio avesse la possibilità di vedere quel che accade dall’alto, in postazione sopraelevata.Capello fa il direttore d’orchestra, tagliando quelle fette inutili del campo per far giungere la palla al compagno il prima possibile: il lancio è millimetrico e intuitivo, il corridoio smarcante colto con frequenza, persino il tiro a rete è spesso potente e preciso; ha la grande capacità di capire, dopo cinque minuti di partita, da che parte gira il fumo e di piazzarsi al posto giusto.Non sono pochi i goal che Capello riesce a realizzare, soprattutto di testa, nonostante la statura non eccelsa e il fisico non proprio elegante (sedere basso e sporgente, rigido come un baccalà) e di questo si accorge anche la Nazionale. Con la maglia azzurra, infatti, realizza un goal storico a Wembley: il 14 novembre 1973, mette a segno la rete della prima vittoria dell’Italia in casa dell’Inghilterra. In totale le sue presenze azzurre saranno trentadue, con otto realizzazioni. In maglia bianconera, invece, totalizza 239 partite e realizza quarantuno goal.Dopo quasi trent’anni, ritorna in bianconero, come allenatore; i tifosi sono divisi, Don Fabio ha allenato la Roma ed ha sempre sparato a zero contro la Juventus e questo non può essere né dimenticato, né perdonato. Ma Capello è un vincente, dovunque è andato ha portato la propria squadra a primeggiare: prima il Milan, poi il Real Madrid e infine la stessa Roma.È subito scudetto; dopo un lungo duello con il Milan, la squadra bianconera riesce a mettere in bacheca il suo ventottesimo tricolore. Ma non sono tutte rose e fiori; i tifosi lo contestano apertamente per le troppe sostituzioni di Del Piero. Anche in Champions le cose non vanno meglio; dopo una splendida rimonta sul Real Madrid, la Juventus è eliminata dal Liverpool e Capello è messo sul banco degli imputati, dopo lo scialbo pareggio casalingo.Il secondo anno sarà ricordato per sempre dai tifosi bianconeri: la squadra è un carro armato che travolge tutti gli avversari, a Natale i giochi sembrano già chiusi. Con l’arrivo della primavera la Juventus comincia a segnare il passo; Capello non utilizza il turn over e i giocatori sono allo stremo delle forze. Il Milan si fa sotto minaccioso, la Juventus subisce l’ennesima eliminazione dalla Champions League ed è clamorosamente contestata dai tifosi. Nonostante le prime avvisaglie di quello che sarà definito Calciopoli, la Juventus vince lo scudetto.Nella giornata trionfale di Bari, Capello annuncia di voler restare alla Juventus, qualsiasi sia il responso della giustizia sportiva: «Ci vedremo in ritiro il 15 luglio», annuncia. La tifoseria è fiduciosa ma Don Fabio ha sempre più contatti con i dirigenti del Real Madrid, fino al fatidico annuncio: Capello allenerà le “Merengues”.Finisce nel modo più ignobile e più meschino la seconda avventura bianconera di Fabio Capello; non sappiamo se abbia mai amato la Juventus, di certo i tifosi non hanno mai amato lui. CAMINITI DESCRIVE IL CAPELLO GIOCATORE:Capello è diventato adulto a Roma, ma è nato calciatore a Ferrara. Egli si spiega attraverso tre stadi, e il primo è Pieris nel Friuli, un paese meditativo e tranquillo, dove caccia, pesca e calcio sono tre momenti fondamentali del pensiero, e pure dello spirito, e chi non è sportivo, annega letteralmente dentro il bottiglione (di vino). La geografia è alla base di tutto, a pensarci bene; Pieris sorge tra verdi orchestre di prati, Fabio è figlio di un maestro di scuola, un tipo d’insegnante solido e pratico, tifosissimo di calcio.Quando Fabio aveva quindici anni tutta Pieris accorreva a vedere giocare il figlio del maestro, e ne restava ammirata; gli applausi scrosciavano. «C’è un certo ragazzino figlio di un maestro – dissero a papà Mazza presidente della Spal – che ha la stoffa del campione». E papà Mazza mandò un suo uomo di fiducia e costui ottenne la firma di Fabio.«C’è un certo ragazzino figlio di un maestro, a Pieris, che gioca benissimo», dissero a Gipo Viani, di Nervesa, omone rubizzo con il cuore di un nostromo, e Gipo Viani, come faceva sempre, si fece il viaggio e arrivò a Pieris, bussò alla porta del maestro di scuola Guerrino Capello e fu fatto accomodare. Tutti erano accomodati, pure la madre di Capello, Fabio in un angolo, compito come sempre. Viani girava intorno i suoi occhioni cilestrini e si batteva il petto di bue: «Debbo dirle che lei non era nella sua piena facoltà mentale quando ha firmato per la Spal. Il suo figlio benedetto ha un tesoro nei piedi, io ce lo porto nel Milan, gli assicuro il conto in banca a lui e famiglia, lei non era in piena facoltà mentale».Ha poi spiegato Fabio: «Ero della Spal, Viani non poté portarmi al Milan. A diciotto anni, nel 1964, ho esordito a Genova, contro la Sampdoria. Vincevamo 1-0, poi ci hanno fatto tre goal uno più stupido dell’altro. No, io non giocai male il mio allenatore tra i ragazzi era Gian Battista Fabbri. Brava persona. Ma io imparavo tutto da Massei, che era un fuoriclasse e giocava come intendo io; mi ha insegnato tutto quello che so. Era in allenamento che io guardavo e imparavo».Il vero Fabio Capello tutti abbiamo cominciato a conoscerlo a Roma, dove trova l’allenatore che lo esalta e lui si sente il perno della squadra. A Roma trova i giornalisti permanentemente disimpegnati, pieni di humor, i quale ne ottengono interviste avvincenti. Capello diventa amico dei giornalisti e gioca partite bellissime. La squadra in campo obbedisce ai suoi piazzamenti, anche se qualche suo compagno dice di lui: «In campo si fa sentire soltanto dopo il 2-0 a vantaggio».Noi lo conosciamo a Torino, dove (stagione 1970-71) è venuto per comandare in campo alla Juventus come alla Roma. Dice: «Furino ottimo per come annulla ogni pericolo e per come lavora per tutti, Causio con quel qualcosa di più che lo rendeva imprevedibile, Anastasi aveva ritrovato se stesso, Haller e Salvadore, due campionissimi».In sei campionati (sino a quello 1975-76 compreso) un ruolo di regista interpretato con sicuro impegno, fra lampi geniali e domeniche di routine. Uomo di ragionamento. Questo campione sobrio figlio del maestro di scuola di Pieris. Anche un poco di Nazionale, intanto. Ragazzo di personalità. Non era un coniglio, anzi. E non ci stava mai a perdere. Non volle abbassare la testa neppure nell’ambiente bianconero, la sua partenza ebbe così il sapore di un divorzio forzato. Ma ha lasciato certamente un buon ricordo.Centrocampista con licenza di andare al tiro (e di segnare), con l’intuizione giusta per accorrere a sostegno della difesa. Un tipo apparentemente freddo, altezzoso. Ma giocatore di rendimento, senza dubbio.GIANFRANCO CIVOLANI, “GS” GIUGNO 2015Primavera del Sessantatré: Giorgio Neri detto il Capitano, gran mecenate nel mondo del tennis e responsabile del settore giovanile del Bologna, mi regala una confidenza e mi dice che i suoi osservatori gli hanno segnalato nei dintorni di Gorizia un talentuosissirno sedicenne che si chiama Fabio Capello e che «se Dall’Ara mi dice di sì, è già nostro». Ma il presidentissimo Dall’Ara dice di no. «Costa troppo e stiamo a vedere se c’è qualcuno che tira fuori quei soldi». Ma il qualcuno purtroppo c’è, si chiama Paolo Mazza ed è il presidente della Spal, detto anche il rabdomante, perché pare che nessuno come lui sappia fiutare le perle Under 18 e soprattutto sappia fare gli affaronissími che altri sognano. E così quel Fabio Capello raggiunge a Ferrara il conterraneo Edi Reja, più attempato solo di pochi mesi e i due assieme vengono parcheggiati da Mazza presso l’abitazione di una gentile signora che a modico prezzo offre camera a due letti e prepara pure pasta al sugo, braciole e il dolce Pampepato come dessert. La prima squadra pare un miraggio, ma nella Spal 1963-64, guidata dall’allenatore-farmacista Serafino Montanari, a tempo debito debuttano il giovanottone e il giovanottino e pazienza e peccato se poi quella Spallina rotola in B mentre il magno Bologna di Bernardini e Bulgarelli vince il suo settimo scudetto e Renato Dall’Ara poco prima di morire dice: «Quel Capello? Noi abbiamo Giacomino e Haller, altro che Capello».Fabio gioca a centrocampo e si produce guardando il cielo. È di carrello basso, ma dispensa tesori di palle giuste in una Spal, dove cinguettano l’argentino Oscar Massei, il torreggiante Gianni Bui e il navigato Sergio Cervato. E solo il prologo di quel che presto verrà. E, infatti, succede che il birnbotto per qualche stagione si fa le ossa e segna pure qualche goal, lui sostanzialmente negato alla bottarella vincente. E allora i grandi club stanno a guardare? No di sicuro. Ecco la buonissima offerta della Roma e Paolo Mazza sa che deve dire di sì e auguroni belli al talentino che è diventato un talentone.Ma se Fabietto a Roma spopola, può “Madama” Juve lasciarsi sfuggire l’occasione? Non può e non vuole. Morale: Capello in bianconero finalmente a vincere e a rivincere con il corollario di una maglia azzurra ormai cucita sulla pelle. Ma il tempo è tiranno, il tempo delle mele, del vino e delle rose. E a trent’anni c’è il Milan in attesa e magari Capello non sa che proprio al Milan si compiranno felicemente i suoi destini, perché lì Capello chiude la carriera e starebbe per cominciarne un’altra, se non fosse che tale Silvio Berlusconi gli suggerisce di applicarsi un po’ in azienda per studiare e acculturarsi prima di altre eventuali avventure. E appunto quel che poi è arrivato è storia e gloria di panchine vincenti ovunque anche se, a quasi settant’anni, per Capello si profila l’età della sacra pantofola e della chioma un po’ meno affumicata e dei bilanci.Quella canzone, “Dimmi chi erano i Beatles”. Ma dimmi chi era Capello e come giocava. Provo a dire, io che l’ho visto e ammirato in campo e che con lui ho dialogato particolarmente quando d’estate andavo a trovarlo a Grado e lui mi spiegava e mi raccontava, lui che aveva fama di carattere dolce e levigato come la carta vetrata. Dimmi com’era Capello e come giocava. Faceva correre la palla, apriva e spalancava gli occhi anche per gli altri. E non faceva tanti goal, ma tutti importanti, quarantaquattro in campionato e anche otto in azzurro, con quel memorabile goal a Wembley, un goal che fece lacrimare una classe operaia che lassù nell’Isola per un attimo si sentì in Paradiso.E sapeva vivere, come vi racconto nella storiella che segue. Novembre del 1976, il Bologna di Gustavo Giagnoni contro il Milan di un Capello già un po’ polveroso. E dalla tribuna dello stadio bolognese uno dei più improvvisati e improvvidi presidenti del Milan, quel tale Duina, vomita insulti. («Scemo, cretino, vattene via») contro il malcapitato Fabio. E a fine partita tutti a chiedere a Capello se vuole rispondere a quel barile di contumelie. E lui: «Ma quali contumelie?» E noi: «Il tuo presidente ti ha dato del cretino». E lui: «Ero molto concentrato. Scusate, ma giuro che non ho sentito niente». Chapeau, cappello a Capello.
  10. BENIAMINO VIGNOLA http://it.wikipedia.org/wiki/Beniamino_Vignola Nasce a Verona il 12 giugno 1959. Cresce nella squadra scaligera e dall
  11. GIANLUIGI SAVOLDI http://it.wikipedia.org/wiki/Gianluigi_Savoldi Nato a Gorlago (Bergamo) il 9 giugno 1949, fratello di Beppe
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