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John09

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  1. Si giocò alle 4.00 di notte ma non ci fu diretta nazionale. La partita andò in diretta su una TV privata solo in alcune regioni (ricordo Lombardia e forse Emilia Romagna); tutti gli altri dovettero accontentarsi della radio o della differita nella prima mattinata. Io restai a dormire (fu un dormiveglia, più veglia che dormi) aspettando di vedere la differita senza conoscere il risultato, ma verso le 7.00 sentii caroselli di auto: mi affacciai alla finestra nel timore di vedere auto con bandiere rossonere o nerazzurre, invece chi festeggiava aveva bandiere bianconere; bianconere, capite? Cominciai a esultare come se fossi stato allo stadio; non sapevo niente, ma sapevo che la Juve aveva vinto. Guardai la partita conoscendo l'esito ma non il risultato, ma l'emozione più grande era già venuta. Forza Juve
  2. L’ultimo ricordo che ho di quei momenti di follia è il terrore di una ragazza toscana, che pochi istanti prima era seduta vicino a me: mi si aggrappava implorandomi di aiutarla a raggiungere il suo ragazzo, portato via dalla folla che lo aveva spinto in una direzione diversa dalla nostra; cademmo entrambi e finimmo sotto la massa di corpi travolti dalla ferocia di chi premeva con catene, coltelli e bottiglie rotte. Stefano, uno degli amici con cui avevo raggiunto Bruxelles, mi schiaffeggiava e urlava “è vivo, è vivo”. Pensai “ma che sta dicendo?”; aprii gli occhi e fu allora che vidi la scena. Ricordo un uomo in piedi nella parte alta della gradinata che chiamava un nome e chiedeva aiuto; all’improvviso riconobbe una maglia fra i corpi vicino al prato e si precipitò giù: era suo figlio. Sollevò quel corpo ormai senza vita poi ricadde su di esso urlando tutto il suo dolore di padre. Mi alzai barcollando e cercai di portare soccorso a chi era rimasto a terra. Il primo giovane che cercai di rianimare aveva il collo fratturato, mentre la maggior parte portava i segni della morte per asfissia, il viso cianotico, gli occhi sbarrati. Una donna mi fermò e mi chiese in francese di aiutare il marito; tentai, ma anche lui aveva le vertebre lussate e fu tutto inutile. Quando finalmente arrivarono i soccorsi, uscii per cercare i miei amici. Ricordo la fila di corpi coperti da bandiere e accanto a questi un ragazzo che piangeva: aveva i capelli rossi e la sciarpa del Liverpool. Gli dissi di andare via da lì perché temevo qualche vendetta, ed egli mi rispose che non aveva paura perché aveva aiutato la polizia e i ragazzi italiani a radunare i corpi, poi scoppiò a piangere singhiozzando: non tutti i tifosi del Liverpool erano delle belve. La polizia belga non brillò per umanità: fingevano di non capire nonostante ponessi loro delle domande in un buon francese. Ancora oggi penso che le autorità belghe e i dirigenti dell’UEFA ci siano debitori di risposte. In tutta questa mancanza di umanità ricordo due ragazze e un signore anziano che mi portarono insieme ad altri all’interno di un baracchino dove prima c’era un bar, e ci lavarono il viso coperto di polvere e di sangue. Quando trovai i miei amici scappammo via lontano da quella follia cercando disperatamente un telefono per poter togliere i nostri cari dall’angoscia; incredibile ma vero, nessuna porta si aprì per farci telefonare. Non vidi la partita quella sera; non l’ho mai voluta vedere. Quella sera il calcio aveva lasciato il posto a una disperazione senza fine. Non si può morire a 20 anni. Non si può morire per una partita di calcio. Ricordo l’espressione della dottoressa dell’ospedale del paesino vicino al nostro albergo; cercava di tranquillizzare il nostro amico, colto da un’improvvisa crisi di tremore, e mentre lo faceva mormorava: ”une popolation civilizée”. Ogni giorno prego per le famiglie di quelle 39 persone, che mi sono rimaste nell’animo; prego Dio che non si debbano più piangere morti per una partita di calcio. Vorrei pregare le autorità affinché prendano provvedimenti per impedire che tutte le domeniche si inneggi a quella bestiale follia. Ciao a tutti
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