L’ultimo ricordo che ho di quei momenti di follia è il terrore di una ragazza toscana, che pochi istanti prima era seduta vicino a me: mi si aggrappava implorandomi di aiutarla a raggiungere il suo ragazzo, portato via dalla folla che lo aveva spinto in una direzione diversa dalla nostra; cademmo entrambi e finimmo sotto la massa di corpi travolti dalla ferocia di chi premeva con catene, coltelli e bottiglie rotte.
Stefano, uno degli amici con cui avevo raggiunto Bruxelles, mi schiaffeggiava e urlava “è vivo, è vivo”. Pensai “ma che sta dicendo?”; aprii gli occhi e fu allora che vidi la scena. Ricordo un uomo in piedi nella parte alta della gradinata che chiamava un nome e chiedeva aiuto; all’improvviso riconobbe una maglia fra i corpi vicino al prato e si precipitò giù: era suo figlio. Sollevò quel corpo ormai senza vita poi ricadde su di esso urlando tutto il suo dolore di padre.
Mi alzai barcollando e cercai di portare soccorso a chi era rimasto a terra. Il primo giovane che cercai di rianimare aveva il collo fratturato, mentre la maggior parte portava i segni della morte per asfissia, il viso cianotico, gli occhi sbarrati. Una donna mi fermò e mi chiese in francese di aiutare il marito; tentai, ma anche lui aveva le vertebre lussate e fu tutto inutile.
Quando finalmente arrivarono i soccorsi, uscii per cercare i miei amici. Ricordo la fila di corpi coperti da bandiere e accanto a questi un ragazzo che piangeva: aveva i capelli rossi e la sciarpa del Liverpool. Gli dissi di andare via da lì perché temevo qualche vendetta, ed egli mi rispose che non aveva paura perché aveva aiutato la polizia e i ragazzi italiani a radunare i corpi, poi scoppiò a piangere singhiozzando: non tutti i tifosi del Liverpool erano delle belve.
La polizia belga non brillò per umanità: fingevano di non capire nonostante ponessi loro delle domande in un buon francese. Ancora oggi penso che le autorità belghe e i dirigenti dell’UEFA ci siano debitori di risposte. In tutta questa mancanza di umanità ricordo due ragazze e un signore anziano che mi portarono insieme ad altri all’interno di un baracchino dove prima c’era un bar, e ci lavarono il viso coperto di polvere e di sangue. Quando trovai i miei amici scappammo via lontano da quella follia cercando disperatamente un telefono per poter togliere i nostri cari dall’angoscia; incredibile ma vero, nessuna porta si aprì per farci telefonare.
Non vidi la partita quella sera; non l’ho mai voluta vedere. Quella sera il calcio aveva lasciato il posto a una disperazione senza fine. Non si può morire a 20 anni. Non si può morire per una partita di calcio. Ricordo l’espressione della dottoressa dell’ospedale del paesino vicino al nostro albergo; cercava di tranquillizzare il nostro amico, colto da un’improvvisa crisi di tremore, e mentre lo faceva mormorava: ”une popolation civilizée”.
Ogni giorno prego per le famiglie di quelle 39 persone, che mi sono rimaste nell’animo; prego Dio che non si debbano più piangere morti per una partita di calcio. Vorrei pregare le autorità affinché prendano provvedimenti per impedire che tutte le domeniche si inneggi a quella bestiale follia.
Ciao a tutti